Ora ve le racconto io le diavolesse di New York
Un nostro giornalista, dopo lunga esperienza personale, svela i segreti più intimi delle favolose donne di Manhattan: amore, sesso, lavoro, soldi, cucina. E le manie per shopping, vestiti e unghie... Proprio come nei film
di Mauro Suttora
13 settembre 2006
Le donne di New York. Esseri leggendari e misteriosi, celebrati in tv dal serial Sex and the City, e che ora tornano alla ribalta nel film Il Diavolo veste Prada. Presentato al festival di Venezia, questo affresco della tumultuosa vita a Manhattan con Meryl Streep ha già incassato più di 120 milioni di dollari negli Stati Uniti, e arriverà sui nostri schermi il 13 ottobre.
«Ma come sono veramente le donne di Sex and the City?», hanno continuato a chiedermi gli amici italiani negli ultimi quattro anni, mentre ero corrispondente di Oggi dalla Grande Mela. Perché la guerra di Bush in Iraq avrà anche appannato l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, ma New York resta sempre la metropoli più grande e affascinante della Terra. La capitale dell’impero.
Sono arrivato a Manhattan da single, ho conosciuto varie donne newyorkesi, ho convissuto per un anno con una di loro. Conosco quindi bene il mondo delle «fashion victims», le vittime della moda prese in giro sia da Sex and the City, sia da Il Diavolo veste Prada. Anche perché la mia ex fidanzata e le sue amiche proprio in quell’ambiente lavoravano. Con boss tremende e nevropatiche come la direttrice di giornale femminile interpretata dalla Streep.
La mia risposta alla domanda degli amici quindi é: «Tutto vero». Le stranezze e le follie raccontate nel serial tv e nel film (e anche in Desperate Housewives, le casalinghe disperate dei quartieri residenziali) dipingono bene la realtà. Per carità, anche in Italia, nel mondo del lavoro, nelle grandi città, nell’ambito isterico della moda e del business in generale c’è competizione, arrivismo, stress. Ma a Manhattan, forse a causa dell’energia sprigionata dall’ammasso di grattacieli in cui si vive e lavora, tutto sembra moltiplicarsi.
Lei, Marsha, era bella, sexy, irresistibile. Un pò come Andrea, l’altra protagonista di Il Diavolo veste Prada, interpretata dalla giovane ma già sofisticata Anne Hathaway (che nella vita reale è fidanzata con un giovane italiano, Raffaello Follieri). Lavorava moltissimo, era ossessionata dalla carriera. Ma trovava il tempo di venirmi a trovare nella redazione di Oggi, sopra la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada. Le piaceva, perchè questo è il centro della zona dei negozi: fra Tiffany, Bulgari, Luis Vuitton, Fendi, Ferragamo. In pratica era come se lavorassi a Roma in via Condotti, o a Milano in via Montenapoleone.
Ho capito l’importanza di questa mia location strategica pochi giorni dopo il mio arrivo a New York, quando femmine fredde appena conosciute si accendevano entusiaste solo al comunicar loro il mio indirizzo. «Passerò sicuramente a trovarti», mi disse anche l’incantevole Marsha. Grazie a lei sono entrato in un mondo di limousines, ricevimenti al Waldorf Astoria e club esclusivi che è quello tipico di Manhattan. Non l’unico, ovviamente: ci sono anche gli artisti del Greenwich Village, gli impiegati di Wall Street, gli intellettuali ebrei dell’Upper West Side (dove abitavo io). O i milioni di immigrati che pendolano con le periferie di Brooklyn e Bronx: arrivano ogni mattina a Manhattan con la metropolitana, fanno funzionare il circo dei miliardari, ma alla sera devono tornare a casa perché non possono permettersene gli affitti.
Tuttavia, come appare chiaro dal film e dal serial tv, il mondo apparentemente fastoso e festoso di New York soffre anch’esso di un male. Incurabile: la solitudine. Questa è la città con la più alta concentrazione mondiale di single: quasi la metà degli abitanti vive da sola. Il consumo dell’antidepressivo Prozac è decuplicato negli ultimi dieci anni. E la sera e nei weekend tutti sono alla ricerca di compagnia, anche occasionale, nei ristoranti come nei parchi.
«Are you George?», mi ha chiesto una domenica una bella signorina mentre leggevo il New York Times su una panchina di Central Park. No, ho risposto interdetto. Poi ho capito: era una delle migliaia di persone che si danno appuntamento «al buio», poco dopo essersi conosciute su internet. Tante volte sono finito a parties di compleanno di businessmen nei loro attici di Park Avenue. Non li conoscevo, non li conosceva neppure Marsha, e poi scoprivamo che non erano neppure amici delle amiche di Marsha che ci invitavano. Ma si sentivano soli, e così convocavano più gente possibile.
Mi sono capitate avventure esilaranti, in positivo e negativo, proprio come quelle in cui incappano la Carrie Bradshaw di Sex and the City, o la Andrea di Il Diavolo veste Prada. La mia prima fidanzata americana mi lasciò in tronco con un’e-mail, dopo un mese che stavamo assieme. Il giorno prima preparavamo un viaggio in Italia e lei voleva presentarmi ai suoi, il giorno dopo non voleva neppure vedermi o sentirmi al telefono. «Non può funzionare Mauro, minimizziamo le perdite, non perdiamo altro tempo», mi scrisse su quell’ultima e-mail. Poi scoprii che usciva contemporaneamente anche con un altro, e che per qualche settimana ci aveva soppesato, paragonandoci. Alla fine ha scelto quello che le sembrava il migliore. «Non stupirti, è un metodo crudele ma pragmatico, lo fanno in molti qui», mi ha consolato un amico.
Sono passati esattamente cinque anni dalla strage dell’11 settembre 2001, quando molti sentenziarono: «Nulla sarà più come prima». E invece piano piano a New York tutto è tornato come prima, con milioni di persone che ogni sera si addobbano in vestiti costosissimi ed escono per divertirsi: cinema, teatri a Broadway, musica, musei, feste. Gli americani sono estroversi, ottimisti, simpatici. Pieni di divertenti tic.
Marsha si svegliava alle sei del mattino, dava un’occhiata alla sua e-mail sul computer, poi scendeva a fare jogging al parco e quando risaliva a casa aveva giusto il tempo di farsi una doccia ascoltando alla tv le notizie del mattino, per poi scaraventarsi al lavoro in metrò. La colazione la faceva di corsa per strada, come tutti si comprava al volo un bicchierone di polistirolo e se lo portava in mano bevendo il caffè con la cannuccia fino al suo grattacielo.
Alla sera, se non mi trascinava a qualche «evento» (vernice di mostra, inaugurazione di negozio, prima di un film), tornava a casa esausta dal lavoro, apriva il frigo e mangiava le sue insalatine biologiche non condite, tofu, latte di soia. Era magrissima, eppure aveva il terrore di ingrassare. Dormiva addirittura a pancia in giù, «altrimenti il sedere mi si allarga». Una volta al mese mi faceva da mangiare. Un gran regalo. Sapendo che sono ghiotto di hot dog, una volta mi ha cotto un enorme wurstel. Era così orgogliosa di questa sua impresa che non osai dirle quanto facesse schifo. Poi però andai a controllare in frigo. Sull’etichetta c’era scritto: «Hot dog senza carne». Lei era convinta che fosse il massimo.
Marsha era innamoratissima, ma a letto spesso era così stanca che mi sussurrava: «Ho bisogno di rilassarmi, Mauro. Accarezzami la schiena, massaggiami i piedi, fammi il solletico sulle braccia...». Io eseguivo speranzoso, illudendomi che fossero preliminari. Ma poi si addormentava.
Per sfogarmi, ho raccontato queste mie (dis)avventure sul settimanale New York Observer. Mi hanno subito affidato entusiasti una rubrica, quella del maschio europeo che osserva incuriosito i riti della femmina americana: shopping, manicure, pedicure, ginnastica (anzi: pilates), lotta contro le carte di credito sempre in rosso, gala di beneficenza, telefonate alle amiche, weekend obbligatori agli Hamptons... Poco spazio per l’amore e anche per il sesso. Eppure New York è sempre la città dove - più di ogni altro posto al mondo - quando ci si alza al mattino non si sa mai bene in quale letto si finirà alla sera. Ma tutta questa promiscuità alla fine sembra di scarsa soddisfazione: le statistiche registrano calo del desiderio, aumento di frigidità, viagra, autoerotismo. I più annoiati si dichiarano bisessuali.
Per questo il titolo delle mie rubriche è No Sex in the City. Le ho raccolte e tradotte in un libro omonimo che l’editore Cairo pubblicherà in Italia fra un mese, un giorno prima dell’uscita nei cinema de Il Diavolo veste Prada. Il 12 ottobre: anniversario della scoperta dell’America. In ogni senso. Ah, le allegre, aggressive e vitaminizzate donne americane, in tacchi a spillo o ciabatte infradito, con le loro unghie pittatissime di colori fosforescenti! Come ameremmo amarle: se solo ce lo permettessero...
Mauro Suttora
Un nostro giornalista, dopo lunga esperienza personale, svela i segreti più intimi delle favolose donne di Manhattan: amore, sesso, lavoro, soldi, cucina. E le manie per shopping, vestiti e unghie... Proprio come nei film
di Mauro Suttora
13 settembre 2006
Le donne di New York. Esseri leggendari e misteriosi, celebrati in tv dal serial Sex and the City, e che ora tornano alla ribalta nel film Il Diavolo veste Prada. Presentato al festival di Venezia, questo affresco della tumultuosa vita a Manhattan con Meryl Streep ha già incassato più di 120 milioni di dollari negli Stati Uniti, e arriverà sui nostri schermi il 13 ottobre.
«Ma come sono veramente le donne di Sex and the City?», hanno continuato a chiedermi gli amici italiani negli ultimi quattro anni, mentre ero corrispondente di Oggi dalla Grande Mela. Perché la guerra di Bush in Iraq avrà anche appannato l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, ma New York resta sempre la metropoli più grande e affascinante della Terra. La capitale dell’impero.
Sono arrivato a Manhattan da single, ho conosciuto varie donne newyorkesi, ho convissuto per un anno con una di loro. Conosco quindi bene il mondo delle «fashion victims», le vittime della moda prese in giro sia da Sex and the City, sia da Il Diavolo veste Prada. Anche perché la mia ex fidanzata e le sue amiche proprio in quell’ambiente lavoravano. Con boss tremende e nevropatiche come la direttrice di giornale femminile interpretata dalla Streep.
La mia risposta alla domanda degli amici quindi é: «Tutto vero». Le stranezze e le follie raccontate nel serial tv e nel film (e anche in Desperate Housewives, le casalinghe disperate dei quartieri residenziali) dipingono bene la realtà. Per carità, anche in Italia, nel mondo del lavoro, nelle grandi città, nell’ambito isterico della moda e del business in generale c’è competizione, arrivismo, stress. Ma a Manhattan, forse a causa dell’energia sprigionata dall’ammasso di grattacieli in cui si vive e lavora, tutto sembra moltiplicarsi.
Lei, Marsha, era bella, sexy, irresistibile. Un pò come Andrea, l’altra protagonista di Il Diavolo veste Prada, interpretata dalla giovane ma già sofisticata Anne Hathaway (che nella vita reale è fidanzata con un giovane italiano, Raffaello Follieri). Lavorava moltissimo, era ossessionata dalla carriera. Ma trovava il tempo di venirmi a trovare nella redazione di Oggi, sopra la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada. Le piaceva, perchè questo è il centro della zona dei negozi: fra Tiffany, Bulgari, Luis Vuitton, Fendi, Ferragamo. In pratica era come se lavorassi a Roma in via Condotti, o a Milano in via Montenapoleone.
Ho capito l’importanza di questa mia location strategica pochi giorni dopo il mio arrivo a New York, quando femmine fredde appena conosciute si accendevano entusiaste solo al comunicar loro il mio indirizzo. «Passerò sicuramente a trovarti», mi disse anche l’incantevole Marsha. Grazie a lei sono entrato in un mondo di limousines, ricevimenti al Waldorf Astoria e club esclusivi che è quello tipico di Manhattan. Non l’unico, ovviamente: ci sono anche gli artisti del Greenwich Village, gli impiegati di Wall Street, gli intellettuali ebrei dell’Upper West Side (dove abitavo io). O i milioni di immigrati che pendolano con le periferie di Brooklyn e Bronx: arrivano ogni mattina a Manhattan con la metropolitana, fanno funzionare il circo dei miliardari, ma alla sera devono tornare a casa perché non possono permettersene gli affitti.
Tuttavia, come appare chiaro dal film e dal serial tv, il mondo apparentemente fastoso e festoso di New York soffre anch’esso di un male. Incurabile: la solitudine. Questa è la città con la più alta concentrazione mondiale di single: quasi la metà degli abitanti vive da sola. Il consumo dell’antidepressivo Prozac è decuplicato negli ultimi dieci anni. E la sera e nei weekend tutti sono alla ricerca di compagnia, anche occasionale, nei ristoranti come nei parchi.
«Are you George?», mi ha chiesto una domenica una bella signorina mentre leggevo il New York Times su una panchina di Central Park. No, ho risposto interdetto. Poi ho capito: era una delle migliaia di persone che si danno appuntamento «al buio», poco dopo essersi conosciute su internet. Tante volte sono finito a parties di compleanno di businessmen nei loro attici di Park Avenue. Non li conoscevo, non li conosceva neppure Marsha, e poi scoprivamo che non erano neppure amici delle amiche di Marsha che ci invitavano. Ma si sentivano soli, e così convocavano più gente possibile.
Mi sono capitate avventure esilaranti, in positivo e negativo, proprio come quelle in cui incappano la Carrie Bradshaw di Sex and the City, o la Andrea di Il Diavolo veste Prada. La mia prima fidanzata americana mi lasciò in tronco con un’e-mail, dopo un mese che stavamo assieme. Il giorno prima preparavamo un viaggio in Italia e lei voleva presentarmi ai suoi, il giorno dopo non voleva neppure vedermi o sentirmi al telefono. «Non può funzionare Mauro, minimizziamo le perdite, non perdiamo altro tempo», mi scrisse su quell’ultima e-mail. Poi scoprii che usciva contemporaneamente anche con un altro, e che per qualche settimana ci aveva soppesato, paragonandoci. Alla fine ha scelto quello che le sembrava il migliore. «Non stupirti, è un metodo crudele ma pragmatico, lo fanno in molti qui», mi ha consolato un amico.
Sono passati esattamente cinque anni dalla strage dell’11 settembre 2001, quando molti sentenziarono: «Nulla sarà più come prima». E invece piano piano a New York tutto è tornato come prima, con milioni di persone che ogni sera si addobbano in vestiti costosissimi ed escono per divertirsi: cinema, teatri a Broadway, musica, musei, feste. Gli americani sono estroversi, ottimisti, simpatici. Pieni di divertenti tic.
Marsha si svegliava alle sei del mattino, dava un’occhiata alla sua e-mail sul computer, poi scendeva a fare jogging al parco e quando risaliva a casa aveva giusto il tempo di farsi una doccia ascoltando alla tv le notizie del mattino, per poi scaraventarsi al lavoro in metrò. La colazione la faceva di corsa per strada, come tutti si comprava al volo un bicchierone di polistirolo e se lo portava in mano bevendo il caffè con la cannuccia fino al suo grattacielo.
Alla sera, se non mi trascinava a qualche «evento» (vernice di mostra, inaugurazione di negozio, prima di un film), tornava a casa esausta dal lavoro, apriva il frigo e mangiava le sue insalatine biologiche non condite, tofu, latte di soia. Era magrissima, eppure aveva il terrore di ingrassare. Dormiva addirittura a pancia in giù, «altrimenti il sedere mi si allarga». Una volta al mese mi faceva da mangiare. Un gran regalo. Sapendo che sono ghiotto di hot dog, una volta mi ha cotto un enorme wurstel. Era così orgogliosa di questa sua impresa che non osai dirle quanto facesse schifo. Poi però andai a controllare in frigo. Sull’etichetta c’era scritto: «Hot dog senza carne». Lei era convinta che fosse il massimo.
Marsha era innamoratissima, ma a letto spesso era così stanca che mi sussurrava: «Ho bisogno di rilassarmi, Mauro. Accarezzami la schiena, massaggiami i piedi, fammi il solletico sulle braccia...». Io eseguivo speranzoso, illudendomi che fossero preliminari. Ma poi si addormentava.
Per sfogarmi, ho raccontato queste mie (dis)avventure sul settimanale New York Observer. Mi hanno subito affidato entusiasti una rubrica, quella del maschio europeo che osserva incuriosito i riti della femmina americana: shopping, manicure, pedicure, ginnastica (anzi: pilates), lotta contro le carte di credito sempre in rosso, gala di beneficenza, telefonate alle amiche, weekend obbligatori agli Hamptons... Poco spazio per l’amore e anche per il sesso. Eppure New York è sempre la città dove - più di ogni altro posto al mondo - quando ci si alza al mattino non si sa mai bene in quale letto si finirà alla sera. Ma tutta questa promiscuità alla fine sembra di scarsa soddisfazione: le statistiche registrano calo del desiderio, aumento di frigidità, viagra, autoerotismo. I più annoiati si dichiarano bisessuali.
Per questo il titolo delle mie rubriche è No Sex in the City. Le ho raccolte e tradotte in un libro omonimo che l’editore Cairo pubblicherà in Italia fra un mese, un giorno prima dell’uscita nei cinema de Il Diavolo veste Prada. Il 12 ottobre: anniversario della scoperta dell’America. In ogni senso. Ah, le allegre, aggressive e vitaminizzate donne americane, in tacchi a spillo o ciabatte infradito, con le loro unghie pittatissime di colori fosforescenti! Come ameremmo amarle: se solo ce lo permettessero...
Mauro Suttora
7 comments:
"the devil wears prada" dal titolo mi sembrava davvero una cagata colossale. sbugiardata: e' carino.
se non fosse che il personaggio della streep somiglia un po' troppo alla editor in chief di vogue USA...
no, non somiglia: E' lei
ciao mauro,
sono finito sul tuo blog per caso, cercavo "concorrenti" del blog che ho appena aperto a propositto di cinema. Dopo aver letto qualche riga di questo post non ho potuto fare a meno di leggerlo tutto, con interesse, perchè ho passato molto tempo negli stati uniti (new england, appunto, piu boston che nyc).
Adesso abito a milano e sono molto vicino alle stesse logiche che tu descrivi così bene nell'analisi delle fashion addicted.
Permettimi però di muovere qualche osservazione.
Mi è parso di leggere tra le righe un certo qual compiacimento nel descrivere una situazione cheè stata portata alla ribalta dal citato telefilm e questo compiacimento, credo, ti ha portato ha travisare il vero motivo per cui New York City è così cool. Non per le limo, non per i party sul Park Avenue, non per le signorine brillantate. New York è cool perchè risorge continuamente dalle sue forze del sottosuolo, dalla raccolta etnica, dal confronto, dalla mutazione.
Le dinamiche di address-lovers che hai menzionato sono figlie della povertà culturale di quegli ambienti, che non sono New york, sono un misero tentativodi scimmiottare quello che succede dall'altra parte dell'oceano.
Ti invito, se ne avrai l'occasione ad allargare la tua analisi alle vere Signore d'America, che sempre di meno abitano in America. Hanno studiato in Inghilterra, Francia, Svizzera, e sempre di meno controllano la posta del loro appartamento su Central Park. Quando lo fanno colgono l'occasione per spiare, dalla terrazza, quei movimenti piccolini delle Diavolette che vestono Prada, e non sanno perchè.
Jacopo
mi ero dimenticato di lasciarti l'indirizzo del mio blog. Se hai voglia dai un'occhiata.
http://life-is-a-show.blogspot.com/
jacopo
Ciao Mauro, dal tuo ultimo post sul thread "eutanasia" mi pare di capire che non hai letto la e-mail che Flavia
Amabile mi ha scritto in risposta alla mia richiesta di chiarimenti sul "trappolone". La trovi qui: Mauro, non so se hai letto la e-mail che Flavia Amabile mi ha scritto in risposta alla mia richiesta di maggiori chiarimenti sul "trappolone".
La trovi qua:
http://mildareveno.ilcannocchiale.it
Alberto Licheri
ahimè, caro Jacopo, temo di aver conosciuto anche qualcuna di quelle che tu chiami "le Vere signore d'America", e il loro livello culturale nonche' envergure morale e sociale non sono granche' piu' alti di quelli delle sgallettate di Sex and the City e Devil wears Prada...
ho scritto anche di loro nel mio libro uscito in Italia proprio ieri (No Sex in the City, ed. Cairo)
ti ringrazio molto per le intelligenti osservazioni, e sono disposto a cambiare opinione di fronte a esempi concreti (a New York c'e' di tutto, ovviamente, mica sostengo che TUTTE le donne sono superficiali e ignorantelle...)
Ciao Mauro, dopo aver letto il "Foglio", non ho resistito. Ho fatto un pezzo sul tuo libro (ormai ho letto ampi stralci anche su Dago). Lo trovi sul mio sito www.marellagiovannelli.com con varie foto (nella sezione di Mara Malda.
Un abbraccio
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