La cifra è ufficiale: 270 miliardi di tasse non pagate ogni anno. «Un terzo della nostra economia è in nero, anche se tutti fanno finta di niente», denuncia Gian Maria Fara (Eurispes). Intanto gli autonomi contestano i nuovi «studi di settore». E la Guardia di Finanza rintraccia 21 miliardi. Ma lo Stato li incasserà mai?
di Mauro Suttora
Roma, 27 giugno 2007
Adesso è ufficiale: l’evasione fiscale in Italia ammonta all’astronomica cifra di 270 miliardi di euro annui. Quasi un terzo della nostra attività economica è in nero. E quindi chi paga le tasse è costretto a versare quasi il doppio rispetto a una situazione normale. Insomma, se tutti pagassero, l’aliquota massima dell’Irpef potrebbe scendere dal 49 per cento al sospirato 33.
La notizia non è nuova. Che gli evasori siano, assieme a mafia e disoccupazione, la principale piaga d’Italia, è arcinoto. Lo sappiamo tutti, da anni. Il 77 per cento degli italiani ammette, in un sondaggio della Banca d’Italia, che le dichiarazioni fiscali sono false. Ma questa volta non è un istituto di ricerca a stimare le tasse evase: lo fa l’Agenzia delle Entrate, cioè proprio l’ente che, dal suo grattacielo romano dell’Eur, dovrebbe far quadrare i conti pubblici.
«L’aspetto più incredibile è che questa rivelazione non ha avuto alcun seguito», denuncia il professore Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, «perché la principale preoccupazione dei politici - sia di destra sia di sinistra, a seconda di chi è al governo - è quella di descrivere l’Italia o come un paradiso, o come un Paese nel quale tutti i problemi sono sul binario giusto per la loro soluzione».
L’Italia un paradiso? Sì, ma fiscale. Senza bisogno di fuggire a Montecarlo o alle isole Cayman e Bahamas. «La nostra economia sommersa, cioè esentasse, equivale a quella di quattro nazioni medio-grandi messe assieme: Finlandia, Portogallo, Romania e Ungheria», ricorda Fara.
Ora, a proposito dell’extragettito, si parla tanto di «tesoretto», dando l’impressione che le cose siano cambiate. Non è così: anche quest’anno lo Stato italiano sta spendendo più di quello che incassa. Il deficit annuo è calato dal quattro al due per cento, ma è una magra consolazione, visto che va ad aggravare un debito totale di 1.600 miliardi di euro. Sarebbe come se una famiglia indebitata per ventimila euro e che guadagna in un anno egualmente ventimila euro, ne spendesse 20.400 invece di risparmiare.
«Così i nostri governi riescono a farsi criticare contemporaneamente sia dagli evasori, sia da chi è costretto a pagare cifre insopportabili», ci spiega da Genova Victor Uckmar, decano dei fiscalisti italiani, «perché la media del 42 per cento del carico fiscale è come il pollo di Trilussa, non significa nulla. Guardiamo le tasse sui redditi, per esempio: quelli da capitale, cioè azioni, bot e quant’altro, pagano solo il dodici per cento, contro il 35 di quelli da impresa (cioè da attività industriale o commerciale) e addirittura il 49 di quelli da lavoro dipendente e autonomo. E tutto questo per finanziare gli sperperi della “casta” dei politici, in barba al principio della “giusta imposta per giusta spesa”».
Che fare, allora? La lotta all’evasione promessa un anno fa dal governo Prodi sembra procedere bene, visto che anche nei primi mesi del 2007 le entrate sono aumentate del sei per cento. Poi c’è la revisione dei cosiddetti «studi di settore», con cui lo Stato determina da una decina d’anni il reddito presunto di quattro milioni e mezzo di lavoratori autonomi. Dati certi parametri (tipo di attività, città, metratura), chi dichiara la cifra ritenuta «congrua» evita i controlli. Ma la rivalutazione di questa cifra per un totale di tre miliardi di maggiori entrate sta provocando la rivolta delle categorie interessate: «Ciascuno di noi dovrà pagare dai 1.500 ai tremila euro in più all’anno», calcola Giuseppe Bortolussi, segretario degli Artigiani di Mestre.
«Siamo intervenuti soprattutto sui costi detraibili, sulle giacenze in magazzino, sui valori aggiunti per addetto», rispondono al ministero dell’Economia, dove alle Finanze opera il viceministro Vincenzo Visco. Qualche esempio: i corniciai «congrui» denunciano una durata scorte di 632 giorni, quelli non congrui 7.597 (in pratica, questi ultimi terrebbero nel retrobottega cornici per venti anni e più). Oppure ristoranti e bar: il valore aggiunto per addetto (fatturato meno costi diviso per il numero di dipendenti) è 16,3 secondo il nuovo studio di settore, ma comunque la metà rispetto agli indici Istat del 29,8. Per gli alberghi: il ministero «presume» un rendimento per addetto del 15, contro l’Istat al 42.
Insomma, fra congrui e non congrui c’è una bella differenza, e lì sta intervenendo il ministero (vedi tabella sotto). I farmacisti in regola, per esempio, dichiarano 150 mila euro annui, mentre il 20 per cento di non congrui sono a 83 mila. I corniciai sono a 24 mila, ma c’è un 75 per cento che dichiara appena 6.700. Baristi e gelatai: 26 mila euro per quelli in regola, ma il 70 per cento dichiara 11 mila. Agenti immobiliari: i congrui sono a 37 mila, gli altri (52 per cento) a 9 mila.
Ma quanto sono importanti gli studi di settore per stanare gli evasori?
Per capirlo andiamo al Comando generale della Guardia di Finanza a Roma, dove il colonnello Umberto Sirico, capufficio della Tutela finanza pubblica, ci spiega: «Gli studi di settore sono solo uno dei vari strumenti per individuare situazioni patologiche. L’anno scorso la Guardia di Finanza ha accertato evasioni Iva per quattro miliardi di euro, la cifra maggiore degli ultimi dieci anni, e redditi non dichiarati per oltre 17 miliardi. Quest’anno stiamo aumentando gli interventi del 24 per cento rispetto al 2006. E i reparti speciali istituiti di recente a Roma, come quelli sulle entrate e sulla spesa pubblica, forniscono ai reparti territoriali tutte le indicazioni investigative e d’intelligence per agire con precisione chirurgica. Insomma, grazie agli incroci di dati ormai siamo in grado di intervenire quasi a colpo sicuro».
Esempi?
«Le ristrutturazioni edilizie: confrontando le richieste di detrazione del 36 per cento nelle dichiarazioni dei redditi con le fatture emesse, la Guardia di Finanza è in grado di individuare le imprese edili che evadono. E così gli agenti e rappresentanti di commercio che versano contributi Enasarco non combacianti con la realtà, le ditte di autotrasporto quando non dichiarano lavoratori che effettuano consegne per conto terzi, o le frodi sull’Iva comunitaria negli scambi con operatori di San Marino. È importante sfruttare l’effetto deterrenza: nei settori presi di mira l’evasione cala drasticamente».
Insomma, il «conflitto d’interessi», che è un problema in politica, nella lotta agli evasori è invece un ottimo metodo. Infatti, se i clienti possono scaricare le ricevute, smettono di essere complici dei fornitori nell’evadere l’Iva. Per fare «emergere il nero» pochi giorni fa Francesco Rutelli ha proposto di rendere detraibili anche gli affitti.
Quel che le Fiamme Gialle non possono dire, però, è che spesso gran parte del loro lavoro si perde negli arzigogoli della giustizia: fra condoni e ricorsi, il denaro recuperato alla fine è poco. Ma in questo campo decidono i politici. Che sono eletti da tutti noi. Evasori compresi...
Mauro Suttora
Wednesday, June 27, 2007
Belpietro, secondino a Peschiera
IL DIRETTORE DE "IL GIORNALE" RACCONTA LA PROPRIA NAIA. E QUELLA VOLTA CHE PANNELLA...
di Mauro Suttora
Oggi, 27 giugno 2007
«Avevo 21 anni ed ero finito a fare il Car a Macomer, in Sardegna. Lì, all’ufficio destinazioni, trovai un mio compaesano bresciano che mi spedì come caporale secondino a Peschiera del Garda. E per me, che abitavo a Palazzolo sull’Oglio, fu una fortuna. Ma nessuna raccomandazione, giuro».
Maurizio Belpietro, 49 anni, direttore de Il Giornale, nel 1979 è stato per sette mesi sorvegliante del carcere militare più temuto d’Italia. Ci finivano gli obiettori che rifiutavano la naia: «C’era un centinaio di testimoni di Geova, qualche anarchico. E soldati che commettevano reati, come un napoletano che aveva svaligiato l’armeria della sua caserma. Mi mandarono anche in missione nell’altro carcere militare, a Gaeta, dove c’era ancora il maggiore Reder, il boia nazista di Marzabotto».
Che ricordi ha?
«Beh, era un vecchio edificio asburgico, condizioni igieniche non straordinarie. Io lavoravo già da giornalista, mi occupavo di sindacato, e una volta mi telefonò il segretario della Camera del lavoro di Brescia Carlo Panella. Dal centralino urlarono: “Belpietro, Panella al telefono!” Il tenente mi diede subito 36 ore di permesso. Capii il perché quando rientrai: di fronte al carcere c’era stata una manifestazione antimilitarista con Pannella, il capo dei radicali. Mi avevano allontanato: temevano che fossi un loro complice».
di Mauro Suttora
Oggi, 27 giugno 2007
«Avevo 21 anni ed ero finito a fare il Car a Macomer, in Sardegna. Lì, all’ufficio destinazioni, trovai un mio compaesano bresciano che mi spedì come caporale secondino a Peschiera del Garda. E per me, che abitavo a Palazzolo sull’Oglio, fu una fortuna. Ma nessuna raccomandazione, giuro».
Maurizio Belpietro, 49 anni, direttore de Il Giornale, nel 1979 è stato per sette mesi sorvegliante del carcere militare più temuto d’Italia. Ci finivano gli obiettori che rifiutavano la naia: «C’era un centinaio di testimoni di Geova, qualche anarchico. E soldati che commettevano reati, come un napoletano che aveva svaligiato l’armeria della sua caserma. Mi mandarono anche in missione nell’altro carcere militare, a Gaeta, dove c’era ancora il maggiore Reder, il boia nazista di Marzabotto».
Che ricordi ha?
«Beh, era un vecchio edificio asburgico, condizioni igieniche non straordinarie. Io lavoravo già da giornalista, mi occupavo di sindacato, e una volta mi telefonò il segretario della Camera del lavoro di Brescia Carlo Panella. Dal centralino urlarono: “Belpietro, Panella al telefono!” Il tenente mi diede subito 36 ore di permesso. Capii il perché quando rientrai: di fronte al carcere c’era stata una manifestazione antimilitarista con Pannella, il capo dei radicali. Mi avevano allontanato: temevano che fossi un loro complice».
L'ultimo carcere militare d'Italia
QUESTA PRIGIONE E' QUASI UN HOTEL DI LUSSO
Santa Maria Capua Vetere (Caserta), 27 giugno
Ormai Peschiera e Gaeta non esistono più.
E anche a Caserta non ci sono soldati detenuti.
Solo i carabinieri e i poliziotti
che scelgono di venire qui a scontare
le loro condanne civili. E a fare
gli allevatori, i giardinieri e i pizzaioli
E' l’ultimo carcere militare d’Italia. Per un secolo e mezzo generazioni di maschi italiani sono state terrorizzate dalla minaccia: «Ti mando a Peschiera», «Ti mando a Gaeta». Ma ora quei due incubi della leva sono spariti assieme alla naia, abolita due anni fa. Così, per i nostri 190 mila militari, ormai tutti professionisti, è rimasta solo la prigione di Santa Maria Capua Vetere. Che però, scopriamo con sorpresa, attualmente non ne ospita neanche uno. L’unico carcere militare al mondo senza militari. «Con l’indulto dell’anno scorso sono usciti tutti», ci spiega il colonnello Antonio Del Monaco, 51 anni, comandante del carcere.
E allora, a che cosa serve questa prigione costruita nel 1981 proprio sulla via Appia, dove 2.200 anni fa Annibale venne sconfitto non in battaglia, ma dai leggendari «ozi di Capua», cioè la dolce vita (vino, donne, feste) con la quale i romani da sempre neutralizzano i propri nemici (per ultimi gli ex moralizzatori leghisti e dipietristi)?
«Adesso questa è una prigione per soli “volontari”», dice il generale Alessandro Pompegnani, 58 anni, responsabile sicurezza dell’Esercito, «perché i settanta detenuti provengono dalle forze dell’ordine: carabinieri, polizia, guardia di Finanza. Hanno scelto loro di scontare la propria pena per reati civili qui, invece che nei carceri normali. Ed è un privilegio di cui, paradossalmente, non godiamo noi militari: se commettiamo un reato civile, dobbiamo andare in una prigione civile».
Uno dice «carcere militare» e vengono subito in mente catene, disciplina, durezza... Macché: è proprio un privilegio starsene qui a Santa Maria Capua Vetere invece che in una prigione normale. Carabinieri e poliziotti possono farlo perché altrimenti rischierebbero di finire in cella assieme a delinquenti che loro stessi hanno contribuito a far condannare. «Alcuni, per riavvicinarsi alle famiglie, chiedono di andare in un carcere civile. Ma poi preferiscono tornare qui», rivela il generale Pompegnani. E chissà quanti detenuti senza stellette vorrebbero essere trasferiti in questa prigione-modello, dove la regione Campania offre corsi per aiuto-pizzaiolo nel parco interno, e in cui i carcerati vengono curati con la «pet-therapy» (terapia con gli animali) per non cadere in depressione.
«I nostri detenuti avevano consumato 40 mila dosi di ansiolitici nel 2004, ma oggi abbiamo debellato l’ozio e azzerato così il ricorso a questi farmaci», ci annuncia orgoglioso il comandante Del Monaco. Il quale, laureato in Psicologia e sociologia e specializzato in psicoterapia, prende molto sul serio l’articolo 27 della Costituzione: la pena serve per rieducare il condannato, non per segregarlo o punirlo ulteriormente.
«Riabilitiamo e risocializziamo i nostri detenuti con un percorso di recupero composto da lavoro, istruzione, sport, contatti con le famiglie e con il territorio. Il 30 per cento di loro sta scontando pene per omicidio, un altro 30 per cento per reati legati alla mafia. Circa la metà sono ex carabinieri, un’altra metà ex poliziotti, che con la condanna perdono lo status di appartenenti alle forze dell’ordine. Il nostro è un approccio aperto, gestiamo questo istituto come se gestissimo una caserma».
E qui c’è un terzo paradosso: uno dice «caserma» e si spaventa, pensa a Sing Sing o ad Alcatraz. Invece qui non esiste il distacco imposto dalle norme penitenziarie. Pur nel rispetto dei ruoli, il comandante fa anche da padre, consigliere, a volte amico. Evasioni: zero. Tentativi di evasioni: solo uno, tanti anni fa. Le misure di sicurezza sono severe, come in tutti gli altri carceri i controlli di entrata e uscita per i visitatori sono meticolosi. Ma una volta dentro, capita di incontrare il barista allo spaccio della caserma: un detenuto. O l’ex agente di Polizia Alfonso Pietroiusti, 36 anni, condannato all’ergastolo per concorso in omicidio dopo che in primo grado aveva preso vent’anni: caso rarissimo di sentenza riformata in peggio.
Ora, dopo sette anni dentro, trotterella dietro al comandante, che l’ha quasi adottato come attendente.
La presenza più appariscente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è quella di numerose belle ragazze caporali, che stanno compiendo qui il loro primo anno di servizio della carriera militare. Attualmente non ci sono detenute femmine, quindi non hanno compiti di sorveglianza diretta. Ma, per esempio, perquisiscono le donne che vengono per le visite. O, come Anna Faccilongo, 26 anni, barese laureata in Legge, stanno all’ufficio matricola.
Il detenuto più famoso del carcere è Bruno Contrada, 75 anni. Ex questore e alto dirigente antimafia del Sisde, dal ’92 il suo caso divide l’Italia. Condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa con la testimonianza di qualche pentito, si è sempre proclamato innocente. Lo incontriamo nella sua cella in infermeria. Ha uno sguardo magnetico che colpisce.
Un altro personaggio di forte personalità è il suo ex collega Ignazio D’Antone, 64 anni, questore a Palermo, che sta scontando anche lui dieci anni per gli stessi motivi. D’Antone tiene i corsi di preparazione per i giovani volontari dell’esercito che devono passare gli esami della ferma prolungata. E il tasso di successo fra i suoi secondini supera di molto la media nazionale.
La lista delle attività per i detenuti è infinita: dopo il corso per aiuti pizzaioli tenuto con un forno (a legna) nel parco, l’istituto salesiano Smaldone di Salerno ne ha proposto un altro da 150 ore per pizzaiolo, e uno da 50 per «tecniche di rilassamento». Nella squadra di calcio dei detenuti, che partecipa a un campionato regionale, gioca anche un magistrato e qualche sorvegliante. Il campo è all’interno del recinto.
Un corso di ceramica è organizzato da Anna Santosuosso, volontaria dell’associazione per l’assistenza spirituale alle Forze armate. Franco Spatola, 46 anni, agente di Polizia dal ’78 a Milano, che deve scontare altri cinque anni di una condanna a sette per traffico di droga, ha realizzato un gagliardetto per la squadra di calcio. Nel laboratorio di falegnameria e bricolage hanno costruito un modellino della torre Eiffel.
L’orto è enorme, viene coltivata molta verdura e ortaggi di ogni tipo, la conserva di pomodoro è poi venduta alle associazioni di volontari che ruotano attorno al carcere per finanziare un progetto di aiuto in Africa.
Pietro Mango, carabiniere che aspetta l’appello dopo essere stato condannato all’ergastolo per una rapina con morti a Lagonegro (in provincia di Potenza), è appassionato di animali. Cura il pony, il pollaio, i conigli.
Una sociologa e due psicologhe seguono i percorsi individuali di ogni carcerato. C’è chi passa tanto tempo in libreria, chi preferisce raccogliersi in cappella, chi si dedica a musica e teatro. La palestra è il regno di Tommaso Leone, sergente di polizia barese che sta scontando sette anni.
A capo di tutto il sistema penitenziario militare italiano c’era fino a qualche giorno fa il generale Pompegnani, figlio di militari, baffi risorgimentali. Ora è tornato a Bagdad, dove addestrerà per un anno con la Nato i soldati e poliziotti iracheni. «Il vero inferno è lì», mormora. Neanche a Santa Maria Capua Vetere c’è il paradiso. Ma il carcere per gli uomini con le stellette è sicuramente a cinque stelle.
Mauro Suttora
Santa Maria Capua Vetere (Caserta), 27 giugno
Ormai Peschiera e Gaeta non esistono più.
E anche a Caserta non ci sono soldati detenuti.
Solo i carabinieri e i poliziotti
che scelgono di venire qui a scontare
le loro condanne civili. E a fare
gli allevatori, i giardinieri e i pizzaioli
E' l’ultimo carcere militare d’Italia. Per un secolo e mezzo generazioni di maschi italiani sono state terrorizzate dalla minaccia: «Ti mando a Peschiera», «Ti mando a Gaeta». Ma ora quei due incubi della leva sono spariti assieme alla naia, abolita due anni fa. Così, per i nostri 190 mila militari, ormai tutti professionisti, è rimasta solo la prigione di Santa Maria Capua Vetere. Che però, scopriamo con sorpresa, attualmente non ne ospita neanche uno. L’unico carcere militare al mondo senza militari. «Con l’indulto dell’anno scorso sono usciti tutti», ci spiega il colonnello Antonio Del Monaco, 51 anni, comandante del carcere.
E allora, a che cosa serve questa prigione costruita nel 1981 proprio sulla via Appia, dove 2.200 anni fa Annibale venne sconfitto non in battaglia, ma dai leggendari «ozi di Capua», cioè la dolce vita (vino, donne, feste) con la quale i romani da sempre neutralizzano i propri nemici (per ultimi gli ex moralizzatori leghisti e dipietristi)?
«Adesso questa è una prigione per soli “volontari”», dice il generale Alessandro Pompegnani, 58 anni, responsabile sicurezza dell’Esercito, «perché i settanta detenuti provengono dalle forze dell’ordine: carabinieri, polizia, guardia di Finanza. Hanno scelto loro di scontare la propria pena per reati civili qui, invece che nei carceri normali. Ed è un privilegio di cui, paradossalmente, non godiamo noi militari: se commettiamo un reato civile, dobbiamo andare in una prigione civile».
Uno dice «carcere militare» e vengono subito in mente catene, disciplina, durezza... Macché: è proprio un privilegio starsene qui a Santa Maria Capua Vetere invece che in una prigione normale. Carabinieri e poliziotti possono farlo perché altrimenti rischierebbero di finire in cella assieme a delinquenti che loro stessi hanno contribuito a far condannare. «Alcuni, per riavvicinarsi alle famiglie, chiedono di andare in un carcere civile. Ma poi preferiscono tornare qui», rivela il generale Pompegnani. E chissà quanti detenuti senza stellette vorrebbero essere trasferiti in questa prigione-modello, dove la regione Campania offre corsi per aiuto-pizzaiolo nel parco interno, e in cui i carcerati vengono curati con la «pet-therapy» (terapia con gli animali) per non cadere in depressione.
«I nostri detenuti avevano consumato 40 mila dosi di ansiolitici nel 2004, ma oggi abbiamo debellato l’ozio e azzerato così il ricorso a questi farmaci», ci annuncia orgoglioso il comandante Del Monaco. Il quale, laureato in Psicologia e sociologia e specializzato in psicoterapia, prende molto sul serio l’articolo 27 della Costituzione: la pena serve per rieducare il condannato, non per segregarlo o punirlo ulteriormente.
«Riabilitiamo e risocializziamo i nostri detenuti con un percorso di recupero composto da lavoro, istruzione, sport, contatti con le famiglie e con il territorio. Il 30 per cento di loro sta scontando pene per omicidio, un altro 30 per cento per reati legati alla mafia. Circa la metà sono ex carabinieri, un’altra metà ex poliziotti, che con la condanna perdono lo status di appartenenti alle forze dell’ordine. Il nostro è un approccio aperto, gestiamo questo istituto come se gestissimo una caserma».
E qui c’è un terzo paradosso: uno dice «caserma» e si spaventa, pensa a Sing Sing o ad Alcatraz. Invece qui non esiste il distacco imposto dalle norme penitenziarie. Pur nel rispetto dei ruoli, il comandante fa anche da padre, consigliere, a volte amico. Evasioni: zero. Tentativi di evasioni: solo uno, tanti anni fa. Le misure di sicurezza sono severe, come in tutti gli altri carceri i controlli di entrata e uscita per i visitatori sono meticolosi. Ma una volta dentro, capita di incontrare il barista allo spaccio della caserma: un detenuto. O l’ex agente di Polizia Alfonso Pietroiusti, 36 anni, condannato all’ergastolo per concorso in omicidio dopo che in primo grado aveva preso vent’anni: caso rarissimo di sentenza riformata in peggio.
Ora, dopo sette anni dentro, trotterella dietro al comandante, che l’ha quasi adottato come attendente.
La presenza più appariscente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è quella di numerose belle ragazze caporali, che stanno compiendo qui il loro primo anno di servizio della carriera militare. Attualmente non ci sono detenute femmine, quindi non hanno compiti di sorveglianza diretta. Ma, per esempio, perquisiscono le donne che vengono per le visite. O, come Anna Faccilongo, 26 anni, barese laureata in Legge, stanno all’ufficio matricola.
Il detenuto più famoso del carcere è Bruno Contrada, 75 anni. Ex questore e alto dirigente antimafia del Sisde, dal ’92 il suo caso divide l’Italia. Condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa con la testimonianza di qualche pentito, si è sempre proclamato innocente. Lo incontriamo nella sua cella in infermeria. Ha uno sguardo magnetico che colpisce.
Un altro personaggio di forte personalità è il suo ex collega Ignazio D’Antone, 64 anni, questore a Palermo, che sta scontando anche lui dieci anni per gli stessi motivi. D’Antone tiene i corsi di preparazione per i giovani volontari dell’esercito che devono passare gli esami della ferma prolungata. E il tasso di successo fra i suoi secondini supera di molto la media nazionale.
La lista delle attività per i detenuti è infinita: dopo il corso per aiuti pizzaioli tenuto con un forno (a legna) nel parco, l’istituto salesiano Smaldone di Salerno ne ha proposto un altro da 150 ore per pizzaiolo, e uno da 50 per «tecniche di rilassamento». Nella squadra di calcio dei detenuti, che partecipa a un campionato regionale, gioca anche un magistrato e qualche sorvegliante. Il campo è all’interno del recinto.
Un corso di ceramica è organizzato da Anna Santosuosso, volontaria dell’associazione per l’assistenza spirituale alle Forze armate. Franco Spatola, 46 anni, agente di Polizia dal ’78 a Milano, che deve scontare altri cinque anni di una condanna a sette per traffico di droga, ha realizzato un gagliardetto per la squadra di calcio. Nel laboratorio di falegnameria e bricolage hanno costruito un modellino della torre Eiffel.
L’orto è enorme, viene coltivata molta verdura e ortaggi di ogni tipo, la conserva di pomodoro è poi venduta alle associazioni di volontari che ruotano attorno al carcere per finanziare un progetto di aiuto in Africa.
Pietro Mango, carabiniere che aspetta l’appello dopo essere stato condannato all’ergastolo per una rapina con morti a Lagonegro (in provincia di Potenza), è appassionato di animali. Cura il pony, il pollaio, i conigli.
Una sociologa e due psicologhe seguono i percorsi individuali di ogni carcerato. C’è chi passa tanto tempo in libreria, chi preferisce raccogliersi in cappella, chi si dedica a musica e teatro. La palestra è il regno di Tommaso Leone, sergente di polizia barese che sta scontando sette anni.
A capo di tutto il sistema penitenziario militare italiano c’era fino a qualche giorno fa il generale Pompegnani, figlio di militari, baffi risorgimentali. Ora è tornato a Bagdad, dove addestrerà per un anno con la Nato i soldati e poliziotti iracheni. «Il vero inferno è lì», mormora. Neanche a Santa Maria Capua Vetere c’è il paradiso. Ma il carcere per gli uomini con le stellette è sicuramente a cinque stelle.
Mauro Suttora
Friday, June 22, 2007
Intervista a Sabina Rossa
Parla la figlia del sindacalista-operaio ucciso dalle Br nel 1979
Roma, 20 giugno 2007
Sabina Rossa sta mangiando con la figlia di sei anni nella loro casa di Genova. Proprio in questo momento, le 20 di giovedì 7 giugno, al cinema Barberini di Roma c’è l’anteprima del film Guido che sfidò le Br. Il regista Giuseppe Ferrara ha voluto raccontare la storia di Guido Rossa, padre di Sabina, operaio Cgil assassinato dalle Brigate Rosse all’alba del 24 gennaio 1979. Lo massacrarono a colpi di pistola quando era ancora buio, mentre stava andando a lavorare all’acciaieria Italsider di Cornigliano sulla sua 850 rossa.
«Mi dispiace non essere a Roma questa sera, ma mi hanno avvertito tardi e avevo già preso degli impegni per un incontro politico domani mattina qui a Genova, dove ci sono le elezioni. Non ho fatto in tempo a disdire», ci dice al telefono la senatrice Rossa. Sì, perché la signora Sabina, 44 anni, insegnante di educazione fisica e sposata con un professore, da un anno è entrata in Parlamento nelle fila dei Ds-Ulivo. Raccogliendo così l’eredità del padre comunista, come racconta nel libro Guido Rossa, mio padre (Rizzoli, 2006), scritto con Giovanni Fasanella.
Il film esce, o dovrebbe uscire se trova un distributore (è incredibilmente fermo da un anno), proprio in un periodo delicato per la questione «terrorismo» e i parenti delle vittime. Dieci giorni fa, infatti, c’è stata una manifestazione all’Aquila in cui si sono sentiti ancora slogan per gli ultimi brigatisti incarcerati, e di elogio per gli assassini del professore Massimo D’Antona, ucciso dai terroristi otto anni fa. E contemporaneamente a Bologna sono comparse scritte sui muri contro Marco Biagi, il professore ammazzato nel 2002 dai brigatisti.
Cos’è, senatrice, un incubo che ritorna?
«No, grazie a Dio. Oggi non esiste più il contesto degli anni Settanta, l’humus ideologico da cui nacquero i ben 270 gruppi armati che insanguinarono l’Italia per dieci anni. Però il terrorismo non è stato completamente archiviato. Se ci sono ancora dei giovani che urlano quegli slogan, vuol dire che non abbiamo lavorato a sufficienza sulle nuove generazioni, non abbiamo creato gli anticorpi».
In fondo all’Aquila erano solo in duecento.
«Sì, ma esiste una rete di simpatizzanti in tutta Italia, con siti Internet dove vengono scritte cose inquietanti. Si vedono di meno, ma c’è ancora proselitismo, non è un capitolo chiuso. All’Aquila teneva gli striscioni un certo Ferrari, brigatista che ha scontato tutti i suoi trent’anni di prigione senza mai pentirsi e chiedere sconti. Lui ha il diritto di manifestare, ma io mi preoccupo per i giovani che potrebbero cadere vittime di una certa propaganda».
Alcuni centri sociali estremisti non hanno mai smesso di predicare il marxismo-leninismo più duro all’interno del movimento no global.
«Non confondiamo: i no global sono nati come pacifisti, non praticano la violenza. Così come rifiuto le accuse mosse alla Cgil dopo che alcuni delegati sono stati arrestati con l’accusa di eversione. La Cgil ha cinque milioni di iscritti, non si può criminalizzare tutto il sindacato».
Ha collaborato al film?
«No. L’ho visto e mi è piaciuto, anche se i familiari hanno sempre molte difficoltà a riconoscere in un attore la figura del parente scomparso. Avevo sedici anni quando mio padre è stato ucciso, l’ho conosciuto molto bene. Quindi posso dire che era una persona molto più riservata e discreta di quanto appaia nel film, anche se capisco che per esigenze di spettacolo il cosiddetto “eroe” venga fatto passare per una specie di Nembo Kid».
Nel suo libro racconta l’incontro con uno degli assassini di suo padre.
«Sì, ho voluto parlare con Vincenzo Guagliardo, che veniva descritto come un duro. Non aveva mai parlato davanti ai giudici, se non per minacciare di morte l’avvocato che doveva difenderlo. Quindi mi aspettavo un personaggio di un certo tipo, e invece mi sono trovata di fronte un signore di 57 anni in tuta e ciabatte, che portava in faccia e nel fisico i segni del carcere. La sua normalità è la cosa che mi ha colpito di più».
La disturbano gli ex terroristi con ruoli pubblici?
«No. Sergio D’Elia, ex di Prima Linea, è stato eletto deputato radicale, e ha tutto il diritto di farlo. A me basta che non pretendano di salire in cattedra. Non dimentico, per esempio, che il giornale Lotta Continua il giorno dopo che mio padre fu ucciso lo definì “spia”, perché era stato l’unico a denunciare un fiancheggiatore dei brigatisti in fabbrica. Ed era il ’79, dopo il delitto Moro, non il ’72 di Calabresi».
A proposito, ha letto il libro del figlio di Calabresi?
«Sì, e mi è piaciuto. Scrive bene, ed è un libro dedicato a sua madre».
Lei non aveva mai fatto politica prima di essere eletta. È soddisfatta del suo primo anno da senatrice?
«Il momento più bello è stato quando hanno approvato la mia proposta di dedicare il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Moro, a tutte le vittime del terrorismo».
Mauro Suttora
Roma, 20 giugno 2007
Sabina Rossa sta mangiando con la figlia di sei anni nella loro casa di Genova. Proprio in questo momento, le 20 di giovedì 7 giugno, al cinema Barberini di Roma c’è l’anteprima del film Guido che sfidò le Br. Il regista Giuseppe Ferrara ha voluto raccontare la storia di Guido Rossa, padre di Sabina, operaio Cgil assassinato dalle Brigate Rosse all’alba del 24 gennaio 1979. Lo massacrarono a colpi di pistola quando era ancora buio, mentre stava andando a lavorare all’acciaieria Italsider di Cornigliano sulla sua 850 rossa.
«Mi dispiace non essere a Roma questa sera, ma mi hanno avvertito tardi e avevo già preso degli impegni per un incontro politico domani mattina qui a Genova, dove ci sono le elezioni. Non ho fatto in tempo a disdire», ci dice al telefono la senatrice Rossa. Sì, perché la signora Sabina, 44 anni, insegnante di educazione fisica e sposata con un professore, da un anno è entrata in Parlamento nelle fila dei Ds-Ulivo. Raccogliendo così l’eredità del padre comunista, come racconta nel libro Guido Rossa, mio padre (Rizzoli, 2006), scritto con Giovanni Fasanella.
Il film esce, o dovrebbe uscire se trova un distributore (è incredibilmente fermo da un anno), proprio in un periodo delicato per la questione «terrorismo» e i parenti delle vittime. Dieci giorni fa, infatti, c’è stata una manifestazione all’Aquila in cui si sono sentiti ancora slogan per gli ultimi brigatisti incarcerati, e di elogio per gli assassini del professore Massimo D’Antona, ucciso dai terroristi otto anni fa. E contemporaneamente a Bologna sono comparse scritte sui muri contro Marco Biagi, il professore ammazzato nel 2002 dai brigatisti.
Cos’è, senatrice, un incubo che ritorna?
«No, grazie a Dio. Oggi non esiste più il contesto degli anni Settanta, l’humus ideologico da cui nacquero i ben 270 gruppi armati che insanguinarono l’Italia per dieci anni. Però il terrorismo non è stato completamente archiviato. Se ci sono ancora dei giovani che urlano quegli slogan, vuol dire che non abbiamo lavorato a sufficienza sulle nuove generazioni, non abbiamo creato gli anticorpi».
In fondo all’Aquila erano solo in duecento.
«Sì, ma esiste una rete di simpatizzanti in tutta Italia, con siti Internet dove vengono scritte cose inquietanti. Si vedono di meno, ma c’è ancora proselitismo, non è un capitolo chiuso. All’Aquila teneva gli striscioni un certo Ferrari, brigatista che ha scontato tutti i suoi trent’anni di prigione senza mai pentirsi e chiedere sconti. Lui ha il diritto di manifestare, ma io mi preoccupo per i giovani che potrebbero cadere vittime di una certa propaganda».
Alcuni centri sociali estremisti non hanno mai smesso di predicare il marxismo-leninismo più duro all’interno del movimento no global.
«Non confondiamo: i no global sono nati come pacifisti, non praticano la violenza. Così come rifiuto le accuse mosse alla Cgil dopo che alcuni delegati sono stati arrestati con l’accusa di eversione. La Cgil ha cinque milioni di iscritti, non si può criminalizzare tutto il sindacato».
Ha collaborato al film?
«No. L’ho visto e mi è piaciuto, anche se i familiari hanno sempre molte difficoltà a riconoscere in un attore la figura del parente scomparso. Avevo sedici anni quando mio padre è stato ucciso, l’ho conosciuto molto bene. Quindi posso dire che era una persona molto più riservata e discreta di quanto appaia nel film, anche se capisco che per esigenze di spettacolo il cosiddetto “eroe” venga fatto passare per una specie di Nembo Kid».
Nel suo libro racconta l’incontro con uno degli assassini di suo padre.
«Sì, ho voluto parlare con Vincenzo Guagliardo, che veniva descritto come un duro. Non aveva mai parlato davanti ai giudici, se non per minacciare di morte l’avvocato che doveva difenderlo. Quindi mi aspettavo un personaggio di un certo tipo, e invece mi sono trovata di fronte un signore di 57 anni in tuta e ciabatte, che portava in faccia e nel fisico i segni del carcere. La sua normalità è la cosa che mi ha colpito di più».
La disturbano gli ex terroristi con ruoli pubblici?
«No. Sergio D’Elia, ex di Prima Linea, è stato eletto deputato radicale, e ha tutto il diritto di farlo. A me basta che non pretendano di salire in cattedra. Non dimentico, per esempio, che il giornale Lotta Continua il giorno dopo che mio padre fu ucciso lo definì “spia”, perché era stato l’unico a denunciare un fiancheggiatore dei brigatisti in fabbrica. Ed era il ’79, dopo il delitto Moro, non il ’72 di Calabresi».
A proposito, ha letto il libro del figlio di Calabresi?
«Sì, e mi è piaciuto. Scrive bene, ed è un libro dedicato a sua madre».
Lei non aveva mai fatto politica prima di essere eletta. È soddisfatta del suo primo anno da senatrice?
«Il momento più bello è stato quando hanno approvato la mia proposta di dedicare il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Moro, a tutte le vittime del terrorismo».
Mauro Suttora
Monday, June 18, 2007
Grand Hotel Montecitorio
«Dai telepass gratis alla sauna, dai tabacchi alla banca, qua dentro ci danno tutto», dice l’onorevole Donatella Poretti. Che racconta di auto blu a vita e tagli di capelli a prezzi stracciati. E propone: «Riduciamo i seggi da 630 a 100, come all’estero»
Roma, 13 giugno 2007
L'hanno soprannominato «nido Poretti», sta al secondo piano di Montecitorio. È uno stanzino di quattro metri quadri «strappato» a un commesso: qui la deputata Donatella Poretti, 39 anni (Rosa nel pugno), può allattare la figlia Alice di un anno. E precipitarsi in aula quando si vota, grazie a un piccolo schermo piatto tv da dove segue le sedute.
Ha dovuto combattere un po’, la neomamma, per farsi assegnare questo spazio. La sua prossima lotta sarà per un asilo-nido «aziendale» a disposizione di tutte le giovani mamme (o papà) della Camera: non solo deputate, anche i duemila dipendenti. «Siamo l’unico Parlamento in Europa a non averlo», spiega, «anche se c’è una delibera da dieci anni. Quando partorì la Prestigiacomo sembrava fosse la volta buona, ma lei divenne ministro e così il nido lo fece fare al ministero. L’asilo parlamentare, comunque, dovrà essere senza oneri per la Camera. Ce lo pagheremo noi, come tutti i cittadini».
La precisazione è preziosa, per un’istituzione che costa al contribuente un miliardo e 128 milioni di euro l’anno: il doppio di Francia e Spagna, il quadruplo dell’Inghilterra. Gli sprechi dei politici, denunciati nel libro La Casta (ed. Rizzoli) di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella (primo in classifica, 300 mila copie vendute), sono in queste settimane al centro dell’attenzione. Così, per capire per quali agi e privilegi i 630 deputati spendono quella montagna di denaro, abbiamo seguito l’onorevole Poretti in una giornata-tipo. Scoprendo che Montecitorio è come un Grand hotel: ai propri ospiti offre tutto, dal nido alla sauna.
La Poretti arriva a Roma ogni lunedì da Firenze, dove abita. Come tutti i parlamentari, non paga i pedaggi autostradali. «E questo va bene, ma non capisco perché volevano darmi, oltre alla tessera Viacard illimitata, anche tre telepass. Io non li ho presi, non ne ho bisogno, ma avrei potuto girarli a tre amici. Non ci sono controlli». Severità invece da parte del Comune di Roma sui permessi per girare in centro con l’auto: «Li concedono solo a quelle intestate ai parlamentari, ma io uso quella dell’Aduc, l’Associazione diritti utenti e consumatori per cui lavoro. Un’altra assurdità sono i treni gratis: va bene quando si è deputati, ma perché continuare a non pagare per il resto della vita? Non capisco neppure gli uffici, gli appartamenti privati e le auto blu di cui godono gli ex presidenti di Camera e Senato come Casini e la Pivetti. Oltretutto sono giovani, e poi si tratta di costi non preventivabili: cosa succederebbe se eleggessimo un nuovo presidente ogni anno?»
Una volta entrati nel Palazzo, i deputati non hanno più bisogno di uscirne. Dentro ci sono tutti i servizi: guardaroba, tabacchi, poste, banca (quattro agenzie del Banco di Napoli sparse nei vari palazzi, che offrono conti correnti senza spese, interessi al 3% e mutui agevolati), tre agenzie viaggi e prenotazioni Carlson Wagonlit, salone con tutti i quotidiani e settimanali, biblioteca con un milione di libri e raccolte di 350 quotidiani e 2.100 periodici. Per le consulenze Inps e Inpdap è aperto uno sportello al terzo piano. C’è assistenza interna perfino per la dichiarazione dei redditi.
Discriminazione: i dodici barbieri sono riservati agli uomini (costo sette euro a taglio, contro i 15-20 all’esterno), per le deputate solo coupon da parrucchieri convenzionati. Vengono organizzati corsi gratis di lingue straniere e informatica. Nei bagni al piano terra c’è un bagno turco, una minipalestra con cyclette, profumi e assorbenti per le signore. Grandi spazi per ambulatori e pronto soccorso, un’ambulanza pronta nel sotterraneo. Vorremmo fotografare l’onorevole di fronte al tabaccaio interno o all’ufficio postale, ma incomprensibilmente l’ufficio stampa della Camera e i questori (deputati) non lo permettono.
Immagini vietate, manco fosse il Pentagono, anche nella leggendaria «buvette», dove bisogna sfatare un mito: da qualche mese tramezzini e caffè costano come fuori. «Invece nel ristorante i prezzi sono più bassi», ammette la Poretti, «un primo quattro euro e cinque per un’insalatona».
Così il nostro onorevole mangia un boccone al bar del palazzo che ospita gli uffici privati dei deputati. «Ma abbiamo sempre pause pranzo brevi, perché alla Camera si vota solo due giorni alla settimana. Anzi, un giorno solo, il mercoledì, più due mezze giornate: martedì pomeriggio e giovedì mattina. Basta essere presenti a tre votazioni su dieci per prendere la diaria. Oppure ci sono i “pianisti”, colleghi che di nascosto votano per gli assenti...»
Dopo un anno a Montecitorio, il suo consiglio per risparmiare è: «Diminuire i deputati da 630 a cento. Di più, onestamente, non servono. Gli Stati Uniti hanno cento senatori per trecento milioni di abitanti. E poi, snellire le procedure. Siamo fermi all’Ottocento. Nei seggi, per esempio, non c’è la presa per i computer. Per telefonare abbiamo un rimborso, ma ogni volta dobbiamo digitare un codice lunghissimo. Molte leggi si potrebbero votare direttamente in commissione, invece di ripetere lunghi dibattiti in aula che non servono a nulla perché quasi nessuno è esperto dell’argomento. Io sto nella commissione Affari sociali, dove abbiamo perso un sacco di tempo per fare delle audizioni sull’eutanasia che però non sono state verbalizzate. Quindi agli atti non risultano interventi di personaggi eminenti come Rodotà o Casavola... Insomma, in un anno, a parte approvare i decreti del governo e la finanziaria, abbiamo combinato ben poco: l’indulto, la riforma dei servizi segreti... Ah, dimenticavo le leggi per i defibrillatori e per disperdere le ceneri dei morti...».
riquadro:
LA CAMERA DEI DEPUTATI OCCUPA 16 PALAZZI NEL CENTRO DI ROMA
Perché? Fino agli anni Settanta ne bastavano quattro...
Tre settimana fa abbiamo documentato come negli ultimi 25 anni il Senato si sia incredibilmente espanso nel centro di Roma, passando da tre a tredici palazzi. La Camera non ha voluto essere da meno. Fino agli anni ’70 si accontentava dei due palazzi di Montecitorio e dei due in via Uffici del Vicario che ospitavano i gruppi parlamentari. A questi si sono aggiunti:
•Due edifici in vicolo Valdina: un ex convento di clausura ospita uffici amministrativi, l’avvocatura e sale convegni.
• Palazzo Fiano Almagià di via in Lucina, dove c’è l’ufficio pubblicazioni e relazioni con il pubblico (e un cinema).
•I quattro palazzi Marini a piazza San Silvestro, affittati per 650 milioni di euro: ospitano gli uffici dei singoli deputati.
•I due palazzi del Seminario, a piazza San Macuto, con la biblioteca e le commissioni bicamerali e d’inchiesta.
•Il palazzo ex-Banco di Napoli in via del Corso (uffici amministrativi), vicino al Theodoli-Bianchelli, e il Lavaggi.
Mauro Suttora
Roma, 13 giugno 2007
L'hanno soprannominato «nido Poretti», sta al secondo piano di Montecitorio. È uno stanzino di quattro metri quadri «strappato» a un commesso: qui la deputata Donatella Poretti, 39 anni (Rosa nel pugno), può allattare la figlia Alice di un anno. E precipitarsi in aula quando si vota, grazie a un piccolo schermo piatto tv da dove segue le sedute.
Ha dovuto combattere un po’, la neomamma, per farsi assegnare questo spazio. La sua prossima lotta sarà per un asilo-nido «aziendale» a disposizione di tutte le giovani mamme (o papà) della Camera: non solo deputate, anche i duemila dipendenti. «Siamo l’unico Parlamento in Europa a non averlo», spiega, «anche se c’è una delibera da dieci anni. Quando partorì la Prestigiacomo sembrava fosse la volta buona, ma lei divenne ministro e così il nido lo fece fare al ministero. L’asilo parlamentare, comunque, dovrà essere senza oneri per la Camera. Ce lo pagheremo noi, come tutti i cittadini».
La precisazione è preziosa, per un’istituzione che costa al contribuente un miliardo e 128 milioni di euro l’anno: il doppio di Francia e Spagna, il quadruplo dell’Inghilterra. Gli sprechi dei politici, denunciati nel libro La Casta (ed. Rizzoli) di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella (primo in classifica, 300 mila copie vendute), sono in queste settimane al centro dell’attenzione. Così, per capire per quali agi e privilegi i 630 deputati spendono quella montagna di denaro, abbiamo seguito l’onorevole Poretti in una giornata-tipo. Scoprendo che Montecitorio è come un Grand hotel: ai propri ospiti offre tutto, dal nido alla sauna.
La Poretti arriva a Roma ogni lunedì da Firenze, dove abita. Come tutti i parlamentari, non paga i pedaggi autostradali. «E questo va bene, ma non capisco perché volevano darmi, oltre alla tessera Viacard illimitata, anche tre telepass. Io non li ho presi, non ne ho bisogno, ma avrei potuto girarli a tre amici. Non ci sono controlli». Severità invece da parte del Comune di Roma sui permessi per girare in centro con l’auto: «Li concedono solo a quelle intestate ai parlamentari, ma io uso quella dell’Aduc, l’Associazione diritti utenti e consumatori per cui lavoro. Un’altra assurdità sono i treni gratis: va bene quando si è deputati, ma perché continuare a non pagare per il resto della vita? Non capisco neppure gli uffici, gli appartamenti privati e le auto blu di cui godono gli ex presidenti di Camera e Senato come Casini e la Pivetti. Oltretutto sono giovani, e poi si tratta di costi non preventivabili: cosa succederebbe se eleggessimo un nuovo presidente ogni anno?»
Una volta entrati nel Palazzo, i deputati non hanno più bisogno di uscirne. Dentro ci sono tutti i servizi: guardaroba, tabacchi, poste, banca (quattro agenzie del Banco di Napoli sparse nei vari palazzi, che offrono conti correnti senza spese, interessi al 3% e mutui agevolati), tre agenzie viaggi e prenotazioni Carlson Wagonlit, salone con tutti i quotidiani e settimanali, biblioteca con un milione di libri e raccolte di 350 quotidiani e 2.100 periodici. Per le consulenze Inps e Inpdap è aperto uno sportello al terzo piano. C’è assistenza interna perfino per la dichiarazione dei redditi.
Discriminazione: i dodici barbieri sono riservati agli uomini (costo sette euro a taglio, contro i 15-20 all’esterno), per le deputate solo coupon da parrucchieri convenzionati. Vengono organizzati corsi gratis di lingue straniere e informatica. Nei bagni al piano terra c’è un bagno turco, una minipalestra con cyclette, profumi e assorbenti per le signore. Grandi spazi per ambulatori e pronto soccorso, un’ambulanza pronta nel sotterraneo. Vorremmo fotografare l’onorevole di fronte al tabaccaio interno o all’ufficio postale, ma incomprensibilmente l’ufficio stampa della Camera e i questori (deputati) non lo permettono.
Immagini vietate, manco fosse il Pentagono, anche nella leggendaria «buvette», dove bisogna sfatare un mito: da qualche mese tramezzini e caffè costano come fuori. «Invece nel ristorante i prezzi sono più bassi», ammette la Poretti, «un primo quattro euro e cinque per un’insalatona».
Così il nostro onorevole mangia un boccone al bar del palazzo che ospita gli uffici privati dei deputati. «Ma abbiamo sempre pause pranzo brevi, perché alla Camera si vota solo due giorni alla settimana. Anzi, un giorno solo, il mercoledì, più due mezze giornate: martedì pomeriggio e giovedì mattina. Basta essere presenti a tre votazioni su dieci per prendere la diaria. Oppure ci sono i “pianisti”, colleghi che di nascosto votano per gli assenti...»
Dopo un anno a Montecitorio, il suo consiglio per risparmiare è: «Diminuire i deputati da 630 a cento. Di più, onestamente, non servono. Gli Stati Uniti hanno cento senatori per trecento milioni di abitanti. E poi, snellire le procedure. Siamo fermi all’Ottocento. Nei seggi, per esempio, non c’è la presa per i computer. Per telefonare abbiamo un rimborso, ma ogni volta dobbiamo digitare un codice lunghissimo. Molte leggi si potrebbero votare direttamente in commissione, invece di ripetere lunghi dibattiti in aula che non servono a nulla perché quasi nessuno è esperto dell’argomento. Io sto nella commissione Affari sociali, dove abbiamo perso un sacco di tempo per fare delle audizioni sull’eutanasia che però non sono state verbalizzate. Quindi agli atti non risultano interventi di personaggi eminenti come Rodotà o Casavola... Insomma, in un anno, a parte approvare i decreti del governo e la finanziaria, abbiamo combinato ben poco: l’indulto, la riforma dei servizi segreti... Ah, dimenticavo le leggi per i defibrillatori e per disperdere le ceneri dei morti...».
riquadro:
LA CAMERA DEI DEPUTATI OCCUPA 16 PALAZZI NEL CENTRO DI ROMA
Perché? Fino agli anni Settanta ne bastavano quattro...
Tre settimana fa abbiamo documentato come negli ultimi 25 anni il Senato si sia incredibilmente espanso nel centro di Roma, passando da tre a tredici palazzi. La Camera non ha voluto essere da meno. Fino agli anni ’70 si accontentava dei due palazzi di Montecitorio e dei due in via Uffici del Vicario che ospitavano i gruppi parlamentari. A questi si sono aggiunti:
•Due edifici in vicolo Valdina: un ex convento di clausura ospita uffici amministrativi, l’avvocatura e sale convegni.
• Palazzo Fiano Almagià di via in Lucina, dove c’è l’ufficio pubblicazioni e relazioni con il pubblico (e un cinema).
•I quattro palazzi Marini a piazza San Silvestro, affittati per 650 milioni di euro: ospitano gli uffici dei singoli deputati.
•I due palazzi del Seminario, a piazza San Macuto, con la biblioteca e le commissioni bicamerali e d’inchiesta.
•Il palazzo ex-Banco di Napoli in via del Corso (uffici amministrativi), vicino al Theodoli-Bianchelli, e il Lavaggi.
Mauro Suttora
Monday, June 11, 2007
American Academy Roma
LA LITTLE AMERICA E’ SEMPRE PIU’ GRANDE, AMA E STUDIA L’ITALIA, E ORA APRE LA PORTA DI SAN PANCRAZIO
Il Foglio, sabato 9 giugno 2007, pag. III
Roma. Americani e italiani non si sono mai amati così tanto. Il 2007 sta battendo ogni record per i turisti in arrivo nei due Paesi. L’infatuazione è reciproca: un milione di italiani negli Usa (900mila l’anno scorso), ma soprattutto quattro milioni di statunitensi in Italia. Ci fu l’apice dei tre milioni per il Giubileo 2000, poi il crollo post-11 settembre (un milione nel 2002), ora il boom.
“Incredibile, l’euro a uno e 35 non li ferma, ormai dopo tedeschi e britannici gli statunitensi hanno conquistato il terzo posto fra i visitatori esteri in Italia, sono undici su cento”, rilevano all’Enit. Le compagnie aeree moltiplicano i voli: Continental, American Airlines e US Airlines viaggiano a pieno carico. Eurofly collega direttamente a New York anche Bologna, Napoli e Palermo.
È turismo di alto livello: gente attratta molto dal lago di Como o da Positano, poco da Rimini. Senza dimenticare moda e gastronomia, ci visitano soprattutto “to feed their minds”, per nutrire la mente con storia e cultura nelle città d’arte.
Byebye Londra e Parigi: l’Italia è diventata la scelta preferita dagli universitari americani per i loro stages di uno, tre, sei mesi in Europa. “Ogni anno ne arrivano diecimila solo a Roma, e altrettanti a Firenze”, calcola William Franklin dell’American Academy. I college Usa non sanno più dove metterli: villa La Pietra di lord Acton verso Fiesole non basta a contenere i ragazzi della New York University, i dormitori del Syracuse college scoppiano.
“Nessuno se n’è mai accorto, ma parecchie università americane hanno un campus a Roma”, ci dice la pierre romana-newyorkese Giosetta Capriati, già borsista Fulbright: “La Temple di Philadelphia sul lungotevere Arnaldo da Brescia ha cominciato nel 1967 come Accademia di Belle Arti e negli Anni Novanta ha aggiunto il Liberal Arts College: i loro degrees sono riconosciuti dal governo Italiano. È nato negli anni Sessanta anche il graduate program della Rhode Island School of Design, la più prestigiosa d’America nel settore, con sede a palazzo Cenci nel Ghetto... L’altrettanto importante Pratt Institute di New York ha un programma a Roma, e palazzo Lazzaroni, dietro il teatro Argentina, ospita la Cornell University”.
La John Cabot a Trastevere e la American University al Gianicolo sono invece college undergraduate americani, ma autoctoni: nati direttamente a Roma, senza casa madre negli Usa. Le lauree della Cabot sono riconosciute in Italia, mentre la American sta aspettando la reciprocità.
I romani guardano con indifferenza gli studenti americani seduti ai tavolini dei bar in via della Scala, li confondono con i turisti. Dietro l’angolo c’è Sant’Egidio, diventata famosa in tutto il mondo grazie al presidente Bush. Ma è un po’ più su, a porta San Pancrazio, che pulsa il cuore della cultura “alta” statunitense a Roma. Qui due palazzi con vista e parco fra i più belli della capitale ospitano da 110 anni l’American Academy, che ogni anno offre 75 borse di studio ad artisti e studiosi americani felici di poter risiedere per dodici mesi nella Città Eterna.
Pittori, scultori, architetti, musicisti, storici, archeologi: nomi importanti sono passati nell’ultimo secolo da villa Aurelia (ex quartiere generale di Garibaldi nel 1849), dal principale compositore americano contemporaneo Aaron Copland (nel ’51) a Laurie Anderson l’anno scorso. L’architetto Richard Meyer, autore della nuova Ara Pacis, è stato fellow nel ’74, e i pittori Frank Stella nell’83, Roy Lichtenstein nell’89, Chuck Close nel ’96. Gli scrittori, infine: Joseph Brodsky nell’81, sei anni prima di vincere il Nobel, Nadine Gordimer nell’84, Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran) due anni fa.
Una buona fetta dell’élite intellettuale Usa, insomma, viene a sciacquare i panni in Tevere. In silenzio, quasi in clandestinità: niente glamour, molto understatement. Ma l’anno trascorso a Roma crea legami indissolubili. L’American Academy, a differenza delle altre accademie straniere presenti a Roma (più di venti, come la francese a villa Medici, la tedesca a villa Massimo, la britannica a Valle Giulia), vive di contributi privati.
Varie fondazioni finanziano vitto e alloggio per un fellow, scelto da nove giurie fra migliaia di domande: la Samuel Kress Foundation, per esempio, sta offrendo due anni a Hendrik William Dey dell’università del Michigan per una tesi di dottorato sulle mura Aureliane, e un anno a Lisa Marie Mignone (Columbia University) per una ‘Storia sociale e urbana dell’Aventino’. Kevin Uhalde, professore della Ohio University, sta invece approfondendo “Il potere del perdono nelle comunità cristiane dal 200 al 650”. Fra gli sponsor non mancano i nomi più altisonanti: Carnegie, Rockefeller, Frick, Morgan, Vanderbilt. Bilancio totale annuo: quasi dieci milioni di euro.
Il Drue Heinz Trust (impero del ketchup) fa da mecenate al giornalista Tom Bissell, che sta scrivendo un libro sui Dodici apostoli. La fondazione Mellon permette alla professoressa Marina Rustow dell’Emory University di studiare gli ebrei siciliani nel medioevo. Non manca la storia contemporanea: l’architetta Stephanie Pilat dell’università del Michigan sta approfondendo il programma Ina-casa del dopoguerra, mentre Flora Ghezzo, prof alla Columbia, si dedica alle donne che scrivevano durante il fascismo: ‘Potere, soggettività e desiderio’.
I casi più curiosi sono forse quelli di Gerard Passannante, wunderkind di Princeton ma anche probabile discendente dell’anarchico che attentò alla vita di re Umberto I (“Sono andato a visitare il suo cranio al museo criminologico prima che lo trasferissero in Basilicata”, ci dice), che studia l’influsso di Lucrezio nel Rinascimento, e del padre gesuita Gregory Waldrop, 44 anni (università di Berkeley), il quale ha due anni per approfondire il tema: ‘I preti e la rappresentazione visiva di Siena nel primo Quattrocento’.
Argomenti sofisticati e superspecialistici, ma abbordati con l’entusiasmo di chi, lontano migliaia di chilometri dall’Italia, ha sognato per una vita di poter venire ad abbeverarsi alle fonti della cultura occidentale. L’American Academy of Rome è un’istituzione unica al mondo, gli Stati Uniti non ne hanno altre: nel ’98 l’ex ambasciatore Usa all’Onu Richard Holbrooke ne ha fondata una a Berlino, ma sono appena undici borse semestrali. Newcomers...
Salgo all’Accademia in cima al Gianicolo per incontrare la presidentessa Adele Chatfield-Taylor, lei stessa fellow nell’84, moglie di uno dei maggiori commediografi americani, John Guare (Sei gradi di separazione). Mi offre un caffè al bar interno, poi lo paga: 55 cents. È probabilmente l’unica presidente di un ente a Roma che lo fa. Mi mostra orgogliosa lo splendido parco, i giardini, la biblioteca in rifacimento, l’orto “biologico” (“Tutto ciò che mangiamo è ‘organic’, dobbiamo diventare ‘sostenibili’”). Poi pranzo a una mensa abbastanza spartana. La nuova direttrice, Carmela Vircillo, è per la prima volta un’italiana (ma anche lei ex fellow). È moglie di William Franklin, il pastore anglicano che cura le relazioni esterne.
Due settimane fa, la sera del 28 maggio per la prima volta l’American Academy si è aperta alla vita sociale romana. Alla quale spesso affitta la sua villa Aurelia, ma assieme alla quale quasi mai si mischia. Durante una cena di gala Umberto Eco è stato premiato con la medaglia McKim, dal nome dell’architetto che ha fondato l’Accademia e ne ha progettato il palazzo di 130 stanze. L’anno scorso l’avevano data al pittore Usa Cy Twombly, romano d’adozione.
Con cautela, sono stati invitati un po’ di “socialites” indigeni: l’attrice Laura Morante, Marina Cicogna, Martina Mondadori e Peter Sartogo, l’ambasciatore Antonio Puri Purini, Mario D’Urso, Ferdinando Brachetti Peretti (benzina Api) con Mafalda d’Assia, il crinito Gelasio Gaetani d’Aragona, Furio Colombo, Maria Pace Odescalchi. Quest’ultima aveva fatto da tramite, qualche mese fa, per la festa prematrimoniale di Tom Cruise nella villa Aurelia.
C’erano anche l’ambasciatore Usa Ronald Spogli, il predecessore Reginald Bartholomew, Claudio Cappon (Rai) e Boris Biancheri (Fieg), che è uno dei quattro italiani (su 45) nel consiglio d’amministrazione dell’Academy. Gli altri sono Vittorio Ripa di Meana, la direttrice Vircillo e Verdella Caracciolo, moglie del vicepresidente Finmeccanica Alberto De Benedictis.
In teoria era un fund-raising dinner, ma si sa che i ricchi italiani, contrariamente ai loro omologhi statunitensi, non sono abituati a queste cose. Così alla fine i 200mila euro raccolti sono stati scuciti da qualche società: Finmeccanica, Bulgari, Pirelli Re, Recchi (il marito della Odescalchi) e altre. Serviranno a finanziare borse per artisti e studiosi italiani. In passato ce ne sono stati, per esempio il compositore Goffredo Petrassi nel ’56, ma poi le Fulbright sono state abolite.
Alla fine è arrivato il ministro Francesco Rutelli, che ha parlato anche in inglese. Tutti contenti perché l’Italia e la sua capitale non sono mai stati così fashionable negli Stati Uniti. In autunno il principale mercante d’arte mondiale, il californiano Larry Gagosian, aprirà a Roma (via Crispi) la sua nuova galleria dopo Beverly Hills, New York e Londra. Gli americani ci amano. E noi ricambiamo.
Mauro Suttora
Il Foglio, sabato 9 giugno 2007, pag. III
Roma. Americani e italiani non si sono mai amati così tanto. Il 2007 sta battendo ogni record per i turisti in arrivo nei due Paesi. L’infatuazione è reciproca: un milione di italiani negli Usa (900mila l’anno scorso), ma soprattutto quattro milioni di statunitensi in Italia. Ci fu l’apice dei tre milioni per il Giubileo 2000, poi il crollo post-11 settembre (un milione nel 2002), ora il boom.
“Incredibile, l’euro a uno e 35 non li ferma, ormai dopo tedeschi e britannici gli statunitensi hanno conquistato il terzo posto fra i visitatori esteri in Italia, sono undici su cento”, rilevano all’Enit. Le compagnie aeree moltiplicano i voli: Continental, American Airlines e US Airlines viaggiano a pieno carico. Eurofly collega direttamente a New York anche Bologna, Napoli e Palermo.
È turismo di alto livello: gente attratta molto dal lago di Como o da Positano, poco da Rimini. Senza dimenticare moda e gastronomia, ci visitano soprattutto “to feed their minds”, per nutrire la mente con storia e cultura nelle città d’arte.
Byebye Londra e Parigi: l’Italia è diventata la scelta preferita dagli universitari americani per i loro stages di uno, tre, sei mesi in Europa. “Ogni anno ne arrivano diecimila solo a Roma, e altrettanti a Firenze”, calcola William Franklin dell’American Academy. I college Usa non sanno più dove metterli: villa La Pietra di lord Acton verso Fiesole non basta a contenere i ragazzi della New York University, i dormitori del Syracuse college scoppiano.
“Nessuno se n’è mai accorto, ma parecchie università americane hanno un campus a Roma”, ci dice la pierre romana-newyorkese Giosetta Capriati, già borsista Fulbright: “La Temple di Philadelphia sul lungotevere Arnaldo da Brescia ha cominciato nel 1967 come Accademia di Belle Arti e negli Anni Novanta ha aggiunto il Liberal Arts College: i loro degrees sono riconosciuti dal governo Italiano. È nato negli anni Sessanta anche il graduate program della Rhode Island School of Design, la più prestigiosa d’America nel settore, con sede a palazzo Cenci nel Ghetto... L’altrettanto importante Pratt Institute di New York ha un programma a Roma, e palazzo Lazzaroni, dietro il teatro Argentina, ospita la Cornell University”.
La John Cabot a Trastevere e la American University al Gianicolo sono invece college undergraduate americani, ma autoctoni: nati direttamente a Roma, senza casa madre negli Usa. Le lauree della Cabot sono riconosciute in Italia, mentre la American sta aspettando la reciprocità.
I romani guardano con indifferenza gli studenti americani seduti ai tavolini dei bar in via della Scala, li confondono con i turisti. Dietro l’angolo c’è Sant’Egidio, diventata famosa in tutto il mondo grazie al presidente Bush. Ma è un po’ più su, a porta San Pancrazio, che pulsa il cuore della cultura “alta” statunitense a Roma. Qui due palazzi con vista e parco fra i più belli della capitale ospitano da 110 anni l’American Academy, che ogni anno offre 75 borse di studio ad artisti e studiosi americani felici di poter risiedere per dodici mesi nella Città Eterna.
Pittori, scultori, architetti, musicisti, storici, archeologi: nomi importanti sono passati nell’ultimo secolo da villa Aurelia (ex quartiere generale di Garibaldi nel 1849), dal principale compositore americano contemporaneo Aaron Copland (nel ’51) a Laurie Anderson l’anno scorso. L’architetto Richard Meyer, autore della nuova Ara Pacis, è stato fellow nel ’74, e i pittori Frank Stella nell’83, Roy Lichtenstein nell’89, Chuck Close nel ’96. Gli scrittori, infine: Joseph Brodsky nell’81, sei anni prima di vincere il Nobel, Nadine Gordimer nell’84, Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran) due anni fa.
Una buona fetta dell’élite intellettuale Usa, insomma, viene a sciacquare i panni in Tevere. In silenzio, quasi in clandestinità: niente glamour, molto understatement. Ma l’anno trascorso a Roma crea legami indissolubili. L’American Academy, a differenza delle altre accademie straniere presenti a Roma (più di venti, come la francese a villa Medici, la tedesca a villa Massimo, la britannica a Valle Giulia), vive di contributi privati.
Varie fondazioni finanziano vitto e alloggio per un fellow, scelto da nove giurie fra migliaia di domande: la Samuel Kress Foundation, per esempio, sta offrendo due anni a Hendrik William Dey dell’università del Michigan per una tesi di dottorato sulle mura Aureliane, e un anno a Lisa Marie Mignone (Columbia University) per una ‘Storia sociale e urbana dell’Aventino’. Kevin Uhalde, professore della Ohio University, sta invece approfondendo “Il potere del perdono nelle comunità cristiane dal 200 al 650”. Fra gli sponsor non mancano i nomi più altisonanti: Carnegie, Rockefeller, Frick, Morgan, Vanderbilt. Bilancio totale annuo: quasi dieci milioni di euro.
Il Drue Heinz Trust (impero del ketchup) fa da mecenate al giornalista Tom Bissell, che sta scrivendo un libro sui Dodici apostoli. La fondazione Mellon permette alla professoressa Marina Rustow dell’Emory University di studiare gli ebrei siciliani nel medioevo. Non manca la storia contemporanea: l’architetta Stephanie Pilat dell’università del Michigan sta approfondendo il programma Ina-casa del dopoguerra, mentre Flora Ghezzo, prof alla Columbia, si dedica alle donne che scrivevano durante il fascismo: ‘Potere, soggettività e desiderio’.
I casi più curiosi sono forse quelli di Gerard Passannante, wunderkind di Princeton ma anche probabile discendente dell’anarchico che attentò alla vita di re Umberto I (“Sono andato a visitare il suo cranio al museo criminologico prima che lo trasferissero in Basilicata”, ci dice), che studia l’influsso di Lucrezio nel Rinascimento, e del padre gesuita Gregory Waldrop, 44 anni (università di Berkeley), il quale ha due anni per approfondire il tema: ‘I preti e la rappresentazione visiva di Siena nel primo Quattrocento’.
Argomenti sofisticati e superspecialistici, ma abbordati con l’entusiasmo di chi, lontano migliaia di chilometri dall’Italia, ha sognato per una vita di poter venire ad abbeverarsi alle fonti della cultura occidentale. L’American Academy of Rome è un’istituzione unica al mondo, gli Stati Uniti non ne hanno altre: nel ’98 l’ex ambasciatore Usa all’Onu Richard Holbrooke ne ha fondata una a Berlino, ma sono appena undici borse semestrali. Newcomers...
Salgo all’Accademia in cima al Gianicolo per incontrare la presidentessa Adele Chatfield-Taylor, lei stessa fellow nell’84, moglie di uno dei maggiori commediografi americani, John Guare (Sei gradi di separazione). Mi offre un caffè al bar interno, poi lo paga: 55 cents. È probabilmente l’unica presidente di un ente a Roma che lo fa. Mi mostra orgogliosa lo splendido parco, i giardini, la biblioteca in rifacimento, l’orto “biologico” (“Tutto ciò che mangiamo è ‘organic’, dobbiamo diventare ‘sostenibili’”). Poi pranzo a una mensa abbastanza spartana. La nuova direttrice, Carmela Vircillo, è per la prima volta un’italiana (ma anche lei ex fellow). È moglie di William Franklin, il pastore anglicano che cura le relazioni esterne.
Due settimane fa, la sera del 28 maggio per la prima volta l’American Academy si è aperta alla vita sociale romana. Alla quale spesso affitta la sua villa Aurelia, ma assieme alla quale quasi mai si mischia. Durante una cena di gala Umberto Eco è stato premiato con la medaglia McKim, dal nome dell’architetto che ha fondato l’Accademia e ne ha progettato il palazzo di 130 stanze. L’anno scorso l’avevano data al pittore Usa Cy Twombly, romano d’adozione.
Con cautela, sono stati invitati un po’ di “socialites” indigeni: l’attrice Laura Morante, Marina Cicogna, Martina Mondadori e Peter Sartogo, l’ambasciatore Antonio Puri Purini, Mario D’Urso, Ferdinando Brachetti Peretti (benzina Api) con Mafalda d’Assia, il crinito Gelasio Gaetani d’Aragona, Furio Colombo, Maria Pace Odescalchi. Quest’ultima aveva fatto da tramite, qualche mese fa, per la festa prematrimoniale di Tom Cruise nella villa Aurelia.
C’erano anche l’ambasciatore Usa Ronald Spogli, il predecessore Reginald Bartholomew, Claudio Cappon (Rai) e Boris Biancheri (Fieg), che è uno dei quattro italiani (su 45) nel consiglio d’amministrazione dell’Academy. Gli altri sono Vittorio Ripa di Meana, la direttrice Vircillo e Verdella Caracciolo, moglie del vicepresidente Finmeccanica Alberto De Benedictis.
In teoria era un fund-raising dinner, ma si sa che i ricchi italiani, contrariamente ai loro omologhi statunitensi, non sono abituati a queste cose. Così alla fine i 200mila euro raccolti sono stati scuciti da qualche società: Finmeccanica, Bulgari, Pirelli Re, Recchi (il marito della Odescalchi) e altre. Serviranno a finanziare borse per artisti e studiosi italiani. In passato ce ne sono stati, per esempio il compositore Goffredo Petrassi nel ’56, ma poi le Fulbright sono state abolite.
Alla fine è arrivato il ministro Francesco Rutelli, che ha parlato anche in inglese. Tutti contenti perché l’Italia e la sua capitale non sono mai stati così fashionable negli Stati Uniti. In autunno il principale mercante d’arte mondiale, il californiano Larry Gagosian, aprirà a Roma (via Crispi) la sua nuova galleria dopo Beverly Hills, New York e Londra. Gli americani ci amano. E noi ricambiamo.
Mauro Suttora
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