Cinque donne condannate a morte assieme a un medico a Tripoli. Con un’accusa tremenda:
avere infettato con l’Aids più di 400 bambini. Ma dopo otto anni di carcere e torture, bastano poche ore a Madame Sarkozy per far cambiare idea a Gheddafi. Ecco la cronaca dell’incredibile vicenda
Oggi, 26 luglio 2007
«Mi facevano dormire inginocchiato con le braccia ammanettate dietro la schiena. Ogni volta che chinavo la testa un secondino mi prendeva a calci. Ho ancora il corpo pieno di cicatrici, qualsiasi medico può esaminarmi per provare che sono stato torturato. Ma ci hanno trattati tutti come animali, per anni. Ci hanno massacrati con scosse elettriche, con botte, impedendoci di dormire...».
È questo il primo racconto di Achraf Juma Hajouj, viso emaciato e capelli precocemente ingrigiti. Medico palestinese, è stato otto anni in carcere in Libia con cinque infermiere bulgare. Accusati di avere infettato di Aids 426 bambini nell’ospedale di Bengasi (una cinquantina dei quali sono deceduti), i cinque erano stati condannati a morte nel 2004. Ma la scorsa settimana sono stati liberati da Cécilia Sarkozy, la moglie del presidente francese volata a Tripoli per trattare con il dittatore Muammar Gheddafi. Tornati in Bulgaria, ora sono tenuti sotto controllo in una residenza governativa, e tre di loro raccontano la loro allucinante esperienza in una conferenza stampa. Le altre tre infermiere fanno sapere di sentirsi ancora troppo deboli per potere affrontare i giornalisti.
Il loro incubo inizia il 9 febbraio 1999, quando vengono arrestati assieme ad altri 17 medici e infermieri bulgari che lavorano negli ospedali libici. Da anni professionisti della Bulgaria si recavano in Libia, priva di sufficiente personale medico-sanitario. Gli stipendi sono molto più alti di quelli percepiti in gran parte dei Paesi dell’Est. Durante i contratti, di solito biennali, è possibile guadagnare quasi interamente la somma necessaria per acquistare un appartamento in Bulgaria.
Dopo un po’ gli altri vengono liberati. Restano in carcere il medico e le infermiere Cristiana Balcheva, Nasia Nenova, Valentina Siropulo, Valia Cherveniashka e Snezhana Dimitrova. Secondo le autorità libiche sono tutte colpevoli di aver infettato centinaia di bambini dell’ospedale pediatrico di Bengasi. Ma non per sbaglio: ci sarebbe addirittura la premeditazione, e in Libia per queste cose si viene impiccati.
Sui motivi che starebbero dietro al folle gesto, i libici hanno sostenuto diverse ipotesi, ma tutte caratterizzate dal medesimo filo conduttore: un complotto contro il popolo libico. Durante la conferenza mondiale sull’Aids dell’aprile 2001 è il colonnello Gheddafi in persona a spiegare quale sarebbe stato il diabolico movente di infermiere e medico: «È stato chiesto loro di sperimentare gli effetti dell’Hiv sui bambini». E chi li avrebbe incaricati di questo odioso compito? Alcuni dicono la Cia. Altri il Mossad, il servizio segreto israeliano.
Il processo inizia nel giugno 2001. L’accusa si basa su confessioni ottenute sotto tortura, smentite in seguito dagli stessi detenuti. Si è parlato di contenitori con campioni di siero infetto trovati nelle abitazioni dei prigionieri, che però non sono mai stati messi a disposizione per un esame da parte della difesa. Come se non bastasse, fanno da contorno imputazioni meno gravi che vedono alcune delle donne colpevoli di relazioni sessuali illecite, nonché di produzione e consumo in pubblico di alcol.
Nel luglio 2004 il governo libico fornisce alla difesa 218 pagine in lingua araba di motivazioni per la condanna. Ma gli avvocati difensori sostengono e motivano l’innocenza dei propri clienti. Le prove sono fornite dalle testimonianze di Luc Montagnier, uno degli scopritori del virus dell’Aids, e del virologo italiano Vittorio Coalizzi. I due scienziati, incaricati dall’Unesco, avevano esaminato personalmente il caso recandosi all’ospedale Al-Fatih di Bengasi nel 2002. Era stato eseguito un esame genetico del virus, mettendo a confronto il sangue conservato di bambini infettati in anni diversi: nel 1997, nel ’98, nel ’99 e nel periodo successivo all’arrivo delle infermiere nell’ospedale. Le indagini dimostrano che i primi casi di infezione risalgono al ’96-’97, cioè molto prima che i processati giungessero in Libia.
Il virus ha le medesime caratteristiche in ogni campione esaminato, caratteristiche tra l’altro tipiche dell’Africa centrale e occidentale. Non può essere stato importato da altre aree geografiche, come sostengono invece gli accusatori libici. Le cause del propagarsi dell’epidemia sono da ricercarsi, secondo i due scienziati, nelle scarse condizioni igieniche dell’ospedale. La loro relazione dovrebbe cancellare i sospetti che hanno trasformato la vicenda in una cospirazione. Ma di queste prove i giudici libici non hanno tenuto conto.
Dopo infiniti rinvii, la corte di Tripoli delibera la sentenza: infermiere e medico saranno fucilati. Scattano i ricorsi in Appello, finché la Corte suprema tre settimane fa conferma la condanna a morte. In realtà Gheddafi ha sempre cercato di risolvere la questione negoziando e usando i sei prigionieri come ostaggi. In cambio prima voleva il rilascio dell’ufficiale libico condannato per l’attentato all’aereo americano Lockerbie (1988). Poi ha deciso di chiedere il risarcimento da parte della Bulgaria per le famiglie dei bambini rimasti vittime dell’epidemia. Ma il governo bulgaro ha sempre rifiutato ogni forma di baratto: «Le infermiere sono innocenti, quindi accettare di pagare un indennizzo sarebbe come ammettere la loro colpevolezza, e questo è inconcepibile», è stata la posizione ufficiale del governo di Sofia fino a una settimana fa.
Nel frattempo Gheddafi, spaventato dall’invasione americana in Iraq, si ammorbidisce. Nel dicembre 2003 ammette di avere prodotto armi chimiche di distruzione di massa nella fabbrica di Rabta, come accusavano gli Stati Uniti dagli anni Ottanta, e si prende la responsabilità per l’attentato di Lockerbie (260 morti causati da una bomba libica). Si avvia un processo di riavvicinamento della Libia all’Europa, l’Onu toglie le sanzioni economiche e si riaprono le ambasciate occidentali a Tripoli, anche se la Libia resta un’implacabile dittatura dove qualsiasi dissidente viene gettato in carcere. Ma l’Occidente pensa: meglio il laico Gheddafi (al potere da 38 anni, tiranno superato per longevità nel mondo soltanto da Fidel Castro) che non qualche fondamentalista islamico.
La Libia però deve fare i conti anche con i famigliari dei bambini sieropositivi, aizzati dalla Tv e dai giornali di stato libici contro le «streghe» bulgare. Per anni hanno lanciato pietre contro il tribunale gridando «Morte agli assassini«, «Impiccateli!», «La vita dei nostri bambini vale più di quella di un bulgaro». Anche adesso, dopo la liberazione dei sei e la grazia concessa dalla Bulgaria, protestano contro la violazione da parte di Sofia degli accordi presi con la signora Sarkozy, che prevedevano l’estradizione in un carcere bulgaro, ma non la libertà.
L’unico in Libia che negli ultimi tempi ha difeso medico e infermiere è stato il figlio di Gheddafi, Seif Al Islam: «Le autorità libiche devono ammettere la propria responsabilità per il dilagare dell’epidemia. Non credo nella colpevolezza delle infermiere». Anche la bellissima figlia del dittatore, Aisha, trentenne sposatasi l’anno scorso con un cugino, ha aiutato madame Sarkozy nell’opera di mediazione.
Mauro Suttora
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