Monday, August 29, 2005

New Orleans/1

KATRINA

lunedi 29 agosto 2005

Diario

Immaginate che il povero Bruno Vespa, per dimostrare la propria virilità, ogni volta che a Trieste soffia la bora si precipiti a farsi filmare barcollante in cerata sotto il vento e la pioggia. Eppure è esattamente quello che succede negli Stati Uniti, dove ad ogni uragano si scatena, oltre alla furia degli elementi, anche la fiera delle vanità delle star tv. E’ con un particolare autocompiacimento masochistico, per esempio, che Anderson Cooper, il figlio della miliardaria Gloria Vanderbilt diventato colonna della Cnn, si è fatto quasi spazzare via dall’uragano Ivan in Florida l’anno scorso.

Fra le tante disgrazie provocate dalle tremende tempeste tropicali estive americane, inimmaginabili per noi fortunati abitanti del placido Mediterraneo, c’è anche il fardello di cronisti dementi che occupano gli schermi Usa per giorni e giorni. Un fenomeno così irritante che il perfido David Letterman, principe della satira tv statunitense, li ha messi alla berlina mostrandoli uno dopo l’altro in pose Ridolini-Blob. La speranza segreta del telespettatore americano, ovviamente, è quello che l’uragano si porti via pure il giornalista vociante: lui sta davanti allo schermo per vedere se quello prima o poi prende il volo. Inconfessabile. Un po’ come il tifo pro toro nella corrida.

Perchè alla fine, si sa, l’uragano perde. Com’è successo anche al tremendissimo Katrina, che appena toccata terra si è sgonfiato, è stato degradato a “tempesta tropicale”, e ha diminuito la velocità dei propri venti da 250 a 150 chilometri l’ora. Una miseria, quasi come la bora nostrana, appunto. Morti, grazie a Dio, relativamente pochi (nel 1969 Camille ne causò 250). Danni, tantissimi: un milione di sfollati (tutta New Orleans), quarantamila case allagate, 26 miliardi di dollari di rimborsi chiesti alle assicurazioni dopo i trenta dell’anno scorso in Florida per Ivan. Una cifra immensa, certo. Però è quello che il Pentagono spende in soli venti giorni.

Quando ancora gli esperti erano convinti che Katrina non si sarebbe diretto verso Louisiana, Mississippi e Alabama, ma avrebbe scaricato tutta la propria potenza sulla Florida, sembrava che anche la serata tv degli Mtv awards da Miami fosse in pericolo. Invece si è svolta regolarmente e i suoi trionfatori, i Green Day, sono riusciti a inventare una via patriottica all’antimilitarismo (o una via antimilitarista al patriottismo), con il loro slogan “Amiamo i nostri soldati, quindi facciamoli tornare presto dall’Iraq”.

Non per buttarla in politica, ma gli uragani servono a qualcosa anche in questo campo. Per tre motivi. Il primo è quello classico: “parlare del tempo” per non affrontare argomenti più seri. Capita sempre in ascensore, e va bene. Ma ora la metereologia, in questi Stati Uniti polarizzati come ai tempi del Vietnam, è uno svicolamento anche per non far naufragare cene familiari o fra amici, se in circolazione c’è un bushista. La seconda funzione sociale ricoperta dagli uragani, poi, è quella di “affidamento al politico”. Di fronte a disgrazie immani non resta che sperare nei risarcimenti procurati dai governatori degli stati, e Jeb Bush l’anno scorso fece vincere le elezioni al fratello in Florida grazie alla propria performance consolatoria e all’efficienza dei soccorsi. Ora in Louisiana potrebbe mettersi in luce la democratica Kathleen Bianco.

La terza grande ragion d’essere dei tifoni, infine, sta nella diffusione della paranoia. Perchè ormai sarebbe il caso di cominciare a chiamarla così, la paura del “terrorismo” in un Paese dove per quattro anni, dall’11 settembre 2001, non è scoppiato neanche un petardo. In mancanza di ulteriori gesta da parte di Osama, ci si consola con il terrore provocato dalla forza distruttrice più antica, potente e misteriosa del mondo: quella della natura. Uno “shock and awe” che Donald Rumsfeld se lo sogna.

Un canale intero della tv Usa, il Weather Channel, si dedica a coltivare l’insicurezza ossessiva provata del cittadino medio statunitense nei confronti dei fenomeni atmosferici. Egli crede alle previsioni del tempo quasi quanto si fida dei discorsi neocon del presidente sull’export della democrazia tramite guerra. La minaccia sorda e imprecisa dei tornadi serve a mantenere un clima di allarme permanente e impreciso nella psiche familiare di tutto il Sud statunitense.

Sociologia d’accatto? Ditelo a Richard Posner, massimo “catastrofologo” statunitense. Nel suo ultimo libro, “Catastrofi: rischio e risposta” pubblicato nove mesi fa, sostiene che gli americani spendono troppo poco per prevenire (e proteggersi da) gli eventi estremi. Intendiamoci, contro gli uragani non c’è nulla da fare. E’ vero solo, statistiche alla mano, che negli ultimi anni è finito il periodo di grazia cominciato negli anni Settanta, e che il numero di uragani e tempeste tropicali è raddoppiato: fino a undici l’anno per i primi, mentre di solito erano sei, e venti per le seconde, il doppio del normale. Dacci il nostro uragano bimestrale: quest’estate Dennis, Emily, Irene e poi Katrina, l’anno scorso Charley, Frances, Ivan e Jeanne... Un allarme continuo che diventa allarmismo, e si somma nel subconscio a quello delle allerte arancioni antiterrorismo.

Per quest’anno non illudiamoci che sia finita. Gli scienziati del Nooa (National Oceanic and Atmospheric Administration), che si sommano al Cpc (Climate Prediction Center), alla Hrd (Hurricane Research Division), e al Nhc (National Hurricane Center), in un trionfo burocratico di enti dalla competenze sovrapposte, hanno già battezzato gli uragani futuri. Ogni anno si ricomincia dalla lettera A, e per il 2005 finora l’elenco è questo: Arlene, Bret, Cindy, Dennis, Emily, Franklin, Gert, Harvey, Irene, Jose e Katrina. Seguiranno (si spera di no) Lee, Maria, Nate, Ophelia, Philippe, Rita, Stan, Tammy, Vince e Wilma.

“Le catastrofi non sarebbero tali se avessero un qualcosa di ragionevole”, scrive Posner, “eppure ci si può ragionevolmente preparare ad esse, che si tratti di uragani, tsunami, asteroidi che impattano sulla Terra o terremoti. Certo, farlo costa molto”. Negli anni Sessanta parecchie società d’assicurazioni smisero di operare nel campo degli allagamenti dopo una serie di enormi inondazioni in California. In seguito all’uragano Andrew del ‘92 (l’ultimo paragonabile a Katrina) i premi assicurativi aumentarono del 200 per cento. Dopo l’11 settembre 2001 è stato impossibile assicurarsi contro atti di terrorismo, finchè non è intervenuto il governo federale Usa. L’anno scorso, le assicurazioni contro i rischi edilizi per tornado in Florida sono di nuovo raddoppiate.

“Il mercato non ha cuore”, ha ammesso James Surowiecki sul settimanale New Yorker, “e da un punto di vista economico le devastazioni del Golfo del Messico la scorsa settimana sono state più gravi di quelle dello tsunami, che aveva colpito zone troppo povere per essere nevralgiche dal punto di vista del business. Ma nonostante l’uragano questa volta abbia distrutto zone ricche, la percentuale di proprietà assicurate è ancora insufficiente. Il problema è che è difficilissimo, per le compagnie assicurative, calcolare attuarialmente quale sia la percentuale di rischio di questi grossi eventi. Sia perchè accadono a intervalli imprevedibili, sia perchè basta una minuscola variazione della traiettoria dell’occhio del ciclone per provocare miliardi invece che milioni di danni, colpendo una metropoli come New Orleans e i terminali del petrolio. Uno dei pochi che non teme di affrontare questi rischi è Warren Buffett (il quarto uomo più ricco del mondo, ndr), che ha guadagnato parecchi soldi proprio assicurando le catastrofi, perchè sa che è nella natura di tale business sopportare annate dure. Ma pochi assicuratori e investitori sono forti abbastanza per accettare l’inevitabilità di perdite grosse in cambio della certezza di molti piccoli guadagni. Per questo assicurarsi contro gli ‘atti di Dio’ costa ancora molto di più di quanto la gente è disposta a sborsare”.

Questo per quanto riguarda il futuro economico degli uragani. Ma quello scientifico? In sostanza: come mai ce ne sono di più da dieci anni a questa parte? “La maggior parte degli uragani”, risponde Stanley Goldenberg del Noaa, “nasce al largo della costa occidentale dell’Africa e si sviluppa nella fascia tropicale caraibica fra il nono e il ventunesimo parallelo. Quasi mai superano il trentesimo pareallelo. Purtroppo, anche se le condizioni del loro sviluppo sono ben conosciute, troppo spesso esse dipendono da circostanze giornaliere invece che stagionali, e quindi risultano impossibili da prevedere a lungo termine. Tuttavia, con l’eccezione dei due anni di attività del Nino, il ‘97 e il 2002, il numero degli uragani è stato sempre il doppio rispetto alla media dei precedenti 25 anni. Ebbene, in mancanza di dati certi sull’effetto serra e sulla temperatura dell’oceano Atlantico, noi siamo in grado soltanto di predirre all’inizio di ogni stagione se si ripeteranno le condizioni di facilità per il formarsi di tempeste tropicali, e di sviluppo della loro forza”.

Una notevole dichiarazione d’impotenza, non c’è che dire. Intanto, il quartiere francese di New Orleans è finito sott’acqua con gli argini rotti. E l’allarme inondazione ha provocato uno degli esodi più immani nella storia degli Stati Uniti. Puzza invece di speculazione l’aumento di cinque dollari a barile (raggiunta quota 70, impensabile fino a pochi mesi fa) causato dalla chiusura dei pozzi petroliferi nel Golfo del Messico. In realtà gli Usa producono in loco soltanto un milione e mezzo di barili al giorno, contro i sei e mezzo provenienti dall’estero che vengono succhiati dai terminal di Lousiana e Texas. Ma queste cose i cronisti tv che urlano sotto la pioggia non le spiegano.

Mauro Suttora

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