Friday, January 28, 2011
Wednesday, January 19, 2011
Berlusconi e Mussolini
La guerra del gossip da Mussolini al premier
Corriere della Sera, 19 gennaio 2011, pag. 43
di Gian Antonio Stella
«Io non sono il garzone di un barbiere, ho una posizione da rispettare» . Settant’anni prima di Silvio Berlusconi, perfino Benito Mussolini si era posto il problema del decoro. Era il Duce, era osannato dalle folle, aveva in pugno l’Italia, i giornalisti erano così servili che La Stampa arrivò a scrivere che il suo cavallo bianco, quando lui gli parlava, nitriva «in modo significativo» . E non c’era magistrato, anche se l’adulterio sulla carta poteva essere perseguito, che mai e poi mai avrebbe osato inquisirlo. Era lui che comandava i giudici. Eppure se lo pose, il problema.
La rilettura di Mussolini segreto, diari di Claretta Petacci curato da Mauro Suttora e uscito nel 2009 da Rizzoli, alla luce di quanto accade in questi giorni, è assai interessante. Aiuta a capire come sono cambiati i costumi. Nel Paese ma soprattutto lassù in alto. Nel mondo del potere. Il Capoccione, infatti, pagina dopo pagina, sembra avere quasi l’ossessione di non dare scandalo. E se non perde occasione per mostrare i muscoli su tutto il resto, in questa materia si mostra prudente. Spesso prudentissimo.
Le voci che girano gli danno fastidio e lo dice anche all’amante: «Tuo marito parlerà naturalmente con gli altri ufficiali, a mensa o altrove, e dirà: “Mussolini, che predica tanto la famiglia, l’unione, i figli, ha distrutto la mia famiglia, mi ha preso la moglie…”. La mia posizione è insostenibile…»
I pettegolezzi sulle sue attività amatorie, più che spingerlo a battute da sciupafemmine, lo preoccupano: «Di chi vuoi che parlino alla Camera, al Senato, a teatro, nei ricevimenti, nelle case? Di Mussolini, di ciò che fa, dice, pensa… Quando erano i primi tempi ho girato in auto scoperta con la Sarfatti, e andavo in giro con lei anche di giorno. Ma allora ero ancora un giornalista, un ragazzo, non quel che sono oggi. Ora è diverso. Sai cosa dicono? “Prima voleva essere Napoleone, ora vuol essere Cesare e non gli basta. Andando di seguito diventerà Nerone”» .
Claretta vuole essere invitata al ricevimento per la conquista dell’Albania? Il Duce rifiuta: «Sarebbe uno scandalo. Non ci faccio venire mia moglie, e ci porto l’amante. Sono cose che offendono, non si possono fare, abbi pazienza». E insiste: «Voglio che tu sia la donna del mistero, che se anche si sa che tu sei la mia amante, non se ne sia sicuri, che allora l’amore perde il profumo. Io tengo al mio prestigio, quando questo pericola io tronco. Lo sa già mezza Roma…». E ancora: «Dovevamo essere più prudenti. Non sono un uomo comune, sono esposto a tutti i frizzi, a tutti i colpi» . Insomma, guai se la faccenda diventa un tormentone «di cui si parla nei caffè o dalle sarte».
Sinceramente: se si poneva questo problema perfino lui, un dittatore ateo padrone dell’Italia che per avere l’appoggio del Vaticano era arrivato a sposarsi in chiesa e a rimettere i crocifissi nelle scuole, davvero pensava il Cavaliere, a prescindere da eventuali reati (auguri), di potersi permettere tutto?
Gian Antonio Stella (rubrica "Tuttifrutti")
Corriere della Sera, 19 gennaio 2011, pag. 43
di Gian Antonio Stella
«Io non sono il garzone di un barbiere, ho una posizione da rispettare» . Settant’anni prima di Silvio Berlusconi, perfino Benito Mussolini si era posto il problema del decoro. Era il Duce, era osannato dalle folle, aveva in pugno l’Italia, i giornalisti erano così servili che La Stampa arrivò a scrivere che il suo cavallo bianco, quando lui gli parlava, nitriva «in modo significativo» . E non c’era magistrato, anche se l’adulterio sulla carta poteva essere perseguito, che mai e poi mai avrebbe osato inquisirlo. Era lui che comandava i giudici. Eppure se lo pose, il problema.
La rilettura di Mussolini segreto, diari di Claretta Petacci curato da Mauro Suttora e uscito nel 2009 da Rizzoli, alla luce di quanto accade in questi giorni, è assai interessante. Aiuta a capire come sono cambiati i costumi. Nel Paese ma soprattutto lassù in alto. Nel mondo del potere. Il Capoccione, infatti, pagina dopo pagina, sembra avere quasi l’ossessione di non dare scandalo. E se non perde occasione per mostrare i muscoli su tutto il resto, in questa materia si mostra prudente. Spesso prudentissimo.
Le voci che girano gli danno fastidio e lo dice anche all’amante: «Tuo marito parlerà naturalmente con gli altri ufficiali, a mensa o altrove, e dirà: “Mussolini, che predica tanto la famiglia, l’unione, i figli, ha distrutto la mia famiglia, mi ha preso la moglie…”. La mia posizione è insostenibile…»
I pettegolezzi sulle sue attività amatorie, più che spingerlo a battute da sciupafemmine, lo preoccupano: «Di chi vuoi che parlino alla Camera, al Senato, a teatro, nei ricevimenti, nelle case? Di Mussolini, di ciò che fa, dice, pensa… Quando erano i primi tempi ho girato in auto scoperta con la Sarfatti, e andavo in giro con lei anche di giorno. Ma allora ero ancora un giornalista, un ragazzo, non quel che sono oggi. Ora è diverso. Sai cosa dicono? “Prima voleva essere Napoleone, ora vuol essere Cesare e non gli basta. Andando di seguito diventerà Nerone”» .
Claretta vuole essere invitata al ricevimento per la conquista dell’Albania? Il Duce rifiuta: «Sarebbe uno scandalo. Non ci faccio venire mia moglie, e ci porto l’amante. Sono cose che offendono, non si possono fare, abbi pazienza». E insiste: «Voglio che tu sia la donna del mistero, che se anche si sa che tu sei la mia amante, non se ne sia sicuri, che allora l’amore perde il profumo. Io tengo al mio prestigio, quando questo pericola io tronco. Lo sa già mezza Roma…». E ancora: «Dovevamo essere più prudenti. Non sono un uomo comune, sono esposto a tutti i frizzi, a tutti i colpi» . Insomma, guai se la faccenda diventa un tormentone «di cui si parla nei caffè o dalle sarte».
Sinceramente: se si poneva questo problema perfino lui, un dittatore ateo padrone dell’Italia che per avere l’appoggio del Vaticano era arrivato a sposarsi in chiesa e a rimettere i crocifissi nelle scuole, davvero pensava il Cavaliere, a prescindere da eventuali reati (auguri), di potersi permettere tutto?
Gian Antonio Stella (rubrica "Tuttifrutti")
Wednesday, January 12, 2011
Operai Fiat
In concreto, cosa cambia a Mirafiori? Pause, mensa, mutua, straordinari, sindacato. Viaggio nel conflitto che rivoluziona la fabbrica dell'auto
dal nostro inviato a Torino Mauro Suttora
Oggi, 12 gennaio 2011
Avete la Lancia Musa o la Fiat Idea? È probabile che le spazzole tergicristallo ve le abbia montate Maria Epifania. Ha un minuto e venti seconde per farlo, su ogni macchina. Lo fa da anni. «Mi sveglio alle quattro di mattina per arrivare in fabbrica alle sei. Prima in auto da Volpiano, il mio paese, a Settimo Torinese. Poi in corriera fino a Torino. Non è tanto la levataccia a pesarmi, quanto il cambio di turno ogni settimana. Quello pomeridiano inizia alle due e finisce alle dieci, ma non riesco ad essere a casa prima delle undici e mezzo. Mi corico a mezzanotte. In pratica, è come cambiare fuso orario ogni sette giorni». In cambio di 1.200 euro al mese.
Vita di operai Fiat. Nella fabbrica più importante d’Italia, Mirafiori. Quella che l’amministratore delegato Sergio Marchionne ora minaccia di smantellare se vince il no al referendum del 14 gennaio. Polverizzando così più di un secolo di storia dell’auto a Torino.
«Io chiedo solo di lavorare», dice Maria. «Ma con dignità. Non voglio scegliere fra lavoro e diritti. Quindi voterò no». E se la fabbrica chiude? «Chi non risica non rosica. Non accetto l’alternativa: o così, o stai a casa. È un ricatto».
Via Bologna, assemblea di delegati nella sede Uilm. «Un sindacalista deve saper mangiare merda quando le vacche sono magre, e farla mangiare quando sono grasse. Adesso, mangiamo merda». Più chiaro di così: Maurizio Peverati, capo Uil alla Fiat, voterà sì. «Anche perché noi 5 mila di Mirafiori non possiamo mettere in pericolo lo stipendio di 80 mila dipendenti dell’indotto. Calcolando le famiglie, sono 240 mila persone che a Torino vivono grazie alla Fiat».
In Fiat Pietro Milana e sua moglie Adelaide si sono conosciuti e sposati: «Era il 1989, lavoravamo nello stabilimento di Rivalta. Allora in città la Fiat aveva 40 mila dipendenti, otto volte quelli di oggi. Poi è arrivata la crisi, Rivalta ha chiuso. Non si assume più nessuno da 14 anni, non si fanno investimenti da 20. Mirafiori è diventato lo stabilimento più vecchio del mondo. E ora che Marchionne vuole metterci un miliardo per la nuova joint-venture Fiat-Chrysler, facciamo gli schizzinosi per dieci minuti di pausa in meno e perché forse ci sarà da lavorare la domenica? Magari, dico io. Vorrebbe dire che le cose vanno bene».
Ma la Fiom, il sindacato metalmeccanico della Cgil, dice che sono molti i punti inaccettabili del nuovo contratto, firmato solo dalla Cisl e da voi della Uil. Risponde Milana: «Vediamoli uno per uno. Le pause? Prima ce n’erano tre a turno, due di un quarto d’ora e una di dieci minuti. Ora saranno tutte di dieci minuti. La mensa? Spostata da metà a fine turno. Così chi vuole va a casa mezz’ora prima».
Non vi pagano più i primi due giorni di malattia. «Solo a chi fa il furbo e si dà malato il venerdì o il lunedì, per allungare il weekend. Poi magari li vediamo tornare abbronzati perché sono andati a sciare».
Ma chi sta male veramente? «Nessun problema. Una commissione paritetica azienda-sindacati valuterà i casi anomali di chi nei dodici mesi precedenti si è messo in mutua più di tre volte nei giorni critici, e solo se l’assenteismo supera il 3,5 per cento».
Adesso quant’è?
«Sette per cento, ma causato quasi sempre dalle stesse 400 persone. Non sarà un problema dimezzarlo, visto che il tre mezzo è la media nazionale».
E gli straordinari? La Fiom calcola che, triplicandolo a 120 ore annue obbligatorie a testa, la Fiat risparmia più di 200 assunzioni in caso di «vacche grasse».
«Senta, con gli straordinari riusciamo ad arrivare a 1.700 al mese. Ora invece, in cassa integrazione, siamo a 800. A tutti fa comodo guadagnare un po’ di più. Infatti, quando li facevamo al sabato, c’era la coda. Però la Fiom faceva scattare lo sciopero appena l’azienda parlava di maggiore utilizzo degli impianti. Certo, anche a me piacerebbe starmene a casa il sabato con mio figlio. Però so anche che dieci anni fa nessuno lavorava la domenica, mentre ora i centri commerciali sono tutti aperti. Le cose cambiano...»
In peggio, secondo la Fiom. I rappresentanti dei lavoratori, per esempio. Non potrete più votarli direttamente: saranno nominati dai sindacati. Ma solo da quelli che firmano l’accordo. Quindi niente Cgil-Fiom, e niente trattenute in busta paga per i loro iscritti. Cancellati.
«Il problema è che la Fiom non firma mai, per partito preso: per ragioni politiche, non sindacali. Salvo poi accettare i miglioramenti strappati dagli altri sindacati. Certo, questa della rappresentanza è una forzatura. Ma da qui a gridare che si viola la costituzione... Teniamo presente che l’auto è in crisi in tutto il mondo, che negli Stati Uniti i sindacati hanno accettato diminuzioni degli stipendi del 20 per cento e salari dimezzati per i nuovi assunti. Qui invece non perdiamo un euro».
Maria Epifania, iscritta Fiom (come il 13% dei dipendenti di Mirafiori, percentuale analoga agli altri sindacati), vede le cose diversamente: «Dieci minuti in meno di pausa possono sembrare poca cosa. Ma in concreto, per chi sta otto ore di fila in linea di montaggio a fare sempre lo stesso movimento, anche un minuto è prezioso. Quando la catena si ferma, infatti, tutti vanno simultaneamente al bagno. Quindi formano code. Lo stesso per le macchinette del caffè. Non parliamo di chi fuma, o di chi è lontano sia dalle zone fumatori, sia dal caffè, sia dai bagni. In un quarto d’ora si riusciva a fare tutto, in dieci minuti no. La mensa, poi, era una quarta pausa. Ora che è a fine turno, non serve più».
Potete andarvene prima. «Ma digiuni... Può essere comodo per chi abita vicino a Mirafiori, ma per chi prende i mezzi come non migliora nulla: gli orari dei bus non cambiano. Io quando ho il turno pomeridiano in pratica non vedo più mio figlio per una settimana, perché vado via prima che lui torni da scuola, e quando torno dorme da un pezzo».
E la mutua?
«Il problema di Mirafiori è che ormai è uno stabilimento di gente di mezza età, piena di acciacchi. Io che ho 37 anni sono una delle più giovani, perché dopo di me nel ’97 non hanno assunto più nessuno. Non illudiamoci quindi che si riescano a rispettare le medie di malattia di altre fabbriche».
Ma qual è la condizione peggiore del nuovo accordo, secondo lei?
«Che non saremo più neppure liberi di scioperare. Chi firmerà per la nuova joint venture delle jeep, infatti, dovrà accettare automaticamente tutte le regole sui ritmi di lavoro. Nella fabbrica dove lavoravo prima facevo piccoli elettrodomestici. La catena di montaggio si fermava, eseguivo la lavorazione, poi ripartiva. Alla Fiat invece la catena si muove sempre, siamo noi a correrle dietro. Se non ce la facciamo, se il carico di lavoro è troppo forte, se fa troppo caldo o troppo freddo, non possiamo più dirlo al capo, né protestare. Non possiamo più fare nulla, pena il licenziamento. Chi si ferma è perduto, come Charlot in Tempi moderni...»
E non ha paura che Marchionne, se vince il no, chiuda Mirafiori e trasferisca tutto nelle altre fabbriche Fiat in Polonia o in Serbia, dove gli operai prendono 400 euro al mese?
«Senta, i nostri nonni e genitori hanno lottato tanto per migliorare le condizioni di lavoro, di cui ora beneficiano tutti. Ora tocca a noi. Non possiamo arrenderci. Anche perché i nostri figli un giorno potrebbero rinfacciarcelo: mamma, come hai fatto ad accettare quelle umiliazioni?»
Mauro Suttora
dal nostro inviato a Torino Mauro Suttora
Oggi, 12 gennaio 2011
Avete la Lancia Musa o la Fiat Idea? È probabile che le spazzole tergicristallo ve le abbia montate Maria Epifania. Ha un minuto e venti seconde per farlo, su ogni macchina. Lo fa da anni. «Mi sveglio alle quattro di mattina per arrivare in fabbrica alle sei. Prima in auto da Volpiano, il mio paese, a Settimo Torinese. Poi in corriera fino a Torino. Non è tanto la levataccia a pesarmi, quanto il cambio di turno ogni settimana. Quello pomeridiano inizia alle due e finisce alle dieci, ma non riesco ad essere a casa prima delle undici e mezzo. Mi corico a mezzanotte. In pratica, è come cambiare fuso orario ogni sette giorni». In cambio di 1.200 euro al mese.
Vita di operai Fiat. Nella fabbrica più importante d’Italia, Mirafiori. Quella che l’amministratore delegato Sergio Marchionne ora minaccia di smantellare se vince il no al referendum del 14 gennaio. Polverizzando così più di un secolo di storia dell’auto a Torino.
«Io chiedo solo di lavorare», dice Maria. «Ma con dignità. Non voglio scegliere fra lavoro e diritti. Quindi voterò no». E se la fabbrica chiude? «Chi non risica non rosica. Non accetto l’alternativa: o così, o stai a casa. È un ricatto».
Via Bologna, assemblea di delegati nella sede Uilm. «Un sindacalista deve saper mangiare merda quando le vacche sono magre, e farla mangiare quando sono grasse. Adesso, mangiamo merda». Più chiaro di così: Maurizio Peverati, capo Uil alla Fiat, voterà sì. «Anche perché noi 5 mila di Mirafiori non possiamo mettere in pericolo lo stipendio di 80 mila dipendenti dell’indotto. Calcolando le famiglie, sono 240 mila persone che a Torino vivono grazie alla Fiat».
In Fiat Pietro Milana e sua moglie Adelaide si sono conosciuti e sposati: «Era il 1989, lavoravamo nello stabilimento di Rivalta. Allora in città la Fiat aveva 40 mila dipendenti, otto volte quelli di oggi. Poi è arrivata la crisi, Rivalta ha chiuso. Non si assume più nessuno da 14 anni, non si fanno investimenti da 20. Mirafiori è diventato lo stabilimento più vecchio del mondo. E ora che Marchionne vuole metterci un miliardo per la nuova joint-venture Fiat-Chrysler, facciamo gli schizzinosi per dieci minuti di pausa in meno e perché forse ci sarà da lavorare la domenica? Magari, dico io. Vorrebbe dire che le cose vanno bene».
Ma la Fiom, il sindacato metalmeccanico della Cgil, dice che sono molti i punti inaccettabili del nuovo contratto, firmato solo dalla Cisl e da voi della Uil. Risponde Milana: «Vediamoli uno per uno. Le pause? Prima ce n’erano tre a turno, due di un quarto d’ora e una di dieci minuti. Ora saranno tutte di dieci minuti. La mensa? Spostata da metà a fine turno. Così chi vuole va a casa mezz’ora prima».
Non vi pagano più i primi due giorni di malattia. «Solo a chi fa il furbo e si dà malato il venerdì o il lunedì, per allungare il weekend. Poi magari li vediamo tornare abbronzati perché sono andati a sciare».
Ma chi sta male veramente? «Nessun problema. Una commissione paritetica azienda-sindacati valuterà i casi anomali di chi nei dodici mesi precedenti si è messo in mutua più di tre volte nei giorni critici, e solo se l’assenteismo supera il 3,5 per cento».
Adesso quant’è?
«Sette per cento, ma causato quasi sempre dalle stesse 400 persone. Non sarà un problema dimezzarlo, visto che il tre mezzo è la media nazionale».
E gli straordinari? La Fiom calcola che, triplicandolo a 120 ore annue obbligatorie a testa, la Fiat risparmia più di 200 assunzioni in caso di «vacche grasse».
«Senta, con gli straordinari riusciamo ad arrivare a 1.700 al mese. Ora invece, in cassa integrazione, siamo a 800. A tutti fa comodo guadagnare un po’ di più. Infatti, quando li facevamo al sabato, c’era la coda. Però la Fiom faceva scattare lo sciopero appena l’azienda parlava di maggiore utilizzo degli impianti. Certo, anche a me piacerebbe starmene a casa il sabato con mio figlio. Però so anche che dieci anni fa nessuno lavorava la domenica, mentre ora i centri commerciali sono tutti aperti. Le cose cambiano...»
In peggio, secondo la Fiom. I rappresentanti dei lavoratori, per esempio. Non potrete più votarli direttamente: saranno nominati dai sindacati. Ma solo da quelli che firmano l’accordo. Quindi niente Cgil-Fiom, e niente trattenute in busta paga per i loro iscritti. Cancellati.
«Il problema è che la Fiom non firma mai, per partito preso: per ragioni politiche, non sindacali. Salvo poi accettare i miglioramenti strappati dagli altri sindacati. Certo, questa della rappresentanza è una forzatura. Ma da qui a gridare che si viola la costituzione... Teniamo presente che l’auto è in crisi in tutto il mondo, che negli Stati Uniti i sindacati hanno accettato diminuzioni degli stipendi del 20 per cento e salari dimezzati per i nuovi assunti. Qui invece non perdiamo un euro».
Maria Epifania, iscritta Fiom (come il 13% dei dipendenti di Mirafiori, percentuale analoga agli altri sindacati), vede le cose diversamente: «Dieci minuti in meno di pausa possono sembrare poca cosa. Ma in concreto, per chi sta otto ore di fila in linea di montaggio a fare sempre lo stesso movimento, anche un minuto è prezioso. Quando la catena si ferma, infatti, tutti vanno simultaneamente al bagno. Quindi formano code. Lo stesso per le macchinette del caffè. Non parliamo di chi fuma, o di chi è lontano sia dalle zone fumatori, sia dal caffè, sia dai bagni. In un quarto d’ora si riusciva a fare tutto, in dieci minuti no. La mensa, poi, era una quarta pausa. Ora che è a fine turno, non serve più».
Potete andarvene prima. «Ma digiuni... Può essere comodo per chi abita vicino a Mirafiori, ma per chi prende i mezzi come non migliora nulla: gli orari dei bus non cambiano. Io quando ho il turno pomeridiano in pratica non vedo più mio figlio per una settimana, perché vado via prima che lui torni da scuola, e quando torno dorme da un pezzo».
E la mutua?
«Il problema di Mirafiori è che ormai è uno stabilimento di gente di mezza età, piena di acciacchi. Io che ho 37 anni sono una delle più giovani, perché dopo di me nel ’97 non hanno assunto più nessuno. Non illudiamoci quindi che si riescano a rispettare le medie di malattia di altre fabbriche».
Ma qual è la condizione peggiore del nuovo accordo, secondo lei?
«Che non saremo più neppure liberi di scioperare. Chi firmerà per la nuova joint venture delle jeep, infatti, dovrà accettare automaticamente tutte le regole sui ritmi di lavoro. Nella fabbrica dove lavoravo prima facevo piccoli elettrodomestici. La catena di montaggio si fermava, eseguivo la lavorazione, poi ripartiva. Alla Fiat invece la catena si muove sempre, siamo noi a correrle dietro. Se non ce la facciamo, se il carico di lavoro è troppo forte, se fa troppo caldo o troppo freddo, non possiamo più dirlo al capo, né protestare. Non possiamo più fare nulla, pena il licenziamento. Chi si ferma è perduto, come Charlot in Tempi moderni...»
E non ha paura che Marchionne, se vince il no, chiuda Mirafiori e trasferisca tutto nelle altre fabbriche Fiat in Polonia o in Serbia, dove gli operai prendono 400 euro al mese?
«Senta, i nostri nonni e genitori hanno lottato tanto per migliorare le condizioni di lavoro, di cui ora beneficiano tutti. Ora tocca a noi. Non possiamo arrenderci. Anche perché i nostri figli un giorno potrebbero rinfacciarcelo: mamma, come hai fatto ad accettare quelle umiliazioni?»
Mauro Suttora
Monday, January 10, 2011
150 anni di Italia
LA SFIDA DELL'UNITÀ
Cosa ci unisce,cosa ci divide
Iniziano le celebrazioni: sette esperti ci raccontano il paese
Festeggeremo il secolo e mezzo di unificazione con federalismo fiscale e spinte separatiste. Ma davvero gli italiani non sono mai stati fatti?
di Marianna Aprile e Mauro Suttora
Oggi, 12 gennaio 2011
Centocinquanta e non sentirli. A un secolo e mezzo dall'unificazione nazionale, e alla vigilia delle celebrazioni che scandiranno il 2011, ci guardiamo attorno e ci chiediamo se, fatta l'Italia, siano poi davvero arrivati anche gli italiani. Non abbiamo mai brillato per patriottismo, anzi, siamo tradizionalmente i primi a inchiodarci alle nostre mancanze. E la politica non aiuta: saluta la ricorrenza accelerando l' attuazione del federalismo fiscale. Che significherà meno soldi per le città del centro-sud: L'Aquila, per esempio, registrerebbe un -66% rispetto al 2010, Napoli -60.
Ironia del destino, i due centri cui il governo di Silvio Berlusconi ha spesso legato le sue sorti negli ultimi due anni. Ci guadagnerebbero - e tanto - Parma (+105%), Padova (+76) e Treviso (+58). A Milano gli introiti crescerebbero del 34%. Insomma, il divario tra Nord e Sud è destinato a crescere, l' antimeridionalismo trova sempre più spazio sui giornali, e anche l' identità nazionale non si sente tanto bene. O no?
«Ci divide la crisi economica, che ci rende meno tolleranti verso gli sprechi e i trasferimenti di danaro da una parte all' altra del Paese: se a Torino non ho l' asilo pubblico, non posso accettare che si investano altri soldi nella Salerno-Reggio Calabria», dice Massimo Gramellini , vicedirettore de La Stampa e autore, con Carlo Fruttero, di La Patria, bene o male . Gramellini però non crede alla divisione tra Nord e Sud: «Piuttosto siamo ostili a Roma, vista come centro degli sprechi. In fondo, l' Italia è la somma di più capitali. Se abbiamo così tante città d' arte è proprio perché i centri di potere erano molti e ogni signore investiva sul suo territorio. Dovremmo valorizzare quelle storie, invece che comprimerle: recuperarle può aiutare a riscoprire il senso delle istituzioni».
Ma il federalismo non aumenterà la distanza? «Con le giuste contromisure, il federalismo può invece avere una funzione anti-disgregante. È giusto che i soldi vengano spesi là dove sono prodotti. Ma non a scapito del senso di solidarietà, che però deve passare da una pretesa di standard di efficienza, che ridia responsabilità ai centri di spesa».
Sul federalismo e sulle sue conseguenze si può essere o meno d' accordo. Cos' è invece che ci unirà nonostante tutto? «Il contropiede. Come diceva Gianni Brera, l'italiano vince tutte le sue battaglie in contropiede: dal Piave al Bernabeu del Mondiale 1982, noi non abbiamo mai attaccato, perché siamo privi di disciplina. Però siamo furbi, e alla bisogna partiamo in contropiede. Questo unisce il torinese al napoletano. A scacchi saremmo il cavallo: imprevedibile e pieno di risorse».
Gianluigi Nuzzi ha scritto Metastasi, oltre 50 mila copie in tre settimane, in cui attraverso le parole del pentito Giuseppe Di Bella traccia un quadro desolante della diffusione della 'ndrangheta al nord. Nuzzi, a unire l' Italia è il malaffare? «A guardare la ragnatela di affari della ' ndrangheta in tutto il Paese viene fuori un' altra Italia, meno legata alla suddivisione tradizionale nord-sud. Ma a legare italianità e 'ndrangheta sono altri aspetti».
E inizia l'elenco: «La 'ndrangheta ha la doppia velocità tipica del nostro Paese. Da un lato la ricerca di metodi sempre più tecnologici per il riciclaggio, dall' altra un attaccamento morboso alle tradizioni e a una certa ritualità. E poi c' è quell' osannare in pubblico le regole, in particolare i legami di famiglia, una celebrazione cui corrispondono comportamenti privati non altrettanto rispettosi». Insomma, gli 'ndranghetisti sono arci-italiani? «Hanno la tendenza a una contrapposizione nettissima tra "noi" e "loro", un innato senso di superiorità, quello sì molto italiano».
«Certo, la mafia unisce l' Italia», dice Pino Aprile, autore di Terroni, terzo saggio più venduto del 2010. «Nel senso che versa i suoi soldi al Nord, mentre nel Sud si versa il sangue delle sue vittime. Tutte meridionali, tranne il generale Dalla Chiesa e l'avvocato Ambrosoli che la propria città, Milano, lasciò uccidere perché la sua onestà bloccava gli affari...».
Il successo di Terroni è parallelo a quello di un altro libro, Il sacco del Nord, scritto dal professore universitario Luca Ricolfi e diventato il vangelo della Lega Nord, nonostante il suo autore sia di sinistra.
Su un punto però Aprile e Ricolfi concordano: 150 anni fa, all' unificazione, il Sud non era sottosviluppato rispetto al Nord. Il divario produttivo si è creato dopo. «Poi, dal 1950 al '75 il Sud aveva diminuito la distanza, ma da allora le cose sono di nuovo peggiorate», spiega Ricolfi. Due i fattori del recupero: il boom economico e la Cassa per il Mezzogiorno. Grandi speranze: l'Alfasud, le autostrade... «Poi però l'industrializzazione ha attecchito poco, e ora il Nord ogni anno deve trasferire circa 50 miliardi al Sud».
Sono i 50 miliardi che fanno imbestialire i leghisti.
«Ma attenti: anche gli elettori di Pd e Pdl al nord condividono la rabbia per gli sprechi», avverte Ricolfi. A peggiorare le cose, l'aumento delle tasse: «Nel 1980 erano al 30 per cento, oggi siamo al 43. Ma, calcolando gli evasori, chi paga le imposte deve versare quasi il 60 per cento».
Per questo, nel 1987 la Lega ha mandato i primi parlamentari a Roma. «Ma fra le regioni sprecone non ci sono solo quelle del Sud», avverte Ricolfi. «La Liguria, per esempio, è a i primi posti per evasione e inefficienza. L'Umbria è prima per assistenzialismo. E anche le regioni autonome del Nord Val d'Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli incassano più di quel che pagano in tasse. Viceversa, al Sud bisogna distinguere fra le regioni con la piaga mafiosa - Sicilia, Calabria, Campania - e le altre, che stanno meglio».
Ci salverà la cultura
Tra i casi che hanno caratterizzato questo 2010 appena terminato c'è senza dubbio quello di Benvenuti al Sud, il film di Luca Miniero con Claudio Bisio protagonista, che ha incassato 30 milioni di euro al botteghino.
Miniero è un napoletano vissuto a Milano ed è fermamente convinto di una cosa: «Tra settentrionali e meridionali le affinità sono più delle discrepanze. La rappresentazione degli italiani come un popolo diviso è un affare tutto politico, e molto strumentale. Certo, il nostro patriottismo è diverso da quello, per esempio, dei francesi: abbiamo un' identità più sfaccettata. Ma il vero problema sono i pregiudizi, anche se non credo che l'antimeridionalismo sia davvero diffuso come ci viene raccontato».
Dopo aver girato tutta l'Italia dietro al suo film, Miniero non ha dubbi: «Ci uniscono senso dell' umorismo e la solidarietà nelle catastrofi, quel sentimento nazionale che quando succede qualcosa fa muovere italiani da tutto il Paese per aiutare». Quindi l'italiano si vede nel momento del bisogno? «E davanti alla nazionale di calcio. Il problema è che con la crisi si accentuano gli egoismi».
Anche a Sud, però. Basti pensare alle spinte autonomiste dei siciliani Raffaele Lombardo e Gianfranco Miccichè: «Ci sono sempre state, e sono sempre state un po' ridicole. Il vero problema è che dovremmo smettere di piangerci addosso, e cercare di far evolvere il nostro orgoglio provinciale in orgoglio nazionale. Dovremmo imparare a guardarci con gli occhi degli stranieri».
Più pessimista è Renzo Arbore, mattatore dell'Orchestra Italiana, con la quale fa sold out in tutta italia e in tutto il mondo: «Sono un curioso degli italiani ma devo amaramente dividerli in due categorie, gli italiani "sì" e gli italiani "no". I primi hanno fame di cultura, conoscono le bellezze di questo fantastico Paese e sanno valorizzarle. Pensate alla rivalutazione dei borghi, dalle Alpi a Santa Maria di Leuca. I secondi sono macroscopiche eccezioni rispetto ai primi, ma egregiamente rappresentate, e foraggiate, dalla tv dei reality, dei toni esasperati e del gossip. La tv è il nostro dittatore, perennemente all' inseguimento del cattivo gusto».
Un cattivo gusto che cozza con l' essenza profonda dell' italiano: «Siamo un Paese benedetto da Dio, un po' meno dagli italiani. La chiave di volta può essere una sempre maggiore consapevolezza culturale. Dove manca la cultura, per colpa della miseria, della disoccupazione o di altro, l' Italia è ancora da fare».
Già, ma come? «Sono abbastanza vecchio da aver vissuto fascismo, antifascismo, il boom , lo sboom , la crisi. E mi sento di poter dire che una nuova stagione si sta affacciando, un nuovo rinascimento che richiederà uomini all' altezza, figli di una generazione che ha girato il mondo e che torna in Italia con la consapevolezza di esser nata nel posto più bello del mondo».
La soluzione, quindi, arriverà dai giovani che ora fuggono all'estero? «I talenti fuggono perché la politica e le sue politiche non sono alla loro altezza. Da noi le eccellenze vengono ignorate: il jazz italiano è migliore di quello americano, la musica popolare italiana è la più varia e poliedrica del mondo. Poi ci sono la moda, la gastronomia. Noi siamo il simbolo del gusto, e all' estero ci percepiscono così».
Sembra di intravvedere un "però"... «Il pessimo senso civico di alcuni, la maleducazione, il degrado di certe zone del Sud, che indigna me per primo e che declassa agli occhi degli stranieri anche città virtuose come Torino e Venezia».
Anche Vittorio Sgarbi, che ha appena scritto Viaggio sentimentale nell'Italia dei desideri (Bompiani), punta su arte e cultura come motivo di orgoglio unificante: «Siamo uniti dalla bellezza. Gli stranieri vengono in Italia per Taormina e Capri, Ischia e Costa Smeralda. Non per Cinisello o Valdobbiadene. Nonostante tutte le catastrofi estetiche combinate dai geometri negli ultimi 50 anni, Gore Vidal prende casa a Ravello, e lì Oscar Niemeyer costruisce l'auditorium. E tutto questo ha un grande ritorno economico. Il turismo del borgo, il lusso dell'albergo diffuso a Santo Stefano di Sessanio negli Abruzzi. Perfino casa mia, il palazzo Cavallini Sgarbi di Ferrara, sta per diventare un'attrazione: fu l'abitazione di Ludovico Ariosto, e la apriremo al pubblico in gennaio».
Ricapitolando: il gusto, la solidarietà, la cultura e l'arte (soprattutto quella di sfangarla in zona Cesarini) ci rendono tutti italiani nonostante le divisioni politiche, economiche e ideologiche. Come dire che aveva ragione ancora una volta Giorgio Gaber: «Noi non ci sentiamo italiani, ma per fortuna o purtroppo lo siamo».
Marianna Aprile e Mauro Suttora
Cosa ci unisce,cosa ci divide
Iniziano le celebrazioni: sette esperti ci raccontano il paese
Festeggeremo il secolo e mezzo di unificazione con federalismo fiscale e spinte separatiste. Ma davvero gli italiani non sono mai stati fatti?
di Marianna Aprile e Mauro Suttora
Oggi, 12 gennaio 2011
Centocinquanta e non sentirli. A un secolo e mezzo dall'unificazione nazionale, e alla vigilia delle celebrazioni che scandiranno il 2011, ci guardiamo attorno e ci chiediamo se, fatta l'Italia, siano poi davvero arrivati anche gli italiani. Non abbiamo mai brillato per patriottismo, anzi, siamo tradizionalmente i primi a inchiodarci alle nostre mancanze. E la politica non aiuta: saluta la ricorrenza accelerando l' attuazione del federalismo fiscale. Che significherà meno soldi per le città del centro-sud: L'Aquila, per esempio, registrerebbe un -66% rispetto al 2010, Napoli -60.
Ironia del destino, i due centri cui il governo di Silvio Berlusconi ha spesso legato le sue sorti negli ultimi due anni. Ci guadagnerebbero - e tanto - Parma (+105%), Padova (+76) e Treviso (+58). A Milano gli introiti crescerebbero del 34%. Insomma, il divario tra Nord e Sud è destinato a crescere, l' antimeridionalismo trova sempre più spazio sui giornali, e anche l' identità nazionale non si sente tanto bene. O no?
«Ci divide la crisi economica, che ci rende meno tolleranti verso gli sprechi e i trasferimenti di danaro da una parte all' altra del Paese: se a Torino non ho l' asilo pubblico, non posso accettare che si investano altri soldi nella Salerno-Reggio Calabria», dice Massimo Gramellini , vicedirettore de La Stampa e autore, con Carlo Fruttero, di La Patria, bene o male . Gramellini però non crede alla divisione tra Nord e Sud: «Piuttosto siamo ostili a Roma, vista come centro degli sprechi. In fondo, l' Italia è la somma di più capitali. Se abbiamo così tante città d' arte è proprio perché i centri di potere erano molti e ogni signore investiva sul suo territorio. Dovremmo valorizzare quelle storie, invece che comprimerle: recuperarle può aiutare a riscoprire il senso delle istituzioni».
Ma il federalismo non aumenterà la distanza? «Con le giuste contromisure, il federalismo può invece avere una funzione anti-disgregante. È giusto che i soldi vengano spesi là dove sono prodotti. Ma non a scapito del senso di solidarietà, che però deve passare da una pretesa di standard di efficienza, che ridia responsabilità ai centri di spesa».
Sul federalismo e sulle sue conseguenze si può essere o meno d' accordo. Cos' è invece che ci unirà nonostante tutto? «Il contropiede. Come diceva Gianni Brera, l'italiano vince tutte le sue battaglie in contropiede: dal Piave al Bernabeu del Mondiale 1982, noi non abbiamo mai attaccato, perché siamo privi di disciplina. Però siamo furbi, e alla bisogna partiamo in contropiede. Questo unisce il torinese al napoletano. A scacchi saremmo il cavallo: imprevedibile e pieno di risorse».
Gianluigi Nuzzi ha scritto Metastasi, oltre 50 mila copie in tre settimane, in cui attraverso le parole del pentito Giuseppe Di Bella traccia un quadro desolante della diffusione della 'ndrangheta al nord. Nuzzi, a unire l' Italia è il malaffare? «A guardare la ragnatela di affari della ' ndrangheta in tutto il Paese viene fuori un' altra Italia, meno legata alla suddivisione tradizionale nord-sud. Ma a legare italianità e 'ndrangheta sono altri aspetti».
E inizia l'elenco: «La 'ndrangheta ha la doppia velocità tipica del nostro Paese. Da un lato la ricerca di metodi sempre più tecnologici per il riciclaggio, dall' altra un attaccamento morboso alle tradizioni e a una certa ritualità. E poi c' è quell' osannare in pubblico le regole, in particolare i legami di famiglia, una celebrazione cui corrispondono comportamenti privati non altrettanto rispettosi». Insomma, gli 'ndranghetisti sono arci-italiani? «Hanno la tendenza a una contrapposizione nettissima tra "noi" e "loro", un innato senso di superiorità, quello sì molto italiano».
«Certo, la mafia unisce l' Italia», dice Pino Aprile, autore di Terroni, terzo saggio più venduto del 2010. «Nel senso che versa i suoi soldi al Nord, mentre nel Sud si versa il sangue delle sue vittime. Tutte meridionali, tranne il generale Dalla Chiesa e l'avvocato Ambrosoli che la propria città, Milano, lasciò uccidere perché la sua onestà bloccava gli affari...».
Il successo di Terroni è parallelo a quello di un altro libro, Il sacco del Nord, scritto dal professore universitario Luca Ricolfi e diventato il vangelo della Lega Nord, nonostante il suo autore sia di sinistra.
Su un punto però Aprile e Ricolfi concordano: 150 anni fa, all' unificazione, il Sud non era sottosviluppato rispetto al Nord. Il divario produttivo si è creato dopo. «Poi, dal 1950 al '75 il Sud aveva diminuito la distanza, ma da allora le cose sono di nuovo peggiorate», spiega Ricolfi. Due i fattori del recupero: il boom economico e la Cassa per il Mezzogiorno. Grandi speranze: l'Alfasud, le autostrade... «Poi però l'industrializzazione ha attecchito poco, e ora il Nord ogni anno deve trasferire circa 50 miliardi al Sud».
Sono i 50 miliardi che fanno imbestialire i leghisti.
«Ma attenti: anche gli elettori di Pd e Pdl al nord condividono la rabbia per gli sprechi», avverte Ricolfi. A peggiorare le cose, l'aumento delle tasse: «Nel 1980 erano al 30 per cento, oggi siamo al 43. Ma, calcolando gli evasori, chi paga le imposte deve versare quasi il 60 per cento».
Per questo, nel 1987 la Lega ha mandato i primi parlamentari a Roma. «Ma fra le regioni sprecone non ci sono solo quelle del Sud», avverte Ricolfi. «La Liguria, per esempio, è a i primi posti per evasione e inefficienza. L'Umbria è prima per assistenzialismo. E anche le regioni autonome del Nord Val d'Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli incassano più di quel che pagano in tasse. Viceversa, al Sud bisogna distinguere fra le regioni con la piaga mafiosa - Sicilia, Calabria, Campania - e le altre, che stanno meglio».
Ci salverà la cultura
Tra i casi che hanno caratterizzato questo 2010 appena terminato c'è senza dubbio quello di Benvenuti al Sud, il film di Luca Miniero con Claudio Bisio protagonista, che ha incassato 30 milioni di euro al botteghino.
Miniero è un napoletano vissuto a Milano ed è fermamente convinto di una cosa: «Tra settentrionali e meridionali le affinità sono più delle discrepanze. La rappresentazione degli italiani come un popolo diviso è un affare tutto politico, e molto strumentale. Certo, il nostro patriottismo è diverso da quello, per esempio, dei francesi: abbiamo un' identità più sfaccettata. Ma il vero problema sono i pregiudizi, anche se non credo che l'antimeridionalismo sia davvero diffuso come ci viene raccontato».
Dopo aver girato tutta l'Italia dietro al suo film, Miniero non ha dubbi: «Ci uniscono senso dell' umorismo e la solidarietà nelle catastrofi, quel sentimento nazionale che quando succede qualcosa fa muovere italiani da tutto il Paese per aiutare». Quindi l'italiano si vede nel momento del bisogno? «E davanti alla nazionale di calcio. Il problema è che con la crisi si accentuano gli egoismi».
Anche a Sud, però. Basti pensare alle spinte autonomiste dei siciliani Raffaele Lombardo e Gianfranco Miccichè: «Ci sono sempre state, e sono sempre state un po' ridicole. Il vero problema è che dovremmo smettere di piangerci addosso, e cercare di far evolvere il nostro orgoglio provinciale in orgoglio nazionale. Dovremmo imparare a guardarci con gli occhi degli stranieri».
Più pessimista è Renzo Arbore, mattatore dell'Orchestra Italiana, con la quale fa sold out in tutta italia e in tutto il mondo: «Sono un curioso degli italiani ma devo amaramente dividerli in due categorie, gli italiani "sì" e gli italiani "no". I primi hanno fame di cultura, conoscono le bellezze di questo fantastico Paese e sanno valorizzarle. Pensate alla rivalutazione dei borghi, dalle Alpi a Santa Maria di Leuca. I secondi sono macroscopiche eccezioni rispetto ai primi, ma egregiamente rappresentate, e foraggiate, dalla tv dei reality, dei toni esasperati e del gossip. La tv è il nostro dittatore, perennemente all' inseguimento del cattivo gusto».
Un cattivo gusto che cozza con l' essenza profonda dell' italiano: «Siamo un Paese benedetto da Dio, un po' meno dagli italiani. La chiave di volta può essere una sempre maggiore consapevolezza culturale. Dove manca la cultura, per colpa della miseria, della disoccupazione o di altro, l' Italia è ancora da fare».
Già, ma come? «Sono abbastanza vecchio da aver vissuto fascismo, antifascismo, il boom , lo sboom , la crisi. E mi sento di poter dire che una nuova stagione si sta affacciando, un nuovo rinascimento che richiederà uomini all' altezza, figli di una generazione che ha girato il mondo e che torna in Italia con la consapevolezza di esser nata nel posto più bello del mondo».
La soluzione, quindi, arriverà dai giovani che ora fuggono all'estero? «I talenti fuggono perché la politica e le sue politiche non sono alla loro altezza. Da noi le eccellenze vengono ignorate: il jazz italiano è migliore di quello americano, la musica popolare italiana è la più varia e poliedrica del mondo. Poi ci sono la moda, la gastronomia. Noi siamo il simbolo del gusto, e all' estero ci percepiscono così».
Sembra di intravvedere un "però"... «Il pessimo senso civico di alcuni, la maleducazione, il degrado di certe zone del Sud, che indigna me per primo e che declassa agli occhi degli stranieri anche città virtuose come Torino e Venezia».
Anche Vittorio Sgarbi, che ha appena scritto Viaggio sentimentale nell'Italia dei desideri (Bompiani), punta su arte e cultura come motivo di orgoglio unificante: «Siamo uniti dalla bellezza. Gli stranieri vengono in Italia per Taormina e Capri, Ischia e Costa Smeralda. Non per Cinisello o Valdobbiadene. Nonostante tutte le catastrofi estetiche combinate dai geometri negli ultimi 50 anni, Gore Vidal prende casa a Ravello, e lì Oscar Niemeyer costruisce l'auditorium. E tutto questo ha un grande ritorno economico. Il turismo del borgo, il lusso dell'albergo diffuso a Santo Stefano di Sessanio negli Abruzzi. Perfino casa mia, il palazzo Cavallini Sgarbi di Ferrara, sta per diventare un'attrazione: fu l'abitazione di Ludovico Ariosto, e la apriremo al pubblico in gennaio».
Ricapitolando: il gusto, la solidarietà, la cultura e l'arte (soprattutto quella di sfangarla in zona Cesarini) ci rendono tutti italiani nonostante le divisioni politiche, economiche e ideologiche. Come dire che aveva ragione ancora una volta Giorgio Gaber: «Noi non ci sentiamo italiani, ma per fortuna o purtroppo lo siamo».
Marianna Aprile e Mauro Suttora
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