LE ASSURDITA' DEI NUOVI PROGRAMMI DI STORIA ALLE ELEMENTARI E MEDIE INFERIORI
di Mauro Suttora
Oggi, 20 aprile 2011
Fino a una decina di anni fa la storia si cominciava a studiare in terza elementare. A otto anni ci appassionavamo alle vicende di Attilio Regolo con la sua botte, di Muzio Scevola con la sua mano, delle oche sul Campidoglio. Oggi, se accompagniamo i nostri figli di dieci anni in gita a Roma, notiamo gran sorpresa quando vedono il Colosseo. Non sanno nulla. Perché il programma di storia è stato spalmato su tutti gli ultimi sei anni della scuola dell'obbligo, e i romani si studiano solo in quinta.
Tutta la terza elementare si perde fra i cavernicoli della preistoria. La quarta va dagli egizi e sumeri ai greci. E così via. In teoria, un ragazzino italiano non conosce Garibaldi fino a tredici anni. Così si sprecano proprio gli anni in cui meglio si imprimono storie, concetti e nozioni (sì, nozioni). Sanno tutto su Pokemon e Gormiti, e poco o nulla sulla storia nostra. Forse prima era assurdo ripetere tre volte (elementari, media, liceo) la stessa storia. Ma ora si esagera nell'altro senso.
Anche in geografia. Prima imparavamo a memoria tutte le province a 8-9 anni. Ora Enna e Lecco non sanno dove sono. E per Brasile o Cina si aspetta fino a 13 anni.
Thursday, April 28, 2011
I libri di scuola sono comunisti?
Gabriella Carlucci all'attacco dei testi di storia «faziosi»
Venti deputati Pdl chiedono una commissione d'inchiesta per alcuni passaggi "cruciali". Gli storici insorgono. Ma qualcuno ammette: «Il problema esiste». Giudicate voi
di Mauro Suttora
Oggi, 20 aprile 2011
Palmiro Togliatti? «Uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generali». Ma nessun riferimento al fatto che il segretario del Pci fino al 1964 fosse stato, negli anni Trenta a Mosca, uno dei principali collaboratori del dittatore Josip Stalin nell'Internazionale comunista, durante il peggior periodo delle purghe e dei gulag.
Enrico Berlinguer? «Uomo di profonda onestà intellettuale e morale, misurato e alieno alla retorica». Il che è certamente vero. Ma, anche qui, sottacendo, per esempio, la mancata condanna, da parte del partito comunista di cui era dirigente, delle invasioni sovietiche in Cecoslovacchia o Afghanistan. Oppure la critica alla dittatura dell'Urss che però non divenne mai rottura.
E i gulag, i famigerati campi di lavoro comunisti? «La loro ignominia non è dipesa da questo sacrosanto ideale (il comunismo), ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto, o peggio dalla conversione di Stalin all'imperialismo». Fino ad arrivare a Rosy Bindi, lodata perché vent'anni fa «combatté gli inquisiti» di Tangentopoli.
Alcune definizioni contenute nei manuali di storia per l'ultimo anno delle scuole superiori hanno fatto arrabbiare la deputata Gabriella Carlucci e una ventina di suoi colleghi del Pdl, che hanno chiesto l'istituzione di una commissione parlamentare d' inchiesta sull'imparzialità dei libri di testo scolastici.
Ecco il passo «incriminato» del libro Camera-Fabietti sul 1994: «Berlusconi, nonostante le ricorrenti promesse di vendite, cessioni e altri provvedimenti radicali, non sembrava ansioso di superare l' anomalia senza precedenti di un capo del governo che era grande imprenditore, monopolista o quasi delle reti tv private: un'anomalia denunciata dalla Lega e dalle opposizioni, e ammessa dallo stesso Berlusconi. L'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi di Berlusconi (...)»
Un altro libro messo sotto accusa dalla Carlucci è l'Ortoleva-Revelli. Qui appare un giudizio positivo sull'ex presidente Oscar Luigi Scalfaro, detestato dai berlusconiani perché nel 1995 non concesse il voto anticipato, aprendo la strada al governo Dini e alla vittoria di Prodi del '96. Ancor oggi il 92enne Scalfaro è più antiberlusconiano che mai, e non lo nasconde.
«In Italia negli ultimi cinquant'anni lo studio della storia è stato spesso sostituito da un puro e semplice tentativo di indottrinamento ideologico», sostiene la Carlucci. «Con la caduta del Muro di Berlino e la fine dell' ideologia comunista i tentativi subdoli di indottrinamento restano tali, anzi si rafforzano. E si scagliano non solo contro gli attori della storia che hanno combattuto l'avanzata del comunismo, ma anche contro la parte politica che oggi è antagonista della sinistra».
Nel mirino della Carlucci sono finiti in particolare due libri: il Camera-Fabietti (edizioni Zanichelli) e La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra della casa editrice Le Monnier che, per ironia della sorte, appartiene al gruppo Mondadori, di proprietà di Silvio Berlusconi.
Il quale Berlusconi viene così maltrattato a pagina 1.682 del Camera-Fabietti: «Nel 1994 l'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d'Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al Presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese, sommandosi alle tensioni sociali determinate dalla disoccupazione crescente (che contraddiceva clamorosamente le promesse elettorali di Forza Italia) e dai tagli proposti dal governo alle pensioni, alla sanità e alla previdenza sociale».
«Ognuno ha diritto ad avere il suo punto di vista e anche la sua faziosità», dice la Carlucci, «può scrivere articoli o libri, poi li comprerà chi vuole. Ma si può essere così di parte in libri di testo che migliaia di studenti devono, per forza, comprare e studiare? Può la scuola di Stato, quella che paghiamo con i nostri soldi, trasformarsi in una fabbrica di pensiero partigiano e anche fazioso, spesso superficiale?».
«Il vero problema è che non si discute più di storia nella società, per colpa soprattutto della tv», risponde Pino Polistena, professore di storia prima di diventare preside del liceo civico Manzoni di Milano. «Ma la tv non è il solo imputato: sociologi come Norbert Elias ci spiegano che è la modernità stessa a privilegiare il presente. Per questo la storia è in sofferenza, non per i travisamenti dei libri di testo. È vero, alcuni di essi sfiorano il dogmatismo storico. Ma anche se a questi testi si associano docenti altrettanto dogmatici, non esiste un vero problema didattico. Perché ovunque si discuta di storia si determina un effetto positivo, per il fatto stesso di discuterne».
«La ex soubrette Gabriella Carlucci propone addirittura una commissione d'inchiesta parlamentare per purgare i libri di storia?», sbotta Pasquale Chessa, già vicedirettore di Panorama (settimanale della Mondadori) e storico lui stesso. «Nemmeno Orwell aveva pensato una cosa del genere. Verrebbe voglia di interrogare in storia la Carlucci. Ma da che pulpito parla, da quale cattedra? La politica stia lontana dalla cultura. La signora studi la storia, e non si permetta di interferire con il libero dibattito delle idee».
Ma lodare Togliatti senza accennare ai suoi demeriti non è scorretto?
«Incompletezze e imprecisioni non si possono punire per legge. Nemmeno sotto l'Inquisizione il giudizio positivo su una persona era considerato un insulto alla storia. Per fortuna , dico io, ci sono queste frasi che possono essere messe a confronto con altri giudizi. Io per primo da trent'anni, come giornalista, m i sono sempre battuto contro il conformismo storico di sinistra. Per esempio evidenziando i famosi strafalcioni filosovietici dell'enciclopedia Garzantina negli anni Ottanta, che per questo avevamo soprannominato "Garzantova". Ed è ovvio che Tranfaglia aveva torto quando accusò De Felice per i suoi libri sul fascismo considerati "revisionisti". Ma, ripeto: lontano dalla politica».
Marco Revelli, docente universitario, è uno degli autori presi di mira dalla Carlucci. Nel suo L'età contemporanea, scritto con Peppino Ortoleva, c'è il giudizio troppo laudatorio espresso su Oscar Luigi Scalfaro che abbiamo evidenziato a pagina 49. «Non ho creduto ai miei occhi quando ho letto la critica al passo su Scalfaro», dice a Oggi. «Fra tutti i personaggi possibili, sono andati a pescare un giudizio positivo su un democristiano, non su un comunista. Attenzione: un giudizio, non un fatto. E, come insegna Benedetto Croce - un liberale, non un comunista - le interpretazioni sono necessariamente libere».
Ma non ci vorrebbe più equilibrio, professore?
«Certo, però solo un ministro come la Gelmini può dire che i libri di storia devono essere "oggettivi". Nessun testo può offrire l'unica verità. Io esorto sempre i miei studenti a ricercare le verità, al plurale, leggendo decine di testi. Il problema vero, in realtà, è Berlusconi. È lui la questione del contendere. Siamo arrivati al punto che non solo non si possono criticare i suoi vizi, ma qualcuno vorrebbe vietare perfino le lodi alle virtù dei suoi avversari. Certi berlusconiani hanno in testa solo il bunga-bunga, e misurano tutto con metro da tifosi. Cercano di guadagnare punti agli occhi del loro capo, o meglio del loro Dio. Perfino il ministro fascista Gentile aveva maggiore tolleranza nei confronti delle eterodossie».
Ma perché per gli storici è così difficile equiparare la svastica alla falce e martello, fra le disgrazie del secolo scorso?
«Esiste una robusta corrente storiografica che lo fa, accomunando fascismi e comunismi sotto la categoria del totalitarismo. È un dibattito molto interessante. Ma, appunto, è un dibattito. Che non può essere deciso da un decreto ministeriale...»
«Sì, molti manuali sono faziosi», ammette Lorenzo Strik Lievers, docente di storia all'università di Milano. «Ma il peggio è che sono noiosi, e così allontanano gli studenti».
Alcuni libri sono scritti in sociologhese, più che in italiano...
«Come strumenti didattici sono in gran parte deplorevoli», dice Strik Lievers. «Il risultato è che quasi tutti gli studenti che arrivano all'università di storia sanno poco. Il problema riguarda soprattutto i docenti. Sono loro a scegliere i libri di testo più o meno faziosi. E non riescono ad appassionare alla materia i propri studenti. Non fanno nemmeno sospettar loro che sulla storia ci possa essere dibattito. Nessun libro di testo ha al proprio centro il concetto della discutibilità della storia. Quindi, mentre trent'anni fa gli studenti politicizzati cercavano nella storia conferme alle proprie idee, oggi che l' interesse per la politica è quasi nullo anche lo studio della storia ne soffre».
Ma forse tutta questa polemica è inutile, perché raramente nei licei, per ragioni di tempo, si studiano gli ultimi decenni. E se la soluzione fosse proprio questa? Evitare gli ultimi trent'anni, che suscitano troppe polemiche? «Idea infantile», obietta Revelli, «perché per qualcuno anche Menenio Agrippa era un comunista...»
Mauro Suttora
Venti deputati Pdl chiedono una commissione d'inchiesta per alcuni passaggi "cruciali". Gli storici insorgono. Ma qualcuno ammette: «Il problema esiste». Giudicate voi
di Mauro Suttora
Oggi, 20 aprile 2011
Palmiro Togliatti? «Uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generali». Ma nessun riferimento al fatto che il segretario del Pci fino al 1964 fosse stato, negli anni Trenta a Mosca, uno dei principali collaboratori del dittatore Josip Stalin nell'Internazionale comunista, durante il peggior periodo delle purghe e dei gulag.
Enrico Berlinguer? «Uomo di profonda onestà intellettuale e morale, misurato e alieno alla retorica». Il che è certamente vero. Ma, anche qui, sottacendo, per esempio, la mancata condanna, da parte del partito comunista di cui era dirigente, delle invasioni sovietiche in Cecoslovacchia o Afghanistan. Oppure la critica alla dittatura dell'Urss che però non divenne mai rottura.
E i gulag, i famigerati campi di lavoro comunisti? «La loro ignominia non è dipesa da questo sacrosanto ideale (il comunismo), ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto, o peggio dalla conversione di Stalin all'imperialismo». Fino ad arrivare a Rosy Bindi, lodata perché vent'anni fa «combatté gli inquisiti» di Tangentopoli.
Alcune definizioni contenute nei manuali di storia per l'ultimo anno delle scuole superiori hanno fatto arrabbiare la deputata Gabriella Carlucci e una ventina di suoi colleghi del Pdl, che hanno chiesto l'istituzione di una commissione parlamentare d' inchiesta sull'imparzialità dei libri di testo scolastici.
Ecco il passo «incriminato» del libro Camera-Fabietti sul 1994: «Berlusconi, nonostante le ricorrenti promesse di vendite, cessioni e altri provvedimenti radicali, non sembrava ansioso di superare l' anomalia senza precedenti di un capo del governo che era grande imprenditore, monopolista o quasi delle reti tv private: un'anomalia denunciata dalla Lega e dalle opposizioni, e ammessa dallo stesso Berlusconi. L'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi di Berlusconi (...)»
Un altro libro messo sotto accusa dalla Carlucci è l'Ortoleva-Revelli. Qui appare un giudizio positivo sull'ex presidente Oscar Luigi Scalfaro, detestato dai berlusconiani perché nel 1995 non concesse il voto anticipato, aprendo la strada al governo Dini e alla vittoria di Prodi del '96. Ancor oggi il 92enne Scalfaro è più antiberlusconiano che mai, e non lo nasconde.
«In Italia negli ultimi cinquant'anni lo studio della storia è stato spesso sostituito da un puro e semplice tentativo di indottrinamento ideologico», sostiene la Carlucci. «Con la caduta del Muro di Berlino e la fine dell' ideologia comunista i tentativi subdoli di indottrinamento restano tali, anzi si rafforzano. E si scagliano non solo contro gli attori della storia che hanno combattuto l'avanzata del comunismo, ma anche contro la parte politica che oggi è antagonista della sinistra».
Nel mirino della Carlucci sono finiti in particolare due libri: il Camera-Fabietti (edizioni Zanichelli) e La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra della casa editrice Le Monnier che, per ironia della sorte, appartiene al gruppo Mondadori, di proprietà di Silvio Berlusconi.
Il quale Berlusconi viene così maltrattato a pagina 1.682 del Camera-Fabietti: «Nel 1994 l'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d'Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al Presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese, sommandosi alle tensioni sociali determinate dalla disoccupazione crescente (che contraddiceva clamorosamente le promesse elettorali di Forza Italia) e dai tagli proposti dal governo alle pensioni, alla sanità e alla previdenza sociale».
«Ognuno ha diritto ad avere il suo punto di vista e anche la sua faziosità», dice la Carlucci, «può scrivere articoli o libri, poi li comprerà chi vuole. Ma si può essere così di parte in libri di testo che migliaia di studenti devono, per forza, comprare e studiare? Può la scuola di Stato, quella che paghiamo con i nostri soldi, trasformarsi in una fabbrica di pensiero partigiano e anche fazioso, spesso superficiale?».
«Il vero problema è che non si discute più di storia nella società, per colpa soprattutto della tv», risponde Pino Polistena, professore di storia prima di diventare preside del liceo civico Manzoni di Milano. «Ma la tv non è il solo imputato: sociologi come Norbert Elias ci spiegano che è la modernità stessa a privilegiare il presente. Per questo la storia è in sofferenza, non per i travisamenti dei libri di testo. È vero, alcuni di essi sfiorano il dogmatismo storico. Ma anche se a questi testi si associano docenti altrettanto dogmatici, non esiste un vero problema didattico. Perché ovunque si discuta di storia si determina un effetto positivo, per il fatto stesso di discuterne».
«La ex soubrette Gabriella Carlucci propone addirittura una commissione d'inchiesta parlamentare per purgare i libri di storia?», sbotta Pasquale Chessa, già vicedirettore di Panorama (settimanale della Mondadori) e storico lui stesso. «Nemmeno Orwell aveva pensato una cosa del genere. Verrebbe voglia di interrogare in storia la Carlucci. Ma da che pulpito parla, da quale cattedra? La politica stia lontana dalla cultura. La signora studi la storia, e non si permetta di interferire con il libero dibattito delle idee».
Ma lodare Togliatti senza accennare ai suoi demeriti non è scorretto?
«Incompletezze e imprecisioni non si possono punire per legge. Nemmeno sotto l'Inquisizione il giudizio positivo su una persona era considerato un insulto alla storia. Per fortuna , dico io, ci sono queste frasi che possono essere messe a confronto con altri giudizi. Io per primo da trent'anni, come giornalista, m i sono sempre battuto contro il conformismo storico di sinistra. Per esempio evidenziando i famosi strafalcioni filosovietici dell'enciclopedia Garzantina negli anni Ottanta, che per questo avevamo soprannominato "Garzantova". Ed è ovvio che Tranfaglia aveva torto quando accusò De Felice per i suoi libri sul fascismo considerati "revisionisti". Ma, ripeto: lontano dalla politica».
Marco Revelli, docente universitario, è uno degli autori presi di mira dalla Carlucci. Nel suo L'età contemporanea, scritto con Peppino Ortoleva, c'è il giudizio troppo laudatorio espresso su Oscar Luigi Scalfaro che abbiamo evidenziato a pagina 49. «Non ho creduto ai miei occhi quando ho letto la critica al passo su Scalfaro», dice a Oggi. «Fra tutti i personaggi possibili, sono andati a pescare un giudizio positivo su un democristiano, non su un comunista. Attenzione: un giudizio, non un fatto. E, come insegna Benedetto Croce - un liberale, non un comunista - le interpretazioni sono necessariamente libere».
Ma non ci vorrebbe più equilibrio, professore?
«Certo, però solo un ministro come la Gelmini può dire che i libri di storia devono essere "oggettivi". Nessun testo può offrire l'unica verità. Io esorto sempre i miei studenti a ricercare le verità, al plurale, leggendo decine di testi. Il problema vero, in realtà, è Berlusconi. È lui la questione del contendere. Siamo arrivati al punto che non solo non si possono criticare i suoi vizi, ma qualcuno vorrebbe vietare perfino le lodi alle virtù dei suoi avversari. Certi berlusconiani hanno in testa solo il bunga-bunga, e misurano tutto con metro da tifosi. Cercano di guadagnare punti agli occhi del loro capo, o meglio del loro Dio. Perfino il ministro fascista Gentile aveva maggiore tolleranza nei confronti delle eterodossie».
Ma perché per gli storici è così difficile equiparare la svastica alla falce e martello, fra le disgrazie del secolo scorso?
«Esiste una robusta corrente storiografica che lo fa, accomunando fascismi e comunismi sotto la categoria del totalitarismo. È un dibattito molto interessante. Ma, appunto, è un dibattito. Che non può essere deciso da un decreto ministeriale...»
«Sì, molti manuali sono faziosi», ammette Lorenzo Strik Lievers, docente di storia all'università di Milano. «Ma il peggio è che sono noiosi, e così allontanano gli studenti».
Alcuni libri sono scritti in sociologhese, più che in italiano...
«Come strumenti didattici sono in gran parte deplorevoli», dice Strik Lievers. «Il risultato è che quasi tutti gli studenti che arrivano all'università di storia sanno poco. Il problema riguarda soprattutto i docenti. Sono loro a scegliere i libri di testo più o meno faziosi. E non riescono ad appassionare alla materia i propri studenti. Non fanno nemmeno sospettar loro che sulla storia ci possa essere dibattito. Nessun libro di testo ha al proprio centro il concetto della discutibilità della storia. Quindi, mentre trent'anni fa gli studenti politicizzati cercavano nella storia conferme alle proprie idee, oggi che l' interesse per la politica è quasi nullo anche lo studio della storia ne soffre».
Ma forse tutta questa polemica è inutile, perché raramente nei licei, per ragioni di tempo, si studiano gli ultimi decenni. E se la soluzione fosse proprio questa? Evitare gli ultimi trent'anni, che suscitano troppe polemiche? «Idea infantile», obietta Revelli, «perché per qualcuno anche Menenio Agrippa era un comunista...»
Mauro Suttora
Monday, April 25, 2011
Wednesday, April 20, 2011
parla il Mandela libico
INTERVISTA ESCLUSIVA A AHMED ZUBAIR AL SENUSSI, 31 ANNI IN CARCERE SOTTO GHEDDAFI. OGGI È MINISTRO DELLA NUOVA LIBIA LIBERA
dall'inviato a Bengasi Mauro Suttora
Oggi, 13 aprile 2011
«Aiutateci. Salvate la città di Misurata. È una strage. Gheddafi ha tagliato da quaranta giorni acqua ed elettricità ai suoi abitanti civili assediati. E li bombarda. Si comporta come Hitler. Non riusciremo a sconfiggerlo, da soli».
L’appello giunge da Ahmed Zubair Al Senussi, che è stato per 31 anni nelle carceri del dittatore libico. Una prigionia più lunga di quella di Nelson Mandela in Sud Africa. Perciò Senussi è conosciuto come il «Mandela libico».
È un mite signore 77enne, a disagio in pubblico. Parla per la prima volta con un giornalista italiano. Incontrarlo è stato difficile: quattro giorni di attesa a Bengasi e di appuntamenti rimandati. Adesso infatti Senussi è uno degli undici ministri del nuovo governo della Libia libera. Nonostante l’età è indaffaratissimo: passa da una riunione all’altra.
«Dobbiamo ricostruire una nazione da zero, e noi stessi siamo tutti senza esperienza di governo: avvocati, professori, ingegneri. In più, a 150 chilometri da qui c’è la guerra. Mi scusi per averla fatta aspettare tanto».
Per due volte in due mesi quelli che vengono sbrigativamente definiti «ribelli» (loro preferirebbero «patrioti», o almeno «insorti») si sono illusi di marciare verso Tripoli, e di liberare la metà della Libia rimasta sotto il tallone di Gheddafi. Invece non sono mai riusciti ad arrivare a Sirte, né tanto meno a Misurata. E adesso, dopo drammatiche avanzate e ritirate di centinaia di chilometri nel deserto, i 700 mila abitanti di Bengasi sono di nuovo in pericolo. Come il 19 marzo, quando i carri armati del dittatore stavano già bombardando le case della periferia. Questione di ore: solo la risoluzione Onu e l’intervento dei jet francesi bloccarono in extremis un massacro tipo Srebrenica.
Ahmed Zubair fa parte della famiglia reale Senussi che ha governato la Libia dal 1951 al ’69. Il golpe di Gheddafi cacciò re Idris, ma lui non si arrese. Nell’agosto ’70 fu arrestato con altri tre cospiratori, fra cui il fratello, perché stava organizzando l’opposizione al regime: «Ancora adesso non so se sono stato tradito da qualcuno dei dirigenti che avevo coinvolto, o se furono i servizi segreti dei militari a scoprirci».
Lo incontriamo presso parenti. Ci offre the e pasticcini di cioccolato a forma di cuore. Per sicurezza, non può ricevere nessuno a casa sua: c’è ancora qualche agente gheddafiano in circolazione a Bengasi.
Lui porta su di sé i segni delle torture subite in carcere: «Con la “falga” ho perso le dita dei piedi. Me la praticavano con una corda e un bastone. Mi picchiavano, mi appendevano per le mani e per le gambe, mi mettevano la testa in acqua facendomi quasi annegare. Ma il supplizio peggiore era psicologico: ero condannato a morte, e per diciotto anni ho aspettato l’impiccagione da un momento all’altro. Finché, nel 1988, la sentenza capitale è stata commutata in ergastolo. E ho rivisto la luce del giorno».
L’altra grande tortura è stata l’isolamento: «Per nove anni non ho potuto vedere nessuno: solo la mano del carceriere che spingeva da una fessura nella porta il cibo tre volte al giorno. C’erano scarafaggi, e dovevo stare attento che i topi non me lo rubassero. La cella era larga un metro e mezzo, e vuota: oltre al buco del bagno turco e a un rubinetto avevo una coperta per pregare e dormire, e un lenzuolo. La finestra era oscurata, l’interruttore della luce era fuori dalla cella e il guardiano la teneva sempre accesa. Così ho perso il senso del giorno e della notte. Non sentivo molti rumori, tranne il gocciolio del rubinetto. L’unico libro permesso era il Corano».
Come passava il tempo?
«Avevo molto tempo per pensare, e quasi sempre pensavo a mia moglie Fatilah, che avevo sposato nel ’62. Nel ’79 ho potuto cominciare a incontrare altri carcerati. Fra loro c’era Omar Hariri, che adesso è ministro della Difesa nel governo provvisorio. Le guardie tenevano il volume della radio altissimo, non potevamo parlarci da una cella all’altra. Né sentivo le urla dei miei compagni quando venivano picchiati finché non stavano più in piedi, e dovevano trascinarsi in cella strisciando sulle ginocchia. Il carceriere più cattivo era il colonnello Ahmed Rashid. Non so se è ancora vivo, comunque vorrei incontrarlo di nuovo. E vederlo processato da un tribunale».
«Occhio per occhio, dente per dente», come dice il Corano?
«Decideranno i giudici, non io. Ma invidio Mandela. Almeno ai suoi familiari era permesso di visitarlo in carcere, e lui poteva leggere molti libri. I miei invece per diciotto anni non hanno saputo che fine avessi fatto, se ero vivo o morto. E quando nell’88 hanno permesso per la prima volta a mio fratello di venire a trovarmi, per me è stata una giornata molto bella ma anche molto brutta: mi annunciò la morte di mia moglie».
Poi Senussi è stato trasferito nella famigerata prigione Abu Salim di Tripoli, quella per i prigionieri politici. Qui il 15 gennaio ’96 avvenne una terribile strage di 1.270 carcerati. Il più giovane dei nuovi ministri della Libia libera, Fathi Terbil, è l’avvocato delle famiglie di molte di quelle vittime. E la dimostrazione che aveva organizzato per il quindicesimo anniversario della strage è stata la scintilla che due mesi fa ha fatto scoppiare la rivoluzione a Bengasi.
«Nel 2001, all’improvviso, mi hanno liberato per festeggiare il 32esimo anniversario del golpe di Gheddafi. Sono stato trasportato in aereo a casa a Bengasi. Sono venuti a trovarmi migliaia di parenti, amici, conoscenti. Ci ho messo tre mesi per vederli tutti. Ma ormai i bambini erano diventati grandi, e molti di quelli che conoscevo erano morti. Mi hanno dato anche 131 mila dinari libici [77 mila euro di oggi, ndr] come indennizzo, e una pensione mensile di 400 dinari [230 euro]».
Com’è stato il ritorno alla libertà in questi dieci anni? Aveva paura di finire ancora in prigione?
«No. Temevo che magari qualche sicario mi sparasse. Ma sotto Gheddafi tutti vivevano sempre sotto una cappa di paura. Ancora non ci sembra vero di essercene sbarazzati: è successo tutto così in fretta, è incredibile».
Senussi parla lentamente, sottovoce e con pochi gesti maestosi. Sarà l’età che ispira rispetto, ma si vede che proviene da una famiglia reale. Lui non ha alcuna nostalgia monarchica, però se lo eleggessero presidente sarebbe un perfetto «nonno saggio»: come Mandela, o come il nostro Giorgio Napolitano. Ha occhi vivacissimi e senso dell’humour.
Gli chiediamo un commento sul riconoscimento del nuovo governo libico da parte dell’Italia il 4 aprile: dopo Francia e Qatar, siamo il terzo Paese a compiere questo importante passo.
«Un gesto benvenuto, anche se è arrivato un po’ tardi. Pensavamo che l’Italia fosse la prima a riconoscerci, visti i nostri rapporti così profondi. Io ho un ricordo bellissimo del mio purtroppo unico viaggio in Italia, nel 1966. Accompagnavo mia moglie che era andata a curarsi in Germania, abbiamo visitato Milano e Roma. Mi è piaciuta in particolare Palermo, dove ci siamo imbarcati con il traghetto per Tunisi».
E adesso non la stancano, tutte queste interminabili riunioni?
«Non abbiamo potuto riunirci liberamente per 42 anni, siamo felici che ora sia arrivato il tempo del lavoro. Ieri sera ho dovuto disdire il nostro appuntamento perché all’ultimo momento abbiamo dovuto ricevere una delegazione dell’Unione europea».
Quanto durerà la guerra?
«Poco, se ci aiuterete dandoci le armi. Noi non le abbiamo, e non riusciremo mai a liberare tutta la Libia senza l’appoggio internazionale».
Ma poi ci saranno vendette?
«Mandela è riuscito a riconciliare il suo Sud Africa dopo 350 anni di ingiustizie e apartheid. Noi non abbiamo neanche questo problema, perché anche all’Ovest i libici detestano Gheddafi. Siamo tutti uniti. Questa non è una guerra civile: è solo un dittatore che cerca di conservare il potere con ogni mezzo, contro i suoi cittadini disarmati».
Finirà come in Afghanistan?
«Assolutamente no. Siamo musulmani, ma moderati. Quelle su Al Qaeda e i talebani sono bugie di Gheddafi per impaurire Europa e Stati Uniti».
Finirà come in Iran?
«No. Qui in Libia desideriamo tutti una democrazia liberale dove si possa vivere in libertà, e in cui ogni diritto individuale venga rispettato e protetto».
Mauro Suttora
dall'inviato a Bengasi Mauro Suttora
Oggi, 13 aprile 2011
«Aiutateci. Salvate la città di Misurata. È una strage. Gheddafi ha tagliato da quaranta giorni acqua ed elettricità ai suoi abitanti civili assediati. E li bombarda. Si comporta come Hitler. Non riusciremo a sconfiggerlo, da soli».
L’appello giunge da Ahmed Zubair Al Senussi, che è stato per 31 anni nelle carceri del dittatore libico. Una prigionia più lunga di quella di Nelson Mandela in Sud Africa. Perciò Senussi è conosciuto come il «Mandela libico».
È un mite signore 77enne, a disagio in pubblico. Parla per la prima volta con un giornalista italiano. Incontrarlo è stato difficile: quattro giorni di attesa a Bengasi e di appuntamenti rimandati. Adesso infatti Senussi è uno degli undici ministri del nuovo governo della Libia libera. Nonostante l’età è indaffaratissimo: passa da una riunione all’altra.
«Dobbiamo ricostruire una nazione da zero, e noi stessi siamo tutti senza esperienza di governo: avvocati, professori, ingegneri. In più, a 150 chilometri da qui c’è la guerra. Mi scusi per averla fatta aspettare tanto».
Per due volte in due mesi quelli che vengono sbrigativamente definiti «ribelli» (loro preferirebbero «patrioti», o almeno «insorti») si sono illusi di marciare verso Tripoli, e di liberare la metà della Libia rimasta sotto il tallone di Gheddafi. Invece non sono mai riusciti ad arrivare a Sirte, né tanto meno a Misurata. E adesso, dopo drammatiche avanzate e ritirate di centinaia di chilometri nel deserto, i 700 mila abitanti di Bengasi sono di nuovo in pericolo. Come il 19 marzo, quando i carri armati del dittatore stavano già bombardando le case della periferia. Questione di ore: solo la risoluzione Onu e l’intervento dei jet francesi bloccarono in extremis un massacro tipo Srebrenica.
Ahmed Zubair fa parte della famiglia reale Senussi che ha governato la Libia dal 1951 al ’69. Il golpe di Gheddafi cacciò re Idris, ma lui non si arrese. Nell’agosto ’70 fu arrestato con altri tre cospiratori, fra cui il fratello, perché stava organizzando l’opposizione al regime: «Ancora adesso non so se sono stato tradito da qualcuno dei dirigenti che avevo coinvolto, o se furono i servizi segreti dei militari a scoprirci».
Lo incontriamo presso parenti. Ci offre the e pasticcini di cioccolato a forma di cuore. Per sicurezza, non può ricevere nessuno a casa sua: c’è ancora qualche agente gheddafiano in circolazione a Bengasi.
Lui porta su di sé i segni delle torture subite in carcere: «Con la “falga” ho perso le dita dei piedi. Me la praticavano con una corda e un bastone. Mi picchiavano, mi appendevano per le mani e per le gambe, mi mettevano la testa in acqua facendomi quasi annegare. Ma il supplizio peggiore era psicologico: ero condannato a morte, e per diciotto anni ho aspettato l’impiccagione da un momento all’altro. Finché, nel 1988, la sentenza capitale è stata commutata in ergastolo. E ho rivisto la luce del giorno».
L’altra grande tortura è stata l’isolamento: «Per nove anni non ho potuto vedere nessuno: solo la mano del carceriere che spingeva da una fessura nella porta il cibo tre volte al giorno. C’erano scarafaggi, e dovevo stare attento che i topi non me lo rubassero. La cella era larga un metro e mezzo, e vuota: oltre al buco del bagno turco e a un rubinetto avevo una coperta per pregare e dormire, e un lenzuolo. La finestra era oscurata, l’interruttore della luce era fuori dalla cella e il guardiano la teneva sempre accesa. Così ho perso il senso del giorno e della notte. Non sentivo molti rumori, tranne il gocciolio del rubinetto. L’unico libro permesso era il Corano».
Come passava il tempo?
«Avevo molto tempo per pensare, e quasi sempre pensavo a mia moglie Fatilah, che avevo sposato nel ’62. Nel ’79 ho potuto cominciare a incontrare altri carcerati. Fra loro c’era Omar Hariri, che adesso è ministro della Difesa nel governo provvisorio. Le guardie tenevano il volume della radio altissimo, non potevamo parlarci da una cella all’altra. Né sentivo le urla dei miei compagni quando venivano picchiati finché non stavano più in piedi, e dovevano trascinarsi in cella strisciando sulle ginocchia. Il carceriere più cattivo era il colonnello Ahmed Rashid. Non so se è ancora vivo, comunque vorrei incontrarlo di nuovo. E vederlo processato da un tribunale».
«Occhio per occhio, dente per dente», come dice il Corano?
«Decideranno i giudici, non io. Ma invidio Mandela. Almeno ai suoi familiari era permesso di visitarlo in carcere, e lui poteva leggere molti libri. I miei invece per diciotto anni non hanno saputo che fine avessi fatto, se ero vivo o morto. E quando nell’88 hanno permesso per la prima volta a mio fratello di venire a trovarmi, per me è stata una giornata molto bella ma anche molto brutta: mi annunciò la morte di mia moglie».
Poi Senussi è stato trasferito nella famigerata prigione Abu Salim di Tripoli, quella per i prigionieri politici. Qui il 15 gennaio ’96 avvenne una terribile strage di 1.270 carcerati. Il più giovane dei nuovi ministri della Libia libera, Fathi Terbil, è l’avvocato delle famiglie di molte di quelle vittime. E la dimostrazione che aveva organizzato per il quindicesimo anniversario della strage è stata la scintilla che due mesi fa ha fatto scoppiare la rivoluzione a Bengasi.
«Nel 2001, all’improvviso, mi hanno liberato per festeggiare il 32esimo anniversario del golpe di Gheddafi. Sono stato trasportato in aereo a casa a Bengasi. Sono venuti a trovarmi migliaia di parenti, amici, conoscenti. Ci ho messo tre mesi per vederli tutti. Ma ormai i bambini erano diventati grandi, e molti di quelli che conoscevo erano morti. Mi hanno dato anche 131 mila dinari libici [77 mila euro di oggi, ndr] come indennizzo, e una pensione mensile di 400 dinari [230 euro]».
Com’è stato il ritorno alla libertà in questi dieci anni? Aveva paura di finire ancora in prigione?
«No. Temevo che magari qualche sicario mi sparasse. Ma sotto Gheddafi tutti vivevano sempre sotto una cappa di paura. Ancora non ci sembra vero di essercene sbarazzati: è successo tutto così in fretta, è incredibile».
Senussi parla lentamente, sottovoce e con pochi gesti maestosi. Sarà l’età che ispira rispetto, ma si vede che proviene da una famiglia reale. Lui non ha alcuna nostalgia monarchica, però se lo eleggessero presidente sarebbe un perfetto «nonno saggio»: come Mandela, o come il nostro Giorgio Napolitano. Ha occhi vivacissimi e senso dell’humour.
Gli chiediamo un commento sul riconoscimento del nuovo governo libico da parte dell’Italia il 4 aprile: dopo Francia e Qatar, siamo il terzo Paese a compiere questo importante passo.
«Un gesto benvenuto, anche se è arrivato un po’ tardi. Pensavamo che l’Italia fosse la prima a riconoscerci, visti i nostri rapporti così profondi. Io ho un ricordo bellissimo del mio purtroppo unico viaggio in Italia, nel 1966. Accompagnavo mia moglie che era andata a curarsi in Germania, abbiamo visitato Milano e Roma. Mi è piaciuta in particolare Palermo, dove ci siamo imbarcati con il traghetto per Tunisi».
E adesso non la stancano, tutte queste interminabili riunioni?
«Non abbiamo potuto riunirci liberamente per 42 anni, siamo felici che ora sia arrivato il tempo del lavoro. Ieri sera ho dovuto disdire il nostro appuntamento perché all’ultimo momento abbiamo dovuto ricevere una delegazione dell’Unione europea».
Quanto durerà la guerra?
«Poco, se ci aiuterete dandoci le armi. Noi non le abbiamo, e non riusciremo mai a liberare tutta la Libia senza l’appoggio internazionale».
Ma poi ci saranno vendette?
«Mandela è riuscito a riconciliare il suo Sud Africa dopo 350 anni di ingiustizie e apartheid. Noi non abbiamo neanche questo problema, perché anche all’Ovest i libici detestano Gheddafi. Siamo tutti uniti. Questa non è una guerra civile: è solo un dittatore che cerca di conservare il potere con ogni mezzo, contro i suoi cittadini disarmati».
Finirà come in Afghanistan?
«Assolutamente no. Siamo musulmani, ma moderati. Quelle su Al Qaeda e i talebani sono bugie di Gheddafi per impaurire Europa e Stati Uniti».
Finirà come in Iran?
«No. Qui in Libia desideriamo tutti una democrazia liberale dove si possa vivere in libertà, e in cui ogni diritto individuale venga rispettato e protetto».
Mauro Suttora
Tuesday, April 19, 2011
Feltri, ora fai il pacifista?
BISOGNA AIUTARE GLI INSORTI LIBICI
editoriale su Libero, 19 aprile 2011
di Mauro Suttora
Caro Feltri, vent’anni fa, quand’eri mio ottimo direttore all’Europeo, Saddam invase il Kuwait e scoppiò la prima guerra del Golfo. Io ero antimilitarista, tu invece trovavi giusto che l’Italia mandasse aerei a bombardare l’Iraq con gli Usa. Ora è il contrario: io sono diventato militarista, tu pacifista. «Abbiamo sbagliato a intervenire in Libia», sostieni.
Sono appena tornato da Bengasi. Lavoro per un settimanale, Oggi, quindi non ho dovuto «coprire» l’attualità quotidiana della guerra. Ho cercato invece di rispondere alle domande che tutti ci poniamo da due mesi: chi sono gli insorti della nuova Libia libera? Vale la pena aiutarli? Ho così intervistato alcuni dei tredici “ministri” del loro governo provvisorio.
Ahmed Zubair Al Senussi, per esempio, il loro decano: 77 anni, cugino del principe Idris di cui avete pubblicato proprio domenica (sotto il tuo articolo) una bella intervista da Washington. Il mio Senussi, anch’egli della famiglia reale cacciata da Gheddafi nel ’69, è soprannominato «Mandela libico» perché è stato in carcere 31 anni (perfino più dei 27 del Nobel della pace).
Arrestato nel ’70 per aver tramato contro il dittatore, che lo ha torturato (non ha più le dita dei piedi) e tenuto in isolamento totale senza vedere la luce del giorno per undici anni. «Come ha fatto a non impazzire?», gli ho chiesto. «Pensavo a mia moglie e leggevo il Corano».
Ecco, penso io, il solito islamista che si finge tollerante ma poi, conquistato il potere, fa finire la Libia come l’Iran, l’Afghanistan talebano o Gaza. Poi però mi dice che il Corano è stata la sua unica lettura solo perché non gliene permettevano altre: «Invidio Mandela che in prigione aveva tanti libri, e poteva essere visitato dai familiari». I parenti di Senussi, invece, non seppero per una dozzina d’anni se fosse vivo o morto. E quando suo fratello ebbe il permesso di andarlo a trovare la prima volta, fu per dirgli che la moglie Fatima era scomparsa.
Liberato nel 2001, oggi Senussi assicura che gli insorti vogliono libertà, una democrazia «liberale», legalità, rispetto dei diritti e delle minoranze. Che i musulmani libici sono tolleranti. E che ama l’Italia, visitata con sua moglie nel ’66 («Belle Roma e Milano, stupenda Palermo»).
Gli stessi propositi voltairiani me li ha giurati nel suo compìto francese Salwa Deghali, trentenne prof universitaria di legge, tre figli, unica donna del governo. È reduce da quattro anni alla Sorbona di Parigi per un dottorato in diritto costituzionale. E Fathi Terbil, il giovane avvocato che assiste le famiglie dei 1.270 trucidati nel massacro del carcere Abu Selim di Tripoli del 1996: il suo arresto lo scorso 15 febbraio ha scatenato la rivolta.
Ci sono poi Omar Hariri, il 75enne ministro della Difesa, pure lui con una dozzina di anni di carcere sulle spalle. E Mahmud Jibril, ministro degli Esteri, ex docente universitario di economia negli Usa: quando parla risulta così sincero che ci ha messo solo mezz’ora per convincere Sarkozy a salvare i civili di Bengasi da una strage il 19 marzo, e pochi minuti in più per far riconoscere da Frattini la Libia libera il 4 aprile.
Sono sicuro che anche tu, caro direttore, se potessi conoscere i nuovi dirigenti di Bengasi cambieresti idea. Sono gente come noi: ingegneri, professori, magistrati, avvocati, giornalisti, improvvisamente catapultati a governare un Paese. E a combattere contro uno dei tiranni più feroci e longevi della Terra: solo Fidel Castro è durato più dei 42 anni di Gheddafi.
«Ancora non ci rendiamo bene conto di essere liberi, a volte ci sembra di sognare», mi hanno confessato. Per questo, forse, devono ringraziare anche i «traditori», come tu (correttamente) li chiami: il generale Fattah Younis, comandante della piazza di Bengasi che si è rifiutato di sparare contro la folla, o l’anziano ex ministro della Giustizia Mustafa Jalil nominato presidente del consiglio provvisorio in mancanza di meglio.
Mentre camminavo per le strade di Bengasi, così uguali a quelle di una nostra cittadina meridionale degli anni ’50, stesse case, alberi e piastrelle sui marciapiedi, pensavo agli eroi che abbiamo appena festeggiato in Italia dopo 150 anni: Garibaldi, Mazzini, Cavour. Non prendiamoci in giro: oggi frasi come «combattere per la libertà» ci appaiono francamente desuete. Io per primo, confesso, piuttosto che rischiare di morire in guerra probabilmente emigrerei in Canada. E sai quanto sono allergico alla retorica.
Eppure, se oggi nel mondo c’è qualche giovane «eroe» che dà la vita per la libertà, bisogna cercarlo fra gli entusiasti ragazzotti libici che partono per il fronte di Brega. Sventolano bandiere italiane, francesi, inglesi e americane, oltre che libiche. Perfino quelle blu dell’Europa e azzurre dell’Onu, incoscienti. Abbracciano sorridenti qualsiasi giornalista straniero incontrino. Chiedono «Help us!», aiutateci.
Poi, dopo qualche giorno, magari la loro foto finisce incollata sul compensato del nuovo «muro del pianto» sul lungomare di Bengasi, vicino a quelle delle altre vittime degli assassini professionisti di Gheddafi. Loro sono volontari dilettanti, come i Mille. Per questo perdono e ci innervosiscono. Senza la protezione degli aerei Nato verrebbero spazzati via in poche ore.
I loro amici, nel collegamento wi-fi che offrono gratis ai computer degli ormai pochi giornalisti stranieri rimasti (la Libia non fa più notizia, che palle lo stallo), hanno messo la sciagurata password: “We win or we die”: o vinciamo o moriamo. Aiutiamoli a rinsavire. E quindi a vivere, se non a vincere. Per ora, che si accontentino di una Libia libera a metà.
Caro Feltri, sono sicuro che troverai argomenti per farmi cambiare idea, e distogliermi da questa inedita deriva bellicosa che stupisce me per primo.
Tuo ex antimilitarista
Mauro Suttora
editoriale su Libero, 19 aprile 2011
di Mauro Suttora
Caro Feltri, vent’anni fa, quand’eri mio ottimo direttore all’Europeo, Saddam invase il Kuwait e scoppiò la prima guerra del Golfo. Io ero antimilitarista, tu invece trovavi giusto che l’Italia mandasse aerei a bombardare l’Iraq con gli Usa. Ora è il contrario: io sono diventato militarista, tu pacifista. «Abbiamo sbagliato a intervenire in Libia», sostieni.
Sono appena tornato da Bengasi. Lavoro per un settimanale, Oggi, quindi non ho dovuto «coprire» l’attualità quotidiana della guerra. Ho cercato invece di rispondere alle domande che tutti ci poniamo da due mesi: chi sono gli insorti della nuova Libia libera? Vale la pena aiutarli? Ho così intervistato alcuni dei tredici “ministri” del loro governo provvisorio.
Ahmed Zubair Al Senussi, per esempio, il loro decano: 77 anni, cugino del principe Idris di cui avete pubblicato proprio domenica (sotto il tuo articolo) una bella intervista da Washington. Il mio Senussi, anch’egli della famiglia reale cacciata da Gheddafi nel ’69, è soprannominato «Mandela libico» perché è stato in carcere 31 anni (perfino più dei 27 del Nobel della pace).
Arrestato nel ’70 per aver tramato contro il dittatore, che lo ha torturato (non ha più le dita dei piedi) e tenuto in isolamento totale senza vedere la luce del giorno per undici anni. «Come ha fatto a non impazzire?», gli ho chiesto. «Pensavo a mia moglie e leggevo il Corano».
Ecco, penso io, il solito islamista che si finge tollerante ma poi, conquistato il potere, fa finire la Libia come l’Iran, l’Afghanistan talebano o Gaza. Poi però mi dice che il Corano è stata la sua unica lettura solo perché non gliene permettevano altre: «Invidio Mandela che in prigione aveva tanti libri, e poteva essere visitato dai familiari». I parenti di Senussi, invece, non seppero per una dozzina d’anni se fosse vivo o morto. E quando suo fratello ebbe il permesso di andarlo a trovare la prima volta, fu per dirgli che la moglie Fatima era scomparsa.
Liberato nel 2001, oggi Senussi assicura che gli insorti vogliono libertà, una democrazia «liberale», legalità, rispetto dei diritti e delle minoranze. Che i musulmani libici sono tolleranti. E che ama l’Italia, visitata con sua moglie nel ’66 («Belle Roma e Milano, stupenda Palermo»).
Gli stessi propositi voltairiani me li ha giurati nel suo compìto francese Salwa Deghali, trentenne prof universitaria di legge, tre figli, unica donna del governo. È reduce da quattro anni alla Sorbona di Parigi per un dottorato in diritto costituzionale. E Fathi Terbil, il giovane avvocato che assiste le famiglie dei 1.270 trucidati nel massacro del carcere Abu Selim di Tripoli del 1996: il suo arresto lo scorso 15 febbraio ha scatenato la rivolta.
Ci sono poi Omar Hariri, il 75enne ministro della Difesa, pure lui con una dozzina di anni di carcere sulle spalle. E Mahmud Jibril, ministro degli Esteri, ex docente universitario di economia negli Usa: quando parla risulta così sincero che ci ha messo solo mezz’ora per convincere Sarkozy a salvare i civili di Bengasi da una strage il 19 marzo, e pochi minuti in più per far riconoscere da Frattini la Libia libera il 4 aprile.
Sono sicuro che anche tu, caro direttore, se potessi conoscere i nuovi dirigenti di Bengasi cambieresti idea. Sono gente come noi: ingegneri, professori, magistrati, avvocati, giornalisti, improvvisamente catapultati a governare un Paese. E a combattere contro uno dei tiranni più feroci e longevi della Terra: solo Fidel Castro è durato più dei 42 anni di Gheddafi.
«Ancora non ci rendiamo bene conto di essere liberi, a volte ci sembra di sognare», mi hanno confessato. Per questo, forse, devono ringraziare anche i «traditori», come tu (correttamente) li chiami: il generale Fattah Younis, comandante della piazza di Bengasi che si è rifiutato di sparare contro la folla, o l’anziano ex ministro della Giustizia Mustafa Jalil nominato presidente del consiglio provvisorio in mancanza di meglio.
Mentre camminavo per le strade di Bengasi, così uguali a quelle di una nostra cittadina meridionale degli anni ’50, stesse case, alberi e piastrelle sui marciapiedi, pensavo agli eroi che abbiamo appena festeggiato in Italia dopo 150 anni: Garibaldi, Mazzini, Cavour. Non prendiamoci in giro: oggi frasi come «combattere per la libertà» ci appaiono francamente desuete. Io per primo, confesso, piuttosto che rischiare di morire in guerra probabilmente emigrerei in Canada. E sai quanto sono allergico alla retorica.
Eppure, se oggi nel mondo c’è qualche giovane «eroe» che dà la vita per la libertà, bisogna cercarlo fra gli entusiasti ragazzotti libici che partono per il fronte di Brega. Sventolano bandiere italiane, francesi, inglesi e americane, oltre che libiche. Perfino quelle blu dell’Europa e azzurre dell’Onu, incoscienti. Abbracciano sorridenti qualsiasi giornalista straniero incontrino. Chiedono «Help us!», aiutateci.
Poi, dopo qualche giorno, magari la loro foto finisce incollata sul compensato del nuovo «muro del pianto» sul lungomare di Bengasi, vicino a quelle delle altre vittime degli assassini professionisti di Gheddafi. Loro sono volontari dilettanti, come i Mille. Per questo perdono e ci innervosiscono. Senza la protezione degli aerei Nato verrebbero spazzati via in poche ore.
I loro amici, nel collegamento wi-fi che offrono gratis ai computer degli ormai pochi giornalisti stranieri rimasti (la Libia non fa più notizia, che palle lo stallo), hanno messo la sciagurata password: “We win or we die”: o vinciamo o moriamo. Aiutiamoli a rinsavire. E quindi a vivere, se non a vincere. Per ora, che si accontentino di una Libia libera a metà.
Caro Feltri, sono sicuro che troverai argomenti per farmi cambiare idea, e distogliermi da questa inedita deriva bellicosa che stupisce me per primo.
Tuo ex antimilitarista
Mauro Suttora
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Thursday, April 14, 2011
Wednesday, April 13, 2011
Viaggio nella Libia libera
DAL CAIRO A BENGASI, 1.400 KM DI AUTO NEL DESERTO
dal nostro inviato Mauro Suttora
Oggi, 3 aprile 2011
Ci vogliono 19 ore per arrivare dall'Italia nella capitale della Libia libera, Bengasi. Solo tre in volo fino al Cairo, ma poi sedici ore di auto nel deserto per coprire 1.400 chilometri. L'aeroporto della seconda città libica, infatti, è chiuso: la «no fly zone» vale per tutti gli aerei, non solo quelli di Muammar Gheddafi.
«Welcome in the new Libia!», sorride Hamdi Al Agaili, l'imam 36enne di Derna con cui passo la frontiera egiziana. Mi ha affidato a lui Mohamed Al Senussi, nipote dell'ultimo re libico Idris, quello spodestato da Gheddafi con il golpe del 1969. Chissà perchè immaginavo gli imam tutti piuttosto arcigni, Hamdi invece è ridanciano.
In Egitto ha piovuto, poi verso El Alamein c'è stata una tempesta di sabbia. Infine il sole. Alla dogana di Sallum troviamo ancora centinaia di uomini, donne e bimbi di colore accampati, in attesa di tornare nei loro Paesi. Li assiste l'Unicef. Le guardie egiziane non offrono all'imam alcuna precedenza, nonostante la tunica da religioso: facciamo anche noi una lunga fila democratica insieme a tutti, per i timbri d'uscita.
Poi cambiamo taxi, perché l'autista egiziano non può entrare in Libia. Lo chauffeur libico è Khamis Snainy, 31 anni. Sorride pure lui, entusiasta perché «stiamo cacciando Gheddafi». Mi accorgo che il fondo della strada in Libia è migliore rispetto all'Egitto, dove perfino sull'autostrada Cairo-Alessandria (la più importante del Paese, quattro corsie) si sobbalza continuamente come sulla Salerno-Reggio Calabria. Khamis mi risponde: «Merito di voi italiani. Il ponte su cui stiamo passando è stato costruito prima della guerra. Ci avete lasciato tante cose buone, Gheddafi nessuna».
Dopo cento chilometri arriviamo nella sua città, Tobruk. Sono già le sei, sta per far buio: ci propone di passare la notte in albergo lì, e di riprendere il viaggio l'indomani. Insisto per continuare verso Bengasi, non sono stanco per le nove ore di auto. «Allora scusami, passo un attimo da casa mia, prendo un golf e mi metto le calze», dice Khamis che è in ciabatte.
Raggiungiamo un tetro quartiere di casette in cemento grigio non finite, non pitturate, con i tondini di ferro che spuntano sui tetti. Le strade sono sporche e non asfaltate. Nella polvere pascolano capre e galline fra la spazzatura. Una scena da Terzo mondo, eppure la Libia grazie al petrolio è un Paese ricchissimo. «Ma Gheddafi tiene tutto per sè, oppure spende per la sua Tripoli», spiega Khamis, «qui all'Est non viene nulla. Anche per questo abbiamo fatto la rivoluzione del 17 febbraio. Io aspetto da due anni il passaporto, non me lo danno. Per tutte le cose manca sempre qualche timbro». Leghismo in salsa libica, ma qui la divisione è fra Est e Ovest.
La notizia dei 33 miliardi di dollari di dollari di beni libici (quindi personali del dittatore Gheddafi, che controlla tutto) bloccati nei soli Stati Uniti ha esacerbato gli animi: «Vogliamo arrivare a Tripoli e impiccarlo», gridano gli «shebab», i giovani come Khamis che da un giorno all'altro si sono ribellati, sull'esempio dei loro coetanei tunisini ed egiziani. Nei paesi arabi il 70 per cento degli abitanti ha meno di trent'anni. «Adesso è il turno di Siria e Yemen», ci dice Senussi, «ma non solo: alla fine vedrete che i ragazzi faranno cadere anche il regime cinese». La rivoluzione mondiale non violenta dei giovani?
Per ora, bisogna ancora cacciare Gheddafi. Non è facile. Si fa buio, Khamis ascolta la radio. Tredici soldati democratici uccisi dal «fuoco amico» degli aerei Nato. Vedendoli arrivare, per l'entusiasmo gli sciagurati hanno sparato in aria. E i piloti li hanno scambiati per gheddafiani.
Sono le nove, la strada per Bengasi è interrotta ogni dieci chilometri dai posti di blocco. A uno carichiamo un signore col figlio di sette anni cui si è rotta l'auto. C'è un clima di fratellanza febbrile, tutti si salutano incitandosi a vicenda e si aiutano. Alle dieci, una scena surreale: superiamo quattro enormi bisarche che nella notte trasportano decine di land cruiser Toyota: i pick up su cui vengono montate le mitragliatrici. «Ah, sì, alla frontiera mi hanno detto che ce li ha regalati il Qatar», spiega Khamis. È l’unico stato che finora ha riconosciuto il governo provvisorio di Bengasi, oltre alla Francia. Gheddafi odia il Qatar, anche perché lì sta la tv Al Jazeera che fa una propaganda sfrontata per i ribelli.
Alle undici ci fermiamo nel bar di un benzinaio a mangiare qualcosa. Miracolo: la tv è sintonizzata sul derby Milan-Inter. Qui l'Inter la chiamano «Inter Milan», e per non fare confusione il Milan è «AC Milan». Infine, le luci di Bengasi. In teoria è una metropoli, ma all'indomani visitandola con la luce mi dà l'impressione di una Crotone molto più slabbrata. In centro ci sono ancora i palazzetti in stile italiano anni '30, mai ristrutturati. Polvere, cattivi odori ed erbacce ovunque. Tutto sembra rotto. L’albergo dove stanno i giornalisti in teoria è a quattro stelle, in realtà a una. Anzi, un ostello. O una stalla. Possibile che la seconda città libica non avesse un hotel decente? Povera Bengasi, come l'aveva maltrattata Gheddafi.
Nell’ex palazzo di giustizia, in parte bruciato dopo l’assalto, i nuovi dirigenti democratici hanno avuto l’intelligente idea di installare l’ufficio stampa. Così tutto il mondo vede le stanze dove si torturava. Due ragazzine con il velo islamico prendono le credenziali. Sul muro esterno sono appese le tristi liste e foto di morti e feriti.
La guerra continua. Il fronte si è ormai stabilizzato a 200 chilometri da qui. Gheddafi è riuscito a riprendersi per la seconda volta il terminale petrolifero di Ras Lanuf. Ma alla Cirenaica resta la metà dei pozzi, con altri terminali. Se lo stallo continua, la Libia rimarrà divisa in due. Come la Germania prima del 1989. In realtà lo è sempre stata: Cirenaica e Tripolitania furono unificate solo dagli italiani, dopo averle strappate ai turchi esattamente cent’anni fa. Coincidenza: una nave turca ha appena attraccato a Bengasi e Misurata per portar via i feriti più gravi. E si parla dei soldati di Istanbul come forza di interposizione Onu dopo il cessate il fuoco. Torna l’impero ottomano, cacciato nel 1911?
Mauro Suttora
dal nostro inviato Mauro Suttora
Oggi, 3 aprile 2011
Ci vogliono 19 ore per arrivare dall'Italia nella capitale della Libia libera, Bengasi. Solo tre in volo fino al Cairo, ma poi sedici ore di auto nel deserto per coprire 1.400 chilometri. L'aeroporto della seconda città libica, infatti, è chiuso: la «no fly zone» vale per tutti gli aerei, non solo quelli di Muammar Gheddafi.
«Welcome in the new Libia!», sorride Hamdi Al Agaili, l'imam 36enne di Derna con cui passo la frontiera egiziana. Mi ha affidato a lui Mohamed Al Senussi, nipote dell'ultimo re libico Idris, quello spodestato da Gheddafi con il golpe del 1969. Chissà perchè immaginavo gli imam tutti piuttosto arcigni, Hamdi invece è ridanciano.
In Egitto ha piovuto, poi verso El Alamein c'è stata una tempesta di sabbia. Infine il sole. Alla dogana di Sallum troviamo ancora centinaia di uomini, donne e bimbi di colore accampati, in attesa di tornare nei loro Paesi. Li assiste l'Unicef. Le guardie egiziane non offrono all'imam alcuna precedenza, nonostante la tunica da religioso: facciamo anche noi una lunga fila democratica insieme a tutti, per i timbri d'uscita.
Poi cambiamo taxi, perché l'autista egiziano non può entrare in Libia. Lo chauffeur libico è Khamis Snainy, 31 anni. Sorride pure lui, entusiasta perché «stiamo cacciando Gheddafi». Mi accorgo che il fondo della strada in Libia è migliore rispetto all'Egitto, dove perfino sull'autostrada Cairo-Alessandria (la più importante del Paese, quattro corsie) si sobbalza continuamente come sulla Salerno-Reggio Calabria. Khamis mi risponde: «Merito di voi italiani. Il ponte su cui stiamo passando è stato costruito prima della guerra. Ci avete lasciato tante cose buone, Gheddafi nessuna».
Dopo cento chilometri arriviamo nella sua città, Tobruk. Sono già le sei, sta per far buio: ci propone di passare la notte in albergo lì, e di riprendere il viaggio l'indomani. Insisto per continuare verso Bengasi, non sono stanco per le nove ore di auto. «Allora scusami, passo un attimo da casa mia, prendo un golf e mi metto le calze», dice Khamis che è in ciabatte.
Raggiungiamo un tetro quartiere di casette in cemento grigio non finite, non pitturate, con i tondini di ferro che spuntano sui tetti. Le strade sono sporche e non asfaltate. Nella polvere pascolano capre e galline fra la spazzatura. Una scena da Terzo mondo, eppure la Libia grazie al petrolio è un Paese ricchissimo. «Ma Gheddafi tiene tutto per sè, oppure spende per la sua Tripoli», spiega Khamis, «qui all'Est non viene nulla. Anche per questo abbiamo fatto la rivoluzione del 17 febbraio. Io aspetto da due anni il passaporto, non me lo danno. Per tutte le cose manca sempre qualche timbro». Leghismo in salsa libica, ma qui la divisione è fra Est e Ovest.
La notizia dei 33 miliardi di dollari di dollari di beni libici (quindi personali del dittatore Gheddafi, che controlla tutto) bloccati nei soli Stati Uniti ha esacerbato gli animi: «Vogliamo arrivare a Tripoli e impiccarlo», gridano gli «shebab», i giovani come Khamis che da un giorno all'altro si sono ribellati, sull'esempio dei loro coetanei tunisini ed egiziani. Nei paesi arabi il 70 per cento degli abitanti ha meno di trent'anni. «Adesso è il turno di Siria e Yemen», ci dice Senussi, «ma non solo: alla fine vedrete che i ragazzi faranno cadere anche il regime cinese». La rivoluzione mondiale non violenta dei giovani?
Per ora, bisogna ancora cacciare Gheddafi. Non è facile. Si fa buio, Khamis ascolta la radio. Tredici soldati democratici uccisi dal «fuoco amico» degli aerei Nato. Vedendoli arrivare, per l'entusiasmo gli sciagurati hanno sparato in aria. E i piloti li hanno scambiati per gheddafiani.
Sono le nove, la strada per Bengasi è interrotta ogni dieci chilometri dai posti di blocco. A uno carichiamo un signore col figlio di sette anni cui si è rotta l'auto. C'è un clima di fratellanza febbrile, tutti si salutano incitandosi a vicenda e si aiutano. Alle dieci, una scena surreale: superiamo quattro enormi bisarche che nella notte trasportano decine di land cruiser Toyota: i pick up su cui vengono montate le mitragliatrici. «Ah, sì, alla frontiera mi hanno detto che ce li ha regalati il Qatar», spiega Khamis. È l’unico stato che finora ha riconosciuto il governo provvisorio di Bengasi, oltre alla Francia. Gheddafi odia il Qatar, anche perché lì sta la tv Al Jazeera che fa una propaganda sfrontata per i ribelli.
Alle undici ci fermiamo nel bar di un benzinaio a mangiare qualcosa. Miracolo: la tv è sintonizzata sul derby Milan-Inter. Qui l'Inter la chiamano «Inter Milan», e per non fare confusione il Milan è «AC Milan». Infine, le luci di Bengasi. In teoria è una metropoli, ma all'indomani visitandola con la luce mi dà l'impressione di una Crotone molto più slabbrata. In centro ci sono ancora i palazzetti in stile italiano anni '30, mai ristrutturati. Polvere, cattivi odori ed erbacce ovunque. Tutto sembra rotto. L’albergo dove stanno i giornalisti in teoria è a quattro stelle, in realtà a una. Anzi, un ostello. O una stalla. Possibile che la seconda città libica non avesse un hotel decente? Povera Bengasi, come l'aveva maltrattata Gheddafi.
Nell’ex palazzo di giustizia, in parte bruciato dopo l’assalto, i nuovi dirigenti democratici hanno avuto l’intelligente idea di installare l’ufficio stampa. Così tutto il mondo vede le stanze dove si torturava. Due ragazzine con il velo islamico prendono le credenziali. Sul muro esterno sono appese le tristi liste e foto di morti e feriti.
La guerra continua. Il fronte si è ormai stabilizzato a 200 chilometri da qui. Gheddafi è riuscito a riprendersi per la seconda volta il terminale petrolifero di Ras Lanuf. Ma alla Cirenaica resta la metà dei pozzi, con altri terminali. Se lo stallo continua, la Libia rimarrà divisa in due. Come la Germania prima del 1989. In realtà lo è sempre stata: Cirenaica e Tripolitania furono unificate solo dagli italiani, dopo averle strappate ai turchi esattamente cent’anni fa. Coincidenza: una nave turca ha appena attraccato a Bengasi e Misurata per portar via i feriti più gravi. E si parla dei soldati di Istanbul come forza di interposizione Onu dopo il cessate il fuoco. Torna l’impero ottomano, cacciato nel 1911?
Mauro Suttora
Wednesday, April 06, 2011
Santanchè 2: il finto master
ALTRO CHE «POSTUNIVERSITARIO»: PER IL CORSO FREQUENTATO DALLA SANTANCHÈ ALLA BOCCONI BASTAVA LA LICENZA MEDIA. E DURAVA 24 GIORNI DI LEZIONE, NON UN ANNO.
«NON PRENDIAMOCI IN GIRO», DICE IL DIRETTORE DEI MASTER BOCCONI PER 12 ANNI, «PUO' MILLANTARE QUEL CHE VUOLE, MA OFFENDE CHI IL MASTER L'HA CONSEGUITO DAVVERO, CON TANTI SACRIFICI»
di Mauro Suttora e Lorenzo Franculli
Oggi, 30 marzo 2011
Altro che master. Quello conseguito da Daniela Santanchè alla Bocconi nel 1993 non era neppure un corso post-universitario: era aperto anche ai non laureati. E non è durato un anno, come sostiene la sottosegretaria: i giorni di lezione in aula furono appena 24. Tre ogni mese, per otto mesi.
La settimana scorsa Oggi ha svelato una bugia che appare sul sito ufficiale del governo italiano: nella prima riga del proprio curriculum la Santanchè afferma di avere conseguito un master alla Sda (Scuola di direzione aziendale) Bocconi. La stessa università milanese ci aveva confermato che la sottosegretaria non l’ha mai ottenuto.
Niente diploma sul sito
C’era quindi poco da smentire. Anche perchè avevamo scritto che la signora aveva probabilmente «promosso» a master qualcuno dei tanti altri corsi della Bocconi da lei frequentato.
Ma la Santanchè, invece di rimediare togliendo dal sito governativo il riferimento al master inesistente, si è difesa attaccando: «Basta sapere un minimo di inglese, master vuol dire corso di specializzazione post laurea». Che equivale a confondere una Ferrari (il master Bocconi è considerato uno dei migliori d’Europa) con una utilitaria.
La sottosegretaria aveva anche promesso di pubblicare subito sul suo sito internet il proprio attestato di frequenza al corso. Stiamo ancora aspettando.
Mario Mazzoleni, 54 anni, ha diretto il Master in business administration (Mba) alla Bocconi per ben dodici anni, dal 1992 al 2004. Oggi insegna Management alle università di Brescia e Bologna. Ha dichiarato alla Zanzara, trasmissione di Giuseppe Cruciani su Radio24: «Non si può chiamare master un corso di poche decine di giorni come il progetto Gemini, quello frequentato dalla Santanchè. Un master è tutt’altra cosa. Ha bisogno di certificazioni. Su 500 domande di ammissione ne entravano 140, e di questi non tutti arrivavano fino in fondo».
Il professor Mazzoleni ribadisce a Oggi: «Trovo le affermazioni della Santanchè offensive verso tutti coloro che il master lo hanno davvero conseguito con tanti sacrifici. Un Mba è qualcosa di serio e molto difficile: otto ore al giorno per sedici mesi. E costa decine di migliaia di euro».
Come si può definire allora la qualifica ottenuta dalla Santanchè?
«Non prendiamoci in giro. Il progetto Gemini non era un master e nemmeno un corso di specializzazione; quest’ultimo infatti deve essere inserito ufficialmente nell’ambito del regolamento dell’università, ed è rivolto a persone come manager con criteri di selezione molto accurati. Il progetto Gemini invece era indirizzato a giovani imprenditori [l’allora trentenne Santanchè aveva fondato una sua società di pubbliche relazioni, ndr] che volevano imparare a gestire la propria azienda. Un’iniziativa seria, in cui si faceva formazione su contenuti aziendali. I partecipanti svolgevano progetti sul campo, normalmente nelle proprie aziende. Ma non c’erano esami da sostenere, e alla fine veniva rilasciato solo un attestato di partecipazione. Insomma, ottenere un master è tutt’altra questione. Non si possono confondere le due cose. Poi, uno può millantare quel che vuole. Tutti i miei “ex ragazzi” Mba sono infuriati. E poi la Santanchè si difende male. Bastava dire: “Scusate, mi sono sbagliata. Il mio non è un master ma un corso”. E tutto sarebbe finito lì».
Anche perché dal 1997 i master sono regolamentati dalla legge, e quindi non c’è più alcuna possibilità di equivoco.
Francesco Boccia, deputato Pd, insegna Economia aziendale all’università di Castellanza (Varese). Ha ottenuto il master Mba in Bocconi nel 1993-94, poi un PhD alla London School of Economics. «Per stile, non mi occupo degli affari degli altri», premette, «ma nella nostra posizione di uomini politici, e a maggior ragione per chi rappresenta il governo, serve trasparenza. L’Mba Bocconi è il master più antico in Italia, esiste da 40 anni con tutte le certificazioni internazionali e rientra nei ranking delle principali università del mondo. I master sono corsi di specializzazione post-graduate (post-laurea) che hanno un titolo specifico, riconosciuti da un sistema. Il mio master costava venti milioni di lire [quello della Santanchè sei milioni, ndr] per sedici mesi, con obbligo di superamento degli esami. Chi stava sotto la soglia di 2,9 su 5 veniva mandato via. La Santanchè non ha frequentato un master. Il suo era un serio corso di formazione, ma la Sda Bocconi ne organizza più di cento. Se poi lei pensa che un corso di perfezionamento sia un master, commette un errore di valutazione un po’ grossolano».
“Ha preferito apparire“
Pietro Mastranzo, ex deputato, consigliere comunale Pdl a Napoli, ha frequentato un corso di General management in sanità alla Bocconi, con esami selettivi. Lui però non ha scritto sul curriculum «master», bensì, correttamente, diploma. Ci dice: «In politica bisogna essere poco appariscenti. Bisogna fare, più che vantare un curriculum. La Santanchè forse ha preferito apparire… La Bocconi è un’università prestigiosa, ho ottenuto un diploma di cui vado fiero. Ma frequentare un suo corso non dà il permesso di dire che si ha un master».
Il solo mistero che rimane è perché l’ufficio stampa Bocconi, dopo l'esplosione del caso, abbia voluto «rettificare» le informazioni che esso stesso ci ha dato (senza peraltro rettificare nei contenuti neanche una virgola). Eppure i maggiori danneggiati sono proprio la Bocconi e il suo buon nome.
Lorenzo Franculli e Mauro Suttora
«NON PRENDIAMOCI IN GIRO», DICE IL DIRETTORE DEI MASTER BOCCONI PER 12 ANNI, «PUO' MILLANTARE QUEL CHE VUOLE, MA OFFENDE CHI IL MASTER L'HA CONSEGUITO DAVVERO, CON TANTI SACRIFICI»
di Mauro Suttora e Lorenzo Franculli
Oggi, 30 marzo 2011
Altro che master. Quello conseguito da Daniela Santanchè alla Bocconi nel 1993 non era neppure un corso post-universitario: era aperto anche ai non laureati. E non è durato un anno, come sostiene la sottosegretaria: i giorni di lezione in aula furono appena 24. Tre ogni mese, per otto mesi.
La settimana scorsa Oggi ha svelato una bugia che appare sul sito ufficiale del governo italiano: nella prima riga del proprio curriculum la Santanchè afferma di avere conseguito un master alla Sda (Scuola di direzione aziendale) Bocconi. La stessa università milanese ci aveva confermato che la sottosegretaria non l’ha mai ottenuto.
Niente diploma sul sito
C’era quindi poco da smentire. Anche perchè avevamo scritto che la signora aveva probabilmente «promosso» a master qualcuno dei tanti altri corsi della Bocconi da lei frequentato.
Ma la Santanchè, invece di rimediare togliendo dal sito governativo il riferimento al master inesistente, si è difesa attaccando: «Basta sapere un minimo di inglese, master vuol dire corso di specializzazione post laurea». Che equivale a confondere una Ferrari (il master Bocconi è considerato uno dei migliori d’Europa) con una utilitaria.
La sottosegretaria aveva anche promesso di pubblicare subito sul suo sito internet il proprio attestato di frequenza al corso. Stiamo ancora aspettando.
Mario Mazzoleni, 54 anni, ha diretto il Master in business administration (Mba) alla Bocconi per ben dodici anni, dal 1992 al 2004. Oggi insegna Management alle università di Brescia e Bologna. Ha dichiarato alla Zanzara, trasmissione di Giuseppe Cruciani su Radio24: «Non si può chiamare master un corso di poche decine di giorni come il progetto Gemini, quello frequentato dalla Santanchè. Un master è tutt’altra cosa. Ha bisogno di certificazioni. Su 500 domande di ammissione ne entravano 140, e di questi non tutti arrivavano fino in fondo».
Il professor Mazzoleni ribadisce a Oggi: «Trovo le affermazioni della Santanchè offensive verso tutti coloro che il master lo hanno davvero conseguito con tanti sacrifici. Un Mba è qualcosa di serio e molto difficile: otto ore al giorno per sedici mesi. E costa decine di migliaia di euro».
Come si può definire allora la qualifica ottenuta dalla Santanchè?
«Non prendiamoci in giro. Il progetto Gemini non era un master e nemmeno un corso di specializzazione; quest’ultimo infatti deve essere inserito ufficialmente nell’ambito del regolamento dell’università, ed è rivolto a persone come manager con criteri di selezione molto accurati. Il progetto Gemini invece era indirizzato a giovani imprenditori [l’allora trentenne Santanchè aveva fondato una sua società di pubbliche relazioni, ndr] che volevano imparare a gestire la propria azienda. Un’iniziativa seria, in cui si faceva formazione su contenuti aziendali. I partecipanti svolgevano progetti sul campo, normalmente nelle proprie aziende. Ma non c’erano esami da sostenere, e alla fine veniva rilasciato solo un attestato di partecipazione. Insomma, ottenere un master è tutt’altra questione. Non si possono confondere le due cose. Poi, uno può millantare quel che vuole. Tutti i miei “ex ragazzi” Mba sono infuriati. E poi la Santanchè si difende male. Bastava dire: “Scusate, mi sono sbagliata. Il mio non è un master ma un corso”. E tutto sarebbe finito lì».
Anche perché dal 1997 i master sono regolamentati dalla legge, e quindi non c’è più alcuna possibilità di equivoco.
Francesco Boccia, deputato Pd, insegna Economia aziendale all’università di Castellanza (Varese). Ha ottenuto il master Mba in Bocconi nel 1993-94, poi un PhD alla London School of Economics. «Per stile, non mi occupo degli affari degli altri», premette, «ma nella nostra posizione di uomini politici, e a maggior ragione per chi rappresenta il governo, serve trasparenza. L’Mba Bocconi è il master più antico in Italia, esiste da 40 anni con tutte le certificazioni internazionali e rientra nei ranking delle principali università del mondo. I master sono corsi di specializzazione post-graduate (post-laurea) che hanno un titolo specifico, riconosciuti da un sistema. Il mio master costava venti milioni di lire [quello della Santanchè sei milioni, ndr] per sedici mesi, con obbligo di superamento degli esami. Chi stava sotto la soglia di 2,9 su 5 veniva mandato via. La Santanchè non ha frequentato un master. Il suo era un serio corso di formazione, ma la Sda Bocconi ne organizza più di cento. Se poi lei pensa che un corso di perfezionamento sia un master, commette un errore di valutazione un po’ grossolano».
“Ha preferito apparire“
Pietro Mastranzo, ex deputato, consigliere comunale Pdl a Napoli, ha frequentato un corso di General management in sanità alla Bocconi, con esami selettivi. Lui però non ha scritto sul curriculum «master», bensì, correttamente, diploma. Ci dice: «In politica bisogna essere poco appariscenti. Bisogna fare, più che vantare un curriculum. La Santanchè forse ha preferito apparire… La Bocconi è un’università prestigiosa, ho ottenuto un diploma di cui vado fiero. Ma frequentare un suo corso non dà il permesso di dire che si ha un master».
Il solo mistero che rimane è perché l’ufficio stampa Bocconi, dopo l'esplosione del caso, abbia voluto «rettificare» le informazioni che esso stesso ci ha dato (senza peraltro rettificare nei contenuti neanche una virgola). Eppure i maggiori danneggiati sono proprio la Bocconi e il suo buon nome.
Lorenzo Franculli e Mauro Suttora
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