Oggi, 27 settembre 2006
Malaga (Spagna), settembre
«Perdono Vittorio Emanuele».
Perdona il principe? Proprio adesso che, 28 anni dopo, ammette la sua colpevolezza?
«Certo, io l’ho perdonato da tempo. Così insegna il Vangelo. Ma lui deve sottomettersi alla giustizia terrena, come tutti gli altri cittadini».
La esile signora che abbiamo di fronte, Birgit Hamer, 49 anni, è sorella di Dirk, il diciannovenne tedesco ucciso da Vittorio Emanuele di Savoia nell’agosto 1978 a Cavallo. C’era anche lei, quella notte, in una delle due barche ancorate nella rada dell’isola fra la Sardegna e la Corsica. E da allora ha dedicato la propria vita a cercare giustizia per il fratello. Senza trovarla.
Tempi lunghi, lunghissimi, biblici. Più o meno ogni 14 anni alla signora Hamer succede qualcosa di tremendo. Nel ‘78 l’omicidio, che ha sconvolta l’esistenza sua e della famiglia (la mamma è morta di crepacuore nell’85, a soli cinquant’anni). Nel ’91 l’incredibile assoluzione per il Savoia a Parigi. E ora la clamorosa ammissione da parte del principe: «Avevo torto, ho fregato i giudici francesi».
Come tutte le frasi che hanno inguaiato Vittorio Emanuele negli ultimi tempi, anche questa gli è stata intercettata. Non al telefono, ma con un microfono segreto nella cella del carcere di Potenza dov’era rinchiuso in giugno per le corruzioni sulle slot machines. Così si è vantato con un coimputato: «Eccezionale! Venti testimoni, e al processo si affacciarono tante di quelle personalità pubbliche... Il procuratore aveva chiesto cinque anni e sei mesi. Ma ero sicuro di vincere, ero più che sicuro».
Il Savoia ricorda bene il tragico fatto: «Ho sparato due colpi, uno ha preso la gamba del ragazzo che era steso, passando attraverso la carlinga della barca. Pallottola trenta zero tre». Ma anche la signora Hamer ricorda molto bene. Ha scritto un libro. Non ha mai smesso di inviare lettere perorando la causa della giustizia. L’ultima risposta le è arrivata dal nuovo presidente italiano Giorgio Napolitano in giugno, appena una settimana prima che Vittorio finisse di nuovo in prigione. Un’altra il 18 luglio da papa Benedetto XVI, suo connazionale, che le fa rispondere: «Prendiamo molto a cuore il suo caso e preghiamo per voi, anche se non possiamo interferire negli affari interni di autorità straniere».
«Il mio avvocato francese, Sabine Paugam, dice che in Francia normalmente dopo un’assoluzione il processo non si può rifare», ci dice la signora Hamer, «ma che in presenza di fatti nuovi farà una nuova denuncia. Ma visto che la sparatoria è avvenuta su una barca italiana e tutti, a parte me e mio fratello, erano italiani, spero che ci possa essere un nuovo processo in Italia. Sono convinta che non riuscirà a “fregare” anche i giudici italiani».
Siamo seduti su un terrazzo che dà sul mare. Il panorama è splendido, come splendida era la vita della famiglia Hamer prima della tragedia. Birgit, bellissima, era stata eletta miss Germania nel ’76. Poi lei e i suoi tre fratelli (Dirk più giovane di due anni, gli altri più piccoli) si trasferirono a Roma con la mamma. Il signor Hamer oggi vive anch’egli a Malaga. E’ medico, ha avuto un tumore, ne è guarito curandosi da solo, ma negli ultimi anni ha avuto traversie giudiziarie.
«A Roma la vita era un sogno», ricorda la signora Hamer, «abitavamo in via Margutta, andavamo in vacanza a Positano... Io avevo cominciato a lavorare come modella e attrice, ho recitato per la Tv in Cinema con Pupi Avati e in un film di Armania Balducci, la compagna di Gianmaria Volonté: Amo, non amo con Jacqueline Bisset, Monica Guerritore e Maximilian Schell. Il produttore mi chiese se preferivo la parte della moglie o dell’amante. Gli risposi: “L’amante, perché sono le donne più amate”, ma oggi non penso più così. Il film fu girato nella primavera ’78, uscì in autunno e qualcuno mi accusò addirittura di sfruttare la tragedia di mio fratello per farmi pubblicità...
«Dirk era un ragazzo atletico, velocissimo nei 400 metri. Aveva conosciuto Mennea, si allenava nel campo della Farnesina. Un anno prima di morire mi disse: “Fra un anno o sarò famoso o sarò morto”. Gli piaceva una canzone dei Chicago con queste parole: “Se mi lasci ora, mi toglierai la parte migliore di me. Per favore non andartene...”. Eravamo legatissimi, andavamo sempre in giro assieme. Io avevo già fatto la maturità in Germania, lui frequentava il liceo tedesco di Roma, che stava in via Savoia... E Savoia si chiamava anche l’albergo dove approdammo appena arrivati nella capitale. Che coincidenze!
«Quell’estate affittammo una casetta a Porto Rotondo, e degli amici di mio fratello ci invitarono per una gita in barca. Dovevamo tornare in giornata, ma ci fu un temporale e così decisero di fermarsi a Cavallo. Io dormivo in una barca, Dirk in un’altra. Nel mezzo della notte accadde il fattaccio. Vittorio Emanuele arrivò urlando “Italiani di merda!” e sparando all’impazzata con una carabina da caccia. Voleva uccidere, e ci sarebbe riuscito se Niki Pende, che aveva preso di mira, non si fosse riparato e poi lo avesse disarmato con i riflessi di una tigre, evitando una strage. Ma il Savoia ammazzò lo stesso: il proiettile perforò la fiancata del motoscafo e colpì un’arteria della coscia di Dirk, che era sdraiato in cabina.
«Mio fratello si sarebbe salvato se fosse stato soccorso in tempo. All’inizio Vittorio Emanuele ci promise il suo elicottero per trasportarlo all’ospedale di Porto Vecchio. Ma aspettammo a lungo inutilmente, e alla fine decidemmo di portarlo noi in motoscafo. Aveva un’emorragia, perdeva molto sangue. Il medico ci disse che se avessimo tardato un altro quarto d’ora sarebbe morto. Poi iniziò il suo calvario: un’agonia di 111 giorni, l’amputazione della gamba destra, altre diciotto operazioni. Il 7 dicembre, mentre ero a Milano dalla mia amica Paola Marzotto, mia madre mi telefonò. Non ci fu bisogno che parlasse, avevo capito che era finita. E anche per me la dolce vita era terminata. Rifiutai un contratto in America, abbandonai la carriera di modella e attrice. Dedicai tutte le mie forze alla vicenda giudiziaria, ma all’inizio non immaginavo certo che ci sarebbero voluti quattordici anni per arrivare al processo. Lasciai Roma, tornai in Germania dove ho studiato scienze religiose comparate, letteratura italiana ed etnologia all’università. Ho avuto due figlie da un uomo che poi ci ha abbandonate, ora vivo con loro qui in Spagna. E non ho mai chiesto risarcimenti miliardari, come è stato scritto. Li ha chiesti la mia avvocatessa che ha lavorato per anni gratis. Conduco la mia battaglia esclusivamente per ristabilire l’onore di mio fratello e ottenere giustizia».
La signora Hamer, dolce e sempre bella, ci mostra con riluttanza l’album delle foto di famiglia: le immagini felici negli anni Sessanta, i bimbi piccoli in braccio alla mamma o che sguazzano nel mare. I quadri pieni di colori che Dirk dipingeva a Roma, le sue foto magro e abbronzato a Positano. Le foto di lei ai tempi dei trionfi di Miss Germania. E quella della tomba di suo fratello e sua madre nel cimitero dei non cattolici di Roma, alla Piramide.
Quando il nostro fotografo la convince a fatica a mettersi in posa con un’immagine di Dirk in mano, il suo sguardo carico di malinconia mi fa venire i brividi alla schiena. Sembra una mamma argentina di Plaza de Mayo che reclama giustizia per i giovani figli desaparecidos. Anche per Birgit Hamer sono passati trent’anni, ma lei non si è stancata di lottare per suo fratello.
Mauro Suttora
Thursday, October 19, 2006
No Sex in NY: le italiane lo fanno meglio
Avventure pseudosentimentali a Manhattan
Mauro Suttora è un giornalista, ha vissuto nell'Upper West Side, è uscito con ragazze di ogni tipo e ha scritto un libro. In questa intervista dice che le newyorkesi pensano solo a una cosa (e non è certo il sesso)
Grazia, 17 ottobre 2006
di Alessia Ercolini
Niente sesso a Manhattan. Nel senso che le newyorkesi a tutto pensano fuorché all’amore. Altro che 'Sex and the city' e le avventure sentimental-erotiche di Carrie Bradshow. Almeno è quanto sostiene Mauro Suttora, ultraquarantenne giornalista italiano del settimanale Oggi.
Per quattro anni Suttora ha vissuto e lavorato a Manhattan. Si è innamorato di ragazze che somigliavano ad Andrea, la coprotagonista del film evento 'Il Diavolo veste Prada' (ruolo interpretato da Anna Hathaway, al cinema dal 13 ottobre). È incappato nella «incantevole moglie di un ambasciatore» che pretendeva da lui una «scia-scia» (traduzione per chi non bazzica Manhattan: «champagne shower», ovvero doccia di champagne) ed è stato scaricato via mail da modelle troppo impegnate anche per dire addio a un uomo.
Per sfogarsi, Suttora ha raccontato le sue peripezie sentimentali sul settimanale 'New York Observer' e ora le ha raccolte in un libro dal titolo 'No sex in the city' (Cairo editore), dal 12 ottobre in libreria.
Che cosa ha imparato dalle ragazze di New York?
«Che tutto è molto divertente».
Che cosa? Fare sesso o non farlo?
«Tutto quanto. Le donne e gli uomini di New York sono molto affascinanti. Sarà che i quattro anni che ho vissuto lì per me sono stati un concentrato di 20 anni di vita in Italia».
A giudicare dal titolo, però, i brividi caldi sono stati pochi...
«Se uno cerca amore o sesso, lì ne trova pochissimo. Perché c’è una classifica di priorità: lavoro, carriera, soldi, casa, vestiti, automobile, jogging...»
Lei, invece, che cosa cercava?
«Ciò che normalmente cercano tutti. L’amore, ma anche il divertimento. Vent’anni fa la Grande Mela era una città erotica. Ora no, non è per niente sexy. Negli Anni 60 si diceva “fate l’amore non fate la guerra”. Adesso è il contrario».
Le donne del libro sono ridotte a macchiette.
«C’è tanta varietà, come ovunque, ma dopo un po’ di incontri e parlando con gli amici vedi che le differenze sostanziali con l’Europa sono ricorrenti».
Quali per esempio?
«Le donne di New York hanno tre cose positive. Primo, l’energia. Non si fanno mai abbattere da nulla. Secondo, la curiosità. Sono sempre pronte a sperimentare nuove cose. E poi le newyorkesi hanno dalla loro la semplicità, che si può sintetizzare nel look jeans e infradito. Le italiane sono molto più scettiche, chiuse, più spente, e certe volte troppo costruite. Però sanno cucinare, mediamente hanno un livello culturale più alto e sono più disinibite, passionali, insomma più spontanee. Le newyorkesi fanno poco l’amore e quando lo fanno raggiungono il piacere in modi stranissimi».
Lei si definisce un tipo passionale?
«Sì».
Alla fine, ha trovato ciò che cercava?
«Ora sì. Convivo con una non-americana».
Tra le righe dei racconti dei suoi flirt si percepisce una certa attenzione per le piccole spese (vada per le costose cene nei locali di Manhattan, ma per la famosa doccia di champagne sostituire il Moet&Chandon con del prosecco da dieci dollari ha probabilmente pregiudicato il buon esito della serata). Scusi Suttora, lei non sarà mica un po’ tirchio?
«In effetti sì. Diciamo che il mio stipendio, soprattutto a New York, mi costringeva a diventarlo. Sono entrato in contatto con questo mondo che era al di là delle mie possibilità. Poi ogni tanto sono stato preda di qualche follia, tipo affitare un elicottero».
Quanto bisognerebbe guadagnare per mantenersi dignitosamente a Manhattan in puro stile Sex and the city?
«Almeno 10mila dollari netti al mese. L’affitto può costare anche 4500 dollari. Ma per fortuna in quanto giornalista mi invitavano dappertutto, altrimenti non ce l’avrei fatta».
Ora che è rientrato a Roma, ha qualche rimpianto?
«Uno solo. Sandra Bullock. Quando l’ho incontrata per un’intervista non ho colto l’occasione: sono rimasto talemente abbacinato dalla bellezza e dalla sua semplicità che non sono riuscito a dire e a fare niente. Invece, avrei potuto invitarla a bere un caffè Lavazza, sotto la Libreria Rizzoli, sulla 57a strada. Al solo sentire la parola caffè italiano sarebbe impazzita a e avrebbe detto “Wow”. Insomma, ho perso un’occasione».
Ci spiega come mai le fanno tanto orrore le serate tra ragazze? Cito testualmente: «Una delle principali manie delle donne di New York, incomprensibile per noi uomini europei (...). È una consuetudine deprimentente per qualunque persona abbia superato la fase adolescenziale delle “amiche del cuore” o quella tardofemminista della “sorellanza”». Sa che anche in Italia talvolta le ragazze escono senza uomini?
«È atroce. È una delle americanate che hanno preso piede.
Crede davvero che le italiane abbiano avuto bisogno di scoprire le uscite da single dalle americane?
«È squallido quando ciò avviene a scadenza fissa una volta a settimana».
Già, per la sua ex fidanzata Marsha era il giovedì sera.
«Insomma, incontratevi per un caffè alle cinque, ma non lasciatemi da solo a casa per uscire da sole. Oppure fate finta di non escluderci».
E allora le quattro ragazze di Sex and the city?
«Detesto il clima da caserma al contrario. In ogni caso, questo decennio, toccando ferro che non ci siano più altri 11 settembre, passerà alla storia come quello di Sex and the city.
Le sue amiche newyorkesi guardavano quel serial?
«Lì era già finito nel 2004, ma ora lo stanno mandando in onda di nuovo: censurato, per poterlo trasmette in prima serata. Praticamente Samantha sta sempre zitta».
Ha mai incontrato Sarah Jessica Parker per le strade di Manhattan?
«Sì. È tremenda, brutta e antipatica. Se la tirava, non voleva parlare con nessuno. A New York incomprensibilmente lei è la più gettonata. Ma non è il mio tipo.
Solo perché lei è alto un metro e novanta e Carrie le arriverà sì e no all’anca?
«Forse sì».
Non salva proprio nessuno delle quattro di Sex and the city?
«Di Samantha salvo tutto. È lei l’idolo di quasi tutti gli uomini».
E Marsha, la ragazza di cui parla nel libro e con la quale ha vissuto un anno, a chi somigliava?
«A Charlotte. Più svampita, più viziata e meno romantica. Marsha è più “ienetta”».
Un’ultima domanda. Nel libro non si capisce bene il motivo per cui vi siete lasciati...
«Io volevo sesso e amore. Lei successo e carriera. Ma cosa vuole, nelle storie d’amore non si capisce mai».
Alessia Ercolini
Mauro Suttora è un giornalista, ha vissuto nell'Upper West Side, è uscito con ragazze di ogni tipo e ha scritto un libro. In questa intervista dice che le newyorkesi pensano solo a una cosa (e non è certo il sesso)
Grazia, 17 ottobre 2006
di Alessia Ercolini
Niente sesso a Manhattan. Nel senso che le newyorkesi a tutto pensano fuorché all’amore. Altro che 'Sex and the city' e le avventure sentimental-erotiche di Carrie Bradshow. Almeno è quanto sostiene Mauro Suttora, ultraquarantenne giornalista italiano del settimanale Oggi.
Per quattro anni Suttora ha vissuto e lavorato a Manhattan. Si è innamorato di ragazze che somigliavano ad Andrea, la coprotagonista del film evento 'Il Diavolo veste Prada' (ruolo interpretato da Anna Hathaway, al cinema dal 13 ottobre). È incappato nella «incantevole moglie di un ambasciatore» che pretendeva da lui una «scia-scia» (traduzione per chi non bazzica Manhattan: «champagne shower», ovvero doccia di champagne) ed è stato scaricato via mail da modelle troppo impegnate anche per dire addio a un uomo.
Per sfogarsi, Suttora ha raccontato le sue peripezie sentimentali sul settimanale 'New York Observer' e ora le ha raccolte in un libro dal titolo 'No sex in the city' (Cairo editore), dal 12 ottobre in libreria.
Che cosa ha imparato dalle ragazze di New York?
«Che tutto è molto divertente».
Che cosa? Fare sesso o non farlo?
«Tutto quanto. Le donne e gli uomini di New York sono molto affascinanti. Sarà che i quattro anni che ho vissuto lì per me sono stati un concentrato di 20 anni di vita in Italia».
A giudicare dal titolo, però, i brividi caldi sono stati pochi...
«Se uno cerca amore o sesso, lì ne trova pochissimo. Perché c’è una classifica di priorità: lavoro, carriera, soldi, casa, vestiti, automobile, jogging...»
Lei, invece, che cosa cercava?
«Ciò che normalmente cercano tutti. L’amore, ma anche il divertimento. Vent’anni fa la Grande Mela era una città erotica. Ora no, non è per niente sexy. Negli Anni 60 si diceva “fate l’amore non fate la guerra”. Adesso è il contrario».
Le donne del libro sono ridotte a macchiette.
«C’è tanta varietà, come ovunque, ma dopo un po’ di incontri e parlando con gli amici vedi che le differenze sostanziali con l’Europa sono ricorrenti».
Quali per esempio?
«Le donne di New York hanno tre cose positive. Primo, l’energia. Non si fanno mai abbattere da nulla. Secondo, la curiosità. Sono sempre pronte a sperimentare nuove cose. E poi le newyorkesi hanno dalla loro la semplicità, che si può sintetizzare nel look jeans e infradito. Le italiane sono molto più scettiche, chiuse, più spente, e certe volte troppo costruite. Però sanno cucinare, mediamente hanno un livello culturale più alto e sono più disinibite, passionali, insomma più spontanee. Le newyorkesi fanno poco l’amore e quando lo fanno raggiungono il piacere in modi stranissimi».
Lei si definisce un tipo passionale?
«Sì».
Alla fine, ha trovato ciò che cercava?
«Ora sì. Convivo con una non-americana».
Tra le righe dei racconti dei suoi flirt si percepisce una certa attenzione per le piccole spese (vada per le costose cene nei locali di Manhattan, ma per la famosa doccia di champagne sostituire il Moet&Chandon con del prosecco da dieci dollari ha probabilmente pregiudicato il buon esito della serata). Scusi Suttora, lei non sarà mica un po’ tirchio?
«In effetti sì. Diciamo che il mio stipendio, soprattutto a New York, mi costringeva a diventarlo. Sono entrato in contatto con questo mondo che era al di là delle mie possibilità. Poi ogni tanto sono stato preda di qualche follia, tipo affitare un elicottero».
Quanto bisognerebbe guadagnare per mantenersi dignitosamente a Manhattan in puro stile Sex and the city?
«Almeno 10mila dollari netti al mese. L’affitto può costare anche 4500 dollari. Ma per fortuna in quanto giornalista mi invitavano dappertutto, altrimenti non ce l’avrei fatta».
Ora che è rientrato a Roma, ha qualche rimpianto?
«Uno solo. Sandra Bullock. Quando l’ho incontrata per un’intervista non ho colto l’occasione: sono rimasto talemente abbacinato dalla bellezza e dalla sua semplicità che non sono riuscito a dire e a fare niente. Invece, avrei potuto invitarla a bere un caffè Lavazza, sotto la Libreria Rizzoli, sulla 57a strada. Al solo sentire la parola caffè italiano sarebbe impazzita a e avrebbe detto “Wow”. Insomma, ho perso un’occasione».
Ci spiega come mai le fanno tanto orrore le serate tra ragazze? Cito testualmente: «Una delle principali manie delle donne di New York, incomprensibile per noi uomini europei (...). È una consuetudine deprimentente per qualunque persona abbia superato la fase adolescenziale delle “amiche del cuore” o quella tardofemminista della “sorellanza”». Sa che anche in Italia talvolta le ragazze escono senza uomini?
«È atroce. È una delle americanate che hanno preso piede.
Crede davvero che le italiane abbiano avuto bisogno di scoprire le uscite da single dalle americane?
«È squallido quando ciò avviene a scadenza fissa una volta a settimana».
Già, per la sua ex fidanzata Marsha era il giovedì sera.
«Insomma, incontratevi per un caffè alle cinque, ma non lasciatemi da solo a casa per uscire da sole. Oppure fate finta di non escluderci».
E allora le quattro ragazze di Sex and the city?
«Detesto il clima da caserma al contrario. In ogni caso, questo decennio, toccando ferro che non ci siano più altri 11 settembre, passerà alla storia come quello di Sex and the city.
Le sue amiche newyorkesi guardavano quel serial?
«Lì era già finito nel 2004, ma ora lo stanno mandando in onda di nuovo: censurato, per poterlo trasmette in prima serata. Praticamente Samantha sta sempre zitta».
Ha mai incontrato Sarah Jessica Parker per le strade di Manhattan?
«Sì. È tremenda, brutta e antipatica. Se la tirava, non voleva parlare con nessuno. A New York incomprensibilmente lei è la più gettonata. Ma non è il mio tipo.
Solo perché lei è alto un metro e novanta e Carrie le arriverà sì e no all’anca?
«Forse sì».
Non salva proprio nessuno delle quattro di Sex and the city?
«Di Samantha salvo tutto. È lei l’idolo di quasi tutti gli uomini».
E Marsha, la ragazza di cui parla nel libro e con la quale ha vissuto un anno, a chi somigliava?
«A Charlotte. Più svampita, più viziata e meno romantica. Marsha è più “ienetta”».
Un’ultima domanda. Nel libro non si capisce bene il motivo per cui vi siete lasciati...
«Io volevo sesso e amore. Lei successo e carriera. Ma cosa vuole, nelle storie d’amore non si capisce mai».
Alessia Ercolini
Eutanasia: Piero Welby
Staccate tutto, voglio morire adesso
La storia di Piergiorgio Welby riaccende il dibattito sull' eutanasia
Con una lettera ha commosso il presidente Napolitano e ha scatenato la bagarre tra i politici. "Il tempo che passa per me ormai è fatto solo di tubi, sofferenze e terrore", scrive sul suo blog il malato di distrofia. E chiede di farla finita
di Mauro Suttora
Oggi, 30 settembre 2006
Roma, settembre "Ci hanno scritto 17 mila volte, è stato letto 365 mila volte": si legge nel forum "eutanasia" di Piergiorgio Welby, il sessantenne malato di distrofia muscolare che ha innescato il dibattito sulla "morte dolce" con la sua toccante lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Welby, ricoverato in ospedale a Roma, è completamente paralizzato da anni: respira con un tubo, viene nutrito con un altro tubo, non parla. Può solo muovere un dito, con questo comunica tramite computer. E scrive ogni giorno sul sito www.radicali.it, oltre che sul proprio blog www.calibano.ilcannocchiale.it. Il caso Welby è scoppiato da pochi giorni, ma la sua è una lunga battaglia. Il primo maggio 2002 apre il forum di Internet con queste poche parole: "Tutto fermo ? Altro che deserto dei Tartari... mentre si scruta l' orizzonte, i terminali come me invidiano gli olandesi... Svegliaaaa". Il riferimento d' attualità è alla legge contro l' accanimento terapeutico approvata in Olanda. La citazione è per il romanzo di Dino Buzzati, sinonimo di attese interminabili. Da allora, grazie al dialogo sviluppatosi sulla Rete, Welby scrive una marea di cose. È coltissimo e brillante, spazia da Eschilo a Bob Dylan, e giorno per giorno commenta l' attualità con tocco lieve e ironico. I suoi scritti sono raccolti in un volumetto, Il Calibano, edito dall' associazione Luca Coscioni (altro malato terminale, morto nel febbraio di quest' anno), da lui presieduta. "Dobbiamo riappropriarci del nostro diritto a una morte sottratta agli innumerevoli artifizi che una Techné priva di etica e schiava della sua volontà di potenza ci ha sottratto", esordisce Welby nel maggio 2002. "Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita verrà un giorno in cui dai centri di rianimazione usciranno schiere di morti viventi che finiranno a vegetare per anni... Dobbiamo imparare che morire è anche un processo di apprendimento, non solo il cadere in uno stato di incoscienza".
Anche i contrari all' eutanasia scrivono sul sito radicale, quindi il dibattito s'infiamma immediatamente: "Giovanni Paolo II si è presentato, come il cardinal Bellarmino a Galileo, e ha parlato agli scienziati di tutto il mondo per proibir loro la ricerca sugli embrioni", scrive Welby il 6 maggio 2002, "per convincerli ha detto una cosa sola: "La scienza deve sottostare alla Verità e la Verità sono Io... Ergo, se la scienza vuole un imprimatur di liceità deve seguire i nostri ukaze". E così morì Popper. il sostenitore del metodo trial and error, filosofo della verità irraggiungibile, strenuo negatore di ogni affermazione inconfutabile. "Ma la verità dei Ruini e dei Ratzinger non ha nulla a che fare con il concetto greco di verità. Per i greci la verità, Alètheia, viene da lanthano che vuol dire "coprire". Da lanthano proviene Lete, che è il fiume dell' oblio, il fiume che copre. Alètheia, con l' alfa privativo, è invece il contrario di ciò che si copre: è ciò che si scopre nel giudizio. Nel nostro ambito latino, Veritas è un termine che proviene dai Balcani (ahò, da lì vengono solo fregature !), e vuol dire tutt' altro che verità. Significava in origine "fede", nel significato più ampio della parola: in russo per esempio vara vuol dire fede. L' anello della fede si chiama anche vera, proprio perché questa origine slava è penetrata fino da noi: la vera è la fede. Quindi, nonostante i mea culpa per gli errori del passato, il messaggio della Chiesa non riguarda la verità: è una richiesta di fede".
Sempre nel 2002 un sondaggio dà una maggioranza degli italiani favorevoli all' eutanasia. Commenta Welby: "Fate un sondaggio tra noi terminali !... Bisogna fare in fretta, fretta... Il tempo che passa è pieno di tubi, orrori, sofferenze, terrore". E dopo le indagini della magistratura sulla fondazione Exit (quella che combatte l' accanimento terapeutico) scrive: "Conosco più infermieri e medici pronti a collaborare di quanti se ne possano immaginare... Ho creduto che l' eutanasia diventasse argomento di dibattito. Mi sbagliavo: la morte, o meglio, la volontà di affrontare i problemi che accompagnano la fine della vita, è la grande assente dalle nostre coscienze. L' accanimento terapeutico riguarda sempre qualcun altro... Il coma è la tragedia che dà pathos a un serial... La perdita dell' autonomia e della dignità che ne consegue vengono considerate fisime da depressi. Protetti contro tutto ciò dalle nostre piccole immortalità quotidiane ci avviciniamo, impreparati, a un appuntamento che abbiamo sempre voluto ignorare. "Hanno chiesto al filosofo Gadamer: c' è un diritto alla morte così come c' è un diritto alla vita ? Io risponderei: "Sì !". Si ha questo diritto, perché si è uomini liberi e perché lo scopo della terapia medica presuppone la persona; presuppone quindi che si abbia a che fare con un uomo il cui volere dev' essere rispettato. In questo senso non mi sembra affatto difficile rispondere alla domanda. Nella prassi diviene però molto più difficile poiché il morire, l' agonia stessa, è un lento paralizzarsi della libera possibilità di decidere in cui l' uomo vive come uomo consapevole e sano".
Maggio 2003: "In questa società cinica e indifferente, che ha fatto del disprezzo per la vita una sua griffe inconfondibile, è proibito ai malati senza speranza, ai sofferenti in stadio terminale, a tutti quelli insomma per i quali la vita è diventata una sofferenza indicibile e dove l' unico sollievo che hanno è la speranza di chiudere gli occhi la sera e non riaprirli al mattino, a loro è fatto divieto assoluto di morire conservando ancora un briciolo di dignità. Puoi far sopprimere un cane o un altro animale per risparmiargli dolori inutili, ma un uomo no ! Un uomo deve entrare nel circuito perverso di sale di rianimazione, tubi, sonde, cateteri, decubiti, puzzo di merda e di paura, mani impietose che incidono, raschiano, suturano, ispezionano, svuotano, aspirano... E tutto questo solo per un gioco infame chiamato progresso scientifico".
Il primo gennaio 2004 Welby si arrabbia perché l' allora presidente Ciampi nel suo messaggio di Capodanno non cita l' Anno dell' handicappato. "Ci aspettavamo di più: l' assistenza domiciliare per gli handicappati gravi che non si limitasse a poche ore e la commercializzazione dei libri su floppy disc. È incivile che i disabili, impossibilitati ad accedere ai libri, non possano leggere. Basterebbe un libro su floppy per restituire una possibilità di scelta che tutti hanno. Signor Presidente, il suo silenzio ha retrocesso in serie C una categoria di cittadini che già si trovava in serie B". Per sdrammatizzare, ogni tanto Welby commenta i fatti spiccioli della politica. Nel luglio 2005 scrive: "Fini spianta i Colonnelli,/ come fossero alberelli./ Non si secchi qualche aennista/ se sparisce dalla lista/ del botanico di Fiuggi,/ sarà presto un fuggi, fuggi/ di sequoia e piante rare / che si andranno a ripiantare/ nel giardin di Forza Italia,/ tra le rose e qualche dalia".
Quest'anno Welby riesce a vincere la battaglia "Per il diritto di voto delle persone intrasportabili": per la prima volta i disabili possono votare a domicilio. Il 30 giugno il suo sarcasmo allegro colpisce i verdi: "Il posto delle divinità è stato preso dagli ecointegralisti, e se Atteone moriva conservando negli occhi le forme sensuali e seducenti di una seguace di Artemide... oggi l' incauto escursionista potrebbe imbattersi in Paolo Cento nudo, quale punizione più terribile ?". Il 28 luglio commenta la guerra in Libano: "Bertolt Brecht sosteneva che quando i leader parlano di pace, la gente comune sa che la guerra sta per arrivare. Quando i leader maledicono la guerra, l' ordine di mobilitazione è già firmato".
Adesso l' aggravarsi della sua condizione, la spossatezza, la quasi impossibilità di usare anche il computer. La lettera a Napolitano ("Io amo la vita, vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico..."), e la grande commozione del Presidente, che gli ha subito risposto auspicando un dibattito parlamentare. Ma la ricchezza del sito di Welby rappresenta, paradossalmente, un inno all' esistenza e una spinta a non lasciarsi morire.
Mauro Suttora
La storia di Piergiorgio Welby riaccende il dibattito sull' eutanasia
Con una lettera ha commosso il presidente Napolitano e ha scatenato la bagarre tra i politici. "Il tempo che passa per me ormai è fatto solo di tubi, sofferenze e terrore", scrive sul suo blog il malato di distrofia. E chiede di farla finita
di Mauro Suttora
Oggi, 30 settembre 2006
Roma, settembre "Ci hanno scritto 17 mila volte, è stato letto 365 mila volte": si legge nel forum "eutanasia" di Piergiorgio Welby, il sessantenne malato di distrofia muscolare che ha innescato il dibattito sulla "morte dolce" con la sua toccante lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Welby, ricoverato in ospedale a Roma, è completamente paralizzato da anni: respira con un tubo, viene nutrito con un altro tubo, non parla. Può solo muovere un dito, con questo comunica tramite computer. E scrive ogni giorno sul sito www.radicali.it, oltre che sul proprio blog www.calibano.ilcannocchiale.it. Il caso Welby è scoppiato da pochi giorni, ma la sua è una lunga battaglia. Il primo maggio 2002 apre il forum di Internet con queste poche parole: "Tutto fermo ? Altro che deserto dei Tartari... mentre si scruta l' orizzonte, i terminali come me invidiano gli olandesi... Svegliaaaa". Il riferimento d' attualità è alla legge contro l' accanimento terapeutico approvata in Olanda. La citazione è per il romanzo di Dino Buzzati, sinonimo di attese interminabili. Da allora, grazie al dialogo sviluppatosi sulla Rete, Welby scrive una marea di cose. È coltissimo e brillante, spazia da Eschilo a Bob Dylan, e giorno per giorno commenta l' attualità con tocco lieve e ironico. I suoi scritti sono raccolti in un volumetto, Il Calibano, edito dall' associazione Luca Coscioni (altro malato terminale, morto nel febbraio di quest' anno), da lui presieduta. "Dobbiamo riappropriarci del nostro diritto a una morte sottratta agli innumerevoli artifizi che una Techné priva di etica e schiava della sua volontà di potenza ci ha sottratto", esordisce Welby nel maggio 2002. "Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita verrà un giorno in cui dai centri di rianimazione usciranno schiere di morti viventi che finiranno a vegetare per anni... Dobbiamo imparare che morire è anche un processo di apprendimento, non solo il cadere in uno stato di incoscienza".
Anche i contrari all' eutanasia scrivono sul sito radicale, quindi il dibattito s'infiamma immediatamente: "Giovanni Paolo II si è presentato, come il cardinal Bellarmino a Galileo, e ha parlato agli scienziati di tutto il mondo per proibir loro la ricerca sugli embrioni", scrive Welby il 6 maggio 2002, "per convincerli ha detto una cosa sola: "La scienza deve sottostare alla Verità e la Verità sono Io... Ergo, se la scienza vuole un imprimatur di liceità deve seguire i nostri ukaze". E così morì Popper. il sostenitore del metodo trial and error, filosofo della verità irraggiungibile, strenuo negatore di ogni affermazione inconfutabile. "Ma la verità dei Ruini e dei Ratzinger non ha nulla a che fare con il concetto greco di verità. Per i greci la verità, Alètheia, viene da lanthano che vuol dire "coprire". Da lanthano proviene Lete, che è il fiume dell' oblio, il fiume che copre. Alètheia, con l' alfa privativo, è invece il contrario di ciò che si copre: è ciò che si scopre nel giudizio. Nel nostro ambito latino, Veritas è un termine che proviene dai Balcani (ahò, da lì vengono solo fregature !), e vuol dire tutt' altro che verità. Significava in origine "fede", nel significato più ampio della parola: in russo per esempio vara vuol dire fede. L' anello della fede si chiama anche vera, proprio perché questa origine slava è penetrata fino da noi: la vera è la fede. Quindi, nonostante i mea culpa per gli errori del passato, il messaggio della Chiesa non riguarda la verità: è una richiesta di fede".
Sempre nel 2002 un sondaggio dà una maggioranza degli italiani favorevoli all' eutanasia. Commenta Welby: "Fate un sondaggio tra noi terminali !... Bisogna fare in fretta, fretta... Il tempo che passa è pieno di tubi, orrori, sofferenze, terrore". E dopo le indagini della magistratura sulla fondazione Exit (quella che combatte l' accanimento terapeutico) scrive: "Conosco più infermieri e medici pronti a collaborare di quanti se ne possano immaginare... Ho creduto che l' eutanasia diventasse argomento di dibattito. Mi sbagliavo: la morte, o meglio, la volontà di affrontare i problemi che accompagnano la fine della vita, è la grande assente dalle nostre coscienze. L' accanimento terapeutico riguarda sempre qualcun altro... Il coma è la tragedia che dà pathos a un serial... La perdita dell' autonomia e della dignità che ne consegue vengono considerate fisime da depressi. Protetti contro tutto ciò dalle nostre piccole immortalità quotidiane ci avviciniamo, impreparati, a un appuntamento che abbiamo sempre voluto ignorare. "Hanno chiesto al filosofo Gadamer: c' è un diritto alla morte così come c' è un diritto alla vita ? Io risponderei: "Sì !". Si ha questo diritto, perché si è uomini liberi e perché lo scopo della terapia medica presuppone la persona; presuppone quindi che si abbia a che fare con un uomo il cui volere dev' essere rispettato. In questo senso non mi sembra affatto difficile rispondere alla domanda. Nella prassi diviene però molto più difficile poiché il morire, l' agonia stessa, è un lento paralizzarsi della libera possibilità di decidere in cui l' uomo vive come uomo consapevole e sano".
Maggio 2003: "In questa società cinica e indifferente, che ha fatto del disprezzo per la vita una sua griffe inconfondibile, è proibito ai malati senza speranza, ai sofferenti in stadio terminale, a tutti quelli insomma per i quali la vita è diventata una sofferenza indicibile e dove l' unico sollievo che hanno è la speranza di chiudere gli occhi la sera e non riaprirli al mattino, a loro è fatto divieto assoluto di morire conservando ancora un briciolo di dignità. Puoi far sopprimere un cane o un altro animale per risparmiargli dolori inutili, ma un uomo no ! Un uomo deve entrare nel circuito perverso di sale di rianimazione, tubi, sonde, cateteri, decubiti, puzzo di merda e di paura, mani impietose che incidono, raschiano, suturano, ispezionano, svuotano, aspirano... E tutto questo solo per un gioco infame chiamato progresso scientifico".
Il primo gennaio 2004 Welby si arrabbia perché l' allora presidente Ciampi nel suo messaggio di Capodanno non cita l' Anno dell' handicappato. "Ci aspettavamo di più: l' assistenza domiciliare per gli handicappati gravi che non si limitasse a poche ore e la commercializzazione dei libri su floppy disc. È incivile che i disabili, impossibilitati ad accedere ai libri, non possano leggere. Basterebbe un libro su floppy per restituire una possibilità di scelta che tutti hanno. Signor Presidente, il suo silenzio ha retrocesso in serie C una categoria di cittadini che già si trovava in serie B". Per sdrammatizzare, ogni tanto Welby commenta i fatti spiccioli della politica. Nel luglio 2005 scrive: "Fini spianta i Colonnelli,/ come fossero alberelli./ Non si secchi qualche aennista/ se sparisce dalla lista/ del botanico di Fiuggi,/ sarà presto un fuggi, fuggi/ di sequoia e piante rare / che si andranno a ripiantare/ nel giardin di Forza Italia,/ tra le rose e qualche dalia".
Quest'anno Welby riesce a vincere la battaglia "Per il diritto di voto delle persone intrasportabili": per la prima volta i disabili possono votare a domicilio. Il 30 giugno il suo sarcasmo allegro colpisce i verdi: "Il posto delle divinità è stato preso dagli ecointegralisti, e se Atteone moriva conservando negli occhi le forme sensuali e seducenti di una seguace di Artemide... oggi l' incauto escursionista potrebbe imbattersi in Paolo Cento nudo, quale punizione più terribile ?". Il 28 luglio commenta la guerra in Libano: "Bertolt Brecht sosteneva che quando i leader parlano di pace, la gente comune sa che la guerra sta per arrivare. Quando i leader maledicono la guerra, l' ordine di mobilitazione è già firmato".
Adesso l' aggravarsi della sua condizione, la spossatezza, la quasi impossibilità di usare anche il computer. La lettera a Napolitano ("Io amo la vita, vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico..."), e la grande commozione del Presidente, che gli ha subito risposto auspicando un dibattito parlamentare. Ma la ricchezza del sito di Welby rappresenta, paradossalmente, un inno all' esistenza e una spinta a non lasciarsi morire.
Mauro Suttora
Wednesday, October 18, 2006
intervista ad Alain Elkann
Ci chiamiamo Agnelli ma siamo dei leoni
«Trascorro molto tempo a Torino per stare vicino al piccolo Leone», dice lo scrittore, che ha appena pubblicato il romanzo «L’invidia». «Ammiro la forza d’animo dei miei figli»
Oggi, 18 ottobre 2006
di Mauro Suttora
l mio nipotino Leone si è dimostrato simpaticissimo fin dall’inizio: nascendo un po’ prematuro mi ha permesso di dedicargli questo libro. Non sapevamo se ne avremmo avuto il tempo, dovevamo andare in stampa, c’è stata un po’ di suspense... Ma lui ha risolto ogni problema».
Alain Elkann è nonno a 56 anni. E sembra strano, perché ne dimostra venti di meno. Il padre di John (Yaki), principale erede della famiglia Agnelli e vicepresidente Fiat, ha avuto questo regalo meno di due mesi fa dalla nuora Lavinia Borromeo, anche se non ha partecipato alla scelta del nome: «Leone suona forte, solare, internazionale: mi piace. Va bene, per un maschio primogenito. E poi comincia per elle, una lettera di famiglia: come Lavinia e Lapo...»
A proposito, come sta l’altro suo figlio, dopo la disavventura di un anno fa?
«È a New York, sta benissimo ed è felice, nonostante sia braccato dai paparazzi. Da padre, sono orgoglioso di come si sia risollevato da solo. Sono contento per lui, ora lo vedo tranquillo. Ha saputo superare questo incidente della vita con carattere, coraggio e forza di volontà. Sono qualità che apprezzo molto in lui. Si sapeva già che Lapo è generoso e disponibile, ora ha dimostrato di essere anche un uomo forte».
Che rapporto ha con i suoi figli?
«Ottimi rapporti con tutti e tre, mi piacciono le famiglie unite. Con la nascita di Leone ho provato una gioia immensa, perché vedo la famiglia che continua: diventare genitori è una grande e bella avventura, lo è stato per me e lo è oggi per mio figlio Yaki».
Lei però è sempre in giro per il mondo: Roma, New York, Parigi, Londra. Come fa a stare vicino ai figli?
«Ho avuto l’onore di essere nominato presidente della fondazione del Museo egizio a Torino. Così ora mia moglie Rosi ed io viviamo metà del nostro tempo a Moncalieri, nella casa di mia madre, e metà a Roma. Sono contento che Rosi si trovi bene a Torino, è diventata anche per lei una seconda patria elettiva. Per me questo incarico nel museo è un grande privilegio. E, ovviamente, ci permette di stare più vicini a Lavinia, Leone e Yaki».
E sua figlia Ginevra?
«Sta a Londra, fa la regista, il suo primo film 'Vado a messa' è stato apprezzato nei festival di Miami, Venezia, Guadalajara... Con lei ho un ottimo rapporto, che in parte descrivo anche nel mio libro, con confessioni abbastanza profonde e rivelatrici. A proposito, quando parliamo del libro? Perché lei continua a chiedermi dei parenti...»
Caro Elkann, siamo un settimanale familiare, quindi di famiglie e parenti siamo curiosissimi. D’altra parte, anche questo suo ultimo libro (L’Invidia, edito da Bompiani) è parecchio autobiografico. Per esempio, la sua seconda moglie Rosi Greco [che durante l’intervista siede sempre accanto ad Alain, sul divano della bella casa romana, ndr] è presentissima nel libro. Aver chiamato «Rossa» la moglie del protagonista, il quale scrive in prima persona, è un indizio plateale. E lei ne sembra assai geloso: non vuole che Rossa incontri il pittore Julian Sax (di cui è invidioso) perché teme che alla fine, con la scusa di farle un ritratto, quello riuscirebbe a portarsela a letto.
A proposito, chi è nella realtà questo Sax che la ossessiona tanto?
«Sax è un grande artista, un pittore internazionale quotatissimo che il protagonista del mio libro vorrebbe intervistare. Ma si rivela inarrivabile, strafottente, antipatico. E alla fine il protagonista pensa perfino di ucciderlo».
Ci riesce?
«Lo scoprirà il lettore».
Lei ha mai invidiato qualcuno in questo modo?
«L’invidia è un peccato tremendo, uno dei sette vizi capitali. Ma esiste anche un tipo di invidia positiva che è una forma di rispetto e venerazione verso qualche personaggio assai speciale, da parte di qualcuno ben conscio di non possedere quel talento. L’invidia è un difetto diffusissimo in Italia, dove si tende a essere riduttivi e a non riconoscere il genio. Quando invece si prova sincera ammirazione per un grande artista - o uno scienziato, un politico, un industriale - non c’è niente di male se la si vive ed esprime. Senza arrivare all’ossessione, come capita al mio personaggio».
Non ha risposto alla domanda. Fuori i nomi.
«Tutti i grandi pittori, alcuni dei quali ho conosciuto personalmente. Francis Bacon, per esempio, l’ho addirittura pedinato a Parigi una trentina d’anni fa, dopo averlo incrociato per caso in boulevard Saint Germain vicino alla brasserie Lipp. Era un uomo piccolo, camminava fermandosi davanti alle vetrine di negozi di vestiti. Volevo scoprire dove andava. Ho potuto invece soddisfare la mia curiosità con Balthus, che ho conosciuto in Svizzera: elegante come un principe, fumava in continuazione e gli portavano sigarette e whisky su un vassoio. Aveva una moglie giapponese, pittrice anche lei, ma sinceramente non l’ho invidiato. Ammiro la sua opera, tanto che ho messo un suo quadro del 1949 nella copertina del libro: un gatto che mangia un pesce, sta appeso in un ristorante a Parigi».
Perché è attratto dai pittori?
«Perché da piccolo avrei voluto dipingere. Ma tutti gli artisti mi affascinano, desidero conoscerli. Ho incontrato Truman Capote agli Hamptons, vicino a New York: piccolo di statura, voce da bimbo, possedeva acutezza di giudizio e un’intelligenza cattiva, che amava esercitare contro il suo avversario Gore Vidal. Fra gli italiani mi colpì molto Leonardo Sciascia. Una sera lo incontrai alla libreria Einaudi di Milano con Elvira Sellerio, e poiché andavo a Parigi mi chiese di chiedere a Milan Kundera una prefazione per Jacques le Fataliste di Diderot. Così conobbi Kundera. Ma sono attratto da tutti gli uomini che creano qualcosa di grande da soli, i self-made men...»
Mentre i suoi figli portano avanti l’eredità Fiat.
«Provo un grande... mi lasci trovare la parola giusta... rispetto per i miei figli, che hanno dovuto assumere ruoli aziendali in età molto giovane. Questo ha tolto loro la giusta spensieratezza che i ragazzi dovrebbero avere. Il loro è un destino privilegiato, ma anche molto difficile».
Mauro Suttora
«Trascorro molto tempo a Torino per stare vicino al piccolo Leone», dice lo scrittore, che ha appena pubblicato il romanzo «L’invidia». «Ammiro la forza d’animo dei miei figli»
Oggi, 18 ottobre 2006
di Mauro Suttora
l mio nipotino Leone si è dimostrato simpaticissimo fin dall’inizio: nascendo un po’ prematuro mi ha permesso di dedicargli questo libro. Non sapevamo se ne avremmo avuto il tempo, dovevamo andare in stampa, c’è stata un po’ di suspense... Ma lui ha risolto ogni problema».
Alain Elkann è nonno a 56 anni. E sembra strano, perché ne dimostra venti di meno. Il padre di John (Yaki), principale erede della famiglia Agnelli e vicepresidente Fiat, ha avuto questo regalo meno di due mesi fa dalla nuora Lavinia Borromeo, anche se non ha partecipato alla scelta del nome: «Leone suona forte, solare, internazionale: mi piace. Va bene, per un maschio primogenito. E poi comincia per elle, una lettera di famiglia: come Lavinia e Lapo...»
A proposito, come sta l’altro suo figlio, dopo la disavventura di un anno fa?
«È a New York, sta benissimo ed è felice, nonostante sia braccato dai paparazzi. Da padre, sono orgoglioso di come si sia risollevato da solo. Sono contento per lui, ora lo vedo tranquillo. Ha saputo superare questo incidente della vita con carattere, coraggio e forza di volontà. Sono qualità che apprezzo molto in lui. Si sapeva già che Lapo è generoso e disponibile, ora ha dimostrato di essere anche un uomo forte».
Che rapporto ha con i suoi figli?
«Ottimi rapporti con tutti e tre, mi piacciono le famiglie unite. Con la nascita di Leone ho provato una gioia immensa, perché vedo la famiglia che continua: diventare genitori è una grande e bella avventura, lo è stato per me e lo è oggi per mio figlio Yaki».
Lei però è sempre in giro per il mondo: Roma, New York, Parigi, Londra. Come fa a stare vicino ai figli?
«Ho avuto l’onore di essere nominato presidente della fondazione del Museo egizio a Torino. Così ora mia moglie Rosi ed io viviamo metà del nostro tempo a Moncalieri, nella casa di mia madre, e metà a Roma. Sono contento che Rosi si trovi bene a Torino, è diventata anche per lei una seconda patria elettiva. Per me questo incarico nel museo è un grande privilegio. E, ovviamente, ci permette di stare più vicini a Lavinia, Leone e Yaki».
E sua figlia Ginevra?
«Sta a Londra, fa la regista, il suo primo film 'Vado a messa' è stato apprezzato nei festival di Miami, Venezia, Guadalajara... Con lei ho un ottimo rapporto, che in parte descrivo anche nel mio libro, con confessioni abbastanza profonde e rivelatrici. A proposito, quando parliamo del libro? Perché lei continua a chiedermi dei parenti...»
Caro Elkann, siamo un settimanale familiare, quindi di famiglie e parenti siamo curiosissimi. D’altra parte, anche questo suo ultimo libro (L’Invidia, edito da Bompiani) è parecchio autobiografico. Per esempio, la sua seconda moglie Rosi Greco [che durante l’intervista siede sempre accanto ad Alain, sul divano della bella casa romana, ndr] è presentissima nel libro. Aver chiamato «Rossa» la moglie del protagonista, il quale scrive in prima persona, è un indizio plateale. E lei ne sembra assai geloso: non vuole che Rossa incontri il pittore Julian Sax (di cui è invidioso) perché teme che alla fine, con la scusa di farle un ritratto, quello riuscirebbe a portarsela a letto.
A proposito, chi è nella realtà questo Sax che la ossessiona tanto?
«Sax è un grande artista, un pittore internazionale quotatissimo che il protagonista del mio libro vorrebbe intervistare. Ma si rivela inarrivabile, strafottente, antipatico. E alla fine il protagonista pensa perfino di ucciderlo».
Ci riesce?
«Lo scoprirà il lettore».
Lei ha mai invidiato qualcuno in questo modo?
«L’invidia è un peccato tremendo, uno dei sette vizi capitali. Ma esiste anche un tipo di invidia positiva che è una forma di rispetto e venerazione verso qualche personaggio assai speciale, da parte di qualcuno ben conscio di non possedere quel talento. L’invidia è un difetto diffusissimo in Italia, dove si tende a essere riduttivi e a non riconoscere il genio. Quando invece si prova sincera ammirazione per un grande artista - o uno scienziato, un politico, un industriale - non c’è niente di male se la si vive ed esprime. Senza arrivare all’ossessione, come capita al mio personaggio».
Non ha risposto alla domanda. Fuori i nomi.
«Tutti i grandi pittori, alcuni dei quali ho conosciuto personalmente. Francis Bacon, per esempio, l’ho addirittura pedinato a Parigi una trentina d’anni fa, dopo averlo incrociato per caso in boulevard Saint Germain vicino alla brasserie Lipp. Era un uomo piccolo, camminava fermandosi davanti alle vetrine di negozi di vestiti. Volevo scoprire dove andava. Ho potuto invece soddisfare la mia curiosità con Balthus, che ho conosciuto in Svizzera: elegante come un principe, fumava in continuazione e gli portavano sigarette e whisky su un vassoio. Aveva una moglie giapponese, pittrice anche lei, ma sinceramente non l’ho invidiato. Ammiro la sua opera, tanto che ho messo un suo quadro del 1949 nella copertina del libro: un gatto che mangia un pesce, sta appeso in un ristorante a Parigi».
Perché è attratto dai pittori?
«Perché da piccolo avrei voluto dipingere. Ma tutti gli artisti mi affascinano, desidero conoscerli. Ho incontrato Truman Capote agli Hamptons, vicino a New York: piccolo di statura, voce da bimbo, possedeva acutezza di giudizio e un’intelligenza cattiva, che amava esercitare contro il suo avversario Gore Vidal. Fra gli italiani mi colpì molto Leonardo Sciascia. Una sera lo incontrai alla libreria Einaudi di Milano con Elvira Sellerio, e poiché andavo a Parigi mi chiese di chiedere a Milan Kundera una prefazione per Jacques le Fataliste di Diderot. Così conobbi Kundera. Ma sono attratto da tutti gli uomini che creano qualcosa di grande da soli, i self-made men...»
Mentre i suoi figli portano avanti l’eredità Fiat.
«Provo un grande... mi lasci trovare la parola giusta... rispetto per i miei figli, che hanno dovuto assumere ruoli aziendali in età molto giovane. Questo ha tolto loro la giusta spensieratezza che i ragazzi dovrebbero avere. Il loro è un destino privilegiato, ma anche molto difficile».
Mauro Suttora
I vizi onorevoli
Dopo le «Iene». Nel Palazzo il peccato non è solo lo spinello
Tossicomani (tracce di hashish e cocaina per 16 su 50), ignoranti (non sanno cosa sono Consob e Darfur), strapagati, scansafatiche. E molti hanno conti aperti con la giustizia
Oggi, 16 ottobre 2006
Sono 952. Sono ignoranti: alcuni di loro non sanno cos’è la Consob, dov’è il Darfur, chi è Nelson Mandela. Si drogano: un test a sorpresa del programma tv Le Iene ha trovato tracce di hashish e cocaina addirittura in tre su dieci di loro. Sono i più pagati d’Europa: novemila euro netti al mese, più varie migliaia in benefit. E decidono da soli i propri stipendi, senza controlli esterni. Però lavorano in media solo tre giorni alla settimana. E sono fra i più numerosi al mondo: gli Stati Uniti hanno cinque volte i nostri abitanti, ma meno di un terzo dei nostri senatori.
Uno su dodici ha guai con la giustizia: 80, infatti, risultano i pregiudicati, imputati e indagati. «Diversamente onesti», li definisce sarcastico Marco Travaglio. E occupano sempre più spazio: vent’anni fa Senato e Camera avevano sei palazzi nel centro di Roma, ora ne hanno una trentina. Ma li abbiamo eletti noi, si potrebbe obiettare. Non è più così: alle ultime politiche di aprile una nuova legge ci ha permesso di votare i partiti, non i singoli candidati. Le liste infatti erano «bloccate», prendere o lasciare.
Sono i nostri parlamentari: quasi un migliaio, fra 630 deputati e 322 senatori. La scorsa settimana hanno subìto un duplice attacco da parte delle Iene. Hanno dovuto rispondere a bruciapelo a domande di attualità, e alcuni hanno esibito strafalcioni notevoli.
Elisabetta Gardini, portavoce di Forza Italia, non sapeva cos’è la Consob (Commissione nazionale per le società e la Borsa), l’organo che controlla le aziende quotate. Il Darfur, secondo il suo collega di partito Giuseppe Fini, «sono cose fatte in fretta»: si è confuso col fast food, «è una moda non italiana, noi siamo il popolo del buon mangiare...». Ma anche a sinistra emergono lacune. Pietro Squeglia dell’Ulivo è in difficoltà a spiegare che il Darfur è una regione del Sudan devastata da un genocidio.
Francesco Paolo Lucchese (Udc) crede che Mandela, premio Nobel della Pace, liberatore e presidente del Sudafrica, sia brasiliano. Neanche Francesco De Luca (Dc) e Maria Ida Germontani (An) sanno bene chi sia. Aleandro Longhi (Ulivo) confonde il presidente del Venezuela Chavez con un non meglio precisato «Gomez». E Giampaolo Fogliardi (Margherita) sostiene che con l’effetto serra la Terra si raffredda.
«Embè? Che c’è di strano? I parlamentari sono lo specchio del Paese, i rappresentanti degli italiani», commenta Clemente Mastella. «Quindi li rappresentiamo, con tutti i loro vizi, virtù e piccole ignoranze. Non siamo né meglio né peggio».
«Rivendico il mio diritto a non ricordare che cosa sia la Consob», si spiega la Gardini con Oggi, «figurarsi se fra le migliaia di sigle in circolazione si possono memorizzare tutte. E poi le Iene mi hanno fatto una quindicina di domande, ma hanno mandato in onda solo l’unica cui non ho saputo rispondere. Così sono stati trattati tutti i miei colleghi, le risposte esatte le hanno cancellate. L’unico scopo era prenderci in giro. Io le pagine di economia dei quotidiani le leggo, devo dire che se magari la Consob fosse un po’ piu’ attiva a tutelare i risparmiatori, forse ci si ricorderebbe meglio il suo nome...».
Un terzo di 50 onorevoli testati risulta aver consumato hashish (in 12 casi) o cocaina (in quattro) nelle 36 ore precedenti. Anche in questo caso la colpa è delle Iene. Grazie a uno stratagemma, gli inviati del programma si sono procurati campioni del sudore dei parlamentari: facendo finta di intervistarli, li hanno prelevati con un tampone con la scusa di detergere loro la fronte prima delle riprese. Ne è nato un caso politico così imbarazzante che il garante della privacy ha vietato la messa in onda della trasmissione. «No, abbiamo solo vietato la raccolta illegittima di dati sanitari privati», si arrampica un po’ sui vetri Mauro Paissan dell’Authority, anch’egli un ex politico.
«Ma i cittadini hanno il diritto di sapere se i parlamentari che hanno eletto sono tossicodipendenti», obietta l’ex presidente della Camera Pierferdinando Casini. E propone che l’antidoping sia obbligatorio. Detto fatto: il suo collega di partito Carlo Giovanardi è corso subito a farsi analizzare, per dimostrare di essere «pulito: «I controlli devono essere effettuati a sorpresa, altrimenti sono inutili», precisa Casini. A onor del vero, molti dei 50 parlamentari «tamponati» hanno poi firmato una liberatoria per far andare in onda Le Iene. Ma il garante è stato più realista del re, anche se la trasmissione avrebbe evitato di divulgare i nomi dei singoli trovati con tracce di stupefacenti.
«Altro che privacy: io, Lapo Elkann e tanti sportivi siamo stati sbattuti in prima pagina per la droga. Vengono tutelati solo i politici», commenta Fiorello. «Capisco che per noi parlamentari, in quanto persone pubbliche, ci sia un maggiore obbligo di pubblicità», ragiona con Oggi Marina Sereni, vicepresidente dei 218 deputati dell’Ulivo, «però chi viene sottoposto a controlli medici dev’essere consenziente. Altrimenti la vita di tutti potrebbe essere attraversata da scorrerie di programmi tv. Io non discuto gli stili di vita di certi miei colleghi...»
Però i suoi colleghi, a maggioranza, hanno approvato una legge che spedisce in galera chi si droga: predicano bene ma razzolano male. «Mi auguro che costoro abbiano votato contro la legge sulla droga, che noi non abbiamo approvato», risponde l’onorevole Sereni, «ma quanto al predicare in un modo e al razzolare in un altro l’ipocrisia abbonda: quanti divorziati e conviventi fra certi difensori della famiglia, per esempio... Mi preme dire, tuttavia, che non mi pare giusto che a fare notizia siano pochi parlamentari ignoranti o con problemi di droga, e non le decine di colleghi che svolgono con competenza il proprio lavoro quotidiano. Certo, non c’è niente di clamoroso nelle attività delle commissioni, per esempio, ma se si dà rilievo solo a episodi marginali per stupire o far ridere il pubblico non si coglie la sostanza di quel che succede ogni giorno in Parlamento».
Ma è normale che i deputati ignorino certe cose? «No, e ammetto che sono rimasta sconcertata», dice la vicepresidente Sereni, «perché basta leggere i giornali e guardare i Tg per essere informati sugli argomenti chiesti. Quanto al dilemma se i rappresentanti debbano o no essere migliori dei propri rappresentati, spero solo che essi mantengano il contatto con la realtà della vita di ogni giorno. Solo così si possono conoscere i problemi veri che i nostri elettori ci chiedono di risolvere».
Non si fa qualunquismo, però, se si nota, come ha fatto Travaglio nel suo libro Onorevoli Wanted (Editori Riuniti, 2006), che ben altre nuvole, oltre all’ignoranza, offuscano la credibilità dei nostri parlamentari. Fra di loro, infatti, i pregiudicati (cioè condannati penalmente con sentenza definitiva) sono ben 25. E aggiungendo indagati (19), imputati (18), prescritti (10) e condannati in primo grado (8), si arriva a 80. Tutti i partiti sono rappresentati in questo elenco, tranne Verdi e Comunisti italiani.
I condannati definitivi hanno commesso reati che vanno dalla banda armata alla corruzione, dal concorso in omicidio alla bancarotta, dall’incendio aggravato alla fabbricazione e detenzione di ordigni esplosivi... Oltre che spinellare, sniffare e leggere poco i giornali, anche questo hanno fatto i nostri «onorevoli».
Mauro Suttora
Tossicomani (tracce di hashish e cocaina per 16 su 50), ignoranti (non sanno cosa sono Consob e Darfur), strapagati, scansafatiche. E molti hanno conti aperti con la giustizia
Oggi, 16 ottobre 2006
Sono 952. Sono ignoranti: alcuni di loro non sanno cos’è la Consob, dov’è il Darfur, chi è Nelson Mandela. Si drogano: un test a sorpresa del programma tv Le Iene ha trovato tracce di hashish e cocaina addirittura in tre su dieci di loro. Sono i più pagati d’Europa: novemila euro netti al mese, più varie migliaia in benefit. E decidono da soli i propri stipendi, senza controlli esterni. Però lavorano in media solo tre giorni alla settimana. E sono fra i più numerosi al mondo: gli Stati Uniti hanno cinque volte i nostri abitanti, ma meno di un terzo dei nostri senatori.
Uno su dodici ha guai con la giustizia: 80, infatti, risultano i pregiudicati, imputati e indagati. «Diversamente onesti», li definisce sarcastico Marco Travaglio. E occupano sempre più spazio: vent’anni fa Senato e Camera avevano sei palazzi nel centro di Roma, ora ne hanno una trentina. Ma li abbiamo eletti noi, si potrebbe obiettare. Non è più così: alle ultime politiche di aprile una nuova legge ci ha permesso di votare i partiti, non i singoli candidati. Le liste infatti erano «bloccate», prendere o lasciare.
Sono i nostri parlamentari: quasi un migliaio, fra 630 deputati e 322 senatori. La scorsa settimana hanno subìto un duplice attacco da parte delle Iene. Hanno dovuto rispondere a bruciapelo a domande di attualità, e alcuni hanno esibito strafalcioni notevoli.
Elisabetta Gardini, portavoce di Forza Italia, non sapeva cos’è la Consob (Commissione nazionale per le società e la Borsa), l’organo che controlla le aziende quotate. Il Darfur, secondo il suo collega di partito Giuseppe Fini, «sono cose fatte in fretta»: si è confuso col fast food, «è una moda non italiana, noi siamo il popolo del buon mangiare...». Ma anche a sinistra emergono lacune. Pietro Squeglia dell’Ulivo è in difficoltà a spiegare che il Darfur è una regione del Sudan devastata da un genocidio.
Francesco Paolo Lucchese (Udc) crede che Mandela, premio Nobel della Pace, liberatore e presidente del Sudafrica, sia brasiliano. Neanche Francesco De Luca (Dc) e Maria Ida Germontani (An) sanno bene chi sia. Aleandro Longhi (Ulivo) confonde il presidente del Venezuela Chavez con un non meglio precisato «Gomez». E Giampaolo Fogliardi (Margherita) sostiene che con l’effetto serra la Terra si raffredda.
«Embè? Che c’è di strano? I parlamentari sono lo specchio del Paese, i rappresentanti degli italiani», commenta Clemente Mastella. «Quindi li rappresentiamo, con tutti i loro vizi, virtù e piccole ignoranze. Non siamo né meglio né peggio».
«Rivendico il mio diritto a non ricordare che cosa sia la Consob», si spiega la Gardini con Oggi, «figurarsi se fra le migliaia di sigle in circolazione si possono memorizzare tutte. E poi le Iene mi hanno fatto una quindicina di domande, ma hanno mandato in onda solo l’unica cui non ho saputo rispondere. Così sono stati trattati tutti i miei colleghi, le risposte esatte le hanno cancellate. L’unico scopo era prenderci in giro. Io le pagine di economia dei quotidiani le leggo, devo dire che se magari la Consob fosse un po’ piu’ attiva a tutelare i risparmiatori, forse ci si ricorderebbe meglio il suo nome...».
Un terzo di 50 onorevoli testati risulta aver consumato hashish (in 12 casi) o cocaina (in quattro) nelle 36 ore precedenti. Anche in questo caso la colpa è delle Iene. Grazie a uno stratagemma, gli inviati del programma si sono procurati campioni del sudore dei parlamentari: facendo finta di intervistarli, li hanno prelevati con un tampone con la scusa di detergere loro la fronte prima delle riprese. Ne è nato un caso politico così imbarazzante che il garante della privacy ha vietato la messa in onda della trasmissione. «No, abbiamo solo vietato la raccolta illegittima di dati sanitari privati», si arrampica un po’ sui vetri Mauro Paissan dell’Authority, anch’egli un ex politico.
«Ma i cittadini hanno il diritto di sapere se i parlamentari che hanno eletto sono tossicodipendenti», obietta l’ex presidente della Camera Pierferdinando Casini. E propone che l’antidoping sia obbligatorio. Detto fatto: il suo collega di partito Carlo Giovanardi è corso subito a farsi analizzare, per dimostrare di essere «pulito: «I controlli devono essere effettuati a sorpresa, altrimenti sono inutili», precisa Casini. A onor del vero, molti dei 50 parlamentari «tamponati» hanno poi firmato una liberatoria per far andare in onda Le Iene. Ma il garante è stato più realista del re, anche se la trasmissione avrebbe evitato di divulgare i nomi dei singoli trovati con tracce di stupefacenti.
«Altro che privacy: io, Lapo Elkann e tanti sportivi siamo stati sbattuti in prima pagina per la droga. Vengono tutelati solo i politici», commenta Fiorello. «Capisco che per noi parlamentari, in quanto persone pubbliche, ci sia un maggiore obbligo di pubblicità», ragiona con Oggi Marina Sereni, vicepresidente dei 218 deputati dell’Ulivo, «però chi viene sottoposto a controlli medici dev’essere consenziente. Altrimenti la vita di tutti potrebbe essere attraversata da scorrerie di programmi tv. Io non discuto gli stili di vita di certi miei colleghi...»
Però i suoi colleghi, a maggioranza, hanno approvato una legge che spedisce in galera chi si droga: predicano bene ma razzolano male. «Mi auguro che costoro abbiano votato contro la legge sulla droga, che noi non abbiamo approvato», risponde l’onorevole Sereni, «ma quanto al predicare in un modo e al razzolare in un altro l’ipocrisia abbonda: quanti divorziati e conviventi fra certi difensori della famiglia, per esempio... Mi preme dire, tuttavia, che non mi pare giusto che a fare notizia siano pochi parlamentari ignoranti o con problemi di droga, e non le decine di colleghi che svolgono con competenza il proprio lavoro quotidiano. Certo, non c’è niente di clamoroso nelle attività delle commissioni, per esempio, ma se si dà rilievo solo a episodi marginali per stupire o far ridere il pubblico non si coglie la sostanza di quel che succede ogni giorno in Parlamento».
Ma è normale che i deputati ignorino certe cose? «No, e ammetto che sono rimasta sconcertata», dice la vicepresidente Sereni, «perché basta leggere i giornali e guardare i Tg per essere informati sugli argomenti chiesti. Quanto al dilemma se i rappresentanti debbano o no essere migliori dei propri rappresentati, spero solo che essi mantengano il contatto con la realtà della vita di ogni giorno. Solo così si possono conoscere i problemi veri che i nostri elettori ci chiedono di risolvere».
Non si fa qualunquismo, però, se si nota, come ha fatto Travaglio nel suo libro Onorevoli Wanted (Editori Riuniti, 2006), che ben altre nuvole, oltre all’ignoranza, offuscano la credibilità dei nostri parlamentari. Fra di loro, infatti, i pregiudicati (cioè condannati penalmente con sentenza definitiva) sono ben 25. E aggiungendo indagati (19), imputati (18), prescritti (10) e condannati in primo grado (8), si arriva a 80. Tutti i partiti sono rappresentati in questo elenco, tranne Verdi e Comunisti italiani.
I condannati definitivi hanno commesso reati che vanno dalla banda armata alla corruzione, dal concorso in omicidio alla bancarotta, dall’incendio aggravato alla fabbricazione e detenzione di ordigni esplosivi... Oltre che spinellare, sniffare e leggere poco i giornali, anche questo hanno fatto i nostri «onorevoli».
Mauro Suttora
Monday, October 09, 2006
intervista a Debora Sottile
Oggi, 20 settembre 2006
«No, non l’ho mai fatto dormire sul divano. No, non l’ho cacciato dalla nostra stanza, neppure per una notte. Siamo sempre stati nello stesso letto. Anche perché ho paura di dormire da sola».
Uomini d’Italia, trovatevele così le vostre mogli. Paurose, premurose, affettuose. Perennemente e ineluttabilmente innamorate. Come la «sottiletta»: così avevano soprannominato dalle parti di via della Scrofa (sede del Msi, oggi di An) Deborah Chiappini, 32 anni, bellissima ragazza della Spezia laureata in legge a Parma, conosciuta nove anni fa e sposata nel 2000 da Salvatore (Salvo) Sottile, 48 anni, già numero due del numero due d’Italia.
Sì, perché lo sventurato Sottile fino a giugno era portavoce di Gianfranco Fini, vice di Silvio Berlusconi. Poi è arrivata Vallettopoli, e lui è passato alla storia per certi epiteti intercettati al telefono, come il «Porcella doc» riferito a Maria La Rosa in arte Monsé, quasi sua concittadina (lui di Milazzo, lei di Catania). Oppure il «piccola ma compatta come una Smart» riferito a un’altra attricetta in cerca di fortuna alla Rai. Definizioni impagabili, ma pagate da Salvo con il ludibrio nazionale e la fama di maiale. E, oggi, con una «vacanza e pausa di riflessione».
Lei però, la moglie Deborah, non ci sta. E per la prima volta apre la porta di casa Sottile a un giornalista. Ecco, ora mi tocca intervistare la cornuta che difende il marito, penso incattivito dal caldo umido mentre salgo sull’autobus 913 per i tornanti di Monte Mario. Mi ammansisco quando vedo l’entrata della casa di Belsito: appartamento al primo piano di un palazzo piccolo-borghese, quasi popolare, rumore infernale di traffico dalla strada. Dopo tutto il gran parlare della Destra che ha perso la testa, degli ex fascisti che appena arrivati al potere per la prima volta si sono messi a magnare come tutti gli altri politici e per di più a trombarsi donne alla Farnesina come il Duce a palazzo Venezia, questa non sembra proprio la dimora principesca di un arricchito a spese del contribuente. Nessuna villa sulla via Appia come ai tempi di Bettino, tanto per intenderci.
Poi, quando Deborah mi apre la porta, rimango colpito positivamente nell’ordine da: i suoi occhi azzurri, la scollatura e la minigonna. Quale onore per il fotografo di Oggi. L’addetta stampa di Sottile mi prega di scrivere il nome del truccatore, Simone Belli, che le darà una ripassata fra l’intervista e la seduta fotografica. Come no.
Ci sediamo imbarazzati sul divano. Io non ho domande. «Mi racconti tutto dall’inizio», le propongo. Lei ci sta: «Nel tardo pomeriggio di un venerdì di giugno ero fuori a far spese. Salvo mi telefona: “Raggiungimi subito a casa”. Aveva un tono strano, di solito è sempre allegro. Quando arrivo lui non c’è. Dopo un po’ entra assieme all’avvocato e a tre poliziotti in borghese. Vengono dal commissariato, dove gli hanno notificato gli arresti domiciliari. “Non preoccuparti, dovrò stare a casa qualche giorno”, mi dice. Ma vedo che è sconvolto. Né lui né io eravamo preparati a una cosa del genere. Non c’era stato sentore di nulla, un fulmine a ciel sereno. Sull’ordinanza si parla di Vittorio Emanuele e di altri personaggi che mio marito non ha mai conosciuto. Neanche a lui avevano detto bene i motivi dell’arresto».
Quando li avete saputi?
«Il mattino dopo. Sono scesa a comprare i giornali in edicola. C’erano tutte le intercettazioni. Mi sono fermata per strada a leggerle, non ci potevo credere».
E quando è risalita in casa? Non vedo segni di piatti rotti sulle pareti, avete ripittato?
«Abbiamo solo parlato, parlato molto. Ma è quello che abbiamo sempre fatto: alla sera ci raccontavamo tutto quello che ci era successo durante la giornata. E spesso non ce n’era neanche bisogno, perché uscivamo molto assieme. Quasi tutti i personaggi delle intercettazioni li conosco anch’io. Che avesse visto Elisabetta Gregoraci a pranzo alla Farnesina era stato lui il primo a dirmelo, e aveva invitato pure me. Quindi, anche se all’inizio ero perplessa, ho ripercorso i suoi racconti e li ho confrontati con i testi delle telefonate...»
Che però sono lì, innegabili.
«Sì, ma sono sposata a un giornalista, e so come vengono costruite le notizie. Bisogna vedere il contesto. Fra una frase e l’altra delle intercettazioni c’erano molti puntini, chissà cos’avevano detto lì. E poi il tono. Mio marito è uno che scherza sempre, come tutti gli uomini si vanta molto. Perfino a me, in una conversazione privata con un’amica, può scappare un apprezzamento colorito nei confronti di un uomo, un “Ma guarda che bel ragazzo” e magari anche peggio... E poi, un conto è parlare, un conto è vederle scritte, certe cose. Può fare impressione, ma vorrei sapere quanti uomini, in privato fra loro, non usano certi linguaggi».
Insomma, lei salva Salvo.
«È un giocherellone, un buon siciliano tutto fumo e niente arrosto. Vanterie, con Cristiano Malgioglio eravamo amici, ci conoscevamo tutti. Anch’io lavoro in tv, sono autrice per Mediaset, e conosco bene l’ambiente. Insomma, Salvo non poteva avere una doppia vita. Era fisicamente impossibile. Oppure è un caso di sdoppiamento della personalità, dottor Jekill e mister Hyde, e io ho conosciuto e amato un’altra persona. Ma mi fido del mio istinto: non è così».
Tre settimane agli arresti domiciliari. Con la moglie. La peggiore delle pene, per un marito accusato di concussioni sessuali. Quasi quasi, meglio la prigione...
«Infatti lui mi aveva soprannominato “il mio gip”: gli interrogatori più duri e imbarazzanti sono stata io a farglieli, non i magistrati. Il fatto è che lui può avere sbagliato, ma solo con me, da un punto di vista privato. Non ha commesso reati, e spero che arrivi presto la sentenza di proscioglimento. Lui ha sempre chiarito tutto, e d’altra parte tutte le signorine tirate in ballo hanno anche loro confermato la sua versione. Se entrambe le parti concordano sul fatto che non ci sono stati favori in cambio di prestazioni sessuali, dov’è il problema?»
E quella «compatta come una Smart»? Si sa che per una particina in Tv c’è gente disposta a tutto.
«Nel caso specifico, quella era addirittura la ragazza dell’interlocutore di Salvo, ero andata anch’io al suo compleanno. In generale, il mondo dello spettacolo non è diverso dagli altri. Come se medici e avvocati non corteggiassero le loro segretarie, e viceversa. La differenza è che i personaggi di cinema e tv stanno sempre sotto i riflettori. Ripeto: io credo a mio marito quando afferma di avere segnalato senza chiedere e ottenere niente in cambio. E credo anche alla Gregoraci, che dice la stessa cosa».
E che ora è stata ripescata da Silvio Berlusconi.
«La Rai può anche far bene a tutelarsi sospendendo alcuni personaggi in attesa che si chiariscano le cose, ma quanto deve durare quest’attesa? Il commento che più mi ha divertito, in questa vicenda, è di Simona Ventura: “Ma se quelle gliela tiravano dietro con la mazzafionda, cosa doveva fare il povero Sottile?” La verità è che Salvo non aveva tutto il potere che si pensava. E se lo avesse avuto, avrebbe prima aiutato me».
Siete stati in vacanza assieme?
«Sì, venti giorni in Toscana all’Elba dai miei, poi un po’ in Sardegna. Adesso Salvo è in Sicilia dai suoi».
Suo marito è un capro espiatorio?
«I magistrati possono sbagliare. Se sono in buona fede, si accorgeranno che le cose non sono andate come avevano ipotizzato».
E Fini?
«Gianfranco si è comportato come una persona di famiglia. Ma in questa vicenda nessun amico o conoscente mi ha deluso».
Insomma, signora Sottile: lei si è trasformata da giudice ad avvocato difensore di suo marito. Il suo matrimonio non ne ha sofferto?
«Ogni mattina, quando si alzava, Salvo mi diceva “Ciao vita mia”. Continua a dirmelo, mi ha scritto molte lettere, pure a me piace scrivergliene anche se viviamo assieme, ci mandiamo sms, e ora siamo più vicini di prima. Non abbiamo figli, perché finora ho pensato più al lavoro. Ma entro due anni mi piacerebbe dargliene uno».
Mauro Suttora
«No, non l’ho mai fatto dormire sul divano. No, non l’ho cacciato dalla nostra stanza, neppure per una notte. Siamo sempre stati nello stesso letto. Anche perché ho paura di dormire da sola».
Uomini d’Italia, trovatevele così le vostre mogli. Paurose, premurose, affettuose. Perennemente e ineluttabilmente innamorate. Come la «sottiletta»: così avevano soprannominato dalle parti di via della Scrofa (sede del Msi, oggi di An) Deborah Chiappini, 32 anni, bellissima ragazza della Spezia laureata in legge a Parma, conosciuta nove anni fa e sposata nel 2000 da Salvatore (Salvo) Sottile, 48 anni, già numero due del numero due d’Italia.
Sì, perché lo sventurato Sottile fino a giugno era portavoce di Gianfranco Fini, vice di Silvio Berlusconi. Poi è arrivata Vallettopoli, e lui è passato alla storia per certi epiteti intercettati al telefono, come il «Porcella doc» riferito a Maria La Rosa in arte Monsé, quasi sua concittadina (lui di Milazzo, lei di Catania). Oppure il «piccola ma compatta come una Smart» riferito a un’altra attricetta in cerca di fortuna alla Rai. Definizioni impagabili, ma pagate da Salvo con il ludibrio nazionale e la fama di maiale. E, oggi, con una «vacanza e pausa di riflessione».
Lei però, la moglie Deborah, non ci sta. E per la prima volta apre la porta di casa Sottile a un giornalista. Ecco, ora mi tocca intervistare la cornuta che difende il marito, penso incattivito dal caldo umido mentre salgo sull’autobus 913 per i tornanti di Monte Mario. Mi ammansisco quando vedo l’entrata della casa di Belsito: appartamento al primo piano di un palazzo piccolo-borghese, quasi popolare, rumore infernale di traffico dalla strada. Dopo tutto il gran parlare della Destra che ha perso la testa, degli ex fascisti che appena arrivati al potere per la prima volta si sono messi a magnare come tutti gli altri politici e per di più a trombarsi donne alla Farnesina come il Duce a palazzo Venezia, questa non sembra proprio la dimora principesca di un arricchito a spese del contribuente. Nessuna villa sulla via Appia come ai tempi di Bettino, tanto per intenderci.
Poi, quando Deborah mi apre la porta, rimango colpito positivamente nell’ordine da: i suoi occhi azzurri, la scollatura e la minigonna. Quale onore per il fotografo di Oggi. L’addetta stampa di Sottile mi prega di scrivere il nome del truccatore, Simone Belli, che le darà una ripassata fra l’intervista e la seduta fotografica. Come no.
Ci sediamo imbarazzati sul divano. Io non ho domande. «Mi racconti tutto dall’inizio», le propongo. Lei ci sta: «Nel tardo pomeriggio di un venerdì di giugno ero fuori a far spese. Salvo mi telefona: “Raggiungimi subito a casa”. Aveva un tono strano, di solito è sempre allegro. Quando arrivo lui non c’è. Dopo un po’ entra assieme all’avvocato e a tre poliziotti in borghese. Vengono dal commissariato, dove gli hanno notificato gli arresti domiciliari. “Non preoccuparti, dovrò stare a casa qualche giorno”, mi dice. Ma vedo che è sconvolto. Né lui né io eravamo preparati a una cosa del genere. Non c’era stato sentore di nulla, un fulmine a ciel sereno. Sull’ordinanza si parla di Vittorio Emanuele e di altri personaggi che mio marito non ha mai conosciuto. Neanche a lui avevano detto bene i motivi dell’arresto».
Quando li avete saputi?
«Il mattino dopo. Sono scesa a comprare i giornali in edicola. C’erano tutte le intercettazioni. Mi sono fermata per strada a leggerle, non ci potevo credere».
E quando è risalita in casa? Non vedo segni di piatti rotti sulle pareti, avete ripittato?
«Abbiamo solo parlato, parlato molto. Ma è quello che abbiamo sempre fatto: alla sera ci raccontavamo tutto quello che ci era successo durante la giornata. E spesso non ce n’era neanche bisogno, perché uscivamo molto assieme. Quasi tutti i personaggi delle intercettazioni li conosco anch’io. Che avesse visto Elisabetta Gregoraci a pranzo alla Farnesina era stato lui il primo a dirmelo, e aveva invitato pure me. Quindi, anche se all’inizio ero perplessa, ho ripercorso i suoi racconti e li ho confrontati con i testi delle telefonate...»
Che però sono lì, innegabili.
«Sì, ma sono sposata a un giornalista, e so come vengono costruite le notizie. Bisogna vedere il contesto. Fra una frase e l’altra delle intercettazioni c’erano molti puntini, chissà cos’avevano detto lì. E poi il tono. Mio marito è uno che scherza sempre, come tutti gli uomini si vanta molto. Perfino a me, in una conversazione privata con un’amica, può scappare un apprezzamento colorito nei confronti di un uomo, un “Ma guarda che bel ragazzo” e magari anche peggio... E poi, un conto è parlare, un conto è vederle scritte, certe cose. Può fare impressione, ma vorrei sapere quanti uomini, in privato fra loro, non usano certi linguaggi».
Insomma, lei salva Salvo.
«È un giocherellone, un buon siciliano tutto fumo e niente arrosto. Vanterie, con Cristiano Malgioglio eravamo amici, ci conoscevamo tutti. Anch’io lavoro in tv, sono autrice per Mediaset, e conosco bene l’ambiente. Insomma, Salvo non poteva avere una doppia vita. Era fisicamente impossibile. Oppure è un caso di sdoppiamento della personalità, dottor Jekill e mister Hyde, e io ho conosciuto e amato un’altra persona. Ma mi fido del mio istinto: non è così».
Tre settimane agli arresti domiciliari. Con la moglie. La peggiore delle pene, per un marito accusato di concussioni sessuali. Quasi quasi, meglio la prigione...
«Infatti lui mi aveva soprannominato “il mio gip”: gli interrogatori più duri e imbarazzanti sono stata io a farglieli, non i magistrati. Il fatto è che lui può avere sbagliato, ma solo con me, da un punto di vista privato. Non ha commesso reati, e spero che arrivi presto la sentenza di proscioglimento. Lui ha sempre chiarito tutto, e d’altra parte tutte le signorine tirate in ballo hanno anche loro confermato la sua versione. Se entrambe le parti concordano sul fatto che non ci sono stati favori in cambio di prestazioni sessuali, dov’è il problema?»
E quella «compatta come una Smart»? Si sa che per una particina in Tv c’è gente disposta a tutto.
«Nel caso specifico, quella era addirittura la ragazza dell’interlocutore di Salvo, ero andata anch’io al suo compleanno. In generale, il mondo dello spettacolo non è diverso dagli altri. Come se medici e avvocati non corteggiassero le loro segretarie, e viceversa. La differenza è che i personaggi di cinema e tv stanno sempre sotto i riflettori. Ripeto: io credo a mio marito quando afferma di avere segnalato senza chiedere e ottenere niente in cambio. E credo anche alla Gregoraci, che dice la stessa cosa».
E che ora è stata ripescata da Silvio Berlusconi.
«La Rai può anche far bene a tutelarsi sospendendo alcuni personaggi in attesa che si chiariscano le cose, ma quanto deve durare quest’attesa? Il commento che più mi ha divertito, in questa vicenda, è di Simona Ventura: “Ma se quelle gliela tiravano dietro con la mazzafionda, cosa doveva fare il povero Sottile?” La verità è che Salvo non aveva tutto il potere che si pensava. E se lo avesse avuto, avrebbe prima aiutato me».
Siete stati in vacanza assieme?
«Sì, venti giorni in Toscana all’Elba dai miei, poi un po’ in Sardegna. Adesso Salvo è in Sicilia dai suoi».
Suo marito è un capro espiatorio?
«I magistrati possono sbagliare. Se sono in buona fede, si accorgeranno che le cose non sono andate come avevano ipotizzato».
E Fini?
«Gianfranco si è comportato come una persona di famiglia. Ma in questa vicenda nessun amico o conoscente mi ha deluso».
Insomma, signora Sottile: lei si è trasformata da giudice ad avvocato difensore di suo marito. Il suo matrimonio non ne ha sofferto?
«Ogni mattina, quando si alzava, Salvo mi diceva “Ciao vita mia”. Continua a dirmelo, mi ha scritto molte lettere, pure a me piace scrivergliene anche se viviamo assieme, ci mandiamo sms, e ora siamo più vicini di prima. Non abbiamo figli, perché finora ho pensato più al lavoro. Ma entro due anni mi piacerebbe dargliene uno».
Mauro Suttora
Wednesday, September 13, 2006
Da Sex and the City a Il Diavolo veste Prada
Ora ve le racconto io le diavolesse di New York
Un nostro giornalista, dopo lunga esperienza personale, svela i segreti più intimi delle favolose donne di Manhattan: amore, sesso, lavoro, soldi, cucina. E le manie per shopping, vestiti e unghie... Proprio come nei film
di Mauro Suttora
13 settembre 2006
Le donne di New York. Esseri leggendari e misteriosi, celebrati in tv dal serial Sex and the City, e che ora tornano alla ribalta nel film Il Diavolo veste Prada. Presentato al festival di Venezia, questo affresco della tumultuosa vita a Manhattan con Meryl Streep ha già incassato più di 120 milioni di dollari negli Stati Uniti, e arriverà sui nostri schermi il 13 ottobre.
«Ma come sono veramente le donne di Sex and the City?», hanno continuato a chiedermi gli amici italiani negli ultimi quattro anni, mentre ero corrispondente di Oggi dalla Grande Mela. Perché la guerra di Bush in Iraq avrà anche appannato l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, ma New York resta sempre la metropoli più grande e affascinante della Terra. La capitale dell’impero.
Sono arrivato a Manhattan da single, ho conosciuto varie donne newyorkesi, ho convissuto per un anno con una di loro. Conosco quindi bene il mondo delle «fashion victims», le vittime della moda prese in giro sia da Sex and the City, sia da Il Diavolo veste Prada. Anche perché la mia ex fidanzata e le sue amiche proprio in quell’ambiente lavoravano. Con boss tremende e nevropatiche come la direttrice di giornale femminile interpretata dalla Streep.
La mia risposta alla domanda degli amici quindi é: «Tutto vero». Le stranezze e le follie raccontate nel serial tv e nel film (e anche in Desperate Housewives, le casalinghe disperate dei quartieri residenziali) dipingono bene la realtà. Per carità, anche in Italia, nel mondo del lavoro, nelle grandi città, nell’ambito isterico della moda e del business in generale c’è competizione, arrivismo, stress. Ma a Manhattan, forse a causa dell’energia sprigionata dall’ammasso di grattacieli in cui si vive e lavora, tutto sembra moltiplicarsi.
Lei, Marsha, era bella, sexy, irresistibile. Un pò come Andrea, l’altra protagonista di Il Diavolo veste Prada, interpretata dalla giovane ma già sofisticata Anne Hathaway (che nella vita reale è fidanzata con un giovane italiano, Raffaello Follieri). Lavorava moltissimo, era ossessionata dalla carriera. Ma trovava il tempo di venirmi a trovare nella redazione di Oggi, sopra la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada. Le piaceva, perchè questo è il centro della zona dei negozi: fra Tiffany, Bulgari, Luis Vuitton, Fendi, Ferragamo. In pratica era come se lavorassi a Roma in via Condotti, o a Milano in via Montenapoleone.
Ho capito l’importanza di questa mia location strategica pochi giorni dopo il mio arrivo a New York, quando femmine fredde appena conosciute si accendevano entusiaste solo al comunicar loro il mio indirizzo. «Passerò sicuramente a trovarti», mi disse anche l’incantevole Marsha. Grazie a lei sono entrato in un mondo di limousines, ricevimenti al Waldorf Astoria e club esclusivi che è quello tipico di Manhattan. Non l’unico, ovviamente: ci sono anche gli artisti del Greenwich Village, gli impiegati di Wall Street, gli intellettuali ebrei dell’Upper West Side (dove abitavo io). O i milioni di immigrati che pendolano con le periferie di Brooklyn e Bronx: arrivano ogni mattina a Manhattan con la metropolitana, fanno funzionare il circo dei miliardari, ma alla sera devono tornare a casa perché non possono permettersene gli affitti.
Tuttavia, come appare chiaro dal film e dal serial tv, il mondo apparentemente fastoso e festoso di New York soffre anch’esso di un male. Incurabile: la solitudine. Questa è la città con la più alta concentrazione mondiale di single: quasi la metà degli abitanti vive da sola. Il consumo dell’antidepressivo Prozac è decuplicato negli ultimi dieci anni. E la sera e nei weekend tutti sono alla ricerca di compagnia, anche occasionale, nei ristoranti come nei parchi.
«Are you George?», mi ha chiesto una domenica una bella signorina mentre leggevo il New York Times su una panchina di Central Park. No, ho risposto interdetto. Poi ho capito: era una delle migliaia di persone che si danno appuntamento «al buio», poco dopo essersi conosciute su internet. Tante volte sono finito a parties di compleanno di businessmen nei loro attici di Park Avenue. Non li conoscevo, non li conosceva neppure Marsha, e poi scoprivamo che non erano neppure amici delle amiche di Marsha che ci invitavano. Ma si sentivano soli, e così convocavano più gente possibile.
Mi sono capitate avventure esilaranti, in positivo e negativo, proprio come quelle in cui incappano la Carrie Bradshaw di Sex and the City, o la Andrea di Il Diavolo veste Prada. La mia prima fidanzata americana mi lasciò in tronco con un’e-mail, dopo un mese che stavamo assieme. Il giorno prima preparavamo un viaggio in Italia e lei voleva presentarmi ai suoi, il giorno dopo non voleva neppure vedermi o sentirmi al telefono. «Non può funzionare Mauro, minimizziamo le perdite, non perdiamo altro tempo», mi scrisse su quell’ultima e-mail. Poi scoprii che usciva contemporaneamente anche con un altro, e che per qualche settimana ci aveva soppesato, paragonandoci. Alla fine ha scelto quello che le sembrava il migliore. «Non stupirti, è un metodo crudele ma pragmatico, lo fanno in molti qui», mi ha consolato un amico.
Sono passati esattamente cinque anni dalla strage dell’11 settembre 2001, quando molti sentenziarono: «Nulla sarà più come prima». E invece piano piano a New York tutto è tornato come prima, con milioni di persone che ogni sera si addobbano in vestiti costosissimi ed escono per divertirsi: cinema, teatri a Broadway, musica, musei, feste. Gli americani sono estroversi, ottimisti, simpatici. Pieni di divertenti tic.
Marsha si svegliava alle sei del mattino, dava un’occhiata alla sua e-mail sul computer, poi scendeva a fare jogging al parco e quando risaliva a casa aveva giusto il tempo di farsi una doccia ascoltando alla tv le notizie del mattino, per poi scaraventarsi al lavoro in metrò. La colazione la faceva di corsa per strada, come tutti si comprava al volo un bicchierone di polistirolo e se lo portava in mano bevendo il caffè con la cannuccia fino al suo grattacielo.
Alla sera, se non mi trascinava a qualche «evento» (vernice di mostra, inaugurazione di negozio, prima di un film), tornava a casa esausta dal lavoro, apriva il frigo e mangiava le sue insalatine biologiche non condite, tofu, latte di soia. Era magrissima, eppure aveva il terrore di ingrassare. Dormiva addirittura a pancia in giù, «altrimenti il sedere mi si allarga». Una volta al mese mi faceva da mangiare. Un gran regalo. Sapendo che sono ghiotto di hot dog, una volta mi ha cotto un enorme wurstel. Era così orgogliosa di questa sua impresa che non osai dirle quanto facesse schifo. Poi però andai a controllare in frigo. Sull’etichetta c’era scritto: «Hot dog senza carne». Lei era convinta che fosse il massimo.
Marsha era innamoratissima, ma a letto spesso era così stanca che mi sussurrava: «Ho bisogno di rilassarmi, Mauro. Accarezzami la schiena, massaggiami i piedi, fammi il solletico sulle braccia...». Io eseguivo speranzoso, illudendomi che fossero preliminari. Ma poi si addormentava.
Per sfogarmi, ho raccontato queste mie (dis)avventure sul settimanale New York Observer. Mi hanno subito affidato entusiasti una rubrica, quella del maschio europeo che osserva incuriosito i riti della femmina americana: shopping, manicure, pedicure, ginnastica (anzi: pilates), lotta contro le carte di credito sempre in rosso, gala di beneficenza, telefonate alle amiche, weekend obbligatori agli Hamptons... Poco spazio per l’amore e anche per il sesso. Eppure New York è sempre la città dove - più di ogni altro posto al mondo - quando ci si alza al mattino non si sa mai bene in quale letto si finirà alla sera. Ma tutta questa promiscuità alla fine sembra di scarsa soddisfazione: le statistiche registrano calo del desiderio, aumento di frigidità, viagra, autoerotismo. I più annoiati si dichiarano bisessuali.
Per questo il titolo delle mie rubriche è No Sex in the City. Le ho raccolte e tradotte in un libro omonimo che l’editore Cairo pubblicherà in Italia fra un mese, un giorno prima dell’uscita nei cinema de Il Diavolo veste Prada. Il 12 ottobre: anniversario della scoperta dell’America. In ogni senso. Ah, le allegre, aggressive e vitaminizzate donne americane, in tacchi a spillo o ciabatte infradito, con le loro unghie pittatissime di colori fosforescenti! Come ameremmo amarle: se solo ce lo permettessero...
Mauro Suttora
Un nostro giornalista, dopo lunga esperienza personale, svela i segreti più intimi delle favolose donne di Manhattan: amore, sesso, lavoro, soldi, cucina. E le manie per shopping, vestiti e unghie... Proprio come nei film
di Mauro Suttora
13 settembre 2006
Le donne di New York. Esseri leggendari e misteriosi, celebrati in tv dal serial Sex and the City, e che ora tornano alla ribalta nel film Il Diavolo veste Prada. Presentato al festival di Venezia, questo affresco della tumultuosa vita a Manhattan con Meryl Streep ha già incassato più di 120 milioni di dollari negli Stati Uniti, e arriverà sui nostri schermi il 13 ottobre.
«Ma come sono veramente le donne di Sex and the City?», hanno continuato a chiedermi gli amici italiani negli ultimi quattro anni, mentre ero corrispondente di Oggi dalla Grande Mela. Perché la guerra di Bush in Iraq avrà anche appannato l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, ma New York resta sempre la metropoli più grande e affascinante della Terra. La capitale dell’impero.
Sono arrivato a Manhattan da single, ho conosciuto varie donne newyorkesi, ho convissuto per un anno con una di loro. Conosco quindi bene il mondo delle «fashion victims», le vittime della moda prese in giro sia da Sex and the City, sia da Il Diavolo veste Prada. Anche perché la mia ex fidanzata e le sue amiche proprio in quell’ambiente lavoravano. Con boss tremende e nevropatiche come la direttrice di giornale femminile interpretata dalla Streep.
La mia risposta alla domanda degli amici quindi é: «Tutto vero». Le stranezze e le follie raccontate nel serial tv e nel film (e anche in Desperate Housewives, le casalinghe disperate dei quartieri residenziali) dipingono bene la realtà. Per carità, anche in Italia, nel mondo del lavoro, nelle grandi città, nell’ambito isterico della moda e del business in generale c’è competizione, arrivismo, stress. Ma a Manhattan, forse a causa dell’energia sprigionata dall’ammasso di grattacieli in cui si vive e lavora, tutto sembra moltiplicarsi.
Lei, Marsha, era bella, sexy, irresistibile. Un pò come Andrea, l’altra protagonista di Il Diavolo veste Prada, interpretata dalla giovane ma già sofisticata Anne Hathaway (che nella vita reale è fidanzata con un giovane italiano, Raffaello Follieri). Lavorava moltissimo, era ossessionata dalla carriera. Ma trovava il tempo di venirmi a trovare nella redazione di Oggi, sopra la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada. Le piaceva, perchè questo è il centro della zona dei negozi: fra Tiffany, Bulgari, Luis Vuitton, Fendi, Ferragamo. In pratica era come se lavorassi a Roma in via Condotti, o a Milano in via Montenapoleone.
Ho capito l’importanza di questa mia location strategica pochi giorni dopo il mio arrivo a New York, quando femmine fredde appena conosciute si accendevano entusiaste solo al comunicar loro il mio indirizzo. «Passerò sicuramente a trovarti», mi disse anche l’incantevole Marsha. Grazie a lei sono entrato in un mondo di limousines, ricevimenti al Waldorf Astoria e club esclusivi che è quello tipico di Manhattan. Non l’unico, ovviamente: ci sono anche gli artisti del Greenwich Village, gli impiegati di Wall Street, gli intellettuali ebrei dell’Upper West Side (dove abitavo io). O i milioni di immigrati che pendolano con le periferie di Brooklyn e Bronx: arrivano ogni mattina a Manhattan con la metropolitana, fanno funzionare il circo dei miliardari, ma alla sera devono tornare a casa perché non possono permettersene gli affitti.
Tuttavia, come appare chiaro dal film e dal serial tv, il mondo apparentemente fastoso e festoso di New York soffre anch’esso di un male. Incurabile: la solitudine. Questa è la città con la più alta concentrazione mondiale di single: quasi la metà degli abitanti vive da sola. Il consumo dell’antidepressivo Prozac è decuplicato negli ultimi dieci anni. E la sera e nei weekend tutti sono alla ricerca di compagnia, anche occasionale, nei ristoranti come nei parchi.
«Are you George?», mi ha chiesto una domenica una bella signorina mentre leggevo il New York Times su una panchina di Central Park. No, ho risposto interdetto. Poi ho capito: era una delle migliaia di persone che si danno appuntamento «al buio», poco dopo essersi conosciute su internet. Tante volte sono finito a parties di compleanno di businessmen nei loro attici di Park Avenue. Non li conoscevo, non li conosceva neppure Marsha, e poi scoprivamo che non erano neppure amici delle amiche di Marsha che ci invitavano. Ma si sentivano soli, e così convocavano più gente possibile.
Mi sono capitate avventure esilaranti, in positivo e negativo, proprio come quelle in cui incappano la Carrie Bradshaw di Sex and the City, o la Andrea di Il Diavolo veste Prada. La mia prima fidanzata americana mi lasciò in tronco con un’e-mail, dopo un mese che stavamo assieme. Il giorno prima preparavamo un viaggio in Italia e lei voleva presentarmi ai suoi, il giorno dopo non voleva neppure vedermi o sentirmi al telefono. «Non può funzionare Mauro, minimizziamo le perdite, non perdiamo altro tempo», mi scrisse su quell’ultima e-mail. Poi scoprii che usciva contemporaneamente anche con un altro, e che per qualche settimana ci aveva soppesato, paragonandoci. Alla fine ha scelto quello che le sembrava il migliore. «Non stupirti, è un metodo crudele ma pragmatico, lo fanno in molti qui», mi ha consolato un amico.
Sono passati esattamente cinque anni dalla strage dell’11 settembre 2001, quando molti sentenziarono: «Nulla sarà più come prima». E invece piano piano a New York tutto è tornato come prima, con milioni di persone che ogni sera si addobbano in vestiti costosissimi ed escono per divertirsi: cinema, teatri a Broadway, musica, musei, feste. Gli americani sono estroversi, ottimisti, simpatici. Pieni di divertenti tic.
Marsha si svegliava alle sei del mattino, dava un’occhiata alla sua e-mail sul computer, poi scendeva a fare jogging al parco e quando risaliva a casa aveva giusto il tempo di farsi una doccia ascoltando alla tv le notizie del mattino, per poi scaraventarsi al lavoro in metrò. La colazione la faceva di corsa per strada, come tutti si comprava al volo un bicchierone di polistirolo e se lo portava in mano bevendo il caffè con la cannuccia fino al suo grattacielo.
Alla sera, se non mi trascinava a qualche «evento» (vernice di mostra, inaugurazione di negozio, prima di un film), tornava a casa esausta dal lavoro, apriva il frigo e mangiava le sue insalatine biologiche non condite, tofu, latte di soia. Era magrissima, eppure aveva il terrore di ingrassare. Dormiva addirittura a pancia in giù, «altrimenti il sedere mi si allarga». Una volta al mese mi faceva da mangiare. Un gran regalo. Sapendo che sono ghiotto di hot dog, una volta mi ha cotto un enorme wurstel. Era così orgogliosa di questa sua impresa che non osai dirle quanto facesse schifo. Poi però andai a controllare in frigo. Sull’etichetta c’era scritto: «Hot dog senza carne». Lei era convinta che fosse il massimo.
Marsha era innamoratissima, ma a letto spesso era così stanca che mi sussurrava: «Ho bisogno di rilassarmi, Mauro. Accarezzami la schiena, massaggiami i piedi, fammi il solletico sulle braccia...». Io eseguivo speranzoso, illudendomi che fossero preliminari. Ma poi si addormentava.
Per sfogarmi, ho raccontato queste mie (dis)avventure sul settimanale New York Observer. Mi hanno subito affidato entusiasti una rubrica, quella del maschio europeo che osserva incuriosito i riti della femmina americana: shopping, manicure, pedicure, ginnastica (anzi: pilates), lotta contro le carte di credito sempre in rosso, gala di beneficenza, telefonate alle amiche, weekend obbligatori agli Hamptons... Poco spazio per l’amore e anche per il sesso. Eppure New York è sempre la città dove - più di ogni altro posto al mondo - quando ci si alza al mattino non si sa mai bene in quale letto si finirà alla sera. Ma tutta questa promiscuità alla fine sembra di scarsa soddisfazione: le statistiche registrano calo del desiderio, aumento di frigidità, viagra, autoerotismo. I più annoiati si dichiarano bisessuali.
Per questo il titolo delle mie rubriche è No Sex in the City. Le ho raccolte e tradotte in un libro omonimo che l’editore Cairo pubblicherà in Italia fra un mese, un giorno prima dell’uscita nei cinema de Il Diavolo veste Prada. Il 12 ottobre: anniversario della scoperta dell’America. In ogni senso. Ah, le allegre, aggressive e vitaminizzate donne americane, in tacchi a spillo o ciabatte infradito, con le loro unghie pittatissime di colori fosforescenti! Come ameremmo amarle: se solo ce lo permettessero...
Mauro Suttora
Wednesday, August 09, 2006
Intervista a Vittorio Cecchi Gori
"Il mio amore è Mara Meis"
di Mauro Suttora per Oggi
Sabaudia (Latina), agosto
«Ma neanche per sogno. Io Valeria non l’ho più sentita». Vittorio Cecchi Gori smentisce Valeria Marini, che a un settimanale ha dichiarato: «Lui chiama spesso, mi chiede consigli». Otto mesi dopo la rottura, il produttore 64enne ci appare disteso e felice con la nuova fidanzata Mara Meis, splendida 34enne pugliese. Si fanno fotografare per la prima volta assieme (in esclusiva per i lettori di Oggi) nella famosa villa di Sabaudia, quella delle furibonde liti con l’ex moglie Rita Rusic. Ma ora con Rita le acque si sono calmate: «È la madre dei miei figli e la rispetto, anche perchè credo nella famiglia», dice Cecchi Gori. Tutti e tre (Rita e Mara e lui) sono stati visti mangiare tranquillamente da Saporetti, il celebre ristorante di questa Malibu del Lazio.
«Mara ha portato serenità nella mia vita», ci confida Cecchi Gori, sdraiato nel giardino con piscina davanti al mare, appena riprogettato dall’architetto Giansandro Schina. «Non ero mai stato con una donna del sud: con lei sto scoprendo deliziose doti di attaccamento genuino. Viviamo quasi in simbiosi, e questo per me è importante, in un mondo che tende invece a disarticolare tutto».
È finalmente un periodo felice, questo, per l’ex presidente della Fiorentina. Contento per il salvataggio in extremis della sua squadra, che rimane in serie A? «Sono felice per i tifosi e per la città di Firenze, ma io con quella società non ho più nulla a che fare. Mi è stata tolta con un complotto, perché io fui uno dei primi a denunciare la cupola del calcio. Truccavano tutto».
Anche dal punto di vista finanziario sembra che le cose si stiano mettendo meglio per Cecchi Gori. Soltanto due mesi fa pareva fosse destinato alla bancarotta, invece ora i creditori che reclamano 600 milioni stanno per accettare un concordato. «Cos’è questa cifra, in confronto ai 40 miliardi di debiti di qualcun altro?» La banca Capitalia ha cancellato l’ipoteca sul cinema Adriano, la sua multisala di piazza Cavour a Roma. È in corso una causa contro Telecom, per il modo in cui gli strapparono la proprietà di Telemontecarlo (ora La Sette). Così Cecchi Gori, nonostante le decine di milioni che gli costano gli avvocati, riuscirà a conservare i suoi beni: non solo questa villa, ma anche quella di Beverly Hills e gli appartamenti a Manhattan e Londra.
La cosa che ora più gli sta a cuore, però, è il ritorno all’attività di produttore: «A dicembre inizieranno in Cile le riprese del nuovo film tratto da un romanzo di Antonio Skarmeta, quello de Il Postino». Altri progetti sono in cantiere con Antonio Albanese e Francesca Archibugi, e per portare sullo schermo i libri di successo di Federico Moccia: Ho voglia di te e Tre metri sopra il cielo. «C’è anche un accordo verbale con Roberto Benigni per tornare a lavorare insieme».
Dall’altro lato della piscina la sua Mara Meis - nome d’arte di Loreta De Gennaro da San Severo (Foggia) - sta posando per il fotografo di Oggi. «Il segreto della vita, oltre a dormire e a far sport, è avere una compagna un po’ più giovane e bella», confida Cecchi Gori, chiaramente innamorato. «Cosa volete, io sono cresciuto nel mondo del cinema, quindi sono sempre un po’ viziato, abituato ad avere attorno donne giovani e attraenti».
Mara lavorerà in una fiction che Cecchi Gori produrrà nel 2007 per Raiuno, Inviati Speciali: sarà una giornalista d’assalto. «Mi hanno ferito le accuse di opportunismo», dice, «non mi sono certo messa con lui perché voglio fare l’attrice. Non amo vivere di riflesso. Vittorio mi ha attratto trasmettendomi qualcosa di positivo e pulito. La cosa che più mi ha colpito in lui è la simpatia: siamo simili, e più si è simili più ci si avvicina. Poi, quando è arrivata l’intimità, abbiamo saputo raccontarci, fidarsi, lasciarsi andare. Per me l’amore è fusione con l’altra persona, dedizione, passione».
Ora Mara Meis e il suo «bimbo», come lei chiama Cecchi Gori, sguazzano sereni e giocosi a villa Vittoria (nome dell’amatissima madre di Vittorio e di sua figlia). Lei, fisico perfetto e gambe da gazzella, lo guarda rapita. Quello che l’ha sedotta, dal primo incontro a una partita di tennis al circolo dell’Hilton, non è stato il fisico, ma lo sguardo ingenuo da «cucciolo».
La nuova fiamma di Cecchi Gori aveva debuttato col nome di Labelle come cantante trasformista nelle discoteche, dove si esibiva con parrucca a caschetto. Coincidenza: anche Valeria Marini iniziò la carriera al Gilda imitando Jessica Rabbit e facendosi chiamare Lolly. E le analogie non finiscono qui: sia Mara sia Valeria successivamente parteciparono a concorsi di bellezza. Con più successo la Meis, finalista di Miss Mondo, mentre la Marini come Eva Orrù si presentò al concorso Look of the Year, ma non arrivò alle semifinali.
Dopo i cinque anni di rapporto turbolento con la Marini, Cecchi Gori lo scorso novembre è passato immediatamente a Mara: «E io ho sentito subito che quello che credevo fosse solo un uomo duro e risoluto era in realtà anche un Peter Pan da proteggere e difendere», dice lei. Anche Vittorio ha impostato la relazione con Mara in modo diverso: poco dopo averla conquistata ha voluto conoscere i suoi genitori in Puglia e regalarle uno splendido diamante di Tiffany come pegno d’amore. Così il romano palazzo Borghese, svuotato da ogni «testimonianza» del passato, è diventato la loro casa.
Si avvicina l’ora del tramonto. Il fotografo ci chiama tutti in spiaggia, per scattare le ultime inquadrature con il sole che si tuffa nel Tirreno agitato. Si forma una piccola folla di curiosi, arrivano anche i vicini di villa di Cecchi Gori: Roberto D’Agostino e Paolo Giaccio della Rai. «Macché Cecchi Gori, tu ora sei Cecchi Godi...», lo apostrofa scherzoso l’inventore di Dagospia, vedendo Mara che gli si abbarbica addosso con movenze da vamp. «Ma se non posso neanche cambiarmi costume, questo è l’unico che m’hanno lasciato», risponde lui, alludendo alle traversie finanziarie. E poi: «Non fatemi andare in mezzo al mare, che se affogo farei un favore a troppe persone...».
Cecchi Gori si sente perseguitato, ma anche sul fronte familiare le soddisfazioni ultimamente non gli mancano. La sua figlia primogenita Vittoria, 20 anni, ha debuttato come giornalista sulla rivista A(nna). Ha scritto un’articolo sul concerto dei Rolling Stones a San Siro, dov’è andata con mamma Rita Rusic. «Vive a Miami, fa l’università, e ho letto un altro suo articolo che mi è piaciuto, sui succhi di frutta nei supermercati americani».
Quasi duecento film prodotti, tre premi Oscar, calcio, tv, la principale dinastia cinematografica italiana con i De Laurentiis: nella sua vita Vittorio Cecchi Gori non s’è fatto mancare nulla. Neppure la politica: già senatore del partito popolare, alle ultime elezioni s’è presentato con la Lega Nord a Roma. Un suicidio annunciato, eppure è riuscito a prendere 6.500 voti. «Ma quel che m’è più pesato, è che per tutta la campagna elettorale ho dovuto rinunciare alle mie due ore giornaliere di tennis...» Scherza sempre, il vecchio Vittorione. Marameis...
Mauro Suttora
di Mauro Suttora per Oggi
Sabaudia (Latina), agosto
«Ma neanche per sogno. Io Valeria non l’ho più sentita». Vittorio Cecchi Gori smentisce Valeria Marini, che a un settimanale ha dichiarato: «Lui chiama spesso, mi chiede consigli». Otto mesi dopo la rottura, il produttore 64enne ci appare disteso e felice con la nuova fidanzata Mara Meis, splendida 34enne pugliese. Si fanno fotografare per la prima volta assieme (in esclusiva per i lettori di Oggi) nella famosa villa di Sabaudia, quella delle furibonde liti con l’ex moglie Rita Rusic. Ma ora con Rita le acque si sono calmate: «È la madre dei miei figli e la rispetto, anche perchè credo nella famiglia», dice Cecchi Gori. Tutti e tre (Rita e Mara e lui) sono stati visti mangiare tranquillamente da Saporetti, il celebre ristorante di questa Malibu del Lazio.
«Mara ha portato serenità nella mia vita», ci confida Cecchi Gori, sdraiato nel giardino con piscina davanti al mare, appena riprogettato dall’architetto Giansandro Schina. «Non ero mai stato con una donna del sud: con lei sto scoprendo deliziose doti di attaccamento genuino. Viviamo quasi in simbiosi, e questo per me è importante, in un mondo che tende invece a disarticolare tutto».
È finalmente un periodo felice, questo, per l’ex presidente della Fiorentina. Contento per il salvataggio in extremis della sua squadra, che rimane in serie A? «Sono felice per i tifosi e per la città di Firenze, ma io con quella società non ho più nulla a che fare. Mi è stata tolta con un complotto, perché io fui uno dei primi a denunciare la cupola del calcio. Truccavano tutto».
Anche dal punto di vista finanziario sembra che le cose si stiano mettendo meglio per Cecchi Gori. Soltanto due mesi fa pareva fosse destinato alla bancarotta, invece ora i creditori che reclamano 600 milioni stanno per accettare un concordato. «Cos’è questa cifra, in confronto ai 40 miliardi di debiti di qualcun altro?» La banca Capitalia ha cancellato l’ipoteca sul cinema Adriano, la sua multisala di piazza Cavour a Roma. È in corso una causa contro Telecom, per il modo in cui gli strapparono la proprietà di Telemontecarlo (ora La Sette). Così Cecchi Gori, nonostante le decine di milioni che gli costano gli avvocati, riuscirà a conservare i suoi beni: non solo questa villa, ma anche quella di Beverly Hills e gli appartamenti a Manhattan e Londra.
La cosa che ora più gli sta a cuore, però, è il ritorno all’attività di produttore: «A dicembre inizieranno in Cile le riprese del nuovo film tratto da un romanzo di Antonio Skarmeta, quello de Il Postino». Altri progetti sono in cantiere con Antonio Albanese e Francesca Archibugi, e per portare sullo schermo i libri di successo di Federico Moccia: Ho voglia di te e Tre metri sopra il cielo. «C’è anche un accordo verbale con Roberto Benigni per tornare a lavorare insieme».
Dall’altro lato della piscina la sua Mara Meis - nome d’arte di Loreta De Gennaro da San Severo (Foggia) - sta posando per il fotografo di Oggi. «Il segreto della vita, oltre a dormire e a far sport, è avere una compagna un po’ più giovane e bella», confida Cecchi Gori, chiaramente innamorato. «Cosa volete, io sono cresciuto nel mondo del cinema, quindi sono sempre un po’ viziato, abituato ad avere attorno donne giovani e attraenti».
Mara lavorerà in una fiction che Cecchi Gori produrrà nel 2007 per Raiuno, Inviati Speciali: sarà una giornalista d’assalto. «Mi hanno ferito le accuse di opportunismo», dice, «non mi sono certo messa con lui perché voglio fare l’attrice. Non amo vivere di riflesso. Vittorio mi ha attratto trasmettendomi qualcosa di positivo e pulito. La cosa che più mi ha colpito in lui è la simpatia: siamo simili, e più si è simili più ci si avvicina. Poi, quando è arrivata l’intimità, abbiamo saputo raccontarci, fidarsi, lasciarsi andare. Per me l’amore è fusione con l’altra persona, dedizione, passione».
Ora Mara Meis e il suo «bimbo», come lei chiama Cecchi Gori, sguazzano sereni e giocosi a villa Vittoria (nome dell’amatissima madre di Vittorio e di sua figlia). Lei, fisico perfetto e gambe da gazzella, lo guarda rapita. Quello che l’ha sedotta, dal primo incontro a una partita di tennis al circolo dell’Hilton, non è stato il fisico, ma lo sguardo ingenuo da «cucciolo».
La nuova fiamma di Cecchi Gori aveva debuttato col nome di Labelle come cantante trasformista nelle discoteche, dove si esibiva con parrucca a caschetto. Coincidenza: anche Valeria Marini iniziò la carriera al Gilda imitando Jessica Rabbit e facendosi chiamare Lolly. E le analogie non finiscono qui: sia Mara sia Valeria successivamente parteciparono a concorsi di bellezza. Con più successo la Meis, finalista di Miss Mondo, mentre la Marini come Eva Orrù si presentò al concorso Look of the Year, ma non arrivò alle semifinali.
Dopo i cinque anni di rapporto turbolento con la Marini, Cecchi Gori lo scorso novembre è passato immediatamente a Mara: «E io ho sentito subito che quello che credevo fosse solo un uomo duro e risoluto era in realtà anche un Peter Pan da proteggere e difendere», dice lei. Anche Vittorio ha impostato la relazione con Mara in modo diverso: poco dopo averla conquistata ha voluto conoscere i suoi genitori in Puglia e regalarle uno splendido diamante di Tiffany come pegno d’amore. Così il romano palazzo Borghese, svuotato da ogni «testimonianza» del passato, è diventato la loro casa.
Si avvicina l’ora del tramonto. Il fotografo ci chiama tutti in spiaggia, per scattare le ultime inquadrature con il sole che si tuffa nel Tirreno agitato. Si forma una piccola folla di curiosi, arrivano anche i vicini di villa di Cecchi Gori: Roberto D’Agostino e Paolo Giaccio della Rai. «Macché Cecchi Gori, tu ora sei Cecchi Godi...», lo apostrofa scherzoso l’inventore di Dagospia, vedendo Mara che gli si abbarbica addosso con movenze da vamp. «Ma se non posso neanche cambiarmi costume, questo è l’unico che m’hanno lasciato», risponde lui, alludendo alle traversie finanziarie. E poi: «Non fatemi andare in mezzo al mare, che se affogo farei un favore a troppe persone...».
Cecchi Gori si sente perseguitato, ma anche sul fronte familiare le soddisfazioni ultimamente non gli mancano. La sua figlia primogenita Vittoria, 20 anni, ha debuttato come giornalista sulla rivista A(nna). Ha scritto un’articolo sul concerto dei Rolling Stones a San Siro, dov’è andata con mamma Rita Rusic. «Vive a Miami, fa l’università, e ho letto un altro suo articolo che mi è piaciuto, sui succhi di frutta nei supermercati americani».
Quasi duecento film prodotti, tre premi Oscar, calcio, tv, la principale dinastia cinematografica italiana con i De Laurentiis: nella sua vita Vittorio Cecchi Gori non s’è fatto mancare nulla. Neppure la politica: già senatore del partito popolare, alle ultime elezioni s’è presentato con la Lega Nord a Roma. Un suicidio annunciato, eppure è riuscito a prendere 6.500 voti. «Ma quel che m’è più pesato, è che per tutta la campagna elettorale ho dovuto rinunciare alle mie due ore giornaliere di tennis...» Scherza sempre, il vecchio Vittorione. Marameis...
Mauro Suttora
Saturday, July 15, 2006
Indietro Savoia
I paesi sardi vogliono cambiare nome alle loro vie
Santa Teresa di Gallura (Sassari), 15 luglio
Al posto di viale Umberto I°, «viale Graziano Mesina, uomo libero». E invece di largo Principe di Piemonte, «Largo ai pastori sardi». Una mattina della scorsa settimana i santeresini (cinquemila d’inverno, sessantamila adesso, con i turisti) si sono svegliati con parecchie targhe delle loro vie cambiate. «Uno scherzo da buontemponi», minimizza il sindaco di Santa Teresa Piero Bardanzellu, 67 anni. Però, a oltre un mese dalle intercettazioni di Vittorio Emanuele, questo episodio goliardico significa che non si sono ancora sopite le polemiche sulle dichiarazioni anti-sarde dell’erede Savoia.
«I sardi non si lavano, puzzano, sono capaci solo di andare con le capre», aveva detto il principe in una delle sue telefonate pubblicate su tutti i giornali. Apriti cielo. Dichiarazioni sdegnate da parte di tutti i politici sardi, sedute di consigli comunali e provinciali convocate sull’argomento, mozioni di condanna votate all’unanimità. Due comuni, Bitti e Atzara in provincia di Nuoro, hanno preso una decisione drastica, l’unica in grado di danneggiare concretamente la memoria dei Savoia: cambiare la toponomastica. Cancellare dallo stradario cittadino tutte le intestazioni di vie recanti i nomi della casa sabauda. In altri paesi sono state presentate mozioni per «desabaudizzarsi», copiando la protesta pacifista dei comuni «denuclearizzati».
L’episodio più clamoroso è avvenuto all’interno del palazzo del consiglio provinciale di Sassari: Gavino Sale, 50 anni, rappresentante del partito Irs (Indipendentzia Repubrica de Sardinia), ha coperto con la bandiera sarda dei quattro mori il busto di Vittorio Emanuele I° che ancora adorna la sala consiliare. Non pago, ci ha poi scaricato sopra della spazzatura, lasciando esterrefatti gli altri 29 consiglieri e guadagnandosi una reprimenda da parte del presidente del consiglio provinciale.
«Non mi limito a chiedere maggiore autonomia per la Sardegna, come da sempre fa il partito sardo d’azione», dichiara a Oggi il consigliere Sale: «Dopo quest’ultimo gravissimo episodio, a maggior ragione voglio che la nostra regione sia indipendente». «Indipendenza»: parola proibita e particolarmente delicata in queste settimane, dopo l’incarcerazione di una ventina di bombaroli sardisti e comunisti che da quattro anni piazzavano ordigni nell’isola (uno era scoppiato a Porto Cervo nel 2004, a pochi giorni dall’incontro fra l’allora premier Silvio Berlusconi e l’inglese Tony Blair).
«Io sono per la nonviolenza», precisa Sale, «ma sarebbe anche ora che nelle nostre scuole si parlasse del secolo e mezzo di dominazione dei Savoia, i quali uccisero più sardi della peste del Quattrocento. Potremmo intitolare le nostre piazze e strade al patriota Giovanni Maria Angioi, che nel 1793 capeggiò la rivolta antifeudale prima di rifugiarsi in esilio in Corsica e poi a Parigi, oppure alla regina Eleonora d’Arborea, unica sovrana sarda della storia. Ai nostri figli insegniamo ancora di Muzio Scevola, però se nel nostro statuto regionale qualcuno osa proporre di inserire la parola “sovranità”, il governo di Roma ce lo proibisce. E poi, perchè la nostra superstrada principale, la 131 che collega la Sardegna da nord a sud, dev’essere ancora intestata a Carlo Felice?»
«Quella strada fu costruita in soli sei anni, con i mezzi disponibili nell’Ottocento, grazie ai laboriosi operai sardi ma anche a bravi tecnici piemontesi», ribatte Maria Carla Sanna da Quartu Sant’Elena (Cagliari): «Siamo o non siamo consci che in Continente quello che ha detto Vittorio Emanuele lo pensano in molti? Non andiamo così fieri delle nostre varie faide mortali e delle orecchie tagliate a bimbi sequestrati...»
Al di là delle generalizzazioni, Marina Doria, moglie di Vittorio Emanuele, ha chiesto scusa ai sardi a nome del marito. Scuse accolte dal sindaco di Atzara, Alessandro Corona: lì il cambio di nome delle vie non si farà più. E anche a Santa Teresa l’intestazione di una strada all’ex bandito Mesina è durata poche ore, finchè un operaio comunale ha rimosso la copertura abusiva. (Graziano Mesina, comunque, è ormai diventato un vip in Gallura: ha appena partecipato al premio letterario Cala di Volpe e all’inaugurazione del Country, il locale più chic di Porto Rotondo).
«In realtà quasi nessuno sa che, se i Savoia sono diventati re, lo devono proprio alla nostra regione», commenta divertito Bardanzellu, sindaco santeresino, «perchè nel Settecento loro erano solo duchi di Savoia e principi di Piemonte, mentre la Sardegna era già un regno. Quindi il titolo regale arrivò loro grazie a noi. Santa Teresa di Gallura fu fondata da Vittorio Emanuele I° nel 1808, la pianta urbanistica con vie perpendicolari ricalca quella di Torino. Lo stesso nostro nome ci viene da Maria Teresa, moglie del fondatore. E abbiamo ben tre patroni: san Vittorio in onore di lui, santa Teresa in onore di lei, e infine Sant’Isidoro - lo spagnolo San Isidro - per il popolo, al quale dei Savoia tutto sommato è sempre importato ben poco».
Quindi la «capitale» dei Savoia in Sardegna, la Santa Teresa nata per decreto regio sabaudo 198 anni fa, non cambierà le intestazioni delle proprie vie. Per indifferenza. E anche perché, se lo facesse, dovrebbe rinunciare perfino al proprio nome. «Che recuperi il precedente appellativo di Longonsardo», propone l’indipendentista Sale. Certo è che di acqua ne è passata, nello stretto di Bonifacio, da quando il precedente sindaco di Santa Teresa (diessino, ma insignito dell’ordine sabaudo di San Maurizio) andava a omaggiare i Savoia ancora esiliati in acque internazionali: si incontravano a metà strada con l’isola francese di Cavallo, da dove arrivavano Vittorio Emanuele e Marina. Poi, con la fine dell’ostracismo, negli ultimi anni la coppia reale è capitata spesso qui in motoscafo, a far spesa. Gite non più consigliabili.
Mauro Suttora
Santa Teresa di Gallura (Sassari), 15 luglio
Al posto di viale Umberto I°, «viale Graziano Mesina, uomo libero». E invece di largo Principe di Piemonte, «Largo ai pastori sardi». Una mattina della scorsa settimana i santeresini (cinquemila d’inverno, sessantamila adesso, con i turisti) si sono svegliati con parecchie targhe delle loro vie cambiate. «Uno scherzo da buontemponi», minimizza il sindaco di Santa Teresa Piero Bardanzellu, 67 anni. Però, a oltre un mese dalle intercettazioni di Vittorio Emanuele, questo episodio goliardico significa che non si sono ancora sopite le polemiche sulle dichiarazioni anti-sarde dell’erede Savoia.
«I sardi non si lavano, puzzano, sono capaci solo di andare con le capre», aveva detto il principe in una delle sue telefonate pubblicate su tutti i giornali. Apriti cielo. Dichiarazioni sdegnate da parte di tutti i politici sardi, sedute di consigli comunali e provinciali convocate sull’argomento, mozioni di condanna votate all’unanimità. Due comuni, Bitti e Atzara in provincia di Nuoro, hanno preso una decisione drastica, l’unica in grado di danneggiare concretamente la memoria dei Savoia: cambiare la toponomastica. Cancellare dallo stradario cittadino tutte le intestazioni di vie recanti i nomi della casa sabauda. In altri paesi sono state presentate mozioni per «desabaudizzarsi», copiando la protesta pacifista dei comuni «denuclearizzati».
L’episodio più clamoroso è avvenuto all’interno del palazzo del consiglio provinciale di Sassari: Gavino Sale, 50 anni, rappresentante del partito Irs (Indipendentzia Repubrica de Sardinia), ha coperto con la bandiera sarda dei quattro mori il busto di Vittorio Emanuele I° che ancora adorna la sala consiliare. Non pago, ci ha poi scaricato sopra della spazzatura, lasciando esterrefatti gli altri 29 consiglieri e guadagnandosi una reprimenda da parte del presidente del consiglio provinciale.
«Non mi limito a chiedere maggiore autonomia per la Sardegna, come da sempre fa il partito sardo d’azione», dichiara a Oggi il consigliere Sale: «Dopo quest’ultimo gravissimo episodio, a maggior ragione voglio che la nostra regione sia indipendente». «Indipendenza»: parola proibita e particolarmente delicata in queste settimane, dopo l’incarcerazione di una ventina di bombaroli sardisti e comunisti che da quattro anni piazzavano ordigni nell’isola (uno era scoppiato a Porto Cervo nel 2004, a pochi giorni dall’incontro fra l’allora premier Silvio Berlusconi e l’inglese Tony Blair).
«Io sono per la nonviolenza», precisa Sale, «ma sarebbe anche ora che nelle nostre scuole si parlasse del secolo e mezzo di dominazione dei Savoia, i quali uccisero più sardi della peste del Quattrocento. Potremmo intitolare le nostre piazze e strade al patriota Giovanni Maria Angioi, che nel 1793 capeggiò la rivolta antifeudale prima di rifugiarsi in esilio in Corsica e poi a Parigi, oppure alla regina Eleonora d’Arborea, unica sovrana sarda della storia. Ai nostri figli insegniamo ancora di Muzio Scevola, però se nel nostro statuto regionale qualcuno osa proporre di inserire la parola “sovranità”, il governo di Roma ce lo proibisce. E poi, perchè la nostra superstrada principale, la 131 che collega la Sardegna da nord a sud, dev’essere ancora intestata a Carlo Felice?»
«Quella strada fu costruita in soli sei anni, con i mezzi disponibili nell’Ottocento, grazie ai laboriosi operai sardi ma anche a bravi tecnici piemontesi», ribatte Maria Carla Sanna da Quartu Sant’Elena (Cagliari): «Siamo o non siamo consci che in Continente quello che ha detto Vittorio Emanuele lo pensano in molti? Non andiamo così fieri delle nostre varie faide mortali e delle orecchie tagliate a bimbi sequestrati...»
Al di là delle generalizzazioni, Marina Doria, moglie di Vittorio Emanuele, ha chiesto scusa ai sardi a nome del marito. Scuse accolte dal sindaco di Atzara, Alessandro Corona: lì il cambio di nome delle vie non si farà più. E anche a Santa Teresa l’intestazione di una strada all’ex bandito Mesina è durata poche ore, finchè un operaio comunale ha rimosso la copertura abusiva. (Graziano Mesina, comunque, è ormai diventato un vip in Gallura: ha appena partecipato al premio letterario Cala di Volpe e all’inaugurazione del Country, il locale più chic di Porto Rotondo).
«In realtà quasi nessuno sa che, se i Savoia sono diventati re, lo devono proprio alla nostra regione», commenta divertito Bardanzellu, sindaco santeresino, «perchè nel Settecento loro erano solo duchi di Savoia e principi di Piemonte, mentre la Sardegna era già un regno. Quindi il titolo regale arrivò loro grazie a noi. Santa Teresa di Gallura fu fondata da Vittorio Emanuele I° nel 1808, la pianta urbanistica con vie perpendicolari ricalca quella di Torino. Lo stesso nostro nome ci viene da Maria Teresa, moglie del fondatore. E abbiamo ben tre patroni: san Vittorio in onore di lui, santa Teresa in onore di lei, e infine Sant’Isidoro - lo spagnolo San Isidro - per il popolo, al quale dei Savoia tutto sommato è sempre importato ben poco».
Quindi la «capitale» dei Savoia in Sardegna, la Santa Teresa nata per decreto regio sabaudo 198 anni fa, non cambierà le intestazioni delle proprie vie. Per indifferenza. E anche perché, se lo facesse, dovrebbe rinunciare perfino al proprio nome. «Che recuperi il precedente appellativo di Longonsardo», propone l’indipendentista Sale. Certo è che di acqua ne è passata, nello stretto di Bonifacio, da quando il precedente sindaco di Santa Teresa (diessino, ma insignito dell’ordine sabaudo di San Maurizio) andava a omaggiare i Savoia ancora esiliati in acque internazionali: si incontravano a metà strada con l’isola francese di Cavallo, da dove arrivavano Vittorio Emanuele e Marina. Poi, con la fine dell’ostracismo, negli ultimi anni la coppia reale è capitata spesso qui in motoscafo, a far spesa. Gite non più consigliabili.
Mauro Suttora
Thursday, June 29, 2006
Vittorio Emanuele di Savoia
Quella notte che il principe imbraccio' il fucile
Oggi, 19 giugno 2006
Un ragazzo di 19 anni colpito mentre dormiva da un fucile Winchester M1 per la caccia agli elefanti, ferito gravemente a una coscia e morto dopo una terribile agonia durata 111 giorni, durante i quali subì l’amputazione della gamba destra e altri tredici interventi. Sua madre morta di crepacuore dopo sette anni, senza riuscire a vedere l’assassino del proprio figlio sul banco degli imputati. Un processo celebrato solo tredici anni dopo e concluso con l’assoluzione dell’imputato, condannato solo a 6 mesi con la condizionale per porto abusivo di arma da fuoco.
È questa, in estrema sintesi, la storia dell’uccisione dello studente tedesco Dirk Hamer in cui venne coinvolto Vittorio Emanuele di Savoia, una vicenda oscura cominciata nella notte del 17 agosto 1978 a Cavallo, un’isola fra la Corsica e la Sardegna, e conclusa il 18 novembre 1991 davanti alla Corte d’Assise di Parigi. Uno dei processi più lunghi della storia di Francia, e che ripercorriamo oggi non perché siano emersi fatti nuovi, ma perché, in questo momento delicato, è inevitabile ripensare all’altra brutta storia legata al nome di Vittorio Emanuele. Ci sembra giusto non dimenticare questa vicenda e i suoi lati rimasti misteriosi.
Hamer dormiva a bordo dello yacht di suoi amici, ormeggiato nella baia dell’isola di Cavallo. Per una lite con il medico Niky Pende, animatore della dolce vita romana, fratello della giornalista Stella e già compagno di Stefania Sandrelli, Vittorio Emanuele, armato di un fucile di micidiale potenza, sparò nel buio. Fu arrestato, ma scarcerato dopo sette settimane. Quattro mesi, invece, durò il calvario del giovane Dirk nell’ospedale di Heidelberg (Germania). «Perché ritirassimo le accuse contro di lui», sostiene la famiglia Hamer, «Vittorio Emanuele ci offrì inutilmente prima mezzo, poi due, infine dieci milioni di marchi [che equivalgono a cinque milioni di attuali euro, ndr]». «Non è vero», ha testimoniato Marina Doria, moglie del principe, al processo di Parigi, «gli Hamer mi chiesero soldi per far fronte alle spese mediche e io, senza neppure consultare mio marito che in quei giorni era in prigione, inviai loro un centinaio di milioni di lire, a puro titolo umanitario. Ma non rappresentavano una confessione di colpevolezza. Quando poi il signor Hamer mi chiese altri soldi, rifiutai e allora lui si costituì parte civile».
«Non è normale in Francia che le inchieste per omicidio durino così a lungo», ha ammesso il giudice Gaston Carasco di Ajaccio, «di solito ci mettiamo uno o due anni. Però il principe di Savoia aveva degli ottimi avvocati». Aveva anche ottimi amici. Uno di questi era il presidente francese, Valéry Giscard d’Estaing. Il quale, però, nel 1981 perse le elezioni con François Mitterrand. Ma questo non accelerò l’inchiesta. Anzi, il padre di Hamer arrivò a denunciare per corruzione il ministro della Giustizia di Mitterrand, Robert Badinter, colpevole a suo avviso di essere anch’egli troppo amico di Paul Lombard, avvocato di Vittorio Emanuele.
Pare che il principe Savoia, al momento della sentenza, fosse preoccupato soprattutto per il figlio Emanuele Filiberto, allora diciannovenne, che avrebbe subìto un trauma in caso di condanna per omicidio. Invece, dopo due ore di camera di consiglio, la corte di Parigi (con tre magistrati di carriera e nove giurati popolari) condannò Vittorio Emanuele a sei mesi con la condizionale. Unica sua colpa: possesso illegale di arma da guerra.
Ma cosa successe esattamente nella notte maledetta fra il 17 e 18 agosto a Cavallo? Quella sera Vittorio Emanuele va a cena con la moglie Marina Doria e sei amici a Les Pecheurs, unico ristorante dell’isola. Nel locale c’è anche un altro gruppo, assai più numeroso e chiassoso: una trentina di giovanotti e signorine belli e ricchi, appena arrivati dalla Costa Smeralda su tre motoscafi. Fanno parte dell’allegra brigata, fra gli altri, il playboy Niky Pende, allora trentacinquenne, la principessa Paola Torlonia, i conti Paolo Poma e Giorgio e Vittorio Guglielmi, il marchese Clemente Gentiloni Silveri, l’imprenditore barese Gianfranco Amoruso, Fabiana Balestra figlia del sarto, l’avvocato Francesco Ago dello studio Carnelutti. Hanno ormeggiato nella Cala di Palma, vicino all’Aniram («Marina» alla rovescia) del principe, un cabinato Super America. Vittorio Emanuele, allora quantunenne, è infastidito. Spiegherà che temeva danni, un attacco brigatista (è l’anno del rapimento Moro) o il sequestro del figlio da parte di una banda di banditi sardi. E pare che qualche giovinastro sia anche salito sul suo panfilo, servendosi da bere.
Dopo mezzanotte la compagnia di Pende torna nei motoscafi, mentre i due Savoia portano in auto un’amica a casa. Al ritorno, Vittorio Emanuele si accorge che per salire a bordo gli italiani hanno usato il canotto Zodiac del figlio. Furibondo, va a casa e afferra il fucile calibro 7,62. Sono quasi le tre. Vuole recuperare subito il canotto. Sale sull’altro suo canotto e si dirige verso lo yacht Coke, al quale è rimasto legato lo Zodiac. Sua moglie gli fa luce da terra con i fari dell’auto. A questo punto le versioni del principe e di Pende divergono.
Sostiene il primo: «Stavo liberando lo Zodiac. Inavvertitamente ho urtato una bombola di ossigeno che è caduta nel pozzetto e ha cominciato a sibilare. Pende esce fuori e urla: “Che c.... vuoi, principe di m...?” Ho sparato in aria per intimorirlo, lui mi si è gettato addosso e mentre cadevamo in acqua è partito l’altro colpo». Racconta invece Pende: «Un rumore mi ha svegliato. Sono salito in coperta e ho visto quello lì armato di fucile che mi minacciava: “Italiani di m..., drogati, ora ve la faccio pagare”. Ha sparato una, due volte ad altezza d’uomo, mi sono abbassato per sfuggire ai suoi colpi, poi gli sono saltato addosso».
In ogni caso, il destino vuole che una pallottola trapassi lo scafo della barca vicina, dove dorme Dirk Hamer con la sorella Birgit (Miss Germania 1976), e gli spezzi un’arteria della coscia destra. Il proprietario della barca è Guglielmi, in odore di frequentazioni malavitose. A bordo viene trovata la mattina dopo una pistola Smith & Wesson calibro 38 con due proiettili mancanti. Il proprietario sosterrà di non averla usata da giorni. Per i legali del principe, invece, fu proprio quell’arma a colpire Hamer. La polizia francese non indagò.
Insomma, secondo la difesa quella notte non sparò soltanto il fucile M1. Alcuni testimoni giurano di aver sentito solo due colpi, altri ne ricordano quattro o cinque. La pallottola recuperata sul corpo del ferito è impossibile da attribuire, ne era rimasto solo uno spezzone del peso di quattro grammi e 25. «Non poteva provenire dalla mia carabina», sostiene il principe, «a parte la diversità di calibro quella pallottola era di piombo, mentre le mie erano rivestite con una lega di rame e ottone». Ci sarebbero stati i fori sulla barca che, però, venne riparata prima che la polizia si decidesse a esaminarla.
In un primo tempo Vittorio Emanuele dichiara: «Mi prendo la responsabilità delle ferite causate dalle pallottole sfuggite». Poi però la sua linea difensiva cambia: salta fuori la pistola. La quale tuttavia, secondo Umberto Ercole che dormiva vicino a Guglielmi, «quella sera era dentro al cassetto a tre centimetri dalla mia testa». Quanto agli altri colpi uditi da alcuni testimoni, potrebbero essere stati quelli dei razzi lanciati da qualche vicino per illuminare la baia, per capire che cosa stava succedendo nella notte. Invece il principe sospetta perfino che la pallottola partita da quella pistola fosse diretta proprio contro di lui, e che il corpo Dirk Hamer gli abbia fatto da scudo. Insomma, un tragico e incolpevole incidente, come ha stabilito la giustizia francese, o un tentato omicidio (contro Niky Pende) che ha causato per fatalità la morte dell’ignaro Dirk Hamer, come continuano ad accusare a quasi un quarto di secolo di distanza amici e parenti del ragazzo tedesco?
«In quella notte maledetta ci sono state due vittime», sostiene Vittorio Emanuele, «e la seconda sono io. Fino al 18 agosto del 1978 ero un uomo tranquillo e felice, l’unica angoscia era costituita dall’esilio. Improvvisamente sono diventato “quello che va in giro con la carabina a sparare alla gente”. E invece io con la morte di Hamer non c’entro niente».
«Tutta la mia famiglia è distrutta», ha concluso invece Ryke Geerd, il padre di Dirk Hamer, «mia moglie Sigrid è morta e io stesso ho avuto il cancro. Con mio figlio sono morto un po’ anch’io».
Mauro Suttora
Oggi, 19 giugno 2006
Un ragazzo di 19 anni colpito mentre dormiva da un fucile Winchester M1 per la caccia agli elefanti, ferito gravemente a una coscia e morto dopo una terribile agonia durata 111 giorni, durante i quali subì l’amputazione della gamba destra e altri tredici interventi. Sua madre morta di crepacuore dopo sette anni, senza riuscire a vedere l’assassino del proprio figlio sul banco degli imputati. Un processo celebrato solo tredici anni dopo e concluso con l’assoluzione dell’imputato, condannato solo a 6 mesi con la condizionale per porto abusivo di arma da fuoco.
È questa, in estrema sintesi, la storia dell’uccisione dello studente tedesco Dirk Hamer in cui venne coinvolto Vittorio Emanuele di Savoia, una vicenda oscura cominciata nella notte del 17 agosto 1978 a Cavallo, un’isola fra la Corsica e la Sardegna, e conclusa il 18 novembre 1991 davanti alla Corte d’Assise di Parigi. Uno dei processi più lunghi della storia di Francia, e che ripercorriamo oggi non perché siano emersi fatti nuovi, ma perché, in questo momento delicato, è inevitabile ripensare all’altra brutta storia legata al nome di Vittorio Emanuele. Ci sembra giusto non dimenticare questa vicenda e i suoi lati rimasti misteriosi.
Hamer dormiva a bordo dello yacht di suoi amici, ormeggiato nella baia dell’isola di Cavallo. Per una lite con il medico Niky Pende, animatore della dolce vita romana, fratello della giornalista Stella e già compagno di Stefania Sandrelli, Vittorio Emanuele, armato di un fucile di micidiale potenza, sparò nel buio. Fu arrestato, ma scarcerato dopo sette settimane. Quattro mesi, invece, durò il calvario del giovane Dirk nell’ospedale di Heidelberg (Germania). «Perché ritirassimo le accuse contro di lui», sostiene la famiglia Hamer, «Vittorio Emanuele ci offrì inutilmente prima mezzo, poi due, infine dieci milioni di marchi [che equivalgono a cinque milioni di attuali euro, ndr]». «Non è vero», ha testimoniato Marina Doria, moglie del principe, al processo di Parigi, «gli Hamer mi chiesero soldi per far fronte alle spese mediche e io, senza neppure consultare mio marito che in quei giorni era in prigione, inviai loro un centinaio di milioni di lire, a puro titolo umanitario. Ma non rappresentavano una confessione di colpevolezza. Quando poi il signor Hamer mi chiese altri soldi, rifiutai e allora lui si costituì parte civile».
«Non è normale in Francia che le inchieste per omicidio durino così a lungo», ha ammesso il giudice Gaston Carasco di Ajaccio, «di solito ci mettiamo uno o due anni. Però il principe di Savoia aveva degli ottimi avvocati». Aveva anche ottimi amici. Uno di questi era il presidente francese, Valéry Giscard d’Estaing. Il quale, però, nel 1981 perse le elezioni con François Mitterrand. Ma questo non accelerò l’inchiesta. Anzi, il padre di Hamer arrivò a denunciare per corruzione il ministro della Giustizia di Mitterrand, Robert Badinter, colpevole a suo avviso di essere anch’egli troppo amico di Paul Lombard, avvocato di Vittorio Emanuele.
Pare che il principe Savoia, al momento della sentenza, fosse preoccupato soprattutto per il figlio Emanuele Filiberto, allora diciannovenne, che avrebbe subìto un trauma in caso di condanna per omicidio. Invece, dopo due ore di camera di consiglio, la corte di Parigi (con tre magistrati di carriera e nove giurati popolari) condannò Vittorio Emanuele a sei mesi con la condizionale. Unica sua colpa: possesso illegale di arma da guerra.
Ma cosa successe esattamente nella notte maledetta fra il 17 e 18 agosto a Cavallo? Quella sera Vittorio Emanuele va a cena con la moglie Marina Doria e sei amici a Les Pecheurs, unico ristorante dell’isola. Nel locale c’è anche un altro gruppo, assai più numeroso e chiassoso: una trentina di giovanotti e signorine belli e ricchi, appena arrivati dalla Costa Smeralda su tre motoscafi. Fanno parte dell’allegra brigata, fra gli altri, il playboy Niky Pende, allora trentacinquenne, la principessa Paola Torlonia, i conti Paolo Poma e Giorgio e Vittorio Guglielmi, il marchese Clemente Gentiloni Silveri, l’imprenditore barese Gianfranco Amoruso, Fabiana Balestra figlia del sarto, l’avvocato Francesco Ago dello studio Carnelutti. Hanno ormeggiato nella Cala di Palma, vicino all’Aniram («Marina» alla rovescia) del principe, un cabinato Super America. Vittorio Emanuele, allora quantunenne, è infastidito. Spiegherà che temeva danni, un attacco brigatista (è l’anno del rapimento Moro) o il sequestro del figlio da parte di una banda di banditi sardi. E pare che qualche giovinastro sia anche salito sul suo panfilo, servendosi da bere.
Dopo mezzanotte la compagnia di Pende torna nei motoscafi, mentre i due Savoia portano in auto un’amica a casa. Al ritorno, Vittorio Emanuele si accorge che per salire a bordo gli italiani hanno usato il canotto Zodiac del figlio. Furibondo, va a casa e afferra il fucile calibro 7,62. Sono quasi le tre. Vuole recuperare subito il canotto. Sale sull’altro suo canotto e si dirige verso lo yacht Coke, al quale è rimasto legato lo Zodiac. Sua moglie gli fa luce da terra con i fari dell’auto. A questo punto le versioni del principe e di Pende divergono.
Sostiene il primo: «Stavo liberando lo Zodiac. Inavvertitamente ho urtato una bombola di ossigeno che è caduta nel pozzetto e ha cominciato a sibilare. Pende esce fuori e urla: “Che c.... vuoi, principe di m...?” Ho sparato in aria per intimorirlo, lui mi si è gettato addosso e mentre cadevamo in acqua è partito l’altro colpo». Racconta invece Pende: «Un rumore mi ha svegliato. Sono salito in coperta e ho visto quello lì armato di fucile che mi minacciava: “Italiani di m..., drogati, ora ve la faccio pagare”. Ha sparato una, due volte ad altezza d’uomo, mi sono abbassato per sfuggire ai suoi colpi, poi gli sono saltato addosso».
In ogni caso, il destino vuole che una pallottola trapassi lo scafo della barca vicina, dove dorme Dirk Hamer con la sorella Birgit (Miss Germania 1976), e gli spezzi un’arteria della coscia destra. Il proprietario della barca è Guglielmi, in odore di frequentazioni malavitose. A bordo viene trovata la mattina dopo una pistola Smith & Wesson calibro 38 con due proiettili mancanti. Il proprietario sosterrà di non averla usata da giorni. Per i legali del principe, invece, fu proprio quell’arma a colpire Hamer. La polizia francese non indagò.
Insomma, secondo la difesa quella notte non sparò soltanto il fucile M1. Alcuni testimoni giurano di aver sentito solo due colpi, altri ne ricordano quattro o cinque. La pallottola recuperata sul corpo del ferito è impossibile da attribuire, ne era rimasto solo uno spezzone del peso di quattro grammi e 25. «Non poteva provenire dalla mia carabina», sostiene il principe, «a parte la diversità di calibro quella pallottola era di piombo, mentre le mie erano rivestite con una lega di rame e ottone». Ci sarebbero stati i fori sulla barca che, però, venne riparata prima che la polizia si decidesse a esaminarla.
In un primo tempo Vittorio Emanuele dichiara: «Mi prendo la responsabilità delle ferite causate dalle pallottole sfuggite». Poi però la sua linea difensiva cambia: salta fuori la pistola. La quale tuttavia, secondo Umberto Ercole che dormiva vicino a Guglielmi, «quella sera era dentro al cassetto a tre centimetri dalla mia testa». Quanto agli altri colpi uditi da alcuni testimoni, potrebbero essere stati quelli dei razzi lanciati da qualche vicino per illuminare la baia, per capire che cosa stava succedendo nella notte. Invece il principe sospetta perfino che la pallottola partita da quella pistola fosse diretta proprio contro di lui, e che il corpo Dirk Hamer gli abbia fatto da scudo. Insomma, un tragico e incolpevole incidente, come ha stabilito la giustizia francese, o un tentato omicidio (contro Niky Pende) che ha causato per fatalità la morte dell’ignaro Dirk Hamer, come continuano ad accusare a quasi un quarto di secolo di distanza amici e parenti del ragazzo tedesco?
«In quella notte maledetta ci sono state due vittime», sostiene Vittorio Emanuele, «e la seconda sono io. Fino al 18 agosto del 1978 ero un uomo tranquillo e felice, l’unica angoscia era costituita dall’esilio. Improvvisamente sono diventato “quello che va in giro con la carabina a sparare alla gente”. E invece io con la morte di Hamer non c’entro niente».
«Tutta la mia famiglia è distrutta», ha concluso invece Ryke Geerd, il padre di Dirk Hamer, «mia moglie Sigrid è morta e io stesso ho avuto il cancro. Con mio figlio sono morto un po’ anch’io».
Mauro Suttora
Wednesday, June 28, 2006
L'acqua minerale è inutile
Indagine sulle acque potabili delle città italiane
Roma, giugno
L’acqua potabile migliore d’Italia si beve ad Aosta, Bergamo, Cagliari, L’Aquila e Pavia. Dai rubinetti di Ancona, Benevento, Campobasso, Perugia e Roma esce acqua discreta. La meno buona (ma bevibile con tranquillità) è quella di Genova, Milano, Napoli, Torino e Catanzaro. Sono questi i dati principali dell’ultima indagine sull’acqua potabile effettuata da Altroconsumo. Dalla quale risulta che nella media la qualità dell’acqua di casa rivaleggia con quella delle migliori acque minerali, pagate a peso d’oro.
Ci abbiamo messo cinquemila anni per far arrivare l’acqua potabile in ogni casa, ma in meno di mezzo secolo abbiamo sciupato questa conquista di civiltà. Non ci fidiamo più dell’acqua dei nostri rubinetti, al punto che gli italiani sono diventati i maggiori consumatori di acqua minerale al mondo. E, così come i nostri bisnonni andavano con i secchielli al pozzo, oggi siamo costretti a trasportare pesanti confezioni di bottiglie e a farne scorta in casa.
Ma davvero la situazione è così drammatica? Veramente l’inquinamento ha reso imbevibile la nostra acqua? «Assolutamente no», risponde la biologa Claudia Chiozzotto, che ha coordinato lo studio di Altroconsumo: «Tutte le analisi che abbiamo effettuato nei venti capoluoghi di regione e in altre quindici città ci dicono che la qualità è sempre entro i limiti di legge e mediamente buona, anche se c’è spazio per migliorare».
L’ultima inchiesta era stata fatta tre anni fa. Da allora è entrata in vigore una nuova legge con limiti più severi, che però sono tutti rispettati. Nel 2003 un campione superava i valori massimi (per i nitrati a Palermo) e altri non si erano ancora adeguati alla legge attuale, per la presenza di trielina e percloroetilene a Milano e Torino. Questa volta a Milano ne restano tracce, me il problema dei solventi è stato sostanzialmente risolto: segno che con gli interventi giusti la qualità dell’acqua può essere garantita. Anche le città con i risultati meno soddisfacenti rispettano i limiti di legge: la loro acqua è assolutamente bevibile. Le nostre paure sono quindi immotivate. Le buone notizie non fanno mai notizia, però almeno in questo caso possiamo stare tranquilli. Ma esaminiamo più da vicino i risultati dell’indagine, partendo dal metodo utilizzato.
«Abbiamo effettuato un prelievo dalla fontanella della piazza centrale di tutti i capoluoghi regionali», spiega la dottoressa Chiozzotto, «tranne che a Roma, Milano e Napoli, dove abbiamo prelevato più campioni in parti diverse delle città. L’acqua delle fontanelle pubbliche, infatti, è accessibile a tutti, e la sua qualità è diretta responsabilità dell’acquedotto, senza intermediari. In Lombardia e Campania, poi, abbiamo fatto analisi più approfondite, in ogni capoluogo di provincia. E a Milano e Napoli abbiamo prelevato campioni d’acqua anche da case private».
È stata valutata la presenza di moltissime sostanze. Il grado di acidità (pH), che la legge vuole compreso fra 6,5 e 9,5, è nella norma per tutti i campioni. Gli scienizati hanno poi misurato la «durezza» dell’acqua, espressa in gradi francesi: la legge consiglia che sia compresa fra i 15 e i 50. Nessun campione supera il limite, ma alcuni restano sotto la soglia minima: Genova (piazza Campetto) e Catanzaro (piazza Matteotti) hanno l’acqua più «dolce»: sei gradi. Seguono Como con otto e Cagliari e Sondrio (nove). All’altro estremo, invece, Salerno e Napoli hanno l’acqua più dura, con 38 e 36. Seguono Roma (33 a piazza San Pietro e Tiburtina), Milano (32 in piazza Grandi e via Nervesa), Brescia e Firenze. «Un’acqua più dura», dice la dottoressa Chiozzotto, «è più ricca di carbonati di calcio e magnesio, non ha effetti negativi sulla salute, ma può causare incrostazioni nelle tubature. Un’acqua molto dolce, al contrario, è povera di sali minerali, importanti per le funzioni vitali dell’organismo. Il limite inferiore di quindici gradi serve per frenare trattamenti di addolcimento molto spinti da parte degli acquedotti».
I «residui fissi» sono il cavallo di battaglia nelle pubblicità delle acqua minerali. Rappresentano la quantità di sali sciolti nell’acqua, e meno ce ne sono, meglio è. Il massimo consigliato dalla legge è 1.500 milligrammi per litro, e il campione che vi si avvicina di più (Napoli), ne è molto lontano: 540. Si può quindi dire che quasi tutte le nostre acque di rubinetto sono paragonabili alle oligominerali («oligos» significa «poco» in greco). Da questo punto di vista (ma solo da questo) le migliori risultano Genova (94) e Catanzaro (115); seguono Como (128), Sondrio (130), L’Aquila (163), Campobasso (170), Benevento (174) e Pavia (181).
Quanto al sodio, non è la sua presenza nell’acqua a provocare il rischio di un consumo eccessivo. Il sodio infatti è contenuto in quantità ben maggiori in moltissimi alimenti. Meglio perciò limitarneil consumo nella dieta, che preoccuparsi di quanto ne contiene il nostro bicchiere. Il limite di legge è comunque 200 mg/litro, mentre i valori trovati in tutti i campioni sono assai bassi, fra uno (L’Aquila), due (Lecco e Sondrio), quattro (Roma), 15 (Milano) e 28 a Napoli.
E veniamo al punto dolente (ma solo per gusto e odore): il cloro. I gestori degli acquedotti usano il biossido di cloro come disinfettante. In Italia si clora molto l’acqua perchè le tubature sono in gran parte vecchie, e di fronte al pericolo di una contaminazione si preferisce prevenire, con la possibile formazione di cloriti. Il valore di legge (200 microgrammi al litro) si è rivelato troppo stringente: molti acquedotti non sarebbero riusciti a rispettarlo. Perciò è prevista una deroga fino alla fine di quest’anno con una tolleranza aumentata a 800. Residui di cloriti sono stati trovati a Bari, Caserta, Mantova e Cremona, ma tutti al di sotto degli 800 microgrammi. E senza preoccupazioni per la salute, perchè il valore guida dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) è 700.
I limite per i nitrati è 50 mg/llitro. Superano i 30 solo Milano e Napoli, Varese è a 23, Brescia a 22, Torino a 18, Palermo a 17. Ma la stragrande maggioranza delle nostre città (anche Roma) stanno sotto ai dieci. Quanto ai metalli, si trovano tracce di alluminio a Genova (ma solo 82 microgrammi per litro contro un limite di 2009), arsenico (inquinamento industriale) in valori innocui a Bolzano, Como, Cremona, Napoli e Sondrio, cromo a Brescia, Milano e Genova (può essere rilasciato anche dai rubinetti), nichel a Genova. Nessun problema neanche dal piombo, che può essere rilasciato dai tubi vecchi: la quantità massima è stata rilevata a Firenze, 3 microgrammi contro il limite di dieci.
In 28 campioni su 43, infine, i solventi sono assenti. Ma trielina e trialometani (cloroformio e bromoformio) sono stati riscontrati a Milano, Napoli, Genova, Catanzaro e Bari. Anche se i valori sono inferiori alla metà del massimo consentito, i trialometani sono assai volatili: «Passano facilmente dall’acqua all’aria», avverte la dottoressa Chiozzotto, «e perciò possono essere inalati. Basta insomma farsi la doccia con acqua molto clorata per inalare grandi concentrazioni di cloroformio. Non è comunque un rischio che si corre con le quantità dei nostri campioni, innocue per la salute anche se indice di qualità non eccelsa dell’acqua».
Mauro Suttora
Roma, giugno
L’acqua potabile migliore d’Italia si beve ad Aosta, Bergamo, Cagliari, L’Aquila e Pavia. Dai rubinetti di Ancona, Benevento, Campobasso, Perugia e Roma esce acqua discreta. La meno buona (ma bevibile con tranquillità) è quella di Genova, Milano, Napoli, Torino e Catanzaro. Sono questi i dati principali dell’ultima indagine sull’acqua potabile effettuata da Altroconsumo. Dalla quale risulta che nella media la qualità dell’acqua di casa rivaleggia con quella delle migliori acque minerali, pagate a peso d’oro.
Ci abbiamo messo cinquemila anni per far arrivare l’acqua potabile in ogni casa, ma in meno di mezzo secolo abbiamo sciupato questa conquista di civiltà. Non ci fidiamo più dell’acqua dei nostri rubinetti, al punto che gli italiani sono diventati i maggiori consumatori di acqua minerale al mondo. E, così come i nostri bisnonni andavano con i secchielli al pozzo, oggi siamo costretti a trasportare pesanti confezioni di bottiglie e a farne scorta in casa.
Ma davvero la situazione è così drammatica? Veramente l’inquinamento ha reso imbevibile la nostra acqua? «Assolutamente no», risponde la biologa Claudia Chiozzotto, che ha coordinato lo studio di Altroconsumo: «Tutte le analisi che abbiamo effettuato nei venti capoluoghi di regione e in altre quindici città ci dicono che la qualità è sempre entro i limiti di legge e mediamente buona, anche se c’è spazio per migliorare».
L’ultima inchiesta era stata fatta tre anni fa. Da allora è entrata in vigore una nuova legge con limiti più severi, che però sono tutti rispettati. Nel 2003 un campione superava i valori massimi (per i nitrati a Palermo) e altri non si erano ancora adeguati alla legge attuale, per la presenza di trielina e percloroetilene a Milano e Torino. Questa volta a Milano ne restano tracce, me il problema dei solventi è stato sostanzialmente risolto: segno che con gli interventi giusti la qualità dell’acqua può essere garantita. Anche le città con i risultati meno soddisfacenti rispettano i limiti di legge: la loro acqua è assolutamente bevibile. Le nostre paure sono quindi immotivate. Le buone notizie non fanno mai notizia, però almeno in questo caso possiamo stare tranquilli. Ma esaminiamo più da vicino i risultati dell’indagine, partendo dal metodo utilizzato.
«Abbiamo effettuato un prelievo dalla fontanella della piazza centrale di tutti i capoluoghi regionali», spiega la dottoressa Chiozzotto, «tranne che a Roma, Milano e Napoli, dove abbiamo prelevato più campioni in parti diverse delle città. L’acqua delle fontanelle pubbliche, infatti, è accessibile a tutti, e la sua qualità è diretta responsabilità dell’acquedotto, senza intermediari. In Lombardia e Campania, poi, abbiamo fatto analisi più approfondite, in ogni capoluogo di provincia. E a Milano e Napoli abbiamo prelevato campioni d’acqua anche da case private».
È stata valutata la presenza di moltissime sostanze. Il grado di acidità (pH), che la legge vuole compreso fra 6,5 e 9,5, è nella norma per tutti i campioni. Gli scienizati hanno poi misurato la «durezza» dell’acqua, espressa in gradi francesi: la legge consiglia che sia compresa fra i 15 e i 50. Nessun campione supera il limite, ma alcuni restano sotto la soglia minima: Genova (piazza Campetto) e Catanzaro (piazza Matteotti) hanno l’acqua più «dolce»: sei gradi. Seguono Como con otto e Cagliari e Sondrio (nove). All’altro estremo, invece, Salerno e Napoli hanno l’acqua più dura, con 38 e 36. Seguono Roma (33 a piazza San Pietro e Tiburtina), Milano (32 in piazza Grandi e via Nervesa), Brescia e Firenze. «Un’acqua più dura», dice la dottoressa Chiozzotto, «è più ricca di carbonati di calcio e magnesio, non ha effetti negativi sulla salute, ma può causare incrostazioni nelle tubature. Un’acqua molto dolce, al contrario, è povera di sali minerali, importanti per le funzioni vitali dell’organismo. Il limite inferiore di quindici gradi serve per frenare trattamenti di addolcimento molto spinti da parte degli acquedotti».
I «residui fissi» sono il cavallo di battaglia nelle pubblicità delle acqua minerali. Rappresentano la quantità di sali sciolti nell’acqua, e meno ce ne sono, meglio è. Il massimo consigliato dalla legge è 1.500 milligrammi per litro, e il campione che vi si avvicina di più (Napoli), ne è molto lontano: 540. Si può quindi dire che quasi tutte le nostre acque di rubinetto sono paragonabili alle oligominerali («oligos» significa «poco» in greco). Da questo punto di vista (ma solo da questo) le migliori risultano Genova (94) e Catanzaro (115); seguono Como (128), Sondrio (130), L’Aquila (163), Campobasso (170), Benevento (174) e Pavia (181).
Quanto al sodio, non è la sua presenza nell’acqua a provocare il rischio di un consumo eccessivo. Il sodio infatti è contenuto in quantità ben maggiori in moltissimi alimenti. Meglio perciò limitarneil consumo nella dieta, che preoccuparsi di quanto ne contiene il nostro bicchiere. Il limite di legge è comunque 200 mg/litro, mentre i valori trovati in tutti i campioni sono assai bassi, fra uno (L’Aquila), due (Lecco e Sondrio), quattro (Roma), 15 (Milano) e 28 a Napoli.
E veniamo al punto dolente (ma solo per gusto e odore): il cloro. I gestori degli acquedotti usano il biossido di cloro come disinfettante. In Italia si clora molto l’acqua perchè le tubature sono in gran parte vecchie, e di fronte al pericolo di una contaminazione si preferisce prevenire, con la possibile formazione di cloriti. Il valore di legge (200 microgrammi al litro) si è rivelato troppo stringente: molti acquedotti non sarebbero riusciti a rispettarlo. Perciò è prevista una deroga fino alla fine di quest’anno con una tolleranza aumentata a 800. Residui di cloriti sono stati trovati a Bari, Caserta, Mantova e Cremona, ma tutti al di sotto degli 800 microgrammi. E senza preoccupazioni per la salute, perchè il valore guida dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) è 700.
I limite per i nitrati è 50 mg/llitro. Superano i 30 solo Milano e Napoli, Varese è a 23, Brescia a 22, Torino a 18, Palermo a 17. Ma la stragrande maggioranza delle nostre città (anche Roma) stanno sotto ai dieci. Quanto ai metalli, si trovano tracce di alluminio a Genova (ma solo 82 microgrammi per litro contro un limite di 2009), arsenico (inquinamento industriale) in valori innocui a Bolzano, Como, Cremona, Napoli e Sondrio, cromo a Brescia, Milano e Genova (può essere rilasciato anche dai rubinetti), nichel a Genova. Nessun problema neanche dal piombo, che può essere rilasciato dai tubi vecchi: la quantità massima è stata rilevata a Firenze, 3 microgrammi contro il limite di dieci.
In 28 campioni su 43, infine, i solventi sono assenti. Ma trielina e trialometani (cloroformio e bromoformio) sono stati riscontrati a Milano, Napoli, Genova, Catanzaro e Bari. Anche se i valori sono inferiori alla metà del massimo consentito, i trialometani sono assai volatili: «Passano facilmente dall’acqua all’aria», avverte la dottoressa Chiozzotto, «e perciò possono essere inalati. Basta insomma farsi la doccia con acqua molto clorata per inalare grandi concentrazioni di cloroformio. Non è comunque un rischio che si corre con le quantità dei nostri campioni, innocue per la salute anche se indice di qualità non eccelsa dell’acqua».
Mauro Suttora
Friday, June 16, 2006
La nuova donna di Paolo Berlusconi
Chi è la Cenerentola che ha conquistato il fratello del cavaliere
Mamma Rosa ha detto sì:
Patrizia merita un Berlusconi
Figlia di un emigrato, ex attrice ora produttrice, affascinante, un cerbero sul lavoro, dolce nella vita: Patrizia Marrocco, 29 anni, è una che brucia le tappe. Anche in amore. Paolo B. l’ha
subito presentata ai suoi. E lei dimostra di trovarsi a suo agio nella famiglia più potente d’Italia
Oggi, 16 giugno 2006
di Mauro Suttora
Che fine ha fatto Cenerentola? Questo è il titolo della prima commedia che ha prodotto due anni fa, scritta e interpretata dal comico romano Antonio Giuliani, che ha sbancato il botteghino del teatro Parioli di Roma. Ma oggi è lei, Patrizia Marrocco, 29 anni, bella, alta ed elegante pugliese, a essere la protagonista di una vicenda simile, dai contorni fiabeschi.
Figlia di un muratore costretto a emigrare in Germania, nata a Colonia il primo giorno di primavera del 1977, arriva a Roma, s’impegna, fa l’attrice, smette, decide di voler fare la produttrice, s’impegna ancora di più, ci riesce, e alla fine s’innamora del suo principe: il fratello dell’uomo più ricco e potente d’Italia.
Nel giro di due settimane l’affascinante Patrizia ha avuto quello che Natalia Estrada, ex eterna fidanzata di Paolo Berlusconi, aveva messo sette anni per ottenere: un’accoglienza festosa da parte dell’intera famigliona di Arcore, compresa la mitica signora Rosa, mamma di Paolo e Silvio.
È stato un vero e proprio colpo di fulmine, quello che ha investito Patrizia e Paolo. «Sono un po’ perplesso per la differenza d’età, ma contento per mia figlia, perché al telefono l’ho sentita felice», ci dice papà Giovanni Marrocco da Giurdignano, il suo paesino di 1.700 abitanti in provincia di Lecce dov’è tornato con la famiglia e dove ora fa il piccolo costruttore.
Sta raccogliendo le albicocche dagli alberi nel giardino dietro casa, e ha anche un ettaro e mezzo di uliveto. Patrizia ha una sorella più grande, Sonia di 37 anni, che vive con due figli in provincia di Ascoli Piceno assieme al marito carabiniere.
«Per capire il carattere forte di Patrizia basta che le racconti questo», dice il signor Marrocco, «quando sua sorella stava aspettando la nipotina Miriana, che oggi ha nove anni, lei continuava a dirle che voleva che nascesse il 21 marzo, lo stesso giorno suo. E così è stato, incredibilmente. Patrizia l’ha battezzata, e ora farà da madrina per la cresima». Patrizia ha anche un fratello maggiore e una sorella di 22 anni, Maria Elena, parrucchiera.
I suoi colleghi la descrivono legatissima alla famiglia, agli amici, ai valori della sua terra. insomma una ragazza così seria che sul lavoro l’hanno soprannominata «bella per caso»: un connubio fra bellezza e carattere, tenacia, voglia di migliorarsi.
Patrizia ha esordito da protagonista nel Morso del serpente, una fiction del ’99 con Gabriel Garko, Stefania Sandrelli e Aldo Giuffrè in cui era la sorella siciliana di un mafioso. Quindi è apparsa ne Il bello delle donne, ma poi ha chiuso con la carriera d’attrice: «Non mi piace apparire, preferisco stare dietro le quinte», ha spiegato.
E così è stato. Prima col teatro. Si è creato uno strettissimo sodalizio fra lei come produttrice, Giuliani come autore e protagonista, e l’attrice Eva Grimaldi. Dopo Che fine ha fatto Cenerentola?, lo scorso novembre altro successone al teatro Parioli di Maurizio Costanzo con Bravi a letto: due mesi e mezzo di repliche, record sia d’incassi che di presenze.
«E l’anno prossimo ci riproveremo con una nuova commedia, Odio il rosso», annuncia Giuliani. Che è amicissimo di Patrizia, anche se all’inizio l’impatto fu difficile: «Si mostrava così dura che a un certo punto glielo dissi: “A Patri’, lo sai che mi stai proprio antipatica?”»
Poi il ghiaccio si è sciolto e oggi la giovanissima produttrice protegge il suo autore-perla in tutti i modi: «Per il mio compleanno lei e mia moglie avevano organizzato una festa a sorpresa, prendendomi di nascosto il telefonino e chiamando tutti i miei amici, compreso Francesco Totti», racconta Giuliani. «Poi nel locale ammise i fotografi, ma solo dalle dieci alle undici e mezzo, severissima come sempre. A un certo punto io ballavo su un cubo assieme a mia moglie e a Eva Grimaldi. Quando Patrizia si accorse che un fotografo cercava di inquadrare solo me ed Eva, per poi costruirci sopra una storia, si arrabbiò moltissimo e si precipitò a bloccarlo. Insomma, un vero cerbero. E invece nel privato è una ragazza dolcissima. Basta vederla quand’è a casa a Zagarolo assieme alla sua cagnolina Frida, una beagle».
Fino all’inizio di quest’anno Patrizia era fidanzata con un ragazzo pugliese. Stavano insieme da undici anni, si erano conosciuti sui banchi di scuola (Patrizia ha il diploma di operatrice aziendale). Poi si è gettata nel lavoro: produttrice esecutiva per le ultime puntate di Onore e Rispetto, sceneggiato diretto da Salvatore Samperi con Virna Lisi e Serena Autieri, che sarà il piatto forte per Canale 5 in autunno.
Ora lavora a Roma per un altro film tv, Donne sbagliate, con Nancy Brilli e Manuela Arcuri. Subito dopo, a fine agosto, cominceranno le riprese per la seconda serie di Caterina e le sue figlie, sempre con Virna Lisi.
Paolo Berlusconi ha dietro di sé due matrimoni (con Mariella Bocciardo, appena eletta deputata di Forza Italia, e Antonella Costanzo), la lunga storia con la Estrada finita due mesi fa, e quattro figli. La più grande, Alessia, ha cinque anni più di Patrizia, e lo ha già reso nonno. È proprietario del quotidiano Il Giornale, del ramo immobiliare della Fininvest e di altre attività dell’impero berlusconiano.
Ma Patrizia Marrocco, nonostante la giovane età, non deve dimostrare niente a nessuno: la posizione cui è arrivata non gliel’ha regalata il principe azzurro. Cenerentola, quindi, ma solo fino a un certo punto.
Mauro Suttora
Mamma Rosa ha detto sì:
Patrizia merita un Berlusconi
Figlia di un emigrato, ex attrice ora produttrice, affascinante, un cerbero sul lavoro, dolce nella vita: Patrizia Marrocco, 29 anni, è una che brucia le tappe. Anche in amore. Paolo B. l’ha
subito presentata ai suoi. E lei dimostra di trovarsi a suo agio nella famiglia più potente d’Italia
Oggi, 16 giugno 2006
di Mauro Suttora
Che fine ha fatto Cenerentola? Questo è il titolo della prima commedia che ha prodotto due anni fa, scritta e interpretata dal comico romano Antonio Giuliani, che ha sbancato il botteghino del teatro Parioli di Roma. Ma oggi è lei, Patrizia Marrocco, 29 anni, bella, alta ed elegante pugliese, a essere la protagonista di una vicenda simile, dai contorni fiabeschi.
Figlia di un muratore costretto a emigrare in Germania, nata a Colonia il primo giorno di primavera del 1977, arriva a Roma, s’impegna, fa l’attrice, smette, decide di voler fare la produttrice, s’impegna ancora di più, ci riesce, e alla fine s’innamora del suo principe: il fratello dell’uomo più ricco e potente d’Italia.
Nel giro di due settimane l’affascinante Patrizia ha avuto quello che Natalia Estrada, ex eterna fidanzata di Paolo Berlusconi, aveva messo sette anni per ottenere: un’accoglienza festosa da parte dell’intera famigliona di Arcore, compresa la mitica signora Rosa, mamma di Paolo e Silvio.
È stato un vero e proprio colpo di fulmine, quello che ha investito Patrizia e Paolo. «Sono un po’ perplesso per la differenza d’età, ma contento per mia figlia, perché al telefono l’ho sentita felice», ci dice papà Giovanni Marrocco da Giurdignano, il suo paesino di 1.700 abitanti in provincia di Lecce dov’è tornato con la famiglia e dove ora fa il piccolo costruttore.
Sta raccogliendo le albicocche dagli alberi nel giardino dietro casa, e ha anche un ettaro e mezzo di uliveto. Patrizia ha una sorella più grande, Sonia di 37 anni, che vive con due figli in provincia di Ascoli Piceno assieme al marito carabiniere.
«Per capire il carattere forte di Patrizia basta che le racconti questo», dice il signor Marrocco, «quando sua sorella stava aspettando la nipotina Miriana, che oggi ha nove anni, lei continuava a dirle che voleva che nascesse il 21 marzo, lo stesso giorno suo. E così è stato, incredibilmente. Patrizia l’ha battezzata, e ora farà da madrina per la cresima». Patrizia ha anche un fratello maggiore e una sorella di 22 anni, Maria Elena, parrucchiera.
I suoi colleghi la descrivono legatissima alla famiglia, agli amici, ai valori della sua terra. insomma una ragazza così seria che sul lavoro l’hanno soprannominata «bella per caso»: un connubio fra bellezza e carattere, tenacia, voglia di migliorarsi.
Patrizia ha esordito da protagonista nel Morso del serpente, una fiction del ’99 con Gabriel Garko, Stefania Sandrelli e Aldo Giuffrè in cui era la sorella siciliana di un mafioso. Quindi è apparsa ne Il bello delle donne, ma poi ha chiuso con la carriera d’attrice: «Non mi piace apparire, preferisco stare dietro le quinte», ha spiegato.
E così è stato. Prima col teatro. Si è creato uno strettissimo sodalizio fra lei come produttrice, Giuliani come autore e protagonista, e l’attrice Eva Grimaldi. Dopo Che fine ha fatto Cenerentola?, lo scorso novembre altro successone al teatro Parioli di Maurizio Costanzo con Bravi a letto: due mesi e mezzo di repliche, record sia d’incassi che di presenze.
«E l’anno prossimo ci riproveremo con una nuova commedia, Odio il rosso», annuncia Giuliani. Che è amicissimo di Patrizia, anche se all’inizio l’impatto fu difficile: «Si mostrava così dura che a un certo punto glielo dissi: “A Patri’, lo sai che mi stai proprio antipatica?”»
Poi il ghiaccio si è sciolto e oggi la giovanissima produttrice protegge il suo autore-perla in tutti i modi: «Per il mio compleanno lei e mia moglie avevano organizzato una festa a sorpresa, prendendomi di nascosto il telefonino e chiamando tutti i miei amici, compreso Francesco Totti», racconta Giuliani. «Poi nel locale ammise i fotografi, ma solo dalle dieci alle undici e mezzo, severissima come sempre. A un certo punto io ballavo su un cubo assieme a mia moglie e a Eva Grimaldi. Quando Patrizia si accorse che un fotografo cercava di inquadrare solo me ed Eva, per poi costruirci sopra una storia, si arrabbiò moltissimo e si precipitò a bloccarlo. Insomma, un vero cerbero. E invece nel privato è una ragazza dolcissima. Basta vederla quand’è a casa a Zagarolo assieme alla sua cagnolina Frida, una beagle».
Fino all’inizio di quest’anno Patrizia era fidanzata con un ragazzo pugliese. Stavano insieme da undici anni, si erano conosciuti sui banchi di scuola (Patrizia ha il diploma di operatrice aziendale). Poi si è gettata nel lavoro: produttrice esecutiva per le ultime puntate di Onore e Rispetto, sceneggiato diretto da Salvatore Samperi con Virna Lisi e Serena Autieri, che sarà il piatto forte per Canale 5 in autunno.
Ora lavora a Roma per un altro film tv, Donne sbagliate, con Nancy Brilli e Manuela Arcuri. Subito dopo, a fine agosto, cominceranno le riprese per la seconda serie di Caterina e le sue figlie, sempre con Virna Lisi.
Paolo Berlusconi ha dietro di sé due matrimoni (con Mariella Bocciardo, appena eletta deputata di Forza Italia, e Antonella Costanzo), la lunga storia con la Estrada finita due mesi fa, e quattro figli. La più grande, Alessia, ha cinque anni più di Patrizia, e lo ha già reso nonno. È proprietario del quotidiano Il Giornale, del ramo immobiliare della Fininvest e di altre attività dell’impero berlusconiano.
Ma Patrizia Marrocco, nonostante la giovane età, non deve dimostrare niente a nessuno: la posizione cui è arrivata non gliel’ha regalata il principe azzurro. Cenerentola, quindi, ma solo fino a un certo punto.
Mauro Suttora
Wednesday, June 14, 2006
11 settembre: la fantaverità
New York (Stati Uniti)
Sulle Torri gemelle l'ombra del sospetto
«Crollarono perché qualcuno le aveva minate», sostengono i teorici del complotto riuniti in convegno a Chicago. Ecco tutto ciò che non quadra nella versione ufficiale dell’attacco agli Stati Uniti. E che lascia incredulo un americano su tre
Oggi, 14 giugno 2006
di Mauro Suttora
La Cia sapeva. Un anno prima che i quattro aerei dei terroristi islamici si schiantassero sulle Torri Gemelle e sul Pentagono l’11 settembre 2001, provocando tremila morti, una squadra speciale dei servizi segreti militari Usa aveva già individuato Mohamed Atta, capo del commando.
Si chiamava «Able Danger» (Pericolo possibile), quella squadra, ed era stata creata nel 1999 proprio per combattere il terrorismo internazionale e in particolare Al Qaeda, la rete di Osama Bin Laden. Perché non lo fermarono?
Di questo e di molti altri misteri si è parlato lo scorso fine settimana a Chicago, durante un congresso dell’associazione «9/11: Revealing the Truth» («11 settembre: Rivelare la verità»), che ha denunciato tutte le contraddizioni che avvolgono la strage. «Ci sono ancora un sacco di aspetti poco chiari sul crollo delle Torri a New York, sull’aereo che avrebbe colpito il Pentagono, e su quello che secondo le versioni ufficiali sarebbe stato fatto cadere dagli stessi viaggiatori, opponendosi ai terroristi che volevano farlo schiantare sulla Casa Bianca», dice Janice Matthews, direttrice dell’organizzazione.
Molti liquidano i sostenitori della «teoria del complotto» come visionari. Ma ben 70 milioni di americani, secondo i sondaggi, non credono al governo e ritengono impossibile che 19 terroristi abbiano potuto circolare impunemente per anni negli Usa.
Curt Weldon, per esempio, è il contrario di un pacifista: 58 anni, da ben venti deputato repubblicano per la Pennsylvania (stesso partito del presidente George Bush junior), vicepresidente della commissione Forze armate.
Nell’estate 2005 Weldon ha lanciato un’accusa gravissima: «L’unità Able Danger aveva identificato Atta e tre complici. Non solo l’allarme cadde nel vuoto, perchè la Cia era gelosa e non voleva invasioni di campo da parte di un’altra agenzia spionistica, ma la squadra venne sciolta nel 2000».
Le accuse di Weldon sono confermate dall’ex direttore dell’Fbi Louis Freeh, dal colonnello decorato che dirigeva la squadra segreta e da quattro suoi colleghi. La traduttrice dell’Fbi Sibel Edmonds, 33 anni, aggiunge: «Ho visto con i miei occhi documenti che dettagliavano attacchi di quel tipo, contro città con grattacieli». Ma il Congresso, nonostante le firme di 235 deputati, non ha mai aperto un’inchiesta sul perchè la Cia insabbiò la preziosa segnalazione.
Il Pentagono, dopo aver sostenuto per mesi che tutta la documentazione sull’attività di Able Danger era stata distrutta, tre settimane fa ha ammesso che esistono 9.500 pagine di documenti che riguardano la squadra. Ha negato però che contengano riferimenti scritti ad Atta. In ogni caso rifiuta di rendere pubbliche le pagine, e impedisce ai propri dirigenti di affrontare l’argomento sotto giuramento davanti al Congresso.
Gli scettici non capiscono come i terroristi abbiano potuto frequentare scuole di volo americane senza essere notati, e chiedono altre indagini sul fallimento delle ben quindici agenzie di spionaggio americano, che nonostante costino ai contribuenti una trentina di miliardi di dollari annui (perfino la cifra totale è segreta), sembrano passare la maggior parte del loro tempo a farsi la guerra fra loro, e non sono riuscite a localizzare né Osama Bin Laden, né il suo vice Al Zawahiri, né il capo dei talebani afgani mullah Omar.
D’altra parte, è da 43 anni che dura il mistero sull’assassinio del presidente John Kennedy. E certo non aiuta a stabilire la verità il comportamento di Cia e Pentagono, che a quasi cinque anni dall’avvenimento oppongono ancora il segreto a una completa ricostruzione dei fatti. «Se rivelassimo certi particolari danneggeremmo la lotta al terrorismo», sostengono le gerarchie militari. Ma quando lo fanno, a volte peggiorano le cose. Come con la recente pubblicazione di alcuni fermo-immagine dell’aereo che si abbatté sul palazzo del Pentagono, quartier generale delle forze armate statunitensi a Washington (che per ironia della sorte venne inaugurato l’11 settembre 1941, esattamente sessant’anni prima dell’attacco).
«L’Fbi tiene sotto sequestro ben 85 videotape dell’attacco al Pentagono», hanno commentato gli scettici a Chicago, «ma ci permette di vedere solo poche e confuse inquadrature di un qualcosa che forse è un aereo, incredibilmente in volo per quasi un chilometro rasoterra, con manovra degna più di un pilota acrobatico che di un terrorista arabo apprendista pilota. Ma potrebbe essere un missile, anche perché un tecnico della Rolls Royce non ha riconosciuto fra i resti quelli del motore abitualmente montato sui Boeing 757. Mostrateci piuttosto le immagini provenienti dalle telecamere del vicino hotel Sheraton, del benzinaio Citgo o del ministero dei Trasporti della Virginia, che presumibilmente sono più chiare».
«Il video del Pentagono non chiarifica nulla, non si vede un aereo in quelle immagini», conferma Michael Berger, portavoce di 911Truth.org.
Fra gli scettici ci sono, comprensibilmente, parecchi familiari delle tremila vittime. E anche dei trecento fra poliziotti e pompieri newyorkesi che si sarebbero salvati se le Torri non fossero cadute. Ed è proprio questo uno dei punti controversi: alcune foto mostrano infatti delle piccole esplosioni avvenire poche secondi prima del crollo, come se nella struttura ci fossero state delle cariche esplosive. Che potrebbero essere benissimo degli scoppi provocati dall’incendio: ma anche in questo caso occorrerebbe più trasparenza da parte delle autorità.
«È impossibile che le strutture di acciaio delle Torri gemelle si siano sciolte per l’incendio», accusa Kevin Ryan, chimico di professione e dirigente della società che ne certificò la solidità. Ed è strano anche che le Torri siano crollate su se stesse, come accade appunto quando si vuole abbattere un edificio sotto controllo, piazzando esplosivi in punti determinati.
Molte altre risposte non sono state date. Eccone alcune.
1) L’antrace: chi mise la micidiale polverina su alcune lettere spedite per posta, ammazzando cinque persone e spargendo terrore per settimane in tutti gli Stati Uniti?
2) Condoleezza Rice: che cosa ha veramente scritto nel suo memorandum su Al Qaeda del 6 agosto 2001 al presidente? Bush non ha mai voluto rivelarne il testo.
3) Perché il ministro della Giustizia John Ashcroft e alcuni dirigenti del Pentagono cancellarono i loro viaggi su voli di linea, prendendo aerei privati nei giorni precedenti l’attacco? Era circolato un allarme?
4) Come mai la potentissima difesa aerea americana, allenata da decenni a intercettare immediatamente il più piccolo aereo sospetto, ci mise 25 minuti per capire che un aereo era stato dirottato e si stava dirigendo su New York? Perché non fece nulla per 47 minuti contro l’aereo che colpì il Pentagono? E come mai nessuno è stato punito per l’inefficienza più grave dai tempi di Pearl Harbor?
5) Viceversa, perché non ipotizzare che il volo 93, caduto in Pennsylvania, sia stato abbattuto da caccia militari? Sarebbe stata un’azione agghiacciante ma necessaria, visto che i terroristi lo stavano dirigendo verso la Casa Bianca. Ora anche un film (che presto arriverà sugli schermi italiani) prende automaticamente per buona la tesi ufficiale di un’eroica resistenza da parte dei passeggeri, che avrebbe causato la caduta.
6) Dove sono finite le quattro scatole nere «indistruttibili» dei due aerei delle Torri Gemelle?
7) Perché il ministro della Difesa Donald Rumsfeld cercò subito di incolpare dell’attacco Saddam Hussein? Aveva bisogno di un casus belli? Nel 2000 un centro studi neocon (servatore) aveva profetizzato testualmente che per far accettare agli americani un aumento delle spese militari c’era bisogno di «un evento catastrofico e catalizzante, come una nuova Pearl Harbor».
I sostenitori della teoria del complotto non arrivano ad accusare Bush di avere provocato deliberatamente l’11 settembre, nè di aver chiuso un occhio. Però constatano che le spese militari Usa, che erano di 300 miliardi di dollari annui nel 2001, oggi superano l’astronomica cifra di 500 miliardi.
Esattamente come Bush aveva promesso ai suoi finanziatori delle industrie di armamenti e ai generali in campagna elettorale. «In questo senso, purtroppo, l’11 settembre è stato come il cacio sui maccheroni», commenta il professore universitario Chalmers Johnson, autore del libro 'Le Lacrime dell’Impero', tradotto in Italia l’anno scorso da Garzanti.
Mauro Suttora
Sulle Torri gemelle l'ombra del sospetto
«Crollarono perché qualcuno le aveva minate», sostengono i teorici del complotto riuniti in convegno a Chicago. Ecco tutto ciò che non quadra nella versione ufficiale dell’attacco agli Stati Uniti. E che lascia incredulo un americano su tre
Oggi, 14 giugno 2006
di Mauro Suttora
La Cia sapeva. Un anno prima che i quattro aerei dei terroristi islamici si schiantassero sulle Torri Gemelle e sul Pentagono l’11 settembre 2001, provocando tremila morti, una squadra speciale dei servizi segreti militari Usa aveva già individuato Mohamed Atta, capo del commando.
Si chiamava «Able Danger» (Pericolo possibile), quella squadra, ed era stata creata nel 1999 proprio per combattere il terrorismo internazionale e in particolare Al Qaeda, la rete di Osama Bin Laden. Perché non lo fermarono?
Di questo e di molti altri misteri si è parlato lo scorso fine settimana a Chicago, durante un congresso dell’associazione «9/11: Revealing the Truth» («11 settembre: Rivelare la verità»), che ha denunciato tutte le contraddizioni che avvolgono la strage. «Ci sono ancora un sacco di aspetti poco chiari sul crollo delle Torri a New York, sull’aereo che avrebbe colpito il Pentagono, e su quello che secondo le versioni ufficiali sarebbe stato fatto cadere dagli stessi viaggiatori, opponendosi ai terroristi che volevano farlo schiantare sulla Casa Bianca», dice Janice Matthews, direttrice dell’organizzazione.
Molti liquidano i sostenitori della «teoria del complotto» come visionari. Ma ben 70 milioni di americani, secondo i sondaggi, non credono al governo e ritengono impossibile che 19 terroristi abbiano potuto circolare impunemente per anni negli Usa.
Curt Weldon, per esempio, è il contrario di un pacifista: 58 anni, da ben venti deputato repubblicano per la Pennsylvania (stesso partito del presidente George Bush junior), vicepresidente della commissione Forze armate.
Nell’estate 2005 Weldon ha lanciato un’accusa gravissima: «L’unità Able Danger aveva identificato Atta e tre complici. Non solo l’allarme cadde nel vuoto, perchè la Cia era gelosa e non voleva invasioni di campo da parte di un’altra agenzia spionistica, ma la squadra venne sciolta nel 2000».
Le accuse di Weldon sono confermate dall’ex direttore dell’Fbi Louis Freeh, dal colonnello decorato che dirigeva la squadra segreta e da quattro suoi colleghi. La traduttrice dell’Fbi Sibel Edmonds, 33 anni, aggiunge: «Ho visto con i miei occhi documenti che dettagliavano attacchi di quel tipo, contro città con grattacieli». Ma il Congresso, nonostante le firme di 235 deputati, non ha mai aperto un’inchiesta sul perchè la Cia insabbiò la preziosa segnalazione.
Il Pentagono, dopo aver sostenuto per mesi che tutta la documentazione sull’attività di Able Danger era stata distrutta, tre settimane fa ha ammesso che esistono 9.500 pagine di documenti che riguardano la squadra. Ha negato però che contengano riferimenti scritti ad Atta. In ogni caso rifiuta di rendere pubbliche le pagine, e impedisce ai propri dirigenti di affrontare l’argomento sotto giuramento davanti al Congresso.
Gli scettici non capiscono come i terroristi abbiano potuto frequentare scuole di volo americane senza essere notati, e chiedono altre indagini sul fallimento delle ben quindici agenzie di spionaggio americano, che nonostante costino ai contribuenti una trentina di miliardi di dollari annui (perfino la cifra totale è segreta), sembrano passare la maggior parte del loro tempo a farsi la guerra fra loro, e non sono riuscite a localizzare né Osama Bin Laden, né il suo vice Al Zawahiri, né il capo dei talebani afgani mullah Omar.
D’altra parte, è da 43 anni che dura il mistero sull’assassinio del presidente John Kennedy. E certo non aiuta a stabilire la verità il comportamento di Cia e Pentagono, che a quasi cinque anni dall’avvenimento oppongono ancora il segreto a una completa ricostruzione dei fatti. «Se rivelassimo certi particolari danneggeremmo la lotta al terrorismo», sostengono le gerarchie militari. Ma quando lo fanno, a volte peggiorano le cose. Come con la recente pubblicazione di alcuni fermo-immagine dell’aereo che si abbatté sul palazzo del Pentagono, quartier generale delle forze armate statunitensi a Washington (che per ironia della sorte venne inaugurato l’11 settembre 1941, esattamente sessant’anni prima dell’attacco).
«L’Fbi tiene sotto sequestro ben 85 videotape dell’attacco al Pentagono», hanno commentato gli scettici a Chicago, «ma ci permette di vedere solo poche e confuse inquadrature di un qualcosa che forse è un aereo, incredibilmente in volo per quasi un chilometro rasoterra, con manovra degna più di un pilota acrobatico che di un terrorista arabo apprendista pilota. Ma potrebbe essere un missile, anche perché un tecnico della Rolls Royce non ha riconosciuto fra i resti quelli del motore abitualmente montato sui Boeing 757. Mostrateci piuttosto le immagini provenienti dalle telecamere del vicino hotel Sheraton, del benzinaio Citgo o del ministero dei Trasporti della Virginia, che presumibilmente sono più chiare».
«Il video del Pentagono non chiarifica nulla, non si vede un aereo in quelle immagini», conferma Michael Berger, portavoce di 911Truth.org.
Fra gli scettici ci sono, comprensibilmente, parecchi familiari delle tremila vittime. E anche dei trecento fra poliziotti e pompieri newyorkesi che si sarebbero salvati se le Torri non fossero cadute. Ed è proprio questo uno dei punti controversi: alcune foto mostrano infatti delle piccole esplosioni avvenire poche secondi prima del crollo, come se nella struttura ci fossero state delle cariche esplosive. Che potrebbero essere benissimo degli scoppi provocati dall’incendio: ma anche in questo caso occorrerebbe più trasparenza da parte delle autorità.
«È impossibile che le strutture di acciaio delle Torri gemelle si siano sciolte per l’incendio», accusa Kevin Ryan, chimico di professione e dirigente della società che ne certificò la solidità. Ed è strano anche che le Torri siano crollate su se stesse, come accade appunto quando si vuole abbattere un edificio sotto controllo, piazzando esplosivi in punti determinati.
Molte altre risposte non sono state date. Eccone alcune.
1) L’antrace: chi mise la micidiale polverina su alcune lettere spedite per posta, ammazzando cinque persone e spargendo terrore per settimane in tutti gli Stati Uniti?
2) Condoleezza Rice: che cosa ha veramente scritto nel suo memorandum su Al Qaeda del 6 agosto 2001 al presidente? Bush non ha mai voluto rivelarne il testo.
3) Perché il ministro della Giustizia John Ashcroft e alcuni dirigenti del Pentagono cancellarono i loro viaggi su voli di linea, prendendo aerei privati nei giorni precedenti l’attacco? Era circolato un allarme?
4) Come mai la potentissima difesa aerea americana, allenata da decenni a intercettare immediatamente il più piccolo aereo sospetto, ci mise 25 minuti per capire che un aereo era stato dirottato e si stava dirigendo su New York? Perché non fece nulla per 47 minuti contro l’aereo che colpì il Pentagono? E come mai nessuno è stato punito per l’inefficienza più grave dai tempi di Pearl Harbor?
5) Viceversa, perché non ipotizzare che il volo 93, caduto in Pennsylvania, sia stato abbattuto da caccia militari? Sarebbe stata un’azione agghiacciante ma necessaria, visto che i terroristi lo stavano dirigendo verso la Casa Bianca. Ora anche un film (che presto arriverà sugli schermi italiani) prende automaticamente per buona la tesi ufficiale di un’eroica resistenza da parte dei passeggeri, che avrebbe causato la caduta.
6) Dove sono finite le quattro scatole nere «indistruttibili» dei due aerei delle Torri Gemelle?
7) Perché il ministro della Difesa Donald Rumsfeld cercò subito di incolpare dell’attacco Saddam Hussein? Aveva bisogno di un casus belli? Nel 2000 un centro studi neocon (servatore) aveva profetizzato testualmente che per far accettare agli americani un aumento delle spese militari c’era bisogno di «un evento catastrofico e catalizzante, come una nuova Pearl Harbor».
I sostenitori della teoria del complotto non arrivano ad accusare Bush di avere provocato deliberatamente l’11 settembre, nè di aver chiuso un occhio. Però constatano che le spese militari Usa, che erano di 300 miliardi di dollari annui nel 2001, oggi superano l’astronomica cifra di 500 miliardi.
Esattamente come Bush aveva promesso ai suoi finanziatori delle industrie di armamenti e ai generali in campagna elettorale. «In questo senso, purtroppo, l’11 settembre è stato come il cacio sui maccheroni», commenta il professore universitario Chalmers Johnson, autore del libro 'Le Lacrime dell’Impero', tradotto in Italia l’anno scorso da Garzanti.
Mauro Suttora
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