LA LITTLE AMERICA E’ SEMPRE PIU’ GRANDE, AMA E STUDIA L’ITALIA, E ORA APRE LA PORTA DI SAN PANCRAZIO
Il Foglio, sabato 9 giugno 2007, pag. III
Roma. Americani e italiani non si sono mai amati così tanto. Il 2007 sta battendo ogni record per i turisti in arrivo nei due Paesi. L’infatuazione è reciproca: un milione di italiani negli Usa (900mila l’anno scorso), ma soprattutto quattro milioni di statunitensi in Italia. Ci fu l’apice dei tre milioni per il Giubileo 2000, poi il crollo post-11 settembre (un milione nel 2002), ora il boom.
“Incredibile, l’euro a uno e 35 non li ferma, ormai dopo tedeschi e britannici gli statunitensi hanno conquistato il terzo posto fra i visitatori esteri in Italia, sono undici su cento”, rilevano all’Enit. Le compagnie aeree moltiplicano i voli: Continental, American Airlines e US Airlines viaggiano a pieno carico. Eurofly collega direttamente a New York anche Bologna, Napoli e Palermo.
È turismo di alto livello: gente attratta molto dal lago di Como o da Positano, poco da Rimini. Senza dimenticare moda e gastronomia, ci visitano soprattutto “to feed their minds”, per nutrire la mente con storia e cultura nelle città d’arte.
Byebye Londra e Parigi: l’Italia è diventata la scelta preferita dagli universitari americani per i loro stages di uno, tre, sei mesi in Europa. “Ogni anno ne arrivano diecimila solo a Roma, e altrettanti a Firenze”, calcola William Franklin dell’American Academy. I college Usa non sanno più dove metterli: villa La Pietra di lord Acton verso Fiesole non basta a contenere i ragazzi della New York University, i dormitori del Syracuse college scoppiano.
“Nessuno se n’è mai accorto, ma parecchie università americane hanno un campus a Roma”, ci dice la pierre romana-newyorkese Giosetta Capriati, già borsista Fulbright: “La Temple di Philadelphia sul lungotevere Arnaldo da Brescia ha cominciato nel 1967 come Accademia di Belle Arti e negli Anni Novanta ha aggiunto il Liberal Arts College: i loro degrees sono riconosciuti dal governo Italiano. È nato negli anni Sessanta anche il graduate program della Rhode Island School of Design, la più prestigiosa d’America nel settore, con sede a palazzo Cenci nel Ghetto... L’altrettanto importante Pratt Institute di New York ha un programma a Roma, e palazzo Lazzaroni, dietro il teatro Argentina, ospita la Cornell University”.
La John Cabot a Trastevere e la American University al Gianicolo sono invece college undergraduate americani, ma autoctoni: nati direttamente a Roma, senza casa madre negli Usa. Le lauree della Cabot sono riconosciute in Italia, mentre la American sta aspettando la reciprocità.
I romani guardano con indifferenza gli studenti americani seduti ai tavolini dei bar in via della Scala, li confondono con i turisti. Dietro l’angolo c’è Sant’Egidio, diventata famosa in tutto il mondo grazie al presidente Bush. Ma è un po’ più su, a porta San Pancrazio, che pulsa il cuore della cultura “alta” statunitense a Roma. Qui due palazzi con vista e parco fra i più belli della capitale ospitano da 110 anni l’American Academy, che ogni anno offre 75 borse di studio ad artisti e studiosi americani felici di poter risiedere per dodici mesi nella Città Eterna.
Pittori, scultori, architetti, musicisti, storici, archeologi: nomi importanti sono passati nell’ultimo secolo da villa Aurelia (ex quartiere generale di Garibaldi nel 1849), dal principale compositore americano contemporaneo Aaron Copland (nel ’51) a Laurie Anderson l’anno scorso. L’architetto Richard Meyer, autore della nuova Ara Pacis, è stato fellow nel ’74, e i pittori Frank Stella nell’83, Roy Lichtenstein nell’89, Chuck Close nel ’96. Gli scrittori, infine: Joseph Brodsky nell’81, sei anni prima di vincere il Nobel, Nadine Gordimer nell’84, Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran) due anni fa.
Una buona fetta dell’élite intellettuale Usa, insomma, viene a sciacquare i panni in Tevere. In silenzio, quasi in clandestinità: niente glamour, molto understatement. Ma l’anno trascorso a Roma crea legami indissolubili. L’American Academy, a differenza delle altre accademie straniere presenti a Roma (più di venti, come la francese a villa Medici, la tedesca a villa Massimo, la britannica a Valle Giulia), vive di contributi privati.
Varie fondazioni finanziano vitto e alloggio per un fellow, scelto da nove giurie fra migliaia di domande: la Samuel Kress Foundation, per esempio, sta offrendo due anni a Hendrik William Dey dell’università del Michigan per una tesi di dottorato sulle mura Aureliane, e un anno a Lisa Marie Mignone (Columbia University) per una ‘Storia sociale e urbana dell’Aventino’. Kevin Uhalde, professore della Ohio University, sta invece approfondendo “Il potere del perdono nelle comunità cristiane dal 200 al 650”. Fra gli sponsor non mancano i nomi più altisonanti: Carnegie, Rockefeller, Frick, Morgan, Vanderbilt. Bilancio totale annuo: quasi dieci milioni di euro.
Il Drue Heinz Trust (impero del ketchup) fa da mecenate al giornalista Tom Bissell, che sta scrivendo un libro sui Dodici apostoli. La fondazione Mellon permette alla professoressa Marina Rustow dell’Emory University di studiare gli ebrei siciliani nel medioevo. Non manca la storia contemporanea: l’architetta Stephanie Pilat dell’università del Michigan sta approfondendo il programma Ina-casa del dopoguerra, mentre Flora Ghezzo, prof alla Columbia, si dedica alle donne che scrivevano durante il fascismo: ‘Potere, soggettività e desiderio’.
I casi più curiosi sono forse quelli di Gerard Passannante, wunderkind di Princeton ma anche probabile discendente dell’anarchico che attentò alla vita di re Umberto I (“Sono andato a visitare il suo cranio al museo criminologico prima che lo trasferissero in Basilicata”, ci dice), che studia l’influsso di Lucrezio nel Rinascimento, e del padre gesuita Gregory Waldrop, 44 anni (università di Berkeley), il quale ha due anni per approfondire il tema: ‘I preti e la rappresentazione visiva di Siena nel primo Quattrocento’.
Argomenti sofisticati e superspecialistici, ma abbordati con l’entusiasmo di chi, lontano migliaia di chilometri dall’Italia, ha sognato per una vita di poter venire ad abbeverarsi alle fonti della cultura occidentale. L’American Academy of Rome è un’istituzione unica al mondo, gli Stati Uniti non ne hanno altre: nel ’98 l’ex ambasciatore Usa all’Onu Richard Holbrooke ne ha fondata una a Berlino, ma sono appena undici borse semestrali. Newcomers...
Salgo all’Accademia in cima al Gianicolo per incontrare la presidentessa Adele Chatfield-Taylor, lei stessa fellow nell’84, moglie di uno dei maggiori commediografi americani, John Guare (Sei gradi di separazione). Mi offre un caffè al bar interno, poi lo paga: 55 cents. È probabilmente l’unica presidente di un ente a Roma che lo fa. Mi mostra orgogliosa lo splendido parco, i giardini, la biblioteca in rifacimento, l’orto “biologico” (“Tutto ciò che mangiamo è ‘organic’, dobbiamo diventare ‘sostenibili’”). Poi pranzo a una mensa abbastanza spartana. La nuova direttrice, Carmela Vircillo, è per la prima volta un’italiana (ma anche lei ex fellow). È moglie di William Franklin, il pastore anglicano che cura le relazioni esterne.
Due settimane fa, la sera del 28 maggio per la prima volta l’American Academy si è aperta alla vita sociale romana. Alla quale spesso affitta la sua villa Aurelia, ma assieme alla quale quasi mai si mischia. Durante una cena di gala Umberto Eco è stato premiato con la medaglia McKim, dal nome dell’architetto che ha fondato l’Accademia e ne ha progettato il palazzo di 130 stanze. L’anno scorso l’avevano data al pittore Usa Cy Twombly, romano d’adozione.
Con cautela, sono stati invitati un po’ di “socialites” indigeni: l’attrice Laura Morante, Marina Cicogna, Martina Mondadori e Peter Sartogo, l’ambasciatore Antonio Puri Purini, Mario D’Urso, Ferdinando Brachetti Peretti (benzina Api) con Mafalda d’Assia, il crinito Gelasio Gaetani d’Aragona, Furio Colombo, Maria Pace Odescalchi. Quest’ultima aveva fatto da tramite, qualche mese fa, per la festa prematrimoniale di Tom Cruise nella villa Aurelia.
C’erano anche l’ambasciatore Usa Ronald Spogli, il predecessore Reginald Bartholomew, Claudio Cappon (Rai) e Boris Biancheri (Fieg), che è uno dei quattro italiani (su 45) nel consiglio d’amministrazione dell’Academy. Gli altri sono Vittorio Ripa di Meana, la direttrice Vircillo e Verdella Caracciolo, moglie del vicepresidente Finmeccanica Alberto De Benedictis.
In teoria era un fund-raising dinner, ma si sa che i ricchi italiani, contrariamente ai loro omologhi statunitensi, non sono abituati a queste cose. Così alla fine i 200mila euro raccolti sono stati scuciti da qualche società: Finmeccanica, Bulgari, Pirelli Re, Recchi (il marito della Odescalchi) e altre. Serviranno a finanziare borse per artisti e studiosi italiani. In passato ce ne sono stati, per esempio il compositore Goffredo Petrassi nel ’56, ma poi le Fulbright sono state abolite.
Alla fine è arrivato il ministro Francesco Rutelli, che ha parlato anche in inglese. Tutti contenti perché l’Italia e la sua capitale non sono mai stati così fashionable negli Stati Uniti. In autunno il principale mercante d’arte mondiale, il californiano Larry Gagosian, aprirà a Roma (via Crispi) la sua nuova galleria dopo Beverly Hills, New York e Londra. Gli americani ci amano. E noi ricambiamo.
Mauro Suttora
Monday, June 11, 2007
Monday, May 28, 2007
L'Unità: costi della politica
l'Unita', lunedi' 28 maggio 2007
prima pagina
I costi della politica.
I Palazzi non finiscono mai
Vittorio Emiliani
(...) Secondo un'inchiesta di Mauro Suttora, comparsa su "Oggi", il Senato e' passato dai tre palazzi del 1980 agli attuali tredici "e vorrebbe espandersi espellendo famiglie (sono 11 solo in Largo Toniolo) dalle loro case a prezzi popolari". Dai quattro edifici occupati dal Parlamento nel 1948 si è balzati alla trentina di oggi, piu' i sedici della Presidenza del Consiglio. Con costi da capogiro. (...)
prima pagina
I costi della politica.
I Palazzi non finiscono mai
Vittorio Emiliani
(...) Secondo un'inchiesta di Mauro Suttora, comparsa su "Oggi", il Senato e' passato dai tre palazzi del 1980 agli attuali tredici "e vorrebbe espandersi espellendo famiglie (sono 11 solo in Largo Toniolo) dalle loro case a prezzi popolari". Dai quattro edifici occupati dal Parlamento nel 1948 si è balzati alla trentina di oggi, piu' i sedici della Presidenza del Consiglio. Con costi da capogiro. (...)
Friday, May 25, 2007
Christie's: asta Savoia
Maria Gabriella di Savoia mette all'asta i gioielli di famiglia
Londra, 25 maggio 2007
Anche le principesse pagano le tasse. Maria Gabriella di Savoia è costretta a mettere all’asta vari gioielli di famiglia perché deve versare l’imposta di successione sull’eredità della madre Maria José, scomparsa sei anni fa. Il 13 giugno, da Christie’s a Londra, vengono messi all’incanto 41 lotti. La base d’asta totale supera il milione di euro. Il pezzo forte è un diadema di diamanti Fabergé risalente ai tempi di Napoleone, che da solo è valutato fra i 590 e gli 880 mila euro.
Maria Gabriella non nasconde le difficoltà economiche: «Per affrontare il peso non indifferente della tassa ereditaria sul patrimonio di sua madre», scrive infatti il principe Michele di Grecia nell’introduzione al catalogo di Christie’s, «ha deciso di vendere alcuni degli stupendi e rari gioielli ricevuti dai genitori, allo scopo di preservare le parti rimanenti della collezione». Il 27 giugno, sempre da Christie’s a Londra, seguirà una seconda asta di lavori d’arte Savoia.
Vent’anni fa, dopo la morte del padre, la principessa ha dato vita alla fondazione Umberto II e Maria José di Savoia per tenere viva la memoria dei genitori. In essa ha riunito oggetti e documenti che vengono esibiti in mostre e sui quali si organizzano conferenze. La terzogenita di Umberto è diventata una custode dei ricordi di famiglia e da tempo sollecita che anche il cosiddetto «tesoro della Corona», conservato da 61 anni nel caveau della Banca d’Italia, venga almeno esposto, se non consegnato agli eredi.
Intanto, però, è costretta a disfarsi di alcuni pezzi. E ciascuno di questi porta dentro di sé una storia affascinante da raccontare. In due casi c’è di mezzo Napoleone. Il diadema di perle e diamanti che la regina Maria José indossava negli anni Venti, infatti, era appartenuto all’imperatrice Josephine di Beauharnais, prima moglie di Bonaparte, e alla loro nipote Stéphanie. Quest’ultima venne adottata come figlia dalla coppia imperiale, priva di progenie, per farla sposare nel 1806 con Karl Ludwig, granduca di Baden. Il borghese Napoleone, infatti, ambiva a imparentandosi con le famiglie reali europee. Una nipote di Stéphanie, Maria Luisa principessa di Hohenzollern, sposò poi Filippo del Belgio, padre di re Alberto e nonno di Maria José.
La diciottenne principessa indossò il diadema per la prima volta nel 1924, al ballo di debutto alla corte di Bruxelles. Per l’occasione, il pezzo venne modificato: ne fu aggiunta una parte per chiuderlo sul retro. Così Maria José poteva indossarlo sulla fronte, nello stile a bandeau in voga negli anni Venti. Stranamente, però, per il completamento furono utilizzate perle d’imitazione.
La bellissima principessa era fra le più ambite d’Europa. Aveva già incontrato il futuro sposo Umberto, di due anni più grande, quando aveva appena dodici anni ed era stata mandata in collegio a Firenze per sfuggire alla Grande Guerra. Umberto andò a visitarla a Bruxelles nel ’22 e la rivide tre anni dopo nel castello di Racconigi, al matrimonio della sorella Mafalda con Filippo d’Assia. Nel gennaio 1930 Maria José indossò ancora lo stesso bandeau alla vigilia del matrimonio in Vaticano, per trattenere il lungo velo nero al cospetto di papa Pio XI.
L’altro collegamento con Napoleone è il preziosissimo diadema in oro e argento nel quale, alla fine dell’Ottocento, il leggendario gioielliere August Holmström della casa russa Fabergé montò dei diamanti. Questi erano stati regalati all’inizio del secolo dallo zar Alessandro I di Russia all’imperatrice Josephine, quando andò a visitarla a Parigi dopo il divorzio da Napoleone. Eugenio di Beauharnais, figlio di primo letto di Josephine, sposò poi la figlia del re di Baviera, e i diamanti tornarono infine in Russia dopo il matrimonio di un loro figlio con la granduchessa Maria Nicolaevna, primogenita dello zar Nicola. Dopo la Prima guerra mondiale il re del Belgio Alberto, padre di Maria José, acquistò il diadema in Svizzera.
«Ma nessuno lo ha mai indossato», ci dice Stefano Papi, uno dei massimi storici internazionali del gioiello, autore con Maria Gabriella del libro Gioielli di Casa Savoia (Electa, 2002), e che domenica 10 giugno terrà una conferenza sull’argomento da Christie’s a Londra. Dopo la morte di re Alberto nel ’34, il diadema finì al principe Carlo Teodoro di Fiandra, fratello di Maria José, la quale lo ha a sua volta ereditato.
Secoli di storia d’Europa, insomma, sono incastonati in questi gioielli oltre alle perle multicolori e ai diamanti. La «regina di Maggio» Maria José, antifascista, era una donna sportiva che non dava molta importanza a moda e monili. «Ma fra tutte le regine d’Italia è stata di gran lunga la più bella», afferma Michele di Grecia, «per cui anche se l’eleganza era l’ultima delle sue preoccupazioni, nelle foto appare sempre vestita in modo impeccabile. Soprattutto, indossa splendidi gioielli che non reggerebbero il confronto con qualsiasi altra donna di prestigio, ma che su di lei appaiono quasi ninnoli fra i più naturali».
Chi riuscirà allora ad aggiudicarsi la borsetta dorata, con perle e diamanti, che la gioielleria Musy di Torino creò nel 1900 per la regina Margherita di Savoia? Rimasta vedova di re Umberto I, la nonna di Umberto II sapeva che il nipote si era innamorato di una principessa belga con un nome dalla sua stessa iniziale. Così, prima di morire nel ’26, la lasciò a Umberto. E lui poté regalare quella borsetta alla propria fidanzata Maria José.
Mauro Suttora
Londra, 25 maggio 2007
Anche le principesse pagano le tasse. Maria Gabriella di Savoia è costretta a mettere all’asta vari gioielli di famiglia perché deve versare l’imposta di successione sull’eredità della madre Maria José, scomparsa sei anni fa. Il 13 giugno, da Christie’s a Londra, vengono messi all’incanto 41 lotti. La base d’asta totale supera il milione di euro. Il pezzo forte è un diadema di diamanti Fabergé risalente ai tempi di Napoleone, che da solo è valutato fra i 590 e gli 880 mila euro.
Maria Gabriella non nasconde le difficoltà economiche: «Per affrontare il peso non indifferente della tassa ereditaria sul patrimonio di sua madre», scrive infatti il principe Michele di Grecia nell’introduzione al catalogo di Christie’s, «ha deciso di vendere alcuni degli stupendi e rari gioielli ricevuti dai genitori, allo scopo di preservare le parti rimanenti della collezione». Il 27 giugno, sempre da Christie’s a Londra, seguirà una seconda asta di lavori d’arte Savoia.
Vent’anni fa, dopo la morte del padre, la principessa ha dato vita alla fondazione Umberto II e Maria José di Savoia per tenere viva la memoria dei genitori. In essa ha riunito oggetti e documenti che vengono esibiti in mostre e sui quali si organizzano conferenze. La terzogenita di Umberto è diventata una custode dei ricordi di famiglia e da tempo sollecita che anche il cosiddetto «tesoro della Corona», conservato da 61 anni nel caveau della Banca d’Italia, venga almeno esposto, se non consegnato agli eredi.
Intanto, però, è costretta a disfarsi di alcuni pezzi. E ciascuno di questi porta dentro di sé una storia affascinante da raccontare. In due casi c’è di mezzo Napoleone. Il diadema di perle e diamanti che la regina Maria José indossava negli anni Venti, infatti, era appartenuto all’imperatrice Josephine di Beauharnais, prima moglie di Bonaparte, e alla loro nipote Stéphanie. Quest’ultima venne adottata come figlia dalla coppia imperiale, priva di progenie, per farla sposare nel 1806 con Karl Ludwig, granduca di Baden. Il borghese Napoleone, infatti, ambiva a imparentandosi con le famiglie reali europee. Una nipote di Stéphanie, Maria Luisa principessa di Hohenzollern, sposò poi Filippo del Belgio, padre di re Alberto e nonno di Maria José.
La diciottenne principessa indossò il diadema per la prima volta nel 1924, al ballo di debutto alla corte di Bruxelles. Per l’occasione, il pezzo venne modificato: ne fu aggiunta una parte per chiuderlo sul retro. Così Maria José poteva indossarlo sulla fronte, nello stile a bandeau in voga negli anni Venti. Stranamente, però, per il completamento furono utilizzate perle d’imitazione.
La bellissima principessa era fra le più ambite d’Europa. Aveva già incontrato il futuro sposo Umberto, di due anni più grande, quando aveva appena dodici anni ed era stata mandata in collegio a Firenze per sfuggire alla Grande Guerra. Umberto andò a visitarla a Bruxelles nel ’22 e la rivide tre anni dopo nel castello di Racconigi, al matrimonio della sorella Mafalda con Filippo d’Assia. Nel gennaio 1930 Maria José indossò ancora lo stesso bandeau alla vigilia del matrimonio in Vaticano, per trattenere il lungo velo nero al cospetto di papa Pio XI.
L’altro collegamento con Napoleone è il preziosissimo diadema in oro e argento nel quale, alla fine dell’Ottocento, il leggendario gioielliere August Holmström della casa russa Fabergé montò dei diamanti. Questi erano stati regalati all’inizio del secolo dallo zar Alessandro I di Russia all’imperatrice Josephine, quando andò a visitarla a Parigi dopo il divorzio da Napoleone. Eugenio di Beauharnais, figlio di primo letto di Josephine, sposò poi la figlia del re di Baviera, e i diamanti tornarono infine in Russia dopo il matrimonio di un loro figlio con la granduchessa Maria Nicolaevna, primogenita dello zar Nicola. Dopo la Prima guerra mondiale il re del Belgio Alberto, padre di Maria José, acquistò il diadema in Svizzera.
«Ma nessuno lo ha mai indossato», ci dice Stefano Papi, uno dei massimi storici internazionali del gioiello, autore con Maria Gabriella del libro Gioielli di Casa Savoia (Electa, 2002), e che domenica 10 giugno terrà una conferenza sull’argomento da Christie’s a Londra. Dopo la morte di re Alberto nel ’34, il diadema finì al principe Carlo Teodoro di Fiandra, fratello di Maria José, la quale lo ha a sua volta ereditato.
Secoli di storia d’Europa, insomma, sono incastonati in questi gioielli oltre alle perle multicolori e ai diamanti. La «regina di Maggio» Maria José, antifascista, era una donna sportiva che non dava molta importanza a moda e monili. «Ma fra tutte le regine d’Italia è stata di gran lunga la più bella», afferma Michele di Grecia, «per cui anche se l’eleganza era l’ultima delle sue preoccupazioni, nelle foto appare sempre vestita in modo impeccabile. Soprattutto, indossa splendidi gioielli che non reggerebbero il confronto con qualsiasi altra donna di prestigio, ma che su di lei appaiono quasi ninnoli fra i più naturali».
Chi riuscirà allora ad aggiudicarsi la borsetta dorata, con perle e diamanti, che la gioielleria Musy di Torino creò nel 1900 per la regina Margherita di Savoia? Rimasta vedova di re Umberto I, la nonna di Umberto II sapeva che il nipote si era innamorato di una principessa belga con un nome dalla sua stessa iniziale. Così, prima di morire nel ’26, la lasciò a Umberto. E lui poté regalare quella borsetta alla propria fidanzata Maria José.
Mauro Suttora
Wednesday, May 23, 2007
Il nuovo sacco di Roma
Il centro della capitale soffocato dalle sedi dei politici
Venticinque anni fa il Senato aveva tre palazzi. Oggi ne occupa ben 13. Se si aggiungono quelli di Camera e presidenza del Consiglio si arriva a 46 edifici. E non è ancora finita. Ma ora la città si ribella, dicendo il primo «no»
di Mauro Suttora
Oggi, 23 maggio 2007
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è un palazzo di largo Toniolo, nel centro di Roma: il 4 maggio il Primo municipio della capitale ha negato all’unanimità il cambio di destinazione, da abitazioni a uffici, chiesto dal Senato. Non era mai successo che un ente pubblico si opponesse così platealmente alla seconda istituzione dello Stato. Ora la patata bollente finirà nelle mani del sindaco Walter Veltroni, ma questo clamoroso conflitto segna la fine di un’epoca.
Nel 1980 il Senato aveva tre palazzi (Madama, Giustiniani e Carpegna). Oggi ne ha tredici, tutti in centro, e vorrebbe ancora espandersi, espellendo famiglie (sono 11 solo in largo Toniolo) dalle loro case in affitto a prezzi popolari.
È solo l’ultimo capitolo di una «Sprecopoli» che coinvolge non solo il Senato, ma tutte le istituzioni italiane: Camera, presidenza della Repubblica, ministeri.
«Negli ultimi 20 anni i politici hanno fatto quel che hanno voluto», spiega Mario Staderini, il consigliere municipale radicale artefice della bocciatura, «occupando a man bassa palazzi e comprandoli col denaro dei contribuenti. Ventun milioni di euro è costato il palazzo di largo Toniolo assieme a quello di largo Chiavari, acquistati dal Senato tre anni fa. È ora di finirla: oggi, fra Parlamento e presidenza del Consiglio, sono 46 i palazzi del centro dai quali sono stati espulsi i residenti per far spazio ai politici. È un’invasione che sta stravolgendo Roma. L’esatto contrario di quello che si dovrebbe fare: decentrare gli uffici pubblici per decongestionare il centro».
Il numero dei parlamentari non è certo aumentato dall’inizio della Repubblica. Se l’Italia avesse, in proporzione ai nostri quasi 60 milioni di abitanti, la stessa quantità di senatori degli Stati Uniti (che ne hanno cento, su una popolazione di quasi 300 milioni), i seggi di palazzo Madama dovrebbero ridursi da 320 a... 20.
Invece, il sovraffollamento di politici si è tradotto in un vero e proprio «sacco» immobiliare: «Camera e Senato nel 1948 occupavano quattro edifici. Oggi ne hanno una trentina, più i sedici della presidenza del Consiglio», denunciano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, autori di La Casta: così i politici italiani sono diventati intoccabili (Rizzoli), il nuovo libro che racconta gli sprechi della nomenklatura nostrana.
Sessant’anni fa Giulio Andreotti era già sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma il governo non aveva neppure una casa tutta sua: «Quanti edifici avevamo? Fatemi pensare...», riflette il senatore a vita. «Neanche uno, perché a palazzo Chigi stava il ministero degli Esteri, e noi dividevamo il Viminale con gli Interni».
Altri tempi. «Oggi le persone che vivono di politica in Italia, stipendiati come parlamentari, eletti negli enti locali o consulenti, sono un esercito di 427 mila persone», hanno calcolato i senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, usciti dai Ds, nel libro Il costo della democrazia (Mondadori). Costo annuo totale: quattro miliardi di euro.
La pressione maggiore di questa nuova casta si esercita sulla capitale. «Che è soffocata dal traffico provocato dalle auto blu dei politici e delle loro scorte, spesso tanto inutili quanto arroganti, dall’aumento dei prezzi delle abitazioni ormai inavvicinabili in centro, provocato dall’ondata di acquisti da parte di enti pubblici, e quindi dal trasferimento forzoso dei suoi abitanti. Ormai parecchie vie sono frequentate soltanto da turisti e dai politici con i loro portaborse», spiega Staderini.
E pensare che negli anni Ottanta, proprio per evitare svuotamento e «museificazione» del centro di Roma, si era progettato lo Sdo (Sistema direzionale orientale), per spostare ministeri e istituzioni in periferia e alleggerire il traffico verso il centro. Da allora il Comune ha trasferito alcuni uffici all’Ostiense. Per il resto, zero. Anzi, l’espansione del «pubblico» è aumentata.
Con la scusa di sistemare i ministeri «senza portafoglio» in continuo aumento, la presidenza del Consiglio si è scatenata negli acquisti. Nel 2002 ha comprato un pezzo di galleria Colonna, nella piazza omonima: 34 milioni di euro più 7 per ristrutturarla. L’anno dopo altri 41 milioni per un palazzo in via della Mercede. Totale dal 2001 al 2005: 156 milioni di euro.
A piazza San Silvestro accade di peggio: la Camera sta spendendo 650 milioni di euro nell’affitto per 18 anni di quattro palazzi dall’immobiliarista Sergio Scarpellini. Il quale affitta pure al Senato (l’ex albergo Bologna per 3 milioni annui), mentre due milioni e mezzo li ricava dalla gestione di buvette e ristoranti sulla terrazza del palazzo San Macuto (Camera) e del Quirinale.
È un’elefantiasi di cui però soffre tutta la nostra politica, dal Capo dello Stato giù fino ai consiglieri comunali (119 mila) e di quartiere (12 mila). I quali fino a dieci anni fa ricevevano solo pochi gettoni di presenza per poche decine di migliaia di lire, mentre oggi incassano tutti uno stipendio fisso di almeno mille euro al mese.
Insomma, il «povero» Senato si trova in ottima e abbondante compagnia quanto a sprechi. Tanto più gravi se si ricorda che l’Italia ha un debito pubblico astronomico, il più alto d’Europa: oltre 1.500 miliardi di euro.
«Invece di risparmiare si aumentano spazi, posti, spese», dice Staderini. «Ogni parlamentare oggi ha a disposizione in media 80 metri quadri per l’ufficio personale. Non bastano? Ma cadono in fallo anche i più virtuosi. Il ministro dell’Economia Tomaso Padoa-Schioppa, per esempio, ora vuole un nuovo palazzo per il suo ministero. Decentrato? No, in pieno centro: via Sicilia, angolo via Veneto. E al Consiglio superiore della magistratura, abbiamo bocciato l’innalzamento del palazzo di piazza Indipendenza. Dicono che vogliono ricavarci “foresterie”. Ma per chi?».
Commenta il senatore Cesare Salvi: «Dodici anni dopo Mani pulite si riparla di questione morale e di costi eccessivi della politica. Ma la nuova questione morale oggi non si traduce più in violazione del Codice penale. Si trova piuttosto nella moltiplicazione degli incarichi e dei posti, nella lottizzazione a tutti i livelli, nei rapporti impropri fra politica e società civile. E proprio per queste sue caratteristiche è perfino più pericolosa». E quindi? «Serve una riforma radicale della gestione della cosa pubblica. La attendiamo invano dai tempi di Tangentopoli».
Mauro Suttora
Venticinque anni fa il Senato aveva tre palazzi. Oggi ne occupa ben 13. Se si aggiungono quelli di Camera e presidenza del Consiglio si arriva a 46 edifici. E non è ancora finita. Ma ora la città si ribella, dicendo il primo «no»
di Mauro Suttora
Oggi, 23 maggio 2007
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è un palazzo di largo Toniolo, nel centro di Roma: il 4 maggio il Primo municipio della capitale ha negato all’unanimità il cambio di destinazione, da abitazioni a uffici, chiesto dal Senato. Non era mai successo che un ente pubblico si opponesse così platealmente alla seconda istituzione dello Stato. Ora la patata bollente finirà nelle mani del sindaco Walter Veltroni, ma questo clamoroso conflitto segna la fine di un’epoca.
Nel 1980 il Senato aveva tre palazzi (Madama, Giustiniani e Carpegna). Oggi ne ha tredici, tutti in centro, e vorrebbe ancora espandersi, espellendo famiglie (sono 11 solo in largo Toniolo) dalle loro case in affitto a prezzi popolari.
È solo l’ultimo capitolo di una «Sprecopoli» che coinvolge non solo il Senato, ma tutte le istituzioni italiane: Camera, presidenza della Repubblica, ministeri.
«Negli ultimi 20 anni i politici hanno fatto quel che hanno voluto», spiega Mario Staderini, il consigliere municipale radicale artefice della bocciatura, «occupando a man bassa palazzi e comprandoli col denaro dei contribuenti. Ventun milioni di euro è costato il palazzo di largo Toniolo assieme a quello di largo Chiavari, acquistati dal Senato tre anni fa. È ora di finirla: oggi, fra Parlamento e presidenza del Consiglio, sono 46 i palazzi del centro dai quali sono stati espulsi i residenti per far spazio ai politici. È un’invasione che sta stravolgendo Roma. L’esatto contrario di quello che si dovrebbe fare: decentrare gli uffici pubblici per decongestionare il centro».
Il numero dei parlamentari non è certo aumentato dall’inizio della Repubblica. Se l’Italia avesse, in proporzione ai nostri quasi 60 milioni di abitanti, la stessa quantità di senatori degli Stati Uniti (che ne hanno cento, su una popolazione di quasi 300 milioni), i seggi di palazzo Madama dovrebbero ridursi da 320 a... 20.
Invece, il sovraffollamento di politici si è tradotto in un vero e proprio «sacco» immobiliare: «Camera e Senato nel 1948 occupavano quattro edifici. Oggi ne hanno una trentina, più i sedici della presidenza del Consiglio», denunciano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, autori di La Casta: così i politici italiani sono diventati intoccabili (Rizzoli), il nuovo libro che racconta gli sprechi della nomenklatura nostrana.
Sessant’anni fa Giulio Andreotti era già sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma il governo non aveva neppure una casa tutta sua: «Quanti edifici avevamo? Fatemi pensare...», riflette il senatore a vita. «Neanche uno, perché a palazzo Chigi stava il ministero degli Esteri, e noi dividevamo il Viminale con gli Interni».
Altri tempi. «Oggi le persone che vivono di politica in Italia, stipendiati come parlamentari, eletti negli enti locali o consulenti, sono un esercito di 427 mila persone», hanno calcolato i senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, usciti dai Ds, nel libro Il costo della democrazia (Mondadori). Costo annuo totale: quattro miliardi di euro.
La pressione maggiore di questa nuova casta si esercita sulla capitale. «Che è soffocata dal traffico provocato dalle auto blu dei politici e delle loro scorte, spesso tanto inutili quanto arroganti, dall’aumento dei prezzi delle abitazioni ormai inavvicinabili in centro, provocato dall’ondata di acquisti da parte di enti pubblici, e quindi dal trasferimento forzoso dei suoi abitanti. Ormai parecchie vie sono frequentate soltanto da turisti e dai politici con i loro portaborse», spiega Staderini.
E pensare che negli anni Ottanta, proprio per evitare svuotamento e «museificazione» del centro di Roma, si era progettato lo Sdo (Sistema direzionale orientale), per spostare ministeri e istituzioni in periferia e alleggerire il traffico verso il centro. Da allora il Comune ha trasferito alcuni uffici all’Ostiense. Per il resto, zero. Anzi, l’espansione del «pubblico» è aumentata.
Con la scusa di sistemare i ministeri «senza portafoglio» in continuo aumento, la presidenza del Consiglio si è scatenata negli acquisti. Nel 2002 ha comprato un pezzo di galleria Colonna, nella piazza omonima: 34 milioni di euro più 7 per ristrutturarla. L’anno dopo altri 41 milioni per un palazzo in via della Mercede. Totale dal 2001 al 2005: 156 milioni di euro.
A piazza San Silvestro accade di peggio: la Camera sta spendendo 650 milioni di euro nell’affitto per 18 anni di quattro palazzi dall’immobiliarista Sergio Scarpellini. Il quale affitta pure al Senato (l’ex albergo Bologna per 3 milioni annui), mentre due milioni e mezzo li ricava dalla gestione di buvette e ristoranti sulla terrazza del palazzo San Macuto (Camera) e del Quirinale.
È un’elefantiasi di cui però soffre tutta la nostra politica, dal Capo dello Stato giù fino ai consiglieri comunali (119 mila) e di quartiere (12 mila). I quali fino a dieci anni fa ricevevano solo pochi gettoni di presenza per poche decine di migliaia di lire, mentre oggi incassano tutti uno stipendio fisso di almeno mille euro al mese.
Insomma, il «povero» Senato si trova in ottima e abbondante compagnia quanto a sprechi. Tanto più gravi se si ricorda che l’Italia ha un debito pubblico astronomico, il più alto d’Europa: oltre 1.500 miliardi di euro.
«Invece di risparmiare si aumentano spazi, posti, spese», dice Staderini. «Ogni parlamentare oggi ha a disposizione in media 80 metri quadri per l’ufficio personale. Non bastano? Ma cadono in fallo anche i più virtuosi. Il ministro dell’Economia Tomaso Padoa-Schioppa, per esempio, ora vuole un nuovo palazzo per il suo ministero. Decentrato? No, in pieno centro: via Sicilia, angolo via Veneto. E al Consiglio superiore della magistratura, abbiamo bocciato l’innalzamento del palazzo di piazza Indipendenza. Dicono che vogliono ricavarci “foresterie”. Ma per chi?».
Commenta il senatore Cesare Salvi: «Dodici anni dopo Mani pulite si riparla di questione morale e di costi eccessivi della politica. Ma la nuova questione morale oggi non si traduce più in violazione del Codice penale. Si trova piuttosto nella moltiplicazione degli incarichi e dei posti, nella lottizzazione a tutti i livelli, nei rapporti impropri fra politica e società civile. E proprio per queste sue caratteristiche è perfino più pericolosa». E quindi? «Serve una riforma radicale della gestione della cosa pubblica. La attendiamo invano dai tempi di Tangentopoli».
Mauro Suttora
Thursday, May 10, 2007
intervista a Dario Fo
Il premio Nobel per il Coraggio Laico
Oggi, 10 maggio 2007
«La famiglia cosiddetta “naturale”? E quale? Quella della Bibbia, in cui era normale ammazzare la moglie di un altro per impossessarsene, come fece Davide con Betsabea? Quella in cui la donna viene considerata solo un’appendice dell’uomo, fin dalla costola di Adamo, ed è tuttora tenuta in soggezione? La famiglia “naturale” non esiste più, ma è una fortuna».
Il premio Nobel Dario Fo, 81 anni, attacca la Chiesa sui Dico. Sta dalla parte dei laici che nello stesso giorno della manifestazione dei cattolici in piazza San Giovanni a Roma, il 12 maggio, si radunano in piazza Navona per contrapporsi a quella che definiscono «un’offensiva clericale».
«La famiglia tradizionale è in crisi: diminuiscono i matrimoni religiosi, crescono quelli civili e le coppie di fatto. Negli ultimi dieci anni i nati fuori dal matrimonio sono aumentati del 70 per cento. I giovani si sposano sempre più tardi, fanno meno figli. Ma è assurdo dare la colpa di questo sfacelo ai matrimoni non benedetti, ai Dico o alle coppie di fatto. I nostri ragazzi non possono formare una propria famiglia perché le case costano troppo, perché non trovano un lavoro stabile e non hanno prospettive positive. Sbagliano anche i politici quando sollecitano incentivi, premi e contentini per chi fa figli: si preoccupino piuttosto di creare più lavoro e asili nido. Oggi le madri dopo il primo figlio sono costrette a smettere di lavorare, oppure a mendicare un lavoro part-time, perché il reddito diminuisce drasticamente».
Su questo sono d’accordo anche i vescovi.
«Ma sono loro i primi a tenere le donne in una posizione d’inferiorità. Nella Chiesa le donne possono solo obbedire. Contrariamente alla Chiesa dei primi tempi, che prevedeva la figura delle “oranti”, vere e proprie sacerdotesse. Oggi anche dentro alla famiglia sono le donne a sostenere maggiormente il peso del lavoro domestico: il 70 per cento viene fatto da loro. È per questo che fanno meno figli. Per non parlare della violenza subìta in ambito familiare da una donna su dieci. Ma le gerarchie cattoliche, che si ritrovano con chiese e seminari sempre più vuoti, hanno paura di perdere il controllo e se la prendono invece con i gay, con le coppie di fatto, con i Dico».
Perché toni così aspri?
«I vescovi hanno perso il senso del sorriso. I grandi santi erano pieni di ironia e di gioco, Francesco si autodefiniva “giullare di Dio”. Oggi invece le gerarchie ecclesiastiche appaiono sempre imbronciate, pronte a condannare, anacronistiche. E i più in pericolo sono proprio quei tanti cattolici imbarazzati, a disagio di fronte alla prospettiva tetra che viene loro imposta. Il Vaticano è arrivato a dare del terrorista a un comico che oltretutto è un cattolico: da quelle parti devono avere smarrito il senso della misura e della dialettica».
Mauro Suttora
Oggi, 10 maggio 2007
«La famiglia cosiddetta “naturale”? E quale? Quella della Bibbia, in cui era normale ammazzare la moglie di un altro per impossessarsene, come fece Davide con Betsabea? Quella in cui la donna viene considerata solo un’appendice dell’uomo, fin dalla costola di Adamo, ed è tuttora tenuta in soggezione? La famiglia “naturale” non esiste più, ma è una fortuna».
Il premio Nobel Dario Fo, 81 anni, attacca la Chiesa sui Dico. Sta dalla parte dei laici che nello stesso giorno della manifestazione dei cattolici in piazza San Giovanni a Roma, il 12 maggio, si radunano in piazza Navona per contrapporsi a quella che definiscono «un’offensiva clericale».
«La famiglia tradizionale è in crisi: diminuiscono i matrimoni religiosi, crescono quelli civili e le coppie di fatto. Negli ultimi dieci anni i nati fuori dal matrimonio sono aumentati del 70 per cento. I giovani si sposano sempre più tardi, fanno meno figli. Ma è assurdo dare la colpa di questo sfacelo ai matrimoni non benedetti, ai Dico o alle coppie di fatto. I nostri ragazzi non possono formare una propria famiglia perché le case costano troppo, perché non trovano un lavoro stabile e non hanno prospettive positive. Sbagliano anche i politici quando sollecitano incentivi, premi e contentini per chi fa figli: si preoccupino piuttosto di creare più lavoro e asili nido. Oggi le madri dopo il primo figlio sono costrette a smettere di lavorare, oppure a mendicare un lavoro part-time, perché il reddito diminuisce drasticamente».
Su questo sono d’accordo anche i vescovi.
«Ma sono loro i primi a tenere le donne in una posizione d’inferiorità. Nella Chiesa le donne possono solo obbedire. Contrariamente alla Chiesa dei primi tempi, che prevedeva la figura delle “oranti”, vere e proprie sacerdotesse. Oggi anche dentro alla famiglia sono le donne a sostenere maggiormente il peso del lavoro domestico: il 70 per cento viene fatto da loro. È per questo che fanno meno figli. Per non parlare della violenza subìta in ambito familiare da una donna su dieci. Ma le gerarchie cattoliche, che si ritrovano con chiese e seminari sempre più vuoti, hanno paura di perdere il controllo e se la prendono invece con i gay, con le coppie di fatto, con i Dico».
Perché toni così aspri?
«I vescovi hanno perso il senso del sorriso. I grandi santi erano pieni di ironia e di gioco, Francesco si autodefiniva “giullare di Dio”. Oggi invece le gerarchie ecclesiastiche appaiono sempre imbronciate, pronte a condannare, anacronistiche. E i più in pericolo sono proprio quei tanti cattolici imbarazzati, a disagio di fronte alla prospettiva tetra che viene loro imposta. Il Vaticano è arrivato a dare del terrorista a un comico che oltretutto è un cattolico: da quelle parti devono avere smarrito il senso della misura e della dialettica».
Mauro Suttora
Family Day: parla Pezzotta
Oggi, 10 maggio 2007
Pezzotta, ma chi gliel’ha fatto fare?
«Di fare il portavoce del Family Day?»
Sì.
«La famiglia è un valore in cui credo. Un mese fa le associazione organizzatrici della manifestazione di sabato 12 maggio mi hanno chiesto di coprire questo ruolo, e io sono stato ben felice di accettare».
Ma se l’immaginava di finire al centro di tutte queste polemiche?
«Nella vita non si possono fare solo cose comode. Alcune scelte bisogna farle perché ci si crede».
La vita di Savino Pezzotta, 63 anni, non è stata mai comoda. Nato il giorno di Natale ’43 nel paesino di Scanzorosciate (Bergamo), in piena occupazione nazista, a dodici anni ha dovuto lasciare la scuola per andare a lavorare come operaio. Nel ’68 si è sudato la licenza media studiando la sera. Trent’anni fa si è sposato (due figli), vent’anni fa è passato dalla guida dei tessili bergamaschi alla segreteria della Cisl (il sindacato cattolico) provinciale, infine ha guidato la Cisl nazionale dal 2000 all’anno scorso.
E ora, ecco il gioviale ed ecumenico Savino diventare il volto pubblico di una delle manifestazioni più controverse degli ultimi decenni: quella per la famiglia e contro i Dico (la legge sui «diritti di convivenza»), indetta dalle associazioni cattoliche e sostenuta dalla Cei esattamente 33 anni (l’età di Cristo) dopo il referendum sul divorzio del 1974, che vide la sconfitta dei cattolici. Sarà una rivincita?
Pezzotta, che ci fa un cristiano impegnato nel sociale come lei, giovanneo-montiniano anche per ragioni geografiche, alla testa di un’adunata accusata di posizioni vandeane?
«Guardi, le associazioni che organizzano il Family Day sono sì di ispirazione cristiana, ma laiche. E poi io non vedo una discontinuità fra i due papi Giovanni e Paolo VI e i loro successori, Wojtyla e Ratzinger».
Però che l’Osservatore Romano dia del terrorista a un comico che attacca la Chiesa non era mai successo.
«Se si partecipa a una festa del Primo Maggio, per l’unità dei lavoratori, bisogna ricordarsi che fra i lavoratori ce ne sono di diverso orientamento politico, culturale e anche religioso. Quel signore, quindi, ha mancato di rispetto non solo a chi l’ha invitato e alla Chiesa, ma anche a milioni di lavoratori cristiani, che si sono sentiti offesi».
Sì, ma «terrorista»...
«Beh, non è che si puo sempre parlare e straparlare impunemente».
Ma lei la prevedeva un mese fa questa bufera?
«Certo, siamo abituati da sempre a dividerci in guelfi e ghibellini... Ma si tratta solo di polemiche sovrastrutturali. Andiamo al merito: crediamo o no nella famiglia come viene definita nella nostra Costituzione repubblicana, e cioè “società naturale fondata sul matrimonio”? E allora che bisogno c’è di equipararla alle coppie di fatto?»
Per dare a tutti i conviventi, anche dello stesso sesso, uguali diritti.
«Ma questo si può fare già oggi, con le leggi vigenti. Noi diciamo sì a tutti i bisogni delle persone conviventi. Per quanto riguarda le eredità e i diritti di successione, per esempio, basta il codice civile. Le visite negli ospedali le devono poter fare anche i conviventi. Tutte le questioni concrete sono risolvibili, una per una, quindi non capisco l’animosità contro le nostre posizioni: noi non siamo contro le coppie conviventi, ma per la famiglia. Il tema delle convivenze lo si può affrontare in modo rispettoso delle condizioni di vita e dei diritti individuali delle persone».
Non potremmo allora adottare una legge che, rispetto agli estremi del matrimonio gay ammesso dalla cattolicissima Spagna o dei Pacs francesi, si situi a metà strada?
«Se si fa la media si arriva al pollo di Trilussa. Non si può seguire la Costituzione un giorno sì e uno no. Non si può svilire l’istituto del matrimonio. L’orientamento che emerge dai Dico è che “tutto fa famiglia”, tutto è uguale. Che ogni desiderio individuale diventa valore e norma. Lasciamo da parte i valori religiosi e restiamo al punto di vista sociale, politico: è questo il modello culturale che vogliamo per la nostra società? Io no, non mi piace: indebolire la famiglia naturale porta solo danni».
Ma la legge sui Dico è già stata approvata dal governo, dentro al quale sono numerosi i cattolici di sinistra. Perché non accettate questo compromesso?
«Non è un dramma se anche fra cristiani non si è sempre d’accordo su tutto. Sottosegretari e viceministri di questo governo hanno partecipato a cortei antigovernativi. Molti di noi hanno manifestato contro la guerra in Iraq: anche allora siamo andati in piazza, e continueremo a farlo quando in campo ci sono questioni decisive per la società».
Dica la verità: siete contro i Dico perché riconoscono le coppie gay?
«Al contrario: si discriminano i gay proprio riducendoli a categoria. Noi invece proponiamo di trattarli come tutti gli altri: persone liberissime di convivere, senza mascheramenti di nozze civili».
In Messico la Chiesa ha appena scomunicato i deputati cattolici che hanno votato una legge sull’aborto. Finirà così anche in Italia?
«Qui nessuno scomunicherà nessuno, ogni Chiesa decide in autonomia. Però mi sembra corretto il richiamo dei vescovi a comportarsi da cattolici. Non posso non tener conto che il Papa ha definito vita e famiglia valori “non negoziabili” Se sto dentro la Chiesa, significa che sono in comunione con i vescovi e il Papa. Posso non essere d’accordo su qualcosa e posso esercitare anche la “correzione fraterna” nei confronti degli stessi vescovi, se penso che in qualche maniera stiano sbagliando... Il credente non è affatto subordinato. È in comunione, in relazione. Può anche agire difformemente al magistero: cosciente però di sottoporre a tensione la comunione della Chiesa. Quando faccio il sindacalista non mi tolgo la giacca di cattolico per indossare quella da laico. Quella cattolica è un’identità pre-formativa, dalla quale non si può prescindere».
Ma chiedendo leggi che ricalcano i precetti cattolici, non si viola la separazione laica fra Stato e Chiesa?
«Non imponiamo a nessuno il matrimonio religioso, ed è evidente che le leggi dello Stato verranno decise dalla maggioranza. Noi ci limitiamo a far sentire la nostra voce. La disponibilità a confrontarci con altre culture e pensieri è nella natura stessa della nostra cattolicità».
E mentre si litiga sui Dico, le famiglie vanno a rotoli: non si fanno più figli perché costano troppo.
«Ecco, sono questi i problemi veri. Se non si dà valore alla famiglia, non si fa nulla per proteggerla con politiche economiche e sociali. E allora, c’era veramente bisogno di tirar fuori i Dico come una priorità? Si è imposto il tema al Paese, si è fatto diventare centrale un problema che non lo è».
Mauro Suttora
Pezzotta, ma chi gliel’ha fatto fare?
«Di fare il portavoce del Family Day?»
Sì.
«La famiglia è un valore in cui credo. Un mese fa le associazione organizzatrici della manifestazione di sabato 12 maggio mi hanno chiesto di coprire questo ruolo, e io sono stato ben felice di accettare».
Ma se l’immaginava di finire al centro di tutte queste polemiche?
«Nella vita non si possono fare solo cose comode. Alcune scelte bisogna farle perché ci si crede».
La vita di Savino Pezzotta, 63 anni, non è stata mai comoda. Nato il giorno di Natale ’43 nel paesino di Scanzorosciate (Bergamo), in piena occupazione nazista, a dodici anni ha dovuto lasciare la scuola per andare a lavorare come operaio. Nel ’68 si è sudato la licenza media studiando la sera. Trent’anni fa si è sposato (due figli), vent’anni fa è passato dalla guida dei tessili bergamaschi alla segreteria della Cisl (il sindacato cattolico) provinciale, infine ha guidato la Cisl nazionale dal 2000 all’anno scorso.
E ora, ecco il gioviale ed ecumenico Savino diventare il volto pubblico di una delle manifestazioni più controverse degli ultimi decenni: quella per la famiglia e contro i Dico (la legge sui «diritti di convivenza»), indetta dalle associazioni cattoliche e sostenuta dalla Cei esattamente 33 anni (l’età di Cristo) dopo il referendum sul divorzio del 1974, che vide la sconfitta dei cattolici. Sarà una rivincita?
Pezzotta, che ci fa un cristiano impegnato nel sociale come lei, giovanneo-montiniano anche per ragioni geografiche, alla testa di un’adunata accusata di posizioni vandeane?
«Guardi, le associazioni che organizzano il Family Day sono sì di ispirazione cristiana, ma laiche. E poi io non vedo una discontinuità fra i due papi Giovanni e Paolo VI e i loro successori, Wojtyla e Ratzinger».
Però che l’Osservatore Romano dia del terrorista a un comico che attacca la Chiesa non era mai successo.
«Se si partecipa a una festa del Primo Maggio, per l’unità dei lavoratori, bisogna ricordarsi che fra i lavoratori ce ne sono di diverso orientamento politico, culturale e anche religioso. Quel signore, quindi, ha mancato di rispetto non solo a chi l’ha invitato e alla Chiesa, ma anche a milioni di lavoratori cristiani, che si sono sentiti offesi».
Sì, ma «terrorista»...
«Beh, non è che si puo sempre parlare e straparlare impunemente».
Ma lei la prevedeva un mese fa questa bufera?
«Certo, siamo abituati da sempre a dividerci in guelfi e ghibellini... Ma si tratta solo di polemiche sovrastrutturali. Andiamo al merito: crediamo o no nella famiglia come viene definita nella nostra Costituzione repubblicana, e cioè “società naturale fondata sul matrimonio”? E allora che bisogno c’è di equipararla alle coppie di fatto?»
Per dare a tutti i conviventi, anche dello stesso sesso, uguali diritti.
«Ma questo si può fare già oggi, con le leggi vigenti. Noi diciamo sì a tutti i bisogni delle persone conviventi. Per quanto riguarda le eredità e i diritti di successione, per esempio, basta il codice civile. Le visite negli ospedali le devono poter fare anche i conviventi. Tutte le questioni concrete sono risolvibili, una per una, quindi non capisco l’animosità contro le nostre posizioni: noi non siamo contro le coppie conviventi, ma per la famiglia. Il tema delle convivenze lo si può affrontare in modo rispettoso delle condizioni di vita e dei diritti individuali delle persone».
Non potremmo allora adottare una legge che, rispetto agli estremi del matrimonio gay ammesso dalla cattolicissima Spagna o dei Pacs francesi, si situi a metà strada?
«Se si fa la media si arriva al pollo di Trilussa. Non si può seguire la Costituzione un giorno sì e uno no. Non si può svilire l’istituto del matrimonio. L’orientamento che emerge dai Dico è che “tutto fa famiglia”, tutto è uguale. Che ogni desiderio individuale diventa valore e norma. Lasciamo da parte i valori religiosi e restiamo al punto di vista sociale, politico: è questo il modello culturale che vogliamo per la nostra società? Io no, non mi piace: indebolire la famiglia naturale porta solo danni».
Ma la legge sui Dico è già stata approvata dal governo, dentro al quale sono numerosi i cattolici di sinistra. Perché non accettate questo compromesso?
«Non è un dramma se anche fra cristiani non si è sempre d’accordo su tutto. Sottosegretari e viceministri di questo governo hanno partecipato a cortei antigovernativi. Molti di noi hanno manifestato contro la guerra in Iraq: anche allora siamo andati in piazza, e continueremo a farlo quando in campo ci sono questioni decisive per la società».
Dica la verità: siete contro i Dico perché riconoscono le coppie gay?
«Al contrario: si discriminano i gay proprio riducendoli a categoria. Noi invece proponiamo di trattarli come tutti gli altri: persone liberissime di convivere, senza mascheramenti di nozze civili».
In Messico la Chiesa ha appena scomunicato i deputati cattolici che hanno votato una legge sull’aborto. Finirà così anche in Italia?
«Qui nessuno scomunicherà nessuno, ogni Chiesa decide in autonomia. Però mi sembra corretto il richiamo dei vescovi a comportarsi da cattolici. Non posso non tener conto che il Papa ha definito vita e famiglia valori “non negoziabili” Se sto dentro la Chiesa, significa che sono in comunione con i vescovi e il Papa. Posso non essere d’accordo su qualcosa e posso esercitare anche la “correzione fraterna” nei confronti degli stessi vescovi, se penso che in qualche maniera stiano sbagliando... Il credente non è affatto subordinato. È in comunione, in relazione. Può anche agire difformemente al magistero: cosciente però di sottoporre a tensione la comunione della Chiesa. Quando faccio il sindacalista non mi tolgo la giacca di cattolico per indossare quella da laico. Quella cattolica è un’identità pre-formativa, dalla quale non si può prescindere».
Ma chiedendo leggi che ricalcano i precetti cattolici, non si viola la separazione laica fra Stato e Chiesa?
«Non imponiamo a nessuno il matrimonio religioso, ed è evidente che le leggi dello Stato verranno decise dalla maggioranza. Noi ci limitiamo a far sentire la nostra voce. La disponibilità a confrontarci con altre culture e pensieri è nella natura stessa della nostra cattolicità».
E mentre si litiga sui Dico, le famiglie vanno a rotoli: non si fanno più figli perché costano troppo.
«Ecco, sono questi i problemi veri. Se non si dà valore alla famiglia, non si fa nulla per proteggerla con politiche economiche e sociali. E allora, c’era veramente bisogno di tirar fuori i Dico come una priorità? Si è imposto il tema al Paese, si è fatto diventare centrale un problema che non lo è».
Mauro Suttora
Wednesday, May 09, 2007
Le stelle del Piper
La rivoluzione pop degli Anni 60 in un film dei Vanzina su Canale 5
"Aprii il locale per portare in Italia il rock dei Beatles, e fu subito un successo", racconta Giancarlo Bornigia, proprietario del club da 42 anni. "Da Patty Pravo ai Pink Floyd, ci sono passati tutti. Compreso un misterioso Clint Eastwood..."
di Mauro Suttora - Oggi, 9 maggio 2007
Roma. "Per un paio di mesi, dopo l' apertura, ogni sera arrivava un americano vestito da cowboy. Si aggirava silenzioso per il locale, e poi si sedeva in un angolo. Dopo un po' scoprimmo come si chiamava: Clint Eastwood. Stava girando un film di Sergio Leone a Cinecittà". Memorie di Giancarlo Bornigia, 76 anni, fondatore del Piper, lo storico locale notturno romano ora immortalato in un film tv di Carlo Vanzina con Martina Stella, Massimo Ghini, Anna Falchi e Carol Alt: "Era il 1964", ricorda Bornigia. "A Londra era scoppiato il fenomeno dei Beatles. Io e il mio socio, l' avvocato Alberico Crocetta, rilevammo un cinema di via Tagliamento e lo arredammo in stile pop, con quadri di Andy Warhol, Rauschenberg e Schifano. Installammo le prime luci stroboscopiche, con colori psichedelici. E nel febbraio ' 65 aprimmo. Fu un successo immediato".
Era iniziata la rivoluzione dei giovani. Che si ribellavano a tutto: alla guerra in Vietnam, ai genitori che li facevano tornare a casa presto la sera, a una società vecchia e ipocrita. Ben prima del ' 68, i ragazzi usarono tre armi per affermarsi: musica, minigonna e capelli lunghi. "Il Piper era diventato il regno dei "capelloni". Arrivavano da tutta Italia, molti minorenni fuggiti da casa venivano presi dalla polizia ai nostri ingressi. Teddy Reno, allora impresario, rimediò in Inghilterra un complesso che assomigliava ai Beatles. Così tutta Roma vide, stupefatta, i poster giganti di quattro giovanotti con capelli a caschetto che invitavano ad andare al Piper: erano i Rokes di Shel Shapiro".
Temendo che la musica "beat" dei Rokes risultasse un po' troppo indigesta venne ingaggiato pure un complessino che faceva "night" al Club 84, incaricandolo di suonare cose nostrane fra un round e l' altro dei "mostri" inglesi. La formazione che doveva fare il "liscio" era l' Equipe 84. Ma anche loro fin dalla prima sera furono letteralmente costretti, dal pubblico assatanato, a suonare lo stesso tipo di musica dei Rokes. "Tutta Roma parlava del Piper, e per vedere i famosi capelloni arrivarono un sacco di curiosi famosi: Gassman, Zeffirelli, Anna Magnani, Alberto Bevilacqua, Nureyev, Monica Vitti, Albertazzi, Ugo Tognazzi, Lina Wertmueller, Nanni Loy".
Si cominciò anche a ballare quella nuova e strana musica: fra le più scatenate c' erano la quattordicenne Romina Power, Gabriella Ferri e Anita Pallemberg, che dopo pochi mesi si sarebbe messa con un Rolling Stone. Era insomma iniziata una nuova Dolce vita, più giovane e meno annoiata di quella del film di Fellini. Anzi, l' entusiasmo era alle stelle. I giovani credevano veramente di poter cambiare il mondo. E il simbolo dell' esplosione gioiosa degli anni Sessanta in Italia furono il Piper di Roma e il Bandiera Gialla di Rimini. "I nostri giovani non erano né di destra né di sinistra: volevano solo più libertà", ricorda Bornigia. E infatti, appena un mese dopo l' apertura arriva la severa condanna di Noi Donne, giornale del Pci: "Dietro l' aspetto della ribellione si nasconde una rivolta prefabbricata".
Intanto emergono due stelle: Caterina Caselli e Patty Pravo. Quest' ultima era una bella "cubista" che si dimenava sul primo cubo (luminoso) installato in una discoteca italiana. Originale e spregiudicata, era il simbolo dell' amore (relativamente) libero di quella generazione, la prima che ebbe a disposizione la pillola anticoncezionale: "Io i ragazzi me li fumo come sigarette", si vantava.
Patty prese il nome d' arte dai provos libertari di Amsterdam. Incise il suo primo disco, Ragazzo Triste, con testo tradotto da Gianni Boncompagni il quale, avendo allora anche velleità canore, utilizzò la base musicale di Patty per incidere la stessa canzone con il nome d' arte di Paolo Paolo. Un altro insospettabile coinvolto nel Piper fu Giuliano Ferrara, che nel ' 67 si esibì nel coro di un musical quasi hippy con canzoni di Bob Dylan: "Cantava benissimo, e ballava pure", assicura Tito Schipa junior, l' organizzatore.
"Gli orari delle discoteche erano diversi da oggi", ricorda Bornigia, "si cominciava a ballare alle dieci e alle due chiudevamo. Ma c' era la fila già alle otto. Al Piper hanno suonato tutti, da Renato Zero a Loredana Bertè, da Mal dei Primitives a Mia Martini e Rocky Roberts. Ma anche chi non salì sul palco, come Battisti, Dalla o Baglioni, veniva ad ascoltare. E poi c' erano i concerti dei gruppi inglesi e americani, dai Who ai Procol Harum, da David Bowie ai Genesis e ai Pink Floyd. La serata più bella fu quella del francese Georges Moustaki, con la sua canzone Faccia da straniero. A quel concerto venne pure Carla Voltolina, la moglie di Sandro Pertini". Bornigia gestisce tuttora assieme ai due figli il Piper, discoteca con serate concerto.
Mauro Suttora
Dai Beatles ai Nirvana passando per Moustaki
Dopo l' apertura nel 1965, ecco alcune date memorabili del Piper Club di Roma.
1966 Patty Pravo e Caterina Caselli simboli del "yeyé".
1967 Procol Harum (Whiter shade of pale) in concerto.
1968 Gli psichedelici Pink Floyd si esibiscono in aprile.
1969 Arriva Georges Moustaki (Lo Straniero). Bornigia: "La serata più bella".
1972 Controcanzonissima: Guccini, Pfm, Orme, New Trolls.
1973 Austerity: obbligo di chiusura entro mezzanotte.
1979 Torna discoteca con la disco music (John Travolta).
1989 Debutto a Roma dei Nirvana di Kurt Cobain.
2005 Festeggia i quarant' anni di attività ininterrotta: record mondiale.
"Aprii il locale per portare in Italia il rock dei Beatles, e fu subito un successo", racconta Giancarlo Bornigia, proprietario del club da 42 anni. "Da Patty Pravo ai Pink Floyd, ci sono passati tutti. Compreso un misterioso Clint Eastwood..."
di Mauro Suttora - Oggi, 9 maggio 2007
Roma. "Per un paio di mesi, dopo l' apertura, ogni sera arrivava un americano vestito da cowboy. Si aggirava silenzioso per il locale, e poi si sedeva in un angolo. Dopo un po' scoprimmo come si chiamava: Clint Eastwood. Stava girando un film di Sergio Leone a Cinecittà". Memorie di Giancarlo Bornigia, 76 anni, fondatore del Piper, lo storico locale notturno romano ora immortalato in un film tv di Carlo Vanzina con Martina Stella, Massimo Ghini, Anna Falchi e Carol Alt: "Era il 1964", ricorda Bornigia. "A Londra era scoppiato il fenomeno dei Beatles. Io e il mio socio, l' avvocato Alberico Crocetta, rilevammo un cinema di via Tagliamento e lo arredammo in stile pop, con quadri di Andy Warhol, Rauschenberg e Schifano. Installammo le prime luci stroboscopiche, con colori psichedelici. E nel febbraio ' 65 aprimmo. Fu un successo immediato".
Era iniziata la rivoluzione dei giovani. Che si ribellavano a tutto: alla guerra in Vietnam, ai genitori che li facevano tornare a casa presto la sera, a una società vecchia e ipocrita. Ben prima del ' 68, i ragazzi usarono tre armi per affermarsi: musica, minigonna e capelli lunghi. "Il Piper era diventato il regno dei "capelloni". Arrivavano da tutta Italia, molti minorenni fuggiti da casa venivano presi dalla polizia ai nostri ingressi. Teddy Reno, allora impresario, rimediò in Inghilterra un complesso che assomigliava ai Beatles. Così tutta Roma vide, stupefatta, i poster giganti di quattro giovanotti con capelli a caschetto che invitavano ad andare al Piper: erano i Rokes di Shel Shapiro".
Temendo che la musica "beat" dei Rokes risultasse un po' troppo indigesta venne ingaggiato pure un complessino che faceva "night" al Club 84, incaricandolo di suonare cose nostrane fra un round e l' altro dei "mostri" inglesi. La formazione che doveva fare il "liscio" era l' Equipe 84. Ma anche loro fin dalla prima sera furono letteralmente costretti, dal pubblico assatanato, a suonare lo stesso tipo di musica dei Rokes. "Tutta Roma parlava del Piper, e per vedere i famosi capelloni arrivarono un sacco di curiosi famosi: Gassman, Zeffirelli, Anna Magnani, Alberto Bevilacqua, Nureyev, Monica Vitti, Albertazzi, Ugo Tognazzi, Lina Wertmueller, Nanni Loy".
Si cominciò anche a ballare quella nuova e strana musica: fra le più scatenate c' erano la quattordicenne Romina Power, Gabriella Ferri e Anita Pallemberg, che dopo pochi mesi si sarebbe messa con un Rolling Stone. Era insomma iniziata una nuova Dolce vita, più giovane e meno annoiata di quella del film di Fellini. Anzi, l' entusiasmo era alle stelle. I giovani credevano veramente di poter cambiare il mondo. E il simbolo dell' esplosione gioiosa degli anni Sessanta in Italia furono il Piper di Roma e il Bandiera Gialla di Rimini. "I nostri giovani non erano né di destra né di sinistra: volevano solo più libertà", ricorda Bornigia. E infatti, appena un mese dopo l' apertura arriva la severa condanna di Noi Donne, giornale del Pci: "Dietro l' aspetto della ribellione si nasconde una rivolta prefabbricata".
Intanto emergono due stelle: Caterina Caselli e Patty Pravo. Quest' ultima era una bella "cubista" che si dimenava sul primo cubo (luminoso) installato in una discoteca italiana. Originale e spregiudicata, era il simbolo dell' amore (relativamente) libero di quella generazione, la prima che ebbe a disposizione la pillola anticoncezionale: "Io i ragazzi me li fumo come sigarette", si vantava.
Patty prese il nome d' arte dai provos libertari di Amsterdam. Incise il suo primo disco, Ragazzo Triste, con testo tradotto da Gianni Boncompagni il quale, avendo allora anche velleità canore, utilizzò la base musicale di Patty per incidere la stessa canzone con il nome d' arte di Paolo Paolo. Un altro insospettabile coinvolto nel Piper fu Giuliano Ferrara, che nel ' 67 si esibì nel coro di un musical quasi hippy con canzoni di Bob Dylan: "Cantava benissimo, e ballava pure", assicura Tito Schipa junior, l' organizzatore.
"Gli orari delle discoteche erano diversi da oggi", ricorda Bornigia, "si cominciava a ballare alle dieci e alle due chiudevamo. Ma c' era la fila già alle otto. Al Piper hanno suonato tutti, da Renato Zero a Loredana Bertè, da Mal dei Primitives a Mia Martini e Rocky Roberts. Ma anche chi non salì sul palco, come Battisti, Dalla o Baglioni, veniva ad ascoltare. E poi c' erano i concerti dei gruppi inglesi e americani, dai Who ai Procol Harum, da David Bowie ai Genesis e ai Pink Floyd. La serata più bella fu quella del francese Georges Moustaki, con la sua canzone Faccia da straniero. A quel concerto venne pure Carla Voltolina, la moglie di Sandro Pertini". Bornigia gestisce tuttora assieme ai due figli il Piper, discoteca con serate concerto.
Mauro Suttora
Dai Beatles ai Nirvana passando per Moustaki
Dopo l' apertura nel 1965, ecco alcune date memorabili del Piper Club di Roma.
1966 Patty Pravo e Caterina Caselli simboli del "yeyé".
1967 Procol Harum (Whiter shade of pale) in concerto.
1968 Gli psichedelici Pink Floyd si esibiscono in aprile.
1969 Arriva Georges Moustaki (Lo Straniero). Bornigia: "La serata più bella".
1972 Controcanzonissima: Guccini, Pfm, Orme, New Trolls.
1973 Austerity: obbligo di chiusura entro mezzanotte.
1979 Torna discoteca con la disco music (John Travolta).
1989 Debutto a Roma dei Nirvana di Kurt Cobain.
2005 Festeggia i quarant' anni di attività ininterrotta: record mondiale.
Friday, April 27, 2007
Foto Berlusconi
COMMENTI DI POLITICI
Oggi, 24 aprile 2007
Daniele Capezzone, deputato radicale:
«Immagino che queste foto procureranno a Berlusconi ulteriori fastidi familiari. Ma alla lunga si riveleranno un successo mediatico, come l’immagine della bandana. L’idea che un signore settantenne si intrattenga con cinque belle ragazze, infatti, piacerà sia ai suoi coetanei, che ai giovani. I quali lo apprezzeranno, o lo invidieranno, checchè ne dicano certi salotti benpensanti».
Nando dalla Chiesa, sottosegretario all’Università e Ricerca (Margherita):
«Queste foto sono di una comicità involontaria ma irresistibile. Ho scritto libri e portato a teatro le gesta di Berlusconi, “eroe di un'Italia vera ma apparentemente inverosimile”. Ma è lui stesso un’inesauribile miniera di gag, che lasciano sempre un passo indietro anche il comico più irriverente e fantasioso. Insomma, la realtà supera la fantasia. Trovo sublime, poi, che una delle ragazze, la rossa mi pare, si autodefinisca “opinionista”, seppure di Buona Domenica...»
Gabriella Carlucci, deputata Forza Italia:
«Sono foto prese di sguincio fra molte altre persone. Non ci vedo niente di male, Berlusconi apre spesso le porte della sua villa a ospiti, anche semplici sostenitori del partito. La scorsa estate invitò tutti noi parlamentari, avrei potuto esserci anch’io in quelle immagini. Per par condicio, però, avrei pubblicato anche le foto di Sircana. Oppure né Sircana, né Berlusconi».
Elisabetta Casellati, vicepresidente senatori FI:
«Si è verificata una forte lesione della privacy. Queste incursioni nella vita privata delle persone sono inaccettabili, anche per personalità pubbliche. Pubblicare immagini di questo tipo, estrapolandole dal contesto in cui sono avvenute, è come entrare a gamba tesa nella vita di una persona. Equivale a isolare una parola o una frase da un libro, per poi ricamarci sopra».
Silvana Mura, dep. Italia Valori:
«Nei panni della signora Lario non sarei assolutamente contenta, quindi le sono vicina. Va detto però che Berlusconi era a casa sua, quindi mi sembra sia stata violata la sua privacy, che dovrebbe essere sacra e inviolabile per tutti i cittadini. Comunque sono foto che non mi stupiscono: fanno parte del suo personaggio, gli piace dare l’immagine di uomo che affascina le ragazze».
Fiorella Ceccacci (in arte Rubino), dep. FI:
«Non mi sembrano foto così sconvenienti: lui è un personaggio pubblico, ma era nel suo giardino, non in strada. Rispettiamo quindi la sua vita privata».
Giorgia Meloni, vicepres. Camera, AN:
«Un politico dovrebbe incarnare i valori di riferimento del suo partito. Quindi diventa rilevante, interessa ai cittadini, sapere come si comporta anche nella propria vita privata chi sbandiera i valori della famiglia. Io, per esempio, ho firmato la proposta di Casini per sottoporre ad antidoping i politici: così vediamo chi sono i veri proibizionisti sulla droga.
Detto questo, si può anche passeggiare e parlare con cinque donne senza suscitare malignità. E rispetto al caso Sircana avete adottato due pesi e due misure diverse».
Marina Sereni, vicepres. deputati Ulivo (Ds):
«Chi ha scelto di fare politica sa di essere esposto più di altri a invadenze nella vita privata. L’interesse giornalistico c’è sempre, ma per fortuna non sono un giudice per decidere se queste foto violino la privacy di Berlusconi. Non tutte le curiosità del pubblico, comunque, possono o devono essere soddisfatte: la nostra vita privata non è quasi mai rilevante per gli elettori».
Oggi, 24 aprile 2007
Daniele Capezzone, deputato radicale:
«Immagino che queste foto procureranno a Berlusconi ulteriori fastidi familiari. Ma alla lunga si riveleranno un successo mediatico, come l’immagine della bandana. L’idea che un signore settantenne si intrattenga con cinque belle ragazze, infatti, piacerà sia ai suoi coetanei, che ai giovani. I quali lo apprezzeranno, o lo invidieranno, checchè ne dicano certi salotti benpensanti».
Nando dalla Chiesa, sottosegretario all’Università e Ricerca (Margherita):
«Queste foto sono di una comicità involontaria ma irresistibile. Ho scritto libri e portato a teatro le gesta di Berlusconi, “eroe di un'Italia vera ma apparentemente inverosimile”. Ma è lui stesso un’inesauribile miniera di gag, che lasciano sempre un passo indietro anche il comico più irriverente e fantasioso. Insomma, la realtà supera la fantasia. Trovo sublime, poi, che una delle ragazze, la rossa mi pare, si autodefinisca “opinionista”, seppure di Buona Domenica...»
Gabriella Carlucci, deputata Forza Italia:
«Sono foto prese di sguincio fra molte altre persone. Non ci vedo niente di male, Berlusconi apre spesso le porte della sua villa a ospiti, anche semplici sostenitori del partito. La scorsa estate invitò tutti noi parlamentari, avrei potuto esserci anch’io in quelle immagini. Per par condicio, però, avrei pubblicato anche le foto di Sircana. Oppure né Sircana, né Berlusconi».
Elisabetta Casellati, vicepresidente senatori FI:
«Si è verificata una forte lesione della privacy. Queste incursioni nella vita privata delle persone sono inaccettabili, anche per personalità pubbliche. Pubblicare immagini di questo tipo, estrapolandole dal contesto in cui sono avvenute, è come entrare a gamba tesa nella vita di una persona. Equivale a isolare una parola o una frase da un libro, per poi ricamarci sopra».
Silvana Mura, dep. Italia Valori:
«Nei panni della signora Lario non sarei assolutamente contenta, quindi le sono vicina. Va detto però che Berlusconi era a casa sua, quindi mi sembra sia stata violata la sua privacy, che dovrebbe essere sacra e inviolabile per tutti i cittadini. Comunque sono foto che non mi stupiscono: fanno parte del suo personaggio, gli piace dare l’immagine di uomo che affascina le ragazze».
Fiorella Ceccacci (in arte Rubino), dep. FI:
«Non mi sembrano foto così sconvenienti: lui è un personaggio pubblico, ma era nel suo giardino, non in strada. Rispettiamo quindi la sua vita privata».
Giorgia Meloni, vicepres. Camera, AN:
«Un politico dovrebbe incarnare i valori di riferimento del suo partito. Quindi diventa rilevante, interessa ai cittadini, sapere come si comporta anche nella propria vita privata chi sbandiera i valori della famiglia. Io, per esempio, ho firmato la proposta di Casini per sottoporre ad antidoping i politici: così vediamo chi sono i veri proibizionisti sulla droga.
Detto questo, si può anche passeggiare e parlare con cinque donne senza suscitare malignità. E rispetto al caso Sircana avete adottato due pesi e due misure diverse».
Marina Sereni, vicepres. deputati Ulivo (Ds):
«Chi ha scelto di fare politica sa di essere esposto più di altri a invadenze nella vita privata. L’interesse giornalistico c’è sempre, ma per fortuna non sono un giudice per decidere se queste foto violino la privacy di Berlusconi. Non tutte le curiosità del pubblico, comunque, possono o devono essere soddisfatte: la nostra vita privata non è quasi mai rilevante per gli elettori».
Sunday, April 22, 2007
Benvenuti a radioVespa
Bruno Vespa e il figlio Federico conducono un programma di storia su Rtl
Roma, 17 aprile 2007 - Oggi
Vanno d’accordo su tutto tranne la Roma e l’Afghanistan. Vespa padre e figlio: 63 anni Bruno, 28 Federico, 35 in mezzo. Raccontano e discutono di storia italiana ogni venerdì mattina sulla radio Rtl 102.5, dalle 8 alle 9. Un anno alla settimana. Hanno cominciato con il 1979, quand’è nato Federico, ora sono al 1984. Andranno quindi avanti per parecchi mesi.
Li incontriamo a casa Vespa, un attico stupendo vicino a Trinità dei Monti, terrazza con vista fra le più belle di Roma. «L’ho presa in affitto da ottobre, prima stavamo sul Lungotevere dei Mellini», dice Bruno. Sono le nove del mattino, lui è in giacca blu e cravatta rosa, telegenico e già pronto per il suo Porta a Porta serale (che viene registrato poche ore prima dell’andata in onda).
Il figlio Federico invece comincia alle 11 il turno giornaliero di otto ore alla radio, dov’è stato assunto da poco con un contratto temporaneo. La sera prima la sua Roma ha perso sette a uno col Manchester, l’umore è quello che è. Papà Bruno sorride: «Oggi mi sento molto solidale con lui anche se, essendo nato all’Aquila, sono juventino. Gli abruzzesi tifano prevalentemente per le squadre del Nord: Roma e Lazio per noi non esistono».
Si affaccia in sala per un attimo mamma Vespa: Augusta Iannini, magistrato, direttore generale al ministero della Giustizia. Saluta, le proponiamo di unirsi per qualche foto. Declina sorridendo e scappa via. L’altro figlio Alessandro, 26 anni, è a Londra a studiare l’inglese.
«Quando mio padre mi ha chiesto se mi andava di fare un programma radio con lui, pensavo scherzasse», racconta Federico. «Più che un’idea all’inizio era un gioco», precisa Bruno. «Credevo che lui mi mandasse subito a pedalare. Invece, con mia grande sorpresa, l’ha condivisa. E per me è stato un graditissimo ritorno al primo amore, la radio, dove avevo cominciato a lavorare subito dopo avere vinto il concorso Rai del 1968».
Padre e figlio che si confrontano sulla storia contemporanea: evento unico per una radio a livello europeo, forse mondiale. All’età di Federico, Bruno Vespa era già un giornalista affermato, e pochi anni dopo si sarebbe confrontato con l’evento più difficile e doloroso della sua carriera: il delitto Moro del ’78.
«Per fortuna abbiamo cominciato questa nostra trasmissione con l’anno seguente», dice Bruno, «anche se al rapimento Moro abbiamo accennato di sfuggita. Finora l’avvenimento che ha suscitato il maggior interesse negli ascoltatori, con un numero di telefonate pari a quello per i Mondiali di Spagna, è stato l’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa dell’82. C’è ancora un grande ricordo per quel generale, che ha sorpreso anche me».
Federico si è laureato in legge nel 2005: «Volevo fare l’avvocato, ho cominciato la pratica legale in uno studio. Contemporaneamente, però, continuavo con l’hobby di sempre: commentare il calcio a Radio Spazio Aperto, due ore al giorno con Ennio Abbondanza. Dopo sei mesi mi sono accorto che il lavoro di penalista non fa per me: troppi rinvii ed espedienti tecnici. In aula a pronunciare una bella arringa si arriva solo tre-quattro volte all’anno, tutto il resto è routine. Così ho insistito con la radio, e devo ringraziare sia Radio 101 che mi fece esordire con le cronache delle partite della Roma, sia Rtl dove dopo un anno e mezzo mi hanno offerto il primo contratto nella redazione di Roma. Quanto al mio cognome, tutti pensano che sia stato assunto per questo. E fanno bene a pensarlo, lo penserei anch’io se non sapessi che sono passato attraverso la gavetta per dimostrare di essere valido».
«Gli ho fatto un lavaggio del cervello durato anni per dissuaderlo dal fare il giornalista», dice papà Bruno, «perché è un mestiere complicato e con molte frustrazioni. Ma, giustamente, i consigli dei padri sono fatti per non essere seguiti...». E oggi come giudica suo figlio, professionalmente? «Possiede un buon ritmo radiofonico, da radiocronista, anche se ha il difetto di parlare troppo veloce». E nella vita? «È allo stesso tempo generoso ed egoista, caratteristiche che non sono in contraddizione: generoso con gli altri, ma a casa si mette sempre al centro delle attenzioni domestiche».
E infatti il quasi trentenne Federico, come la stragrande maggioranza dei suoi coetanei italiani, nonostante l’indipendenza economica raggiunta con lo stipendio si guarda bene dal lasciare la cuccia di mamma e papà: «Se con i genitori ci si trova bene, in un ambiente caldo e protetto, perché andarsene prima di avere trovato la donna con cui iniziare un’altra famiglia?».
Il tipico mammone italiano. Vespa senior lo inviterebbe a Porta a Porta se non fosse suo figlio, in una puntata sui giovani? «Mah, gran parte dei nostri ospiti sono predeterminati, quasi obbligati. E poi anche lui, come quasi tutti i suoi coetanei, schematizza molto: ha opinioni coinvolgenti ma poco approfondite».
Per esempio? «Nella puntata della nostra trasmissione sul 1980, strage di Bologna, Federico era convinto che i terroristi condannati siano in realtà innocenti. Hai voglia a spiegargli che le sentenze, finché ci sono, vanno rispettate...». «Ma quella è solo una verità: quella giudiziaria», replica subito Vespa junior.
Un altro tema caldo è quello delle guerre in Iraq e Afghanistan. Federico Vespa è nettamente contrario: «E non perché sia di sinistra, anzi non ho neppure votato Prodi. Ma sono convinto che da Kabul sia meglio andarsene: sarebbe una soluzione pratica e dignitosa per non farsi ricattare. E anche in Libano, non c’è proprio bisogno dei nostri soldati. Non abbiamo motivo di stare in terre altrui, dando ai terroristi pretesti per attaccarci».
La lite più furibonda a casa Vespa, però, si è consumata quella mattina in cui Federico si rifiutò di alzarsi per andare al liceo: «Decisi che non ne potevo più di greco e latino, che volevo lavorare». Come finì? «Lo presi in parola, e chiesi subito al benzinaio di piazza Mazzini se aveva bisogno di un aiuto», racconta Bruno, «poi ripiegai su un idraulico che stava lavorando nel nostro palazzo». Risultato: «Quando l’idraulico mi disse che l’orario di lavoro era dalle sei del mattino alle otto di sera, tentennai», confessa Federico, «e alla fine optai per un trasferimento dal liceo classico allo scientifico. Scoprendo che matematica e chimica erano ancora peggio di greco e latino».
Ma i due Vespa la guardano Porta a Porta, a casa la sera? Bruno: «No, non mi riguardo quasi mai. E sbaglio, perché mi accorgerei dei miei errori». Federico: «Raramente. Certo non quando si parla di diete. Solo se ci fosse un bel dibattito, a livello D’Alema-Fini. Altrimenti, meglio i gialli di Carlo Lucarelli».
E i libri annuali di Vespa senior, ti servono almeno per la trasmissione? «Ammetto che di mio padre ho letto soltanto la Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi. E solo perché devo prepararmi per Rtl...».
Mauro Suttora
Roma, 17 aprile 2007 - Oggi
Vanno d’accordo su tutto tranne la Roma e l’Afghanistan. Vespa padre e figlio: 63 anni Bruno, 28 Federico, 35 in mezzo. Raccontano e discutono di storia italiana ogni venerdì mattina sulla radio Rtl 102.5, dalle 8 alle 9. Un anno alla settimana. Hanno cominciato con il 1979, quand’è nato Federico, ora sono al 1984. Andranno quindi avanti per parecchi mesi.
Li incontriamo a casa Vespa, un attico stupendo vicino a Trinità dei Monti, terrazza con vista fra le più belle di Roma. «L’ho presa in affitto da ottobre, prima stavamo sul Lungotevere dei Mellini», dice Bruno. Sono le nove del mattino, lui è in giacca blu e cravatta rosa, telegenico e già pronto per il suo Porta a Porta serale (che viene registrato poche ore prima dell’andata in onda).
Il figlio Federico invece comincia alle 11 il turno giornaliero di otto ore alla radio, dov’è stato assunto da poco con un contratto temporaneo. La sera prima la sua Roma ha perso sette a uno col Manchester, l’umore è quello che è. Papà Bruno sorride: «Oggi mi sento molto solidale con lui anche se, essendo nato all’Aquila, sono juventino. Gli abruzzesi tifano prevalentemente per le squadre del Nord: Roma e Lazio per noi non esistono».
Si affaccia in sala per un attimo mamma Vespa: Augusta Iannini, magistrato, direttore generale al ministero della Giustizia. Saluta, le proponiamo di unirsi per qualche foto. Declina sorridendo e scappa via. L’altro figlio Alessandro, 26 anni, è a Londra a studiare l’inglese.
«Quando mio padre mi ha chiesto se mi andava di fare un programma radio con lui, pensavo scherzasse», racconta Federico. «Più che un’idea all’inizio era un gioco», precisa Bruno. «Credevo che lui mi mandasse subito a pedalare. Invece, con mia grande sorpresa, l’ha condivisa. E per me è stato un graditissimo ritorno al primo amore, la radio, dove avevo cominciato a lavorare subito dopo avere vinto il concorso Rai del 1968».
Padre e figlio che si confrontano sulla storia contemporanea: evento unico per una radio a livello europeo, forse mondiale. All’età di Federico, Bruno Vespa era già un giornalista affermato, e pochi anni dopo si sarebbe confrontato con l’evento più difficile e doloroso della sua carriera: il delitto Moro del ’78.
«Per fortuna abbiamo cominciato questa nostra trasmissione con l’anno seguente», dice Bruno, «anche se al rapimento Moro abbiamo accennato di sfuggita. Finora l’avvenimento che ha suscitato il maggior interesse negli ascoltatori, con un numero di telefonate pari a quello per i Mondiali di Spagna, è stato l’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa dell’82. C’è ancora un grande ricordo per quel generale, che ha sorpreso anche me».
Federico si è laureato in legge nel 2005: «Volevo fare l’avvocato, ho cominciato la pratica legale in uno studio. Contemporaneamente, però, continuavo con l’hobby di sempre: commentare il calcio a Radio Spazio Aperto, due ore al giorno con Ennio Abbondanza. Dopo sei mesi mi sono accorto che il lavoro di penalista non fa per me: troppi rinvii ed espedienti tecnici. In aula a pronunciare una bella arringa si arriva solo tre-quattro volte all’anno, tutto il resto è routine. Così ho insistito con la radio, e devo ringraziare sia Radio 101 che mi fece esordire con le cronache delle partite della Roma, sia Rtl dove dopo un anno e mezzo mi hanno offerto il primo contratto nella redazione di Roma. Quanto al mio cognome, tutti pensano che sia stato assunto per questo. E fanno bene a pensarlo, lo penserei anch’io se non sapessi che sono passato attraverso la gavetta per dimostrare di essere valido».
«Gli ho fatto un lavaggio del cervello durato anni per dissuaderlo dal fare il giornalista», dice papà Bruno, «perché è un mestiere complicato e con molte frustrazioni. Ma, giustamente, i consigli dei padri sono fatti per non essere seguiti...». E oggi come giudica suo figlio, professionalmente? «Possiede un buon ritmo radiofonico, da radiocronista, anche se ha il difetto di parlare troppo veloce». E nella vita? «È allo stesso tempo generoso ed egoista, caratteristiche che non sono in contraddizione: generoso con gli altri, ma a casa si mette sempre al centro delle attenzioni domestiche».
E infatti il quasi trentenne Federico, come la stragrande maggioranza dei suoi coetanei italiani, nonostante l’indipendenza economica raggiunta con lo stipendio si guarda bene dal lasciare la cuccia di mamma e papà: «Se con i genitori ci si trova bene, in un ambiente caldo e protetto, perché andarsene prima di avere trovato la donna con cui iniziare un’altra famiglia?».
Il tipico mammone italiano. Vespa senior lo inviterebbe a Porta a Porta se non fosse suo figlio, in una puntata sui giovani? «Mah, gran parte dei nostri ospiti sono predeterminati, quasi obbligati. E poi anche lui, come quasi tutti i suoi coetanei, schematizza molto: ha opinioni coinvolgenti ma poco approfondite».
Per esempio? «Nella puntata della nostra trasmissione sul 1980, strage di Bologna, Federico era convinto che i terroristi condannati siano in realtà innocenti. Hai voglia a spiegargli che le sentenze, finché ci sono, vanno rispettate...». «Ma quella è solo una verità: quella giudiziaria», replica subito Vespa junior.
Un altro tema caldo è quello delle guerre in Iraq e Afghanistan. Federico Vespa è nettamente contrario: «E non perché sia di sinistra, anzi non ho neppure votato Prodi. Ma sono convinto che da Kabul sia meglio andarsene: sarebbe una soluzione pratica e dignitosa per non farsi ricattare. E anche in Libano, non c’è proprio bisogno dei nostri soldati. Non abbiamo motivo di stare in terre altrui, dando ai terroristi pretesti per attaccarci».
La lite più furibonda a casa Vespa, però, si è consumata quella mattina in cui Federico si rifiutò di alzarsi per andare al liceo: «Decisi che non ne potevo più di greco e latino, che volevo lavorare». Come finì? «Lo presi in parola, e chiesi subito al benzinaio di piazza Mazzini se aveva bisogno di un aiuto», racconta Bruno, «poi ripiegai su un idraulico che stava lavorando nel nostro palazzo». Risultato: «Quando l’idraulico mi disse che l’orario di lavoro era dalle sei del mattino alle otto di sera, tentennai», confessa Federico, «e alla fine optai per un trasferimento dal liceo classico allo scientifico. Scoprendo che matematica e chimica erano ancora peggio di greco e latino».
Ma i due Vespa la guardano Porta a Porta, a casa la sera? Bruno: «No, non mi riguardo quasi mai. E sbaglio, perché mi accorgerei dei miei errori». Federico: «Raramente. Certo non quando si parla di diete. Solo se ci fosse un bel dibattito, a livello D’Alema-Fini. Altrimenti, meglio i gialli di Carlo Lucarelli».
E i libri annuali di Vespa senior, ti servono almeno per la trasmissione? «Ammetto che di mio padre ho letto soltanto la Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi. E solo perché devo prepararmi per Rtl...».
Mauro Suttora
Wednesday, April 11, 2007
Momo
NE' FOLLETTO NE' GNOMO, SONO SOLO MOMO
Intervista con la cantante di "Fondanela"
Oggi, 5 aprile 2007
Eccoci nel regno di Momo. Il quartiere romano di San Lorenzo, accanto alla stazione Termini: qui la rivelazione del Festival di Sanremo è nata e cresciuta artisticamente. Nella vita reale no: è di Lanciano in provincia di Chieti, e da lì sono venuti i suoi genitori, Vittorio e Licia Cipollone, entrambi 77enni, per applaudirla nella sua prima esibizione pubblica dopo il festival. Un trionfo: teatro della Garbatella strapieno, e il giorno dopo quotidiani che strabordano di articoli positivi. «Momo non è soltanto la cantante-autrice di Fondanela, svelata da Piero Chiambretti all’ultimo Sanremo. È molto di più: è l’ultima reincarnazione della Gelsomina felliniana, è la sfida disarmata della fantasia alla violenza del nostro mondo», la loda Cesare Romana, critico musicale del Giornale.
Gli articoli li tiene in un sacchetto di plastica della spesa Antonella, amica giornalista che aiuta Momo a fronteggiare la fama improvvisa delle ultime settimane. Tutti, papà, mamma, produttore, coautori, parenti e amici, sono seduti al tavolino di un bar in via dei Volsci. «Il pianoforte dove Momo ha imparato a suonare a cinque anni me lo regalò la Zanussi come premio per aver venduto caldaie», ricorda papà Vittorio. Sono i primi che Momo ringrazia nella copertina del disco appena uscito, i genitori. Che l’adottarono orfanella, e che l’hanno sempre aiutata da quando si mise in testa di fare la cantante.
Una gavetta interminabile, durata 17 anni: «Subito dopo il diploma magistrale Momo è emigrata a Roma con un solo chiodo fisso: la musica», ci dice il signor Cipollone, «e noi l’abbiamo sempre assecondata. Ricordo che quando un giornale locale abruzzese la intervistò, quindici anni fa, disse che il suo obiettivo era Sanremo. Una decina d’anni fa siamo venuti a Roma per vederla in un concerto al teatro Colosseo, con Sabina Guzzanti...»
Ma insomma, fino a sei settimane fa Momo con la musica proprio non ci campava: qualche serata nei locali di Roma, qui a San Lorenzo, ma soldi pochi o niente. Quindi per mantenersi lavorava: lavapiatti, cameriera, baby-sitter. Negli ultimi tre anni ha tenuto a bada un bambino, Ludovico, che ha appena compiuto undici anni ed è venuto pure lui a festeggiarla al concerto romano: «Ma ormai è grande, non ha più bisogno di me», dice Momo.
Momo è popolarissima fra i bambini. Ce ne accorgiamo quando usciamo dal bar per andare a fotografarla nella giocheria L’Orbita, visto che il suo primo disco si chiama Il Giocoliere. Quelli del quartiere la conoscono, la fermano sul marciapiede. «Oggi in classe abbiamo letto con la maestra l’articolo del giornale su di te», le dice uno. Lei si ferma, è gentile con tutti, si china a parlare, alcuni li conosce per nome.
«Ora Momo verrà a suonare al teatro Centrale di Lanciano», pregusta orgogliosa mamma Licia. Il 26 aprile ci sarà un primo concerto al Juxtap di Sarzana (La Spezia), il locale del produttore Simone Grassi. Poi, in maggio, all’Hiroshima di Torino. Stanno fioccando le prenotazioni per l’estate: tutti vogliono Momo. A Giffoni (Salerno) il 14 luglio, al festival Gaber di Viareggio. Infine, in autunno, la prima tournée in giro per l’Italia.
Momo è accompagnata da musicisti che suonano strumenti strani, come un circo ambulante di altri tempi: Ludovica Valori, nipote di Bice, è al bombardino; al mandolino c’è Desirée Infascelli; al contrabbasso Daniele, tanto alto quanto Momo è minuta. Riescono a creare un’atmosfera magica, la stessa che ha ammaliato gli spettatori del dopoFestival fin dalla prima volta che Momo ha intonato la sua Fondanela. «Che poi sarebbe la “fontanella” dell’energia», spiega lei, «come la pronunciava l’osteopata cinese Wang facendo fare esercizi a me e alla mia amica pianista Alessandra. Eravamo andate da lui perché avevamo la schiena bloccata, e quando siamo tornate a casa abbiamo riso così tanto su quella “fondanela” che è nata la canzone, con i suoi buffi movimenti d’anca».
Movimenti che stanno conquistando mezza Italia, come ai tempi della Lambada: ci ha ballato perfino il direttore di questo giornale, Pino Belleri, quand’è andato ospite a Tutti quelli che... il calcio su Raidue. Le altre canzoni di Momo sono difficili da descrivere, bisogna ascoltarle: «Genere inclassificabile», decreta il programma i-Tunes quando infiliamo il disco nel computer. «Ti ispiri a Kurt Weill?», provo a chiederle. E lei, scherzando: «Kurt che...? È francese?», pur conoscendo benissimo il musicista tedesco del teatro di Bertolt Brecht.
L’humour di Momo traspare in molte sue canzoni. In Buon Governo propone di eleggere ministri Mandrake «venditore d’illusioni», Topolino, Pippo, Dylan Dog, Batman, Robin, Paperone alle finanze, Superman «giramondo, con l’Ombra che cammina addetta al terzo mondo», e soprattutto Qui Quo, Qua. In un’altra prende in giro Sanremo, «club de li potenti, solo artisti snob che s’atteggiano ad artisti pop». Canta anche Embè, la canzone contro la maldicenza con cui il suo amico Simone Cristicchi, vincitore quest’anno, l’anno scorso arrivò secondo fra i giovani: «Che bella gente, capisce tutto, ha pistole con proiettili di malignità».
È stato un bel Sanremo 2007 per Roma, per una certa Roma giovane, povera e anticonformista lontana mille miglia dalle vallette Rai e Mediaset: quella di Momo, di Cristicchi, e anche di Pensa di Fabrizio Moro, vincitore giovani. Ma chi è in realtà Momo? «Non sono un folletto, non sono uno gnomo, sono Momo», si autodefinisce lei sul suo sito Internet, www.momoart.it
Surreale, dada, anarchica, hanno scritto. Cesare Romana l’ha paragonata addirittura a Omero. Una sua canzone s’intitola Momosessuale. Sei omosessuale?, le chiediamo. «No», sorride, «sono momosessuale, appunto. Per la libertà». È bastato questo per far titolare a qualcuno «Momo profeta dei Dico», i «Diritti di convivenza», anche gay, attualmente osteggiati dalla Chiesa. Ma lei sfugge a ogni etichetta, non vuole farsi ingabbiare. Momo è solo Momo, con le sue melodie stralunate da cabaret e le rime ermetiche. Prendere o lasciare.
Mauro Suttora
Intervista con la cantante di "Fondanela"
Oggi, 5 aprile 2007
Eccoci nel regno di Momo. Il quartiere romano di San Lorenzo, accanto alla stazione Termini: qui la rivelazione del Festival di Sanremo è nata e cresciuta artisticamente. Nella vita reale no: è di Lanciano in provincia di Chieti, e da lì sono venuti i suoi genitori, Vittorio e Licia Cipollone, entrambi 77enni, per applaudirla nella sua prima esibizione pubblica dopo il festival. Un trionfo: teatro della Garbatella strapieno, e il giorno dopo quotidiani che strabordano di articoli positivi. «Momo non è soltanto la cantante-autrice di Fondanela, svelata da Piero Chiambretti all’ultimo Sanremo. È molto di più: è l’ultima reincarnazione della Gelsomina felliniana, è la sfida disarmata della fantasia alla violenza del nostro mondo», la loda Cesare Romana, critico musicale del Giornale.
Gli articoli li tiene in un sacchetto di plastica della spesa Antonella, amica giornalista che aiuta Momo a fronteggiare la fama improvvisa delle ultime settimane. Tutti, papà, mamma, produttore, coautori, parenti e amici, sono seduti al tavolino di un bar in via dei Volsci. «Il pianoforte dove Momo ha imparato a suonare a cinque anni me lo regalò la Zanussi come premio per aver venduto caldaie», ricorda papà Vittorio. Sono i primi che Momo ringrazia nella copertina del disco appena uscito, i genitori. Che l’adottarono orfanella, e che l’hanno sempre aiutata da quando si mise in testa di fare la cantante.
Una gavetta interminabile, durata 17 anni: «Subito dopo il diploma magistrale Momo è emigrata a Roma con un solo chiodo fisso: la musica», ci dice il signor Cipollone, «e noi l’abbiamo sempre assecondata. Ricordo che quando un giornale locale abruzzese la intervistò, quindici anni fa, disse che il suo obiettivo era Sanremo. Una decina d’anni fa siamo venuti a Roma per vederla in un concerto al teatro Colosseo, con Sabina Guzzanti...»
Ma insomma, fino a sei settimane fa Momo con la musica proprio non ci campava: qualche serata nei locali di Roma, qui a San Lorenzo, ma soldi pochi o niente. Quindi per mantenersi lavorava: lavapiatti, cameriera, baby-sitter. Negli ultimi tre anni ha tenuto a bada un bambino, Ludovico, che ha appena compiuto undici anni ed è venuto pure lui a festeggiarla al concerto romano: «Ma ormai è grande, non ha più bisogno di me», dice Momo.
Momo è popolarissima fra i bambini. Ce ne accorgiamo quando usciamo dal bar per andare a fotografarla nella giocheria L’Orbita, visto che il suo primo disco si chiama Il Giocoliere. Quelli del quartiere la conoscono, la fermano sul marciapiede. «Oggi in classe abbiamo letto con la maestra l’articolo del giornale su di te», le dice uno. Lei si ferma, è gentile con tutti, si china a parlare, alcuni li conosce per nome.
«Ora Momo verrà a suonare al teatro Centrale di Lanciano», pregusta orgogliosa mamma Licia. Il 26 aprile ci sarà un primo concerto al Juxtap di Sarzana (La Spezia), il locale del produttore Simone Grassi. Poi, in maggio, all’Hiroshima di Torino. Stanno fioccando le prenotazioni per l’estate: tutti vogliono Momo. A Giffoni (Salerno) il 14 luglio, al festival Gaber di Viareggio. Infine, in autunno, la prima tournée in giro per l’Italia.
Momo è accompagnata da musicisti che suonano strumenti strani, come un circo ambulante di altri tempi: Ludovica Valori, nipote di Bice, è al bombardino; al mandolino c’è Desirée Infascelli; al contrabbasso Daniele, tanto alto quanto Momo è minuta. Riescono a creare un’atmosfera magica, la stessa che ha ammaliato gli spettatori del dopoFestival fin dalla prima volta che Momo ha intonato la sua Fondanela. «Che poi sarebbe la “fontanella” dell’energia», spiega lei, «come la pronunciava l’osteopata cinese Wang facendo fare esercizi a me e alla mia amica pianista Alessandra. Eravamo andate da lui perché avevamo la schiena bloccata, e quando siamo tornate a casa abbiamo riso così tanto su quella “fondanela” che è nata la canzone, con i suoi buffi movimenti d’anca».
Movimenti che stanno conquistando mezza Italia, come ai tempi della Lambada: ci ha ballato perfino il direttore di questo giornale, Pino Belleri, quand’è andato ospite a Tutti quelli che... il calcio su Raidue. Le altre canzoni di Momo sono difficili da descrivere, bisogna ascoltarle: «Genere inclassificabile», decreta il programma i-Tunes quando infiliamo il disco nel computer. «Ti ispiri a Kurt Weill?», provo a chiederle. E lei, scherzando: «Kurt che...? È francese?», pur conoscendo benissimo il musicista tedesco del teatro di Bertolt Brecht.
L’humour di Momo traspare in molte sue canzoni. In Buon Governo propone di eleggere ministri Mandrake «venditore d’illusioni», Topolino, Pippo, Dylan Dog, Batman, Robin, Paperone alle finanze, Superman «giramondo, con l’Ombra che cammina addetta al terzo mondo», e soprattutto Qui Quo, Qua. In un’altra prende in giro Sanremo, «club de li potenti, solo artisti snob che s’atteggiano ad artisti pop». Canta anche Embè, la canzone contro la maldicenza con cui il suo amico Simone Cristicchi, vincitore quest’anno, l’anno scorso arrivò secondo fra i giovani: «Che bella gente, capisce tutto, ha pistole con proiettili di malignità».
È stato un bel Sanremo 2007 per Roma, per una certa Roma giovane, povera e anticonformista lontana mille miglia dalle vallette Rai e Mediaset: quella di Momo, di Cristicchi, e anche di Pensa di Fabrizio Moro, vincitore giovani. Ma chi è in realtà Momo? «Non sono un folletto, non sono uno gnomo, sono Momo», si autodefinisce lei sul suo sito Internet, www.momoart.it
Surreale, dada, anarchica, hanno scritto. Cesare Romana l’ha paragonata addirittura a Omero. Una sua canzone s’intitola Momosessuale. Sei omosessuale?, le chiediamo. «No», sorride, «sono momosessuale, appunto. Per la libertà». È bastato questo per far titolare a qualcuno «Momo profeta dei Dico», i «Diritti di convivenza», anche gay, attualmente osteggiati dalla Chiesa. Ma lei sfugge a ogni etichetta, non vuole farsi ingabbiare. Momo è solo Momo, con le sue melodie stralunate da cabaret e le rime ermetiche. Prendere o lasciare.
Mauro Suttora
Thursday, April 05, 2007
Invasioni Barbariche
quotidiano Libero, giovedi 5 aprile 2007, pag.31
Gli scrittori spiati dal Grande Fratello
Domani alle 'Invasioni Barbariche' il primo programma verita' dedicato alla letteratura. Tre autori chiusi in un appartamento a parlare di libri erotici.
di MASSIMILIANO PARENTE
Mia cara Daria Bignardi, lo sai. È successo che ieri pomeriggio mi hai sadicamente rinchiuso in un minireality letterario, insieme a Andrea Laffranchi del Corriere della Sera e Mauro Suttora di Oggi, autore di No Sex and The City, per parlare di tre scrittrici erotiche o aspiranti tali: Gisela Scerman, Carolina Cutolo e Clara Sereni.
La “location” era un loft dietro al San Pietro, e sul campanello c’era scritto “vacanze romane” ma non c’era traccia di Audrey Hepburn, e una volta saliti neppure delle tre pornografomani sentimentali. Tuttavia è stato bello vedere Laffranchi infilato nella vasca da bagno a leggere passi del libro della Scerman, edito da Castelvecchi, che infatti sembra l’upgrading di Pulsatilla.
Al povero Suttora, un ragazzone alto, compostissimo e compagno radicale, è toccata Clara Sereni in edizione provvisoria, copertina rossa senza il minimo indizio. Io mi sono scelto d’istinto il libro della Cutolo, attratto dalle coscette lolitesche in copertina, forse della medesima autrice, e già una che si mette in copertina dalla vita in giù promette male. La cosa interessante era che non si capiva più chi leggeva cosa, i tre libri sembravano lo stesso e di tre non ne facevano uno.
Ogni tanto mi alienavo da me e pensavo a quello che stavo facendo, mi avete fatto declamare le paginette della Cutolo come non ho mai fatto pubblicamente neppure con Leopardi. Un amico mi ha scritto «ma chi te lo ha fatto fare?» e devo ancora rispondergli.
Tra l’altro, Daria, ancora con questa storia dei maschi contro le femmine? E io lì dentro a rappresentare i maschi? Non esiste un punto di vista femminile sulla letteratura, non ne esiste neppure uno maschile, e se esiste c’è solo quando manca la letteratura. Proust è maschile o femminile? Kafka è maschile o femminile? Virginia Woolf è maschile o femminile? Il problema interessa solo Loredana Lipperini di Lipperatura, ma siamo di nuovo nei blog, o si parla di quote rosa, ma siamo in politica, o ne parlerete voi che sarete lì domani sera, ma siamo in televisione. I tre libri di queste autrici sono libri femminili, perché non sono letteratura ma diarismi rilegati, e siccome sono libri di casalinghe evolute ma pur sempre casalinghe, devono coniugare il sesso con il sentimento, ma allora perché cercare di farlo venire duro, anche se alla Cutolo piace tanto barzotto?
Non esiste un’erezione d’amore, Daria, solo la Cutolo può costruirsi da sola un vibratore col cuoricino sulla punta, ma come si fa, dietro un simbolo fallico non può esserci un cuore, tantomeno un’anima, solo un altro simbolo fallico, è lì che ha fallicamente fallito il femminismo storico. Come si può dare il culo con amore? E poi la Cutolo si lamenta di ritrovarseli barzotti. Piuttosto Florence Dugas di Dolorosa Soror, lei sì che è una scrittrice, non certo Carolina Cutolo o Clara Sereni o Gisela Scerman, da non confondere con l’unica Sherman importante che conosco, che si chiama Cindy.
Comunque sia, non essendoci niente di letterario di cui parlare, il refrain nascosto di noi tre deportati dell’erotismo che non c’era continuava a essere: ma come saranno queste tre? Intellettualmente non ci fanno né caldo né freddo, ma sono almeno fighe? Cercavamo di scaldarci con un minimo di cameratismo da sfigati. Il più gongolante sembrava Laffranchi, perché aveva una modella in copertina che magari, abbiamo supposto, era la Scerman. Se anche non fosse stata la Scerman sulla quarta c’era scritto che la Scerman ha fatto la modella, lasciando ben sperare. Dopo questa scoperta, quasi invidioso della sua Scerman, ho cercato di smontare Laffranchi, guardando perplesso le mie coscette di Cutolo: «Che ne sai Andrea, magari adesso questa Scerman è in carozzella, senza gambe».
Suttora, serafico e distinto come un lord, sul divano con le gambe incrociate, si teneva stretta la sua copertina rossa anonima, non vedeva l’ora di andarsene, e infatti dopo il pranzo offerto dalla Endemol, e dopo il brindisi «alle scrittrici porno non romantiche» che vedrete domani sulla Sette, si è dileguato e chi s’è visto s’è visto.
E in ogni caso non ho capito, Daria, perché in televisione, dove ormai si sbaciucchiano e si slinguazzano tutti a ogni Grande Fratello, a me mi scaraventi in un mini reality di sei ore dove finisco da solo, sdraiato sul letto matrimoniale, vicino a un altro sfigato nella vasca da bagno, a leggere pensierini sulle candide vaginali di Carolina Cutolo? Neppure nel collegio austriaco di Robert Musil si arrivava a tanta crudeltà sessista. Lele Mora, se ci sei aiutami tu.
La proposta: un happening
Per cui, Daria, ho deciso di proporti un happening fetish o merce di scambio molto terra terra, a cominciare dalle inquadrature: io, oltre a aver reso la tua trasmissione immortale regalandoti la mia illustre presenza, ti faccio pubblicità non occulta e dico «o miei lettori, domani guardate tutti le Invasioni Barbariche con dentro le scrittrici pornoromantiche e Parente e Laffranchi e Suttora segregati come tre imbecilli nel loft romano», e tu in cambio fai togliere le scarpe in diretta alle tre autrici.
Perché? Perché, altro che libri e blog, l’unico modo di distinguere una donna cosciente da una sedicente tale, a maggior ragione se intende diventare scrittrice, è vedere che alluci ha, e questo posso valutarlo lombrosianamente e darwinianamente solo io, e soprattutto se hanno i piedi smaltati di rosso sempre, anche d’inverno, e questo potete vederlo perfino voi e così, su due piedi, mica storie. Ci stai? Ai posteri barbarici di domani l’ardua sentenza.
Massimiliano Parente
Gli scrittori spiati dal Grande Fratello
Domani alle 'Invasioni Barbariche' il primo programma verita' dedicato alla letteratura. Tre autori chiusi in un appartamento a parlare di libri erotici.
di MASSIMILIANO PARENTE
Mia cara Daria Bignardi, lo sai. È successo che ieri pomeriggio mi hai sadicamente rinchiuso in un minireality letterario, insieme a Andrea Laffranchi del Corriere della Sera e Mauro Suttora di Oggi, autore di No Sex and The City, per parlare di tre scrittrici erotiche o aspiranti tali: Gisela Scerman, Carolina Cutolo e Clara Sereni.
La “location” era un loft dietro al San Pietro, e sul campanello c’era scritto “vacanze romane” ma non c’era traccia di Audrey Hepburn, e una volta saliti neppure delle tre pornografomani sentimentali. Tuttavia è stato bello vedere Laffranchi infilato nella vasca da bagno a leggere passi del libro della Scerman, edito da Castelvecchi, che infatti sembra l’upgrading di Pulsatilla.
Al povero Suttora, un ragazzone alto, compostissimo e compagno radicale, è toccata Clara Sereni in edizione provvisoria, copertina rossa senza il minimo indizio. Io mi sono scelto d’istinto il libro della Cutolo, attratto dalle coscette lolitesche in copertina, forse della medesima autrice, e già una che si mette in copertina dalla vita in giù promette male. La cosa interessante era che non si capiva più chi leggeva cosa, i tre libri sembravano lo stesso e di tre non ne facevano uno.
Ogni tanto mi alienavo da me e pensavo a quello che stavo facendo, mi avete fatto declamare le paginette della Cutolo come non ho mai fatto pubblicamente neppure con Leopardi. Un amico mi ha scritto «ma chi te lo ha fatto fare?» e devo ancora rispondergli.
Tra l’altro, Daria, ancora con questa storia dei maschi contro le femmine? E io lì dentro a rappresentare i maschi? Non esiste un punto di vista femminile sulla letteratura, non ne esiste neppure uno maschile, e se esiste c’è solo quando manca la letteratura. Proust è maschile o femminile? Kafka è maschile o femminile? Virginia Woolf è maschile o femminile? Il problema interessa solo Loredana Lipperini di Lipperatura, ma siamo di nuovo nei blog, o si parla di quote rosa, ma siamo in politica, o ne parlerete voi che sarete lì domani sera, ma siamo in televisione. I tre libri di queste autrici sono libri femminili, perché non sono letteratura ma diarismi rilegati, e siccome sono libri di casalinghe evolute ma pur sempre casalinghe, devono coniugare il sesso con il sentimento, ma allora perché cercare di farlo venire duro, anche se alla Cutolo piace tanto barzotto?
Non esiste un’erezione d’amore, Daria, solo la Cutolo può costruirsi da sola un vibratore col cuoricino sulla punta, ma come si fa, dietro un simbolo fallico non può esserci un cuore, tantomeno un’anima, solo un altro simbolo fallico, è lì che ha fallicamente fallito il femminismo storico. Come si può dare il culo con amore? E poi la Cutolo si lamenta di ritrovarseli barzotti. Piuttosto Florence Dugas di Dolorosa Soror, lei sì che è una scrittrice, non certo Carolina Cutolo o Clara Sereni o Gisela Scerman, da non confondere con l’unica Sherman importante che conosco, che si chiama Cindy.
Comunque sia, non essendoci niente di letterario di cui parlare, il refrain nascosto di noi tre deportati dell’erotismo che non c’era continuava a essere: ma come saranno queste tre? Intellettualmente non ci fanno né caldo né freddo, ma sono almeno fighe? Cercavamo di scaldarci con un minimo di cameratismo da sfigati. Il più gongolante sembrava Laffranchi, perché aveva una modella in copertina che magari, abbiamo supposto, era la Scerman. Se anche non fosse stata la Scerman sulla quarta c’era scritto che la Scerman ha fatto la modella, lasciando ben sperare. Dopo questa scoperta, quasi invidioso della sua Scerman, ho cercato di smontare Laffranchi, guardando perplesso le mie coscette di Cutolo: «Che ne sai Andrea, magari adesso questa Scerman è in carozzella, senza gambe».
Suttora, serafico e distinto come un lord, sul divano con le gambe incrociate, si teneva stretta la sua copertina rossa anonima, non vedeva l’ora di andarsene, e infatti dopo il pranzo offerto dalla Endemol, e dopo il brindisi «alle scrittrici porno non romantiche» che vedrete domani sulla Sette, si è dileguato e chi s’è visto s’è visto.
E in ogni caso non ho capito, Daria, perché in televisione, dove ormai si sbaciucchiano e si slinguazzano tutti a ogni Grande Fratello, a me mi scaraventi in un mini reality di sei ore dove finisco da solo, sdraiato sul letto matrimoniale, vicino a un altro sfigato nella vasca da bagno, a leggere pensierini sulle candide vaginali di Carolina Cutolo? Neppure nel collegio austriaco di Robert Musil si arrivava a tanta crudeltà sessista. Lele Mora, se ci sei aiutami tu.
La proposta: un happening
Per cui, Daria, ho deciso di proporti un happening fetish o merce di scambio molto terra terra, a cominciare dalle inquadrature: io, oltre a aver reso la tua trasmissione immortale regalandoti la mia illustre presenza, ti faccio pubblicità non occulta e dico «o miei lettori, domani guardate tutti le Invasioni Barbariche con dentro le scrittrici pornoromantiche e Parente e Laffranchi e Suttora segregati come tre imbecilli nel loft romano», e tu in cambio fai togliere le scarpe in diretta alle tre autrici.
Perché? Perché, altro che libri e blog, l’unico modo di distinguere una donna cosciente da una sedicente tale, a maggior ragione se intende diventare scrittrice, è vedere che alluci ha, e questo posso valutarlo lombrosianamente e darwinianamente solo io, e soprattutto se hanno i piedi smaltati di rosso sempre, anche d’inverno, e questo potete vederlo perfino voi e così, su due piedi, mica storie. Ci stai? Ai posteri barbarici di domani l’ardua sentenza.
Massimiliano Parente
Wednesday, April 04, 2007
Un miliardo in missioni militari
La pace ci costa un miliardo
Quanto spendiamo per le missioni militari italiane all' estero
Occorrono mille milioni all' anno per i nostri soldati nelle aree di crisi. Dai 75 mila euro per 100 semafori a Nassiriya al milione per l'ambasciata a Kabul, ecco tutte le curiosità tratte dal bilancio
Oggi, 04/04/2007, pag. 57/58
Matite, penne, zainetti. Li hanno distribuiti tre settimane fa i nostri soldati in una scuola elementare del Libano, per conto dell' Associazione internazionale regina Elena. Si tratta di un gruppo legittimista monarchico (vuole ufficialmente il ritorno del re in Italia), guidato dal pronipote della suddetta regina: il principe Serge di Jugoslavia, figlio di Maria Pia Savoia. I 2.500 militari della Repubblica italiana in missione in Libano, dunque, distribuiscono la beneficenza di chi auspica il ritorno della monarchia. Curioso. Valeva la pena di mandarli lì con i carri armati per fare regali ai bimbi libanesi ? Non bastavano, per un compito tale, due volontari di una qualsiasi Ong (Organizzazione non governativa) ? Spendiamo quasi mille miliardi all' anno in lire per disarmare i pericolosi hezbollah: questo indica lo scopo ufficiale della missione Onu. Peccato che finora, in sette mesi, non abbiamo sequestrato neppure una pistola ad acqua.
Così i nostri militari si consolano con le attività umanitarie. In Afghanistan, invece, prima dell' escalation di tensione degli ultimi tempi, i nostri militari avrebbero costruito una chiesetta. La notizia, trapelata a Herat, è stata subito smentita per non irritare gli estremisti. Quanto al Kosovo, chi si ricorda che 2.300 nostri soldati ancora languono in una guarnigione, otto anni dopo esserci arrivati per pacificarlo ? Missione compiuta, almeno lì ? Neanche per sogno: "Ci vorranno vent'anni per riportare la calma fra albanesi e serbi", ci dice pessimista Nino Sergi, segretario generale di Intersos (Cooperazione civile). Intanto, però, anche la missione in Kosovo dev'essere rifinanziata. Così è finita pure questa nel calderone del cosiddetto "decreto Afghanistan", votato al Senato martedì 27 marzo. Le polemiche si concentrano sull' opportunità di tenere le nostre truppe nel Paese dei talebani a seimila chilometri di distanza.
Ma il decreto finanzia molte altre missioni militari all' estero , per un totale di un miliardo di euro nel 2007. E, leggendone le 300 pagine, si scoprono molte curiosità. Qualcuno sapeva, per esempio, che tre nostre navi con 105 marinai da anni vagano per il Mediterraneo alla ricerca di "terroristi e pirati" nella missione Active Endeavour ? Il pattugliamento era stato deciso dalla Nato dopo l'11 settembre 2001, quando si temeva qualche altro attacco, questa volta marittimo, o trasporti di armi da parte di Al Qaeda. Ma ancor oggi spendiamo otto milioni all' anno per far navigare la fregata Maestrale e il cacciamine Termoli. Nonché il nuovo sommergibile Todaro, che ha appena terminato il suo primo mese di missione.
Nessuno lo sa, ma abbiamo sei militari di collegamento nel quartier generale americano per l'Afghanistan che sta a Tampa, Florida. Eppure ci avevano detto che si tratta di una missione Nato Onu, non più a guida statunitense. E poi: che ci fanno 95 nostri avieri ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi ? Mantengono tre aerei C 130 per il trasporto truppe da e per l' Afghanistan. Dall' Iraq ce ne siamo andati. Però continuiamo a spendere. Il decreto stila un elenco minuzioso. Cento semafori da installare a Nassiriya, 75 mila euro. Anche mettendone quattro per incrocio, esistono a Nassiriya 25 incroci con un tale traffico da giustificare semafori ? Oppure faranno la fine dei precedenti, che nessuno nelle rotonde caotiche e polverose piene di carretti trainati da asini ha mai rispettato ? E i 500 mila euro per la "mappatura satellitare" dei beni culturali iracheni, serviranno ad ammansire i terroristi ?
Un milione di euro finanzierà un corso di 45 giorni per sessanta tecnici del petrolio iracheni a Piacenza (ospitati all'Hotel Ovest, quattro stelle). Come se le compagnie petrolifere, la nostra Eni o altre, non fossero abbastanza ricche da poter pagare loro la formazione. E poi: due "esperti" da inviare in Kurdistan per "facilitare la penetrazione commerciale italiana", al modico stipendio annuo di 180 mila euro l' uno. Costerà 300 mila euro l' affitto annuo dell' ambasciata italiana a Kabul. Ma molto più del doppio costerà sorvegliarla: 770 mila euro. Più che per aiutare, insomma, spendiamo per difenderci da chi vorremmo aiutare.
Mauro Suttora
"Dobbiamo rispettare le alleanze"
L' esperto spiega perché bisogna armarsi e partire. Andrea Margelletti, del Centro studi internazionali. Con un debito di 1.500 miliardi che senso ha spendere un miliardo di euro all' anno in missioni militari ? "È necessario impegnarsi perché non si ripeta la follia dei talebani. L' Italia ha il dovere di aiutare i popoli meno fortunati che non hanno nemmeno luce, acqua e strade". I sondaggi, però, dicono che la maggioranza degli italiani vuole il ritiro dall' Afghanistan... "La politica estera non la fa la piazza, ma il Parlamento. Si decide col cervello, non con la pancia". Ma contro i terroristi servono navi e sommergibili ? "Fanno parte di una flotta Nato, ci sono alleanze e strategie da rispettare. Lo sa bene la Germania, per esempio, che pur non avendo sbocco nel Mediterraneo ha inviato una nave da guerra davanti al Libano".
"A Kabul ci credono guerrafondai"
È l' opinione di chi si occupa di Cooperazione civile "L'Afghanistan è una missione nata male". Parola di Nino Sergi di Intersos (organizzazione non governativa presente in Afghanistan). "Nel 2001 gli Stati Uniti rifiutarono l' aiuto Nato, attaccando unilateralmente. Nel 2003 ci coinvolsero perché avevano la guerra anche in Iraq e non ce la facevano più. Ci mettono sempre di fronte al fatto compiuto. Noi diciamo "sì" per ragioni di alleanza, ma come Paesi europei abbiamo anche una certa dignità. Ora stiamo rimediando a errori tragici. Ma ormai siamo dentro a un ingranaggio che non può funzionare". Ma i nostri soldati non servono per proteggere voi cooperanti ? "Al contrario: i militari ci creano problemi. I locali ci confondono con loro, pensano che siamo gli stessi: un giorno in divisa e col mitra, un giorno senza. Perciò abbiamo chiesto e ottenuto una netta distinzione dei ruoli".
Quanto spendiamo per le missioni militari italiane all' estero
Occorrono mille milioni all' anno per i nostri soldati nelle aree di crisi. Dai 75 mila euro per 100 semafori a Nassiriya al milione per l'ambasciata a Kabul, ecco tutte le curiosità tratte dal bilancio
Oggi, 04/04/2007, pag. 57/58
Matite, penne, zainetti. Li hanno distribuiti tre settimane fa i nostri soldati in una scuola elementare del Libano, per conto dell' Associazione internazionale regina Elena. Si tratta di un gruppo legittimista monarchico (vuole ufficialmente il ritorno del re in Italia), guidato dal pronipote della suddetta regina: il principe Serge di Jugoslavia, figlio di Maria Pia Savoia. I 2.500 militari della Repubblica italiana in missione in Libano, dunque, distribuiscono la beneficenza di chi auspica il ritorno della monarchia. Curioso. Valeva la pena di mandarli lì con i carri armati per fare regali ai bimbi libanesi ? Non bastavano, per un compito tale, due volontari di una qualsiasi Ong (Organizzazione non governativa) ? Spendiamo quasi mille miliardi all' anno in lire per disarmare i pericolosi hezbollah: questo indica lo scopo ufficiale della missione Onu. Peccato che finora, in sette mesi, non abbiamo sequestrato neppure una pistola ad acqua.
Così i nostri militari si consolano con le attività umanitarie. In Afghanistan, invece, prima dell' escalation di tensione degli ultimi tempi, i nostri militari avrebbero costruito una chiesetta. La notizia, trapelata a Herat, è stata subito smentita per non irritare gli estremisti. Quanto al Kosovo, chi si ricorda che 2.300 nostri soldati ancora languono in una guarnigione, otto anni dopo esserci arrivati per pacificarlo ? Missione compiuta, almeno lì ? Neanche per sogno: "Ci vorranno vent'anni per riportare la calma fra albanesi e serbi", ci dice pessimista Nino Sergi, segretario generale di Intersos (Cooperazione civile). Intanto, però, anche la missione in Kosovo dev'essere rifinanziata. Così è finita pure questa nel calderone del cosiddetto "decreto Afghanistan", votato al Senato martedì 27 marzo. Le polemiche si concentrano sull' opportunità di tenere le nostre truppe nel Paese dei talebani a seimila chilometri di distanza.
Ma il decreto finanzia molte altre missioni militari all' estero , per un totale di un miliardo di euro nel 2007. E, leggendone le 300 pagine, si scoprono molte curiosità. Qualcuno sapeva, per esempio, che tre nostre navi con 105 marinai da anni vagano per il Mediterraneo alla ricerca di "terroristi e pirati" nella missione Active Endeavour ? Il pattugliamento era stato deciso dalla Nato dopo l'11 settembre 2001, quando si temeva qualche altro attacco, questa volta marittimo, o trasporti di armi da parte di Al Qaeda. Ma ancor oggi spendiamo otto milioni all' anno per far navigare la fregata Maestrale e il cacciamine Termoli. Nonché il nuovo sommergibile Todaro, che ha appena terminato il suo primo mese di missione.
Nessuno lo sa, ma abbiamo sei militari di collegamento nel quartier generale americano per l'Afghanistan che sta a Tampa, Florida. Eppure ci avevano detto che si tratta di una missione Nato Onu, non più a guida statunitense. E poi: che ci fanno 95 nostri avieri ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi ? Mantengono tre aerei C 130 per il trasporto truppe da e per l' Afghanistan. Dall' Iraq ce ne siamo andati. Però continuiamo a spendere. Il decreto stila un elenco minuzioso. Cento semafori da installare a Nassiriya, 75 mila euro. Anche mettendone quattro per incrocio, esistono a Nassiriya 25 incroci con un tale traffico da giustificare semafori ? Oppure faranno la fine dei precedenti, che nessuno nelle rotonde caotiche e polverose piene di carretti trainati da asini ha mai rispettato ? E i 500 mila euro per la "mappatura satellitare" dei beni culturali iracheni, serviranno ad ammansire i terroristi ?
Un milione di euro finanzierà un corso di 45 giorni per sessanta tecnici del petrolio iracheni a Piacenza (ospitati all'Hotel Ovest, quattro stelle). Come se le compagnie petrolifere, la nostra Eni o altre, non fossero abbastanza ricche da poter pagare loro la formazione. E poi: due "esperti" da inviare in Kurdistan per "facilitare la penetrazione commerciale italiana", al modico stipendio annuo di 180 mila euro l' uno. Costerà 300 mila euro l' affitto annuo dell' ambasciata italiana a Kabul. Ma molto più del doppio costerà sorvegliarla: 770 mila euro. Più che per aiutare, insomma, spendiamo per difenderci da chi vorremmo aiutare.
Mauro Suttora
"Dobbiamo rispettare le alleanze"
L' esperto spiega perché bisogna armarsi e partire. Andrea Margelletti, del Centro studi internazionali. Con un debito di 1.500 miliardi che senso ha spendere un miliardo di euro all' anno in missioni militari ? "È necessario impegnarsi perché non si ripeta la follia dei talebani. L' Italia ha il dovere di aiutare i popoli meno fortunati che non hanno nemmeno luce, acqua e strade". I sondaggi, però, dicono che la maggioranza degli italiani vuole il ritiro dall' Afghanistan... "La politica estera non la fa la piazza, ma il Parlamento. Si decide col cervello, non con la pancia". Ma contro i terroristi servono navi e sommergibili ? "Fanno parte di una flotta Nato, ci sono alleanze e strategie da rispettare. Lo sa bene la Germania, per esempio, che pur non avendo sbocco nel Mediterraneo ha inviato una nave da guerra davanti al Libano".
"A Kabul ci credono guerrafondai"
È l' opinione di chi si occupa di Cooperazione civile "L'Afghanistan è una missione nata male". Parola di Nino Sergi di Intersos (organizzazione non governativa presente in Afghanistan). "Nel 2001 gli Stati Uniti rifiutarono l' aiuto Nato, attaccando unilateralmente. Nel 2003 ci coinvolsero perché avevano la guerra anche in Iraq e non ce la facevano più. Ci mettono sempre di fronte al fatto compiuto. Noi diciamo "sì" per ragioni di alleanza, ma come Paesi europei abbiamo anche una certa dignità. Ora stiamo rimediando a errori tragici. Ma ormai siamo dentro a un ingranaggio che non può funzionare". Ma i nostri soldati non servono per proteggere voi cooperanti ? "Al contrario: i militari ci creano problemi. I locali ci confondono con loro, pensano che siamo gli stessi: un giorno in divisa e col mitra, un giorno senza. Perciò abbiamo chiesto e ottenuto una netta distinzione dei ruoli".
Wednesday, March 28, 2007
Impero militare Usa
L’impero delle 737 basi militari
Il Diario, 23 marzo 2007
di Mauro Suttora
Altro che Vicenza. Sono 737 in 130 Paesi, le basi militari statunitensi nel mondo. Ufficialmente: in realtà aumentate fino a un migliaio sotto la presidenza di Bush il Piccolo. «Il Pentagono, per esempio, non cita alcuna guarnigione in Kosovo», rivela Chalmers Johnson, massimo esperto mondiale del complesso militare-industriale Usa, «anche se proprio lì c’è la base più costosa mai costruita dall’America dopo la guerra in Vietnam: l'immenso Camp Bondsteel sorto nel 1999 e poi gestito dalla Kellogg, Brown & Root, società privata controllata dalla Halliburton del vicepresidente Dick Cheney. E nei rapporti ufficiali non c’è traccia di basi in Afghanistan, Iraq, Israele, Kuwait, Kirgizistan, Qatar e Uzbekistan, malgrado l’esercito Usa abbia installato colossali basi in tutti questi Paesi dopo l’11 settembre 2001».
È appena uscito negli Usa (e subito entrato nella classifica dei best seller del New York Times) l’ultimo libro di Johnson: “Nemesis: The Last Days of the American Republic”. I due precedenti, “Gli ultimi giorni dell’Impero americano” (2001) e “Le lacrime dell’impero” (2005) sono stati tradotti in Italia da Garzanti.
Ci vuole mezzo milione di persone per far funzionare questo immenso apparato di guarnigioni estere permanenti. Oltre ai 250mila soldati, ci sono altrettanti impiegati civili americani e locali. Il tutto a un costo astronomico. Il bilancio militare Usa ha superato ormai i 500 miliardi di dollari l’anno (700, secondo le organizzazioni pacifiste americane, che includono anche le spese per le pensioni e gli ospedali dei veterani, nonché gli interessi sui debiti di guerra). Per capire l’enormità della cifra, basti dire che le spese militari mondiali ammontano a 1.100 miliardi di dollari. Da soli, quindi, gli Stati Uniti spendono in armi più di tutte le altre nazioni della Terra messe assieme.
Insomma: Vicenza è solo un piccolo tassello di un impero gigantesco, descritto con particolari gustosi da Johnson. Per esempio, il Pentagono è il più grande gestore di campi da golf del mondo: ne gestisce ben 234 in ogni continente per la ricreazione dei propri soldati. Acquista 200 mila confezioni all’anno di creme abbronzanti. Possiede perfino una stazione di sci privata a Garmisch in Baviera, e un hotel di charme riservato agli ufficiali a Tokyo...
Johnson paragona il moderno impero Usa a quelli del passato: l’ateniese, il romano, l’inglese di un secolo fa. E scopre curiose analogie: «Sia Roma, sia l’Inghilterra, contavano su una trentina di basi militari maggiori per controllare i loro domini. Ebbene, è la stessa cifra delle installazioni più grosse che oggi possiedono gli Usa, oltre alla dozzina di portaerei».
Ma il parallelo più pericoloso è quello politico: alla lunga, la predominanza dei militari minò le istituzioni della repubblica romana portando necessariamento all’impero, mentre un senato logoro e corrotto s’inchinò di fronte alle pretese del generale vittorioso, l’«uomo forte». È lo stesso percorso che Johnson vede attuarsi oggi negli Stati Uniti. «Impero», d’altronde, non è più parola tabù a Washington. Ormai non la pronunciano solo Cassandre antimilitariste come Gore Vidal o Noam Chomski, ma anche ammiratori sinceri della nozione imperiale come Niall Ferguson.
Il nuovo libro di Johnson analizza la recente riedizione delle Guerre stellari, progetto fallimentare di Ronald Reagan negli anni ’80. La balzana idea di proteggere (soltanto) Polonia e Repubblica Ceca da improbabili missili di Corea del Nord o Iran serve solo a seminare discordia fra gli alleati europei, e risentimento nella Russia. «Divide et impera», appunto: l’antica regola imperiale. E la Nato assomiglia sempre più alla Lega di Delo, l’«alleanza ineguale» con cui gli ateniesi tennero sottomesse le città greche. Ma solo per trent’anni: dopo, ci fu la ribellione con la guerra del Peloponneso e il declino di Atene.
Curiosamente, sono sempre gli ex militari ad accorgersi per primi dei pericoli del militarismo. Il generale Eisenhower denunciò nel ’61 il «complesso militare-industriale» Usa. Ma anche Johnson è un ex ufficiale della guerra di Corea, nonché consulente Cia dal ’67 al ’73. Conosce insomma i suoi polli, e l’immensa ragnatela dei loro interessi.
Il Diario, 23 marzo 2007
di Mauro Suttora
Altro che Vicenza. Sono 737 in 130 Paesi, le basi militari statunitensi nel mondo. Ufficialmente: in realtà aumentate fino a un migliaio sotto la presidenza di Bush il Piccolo. «Il Pentagono, per esempio, non cita alcuna guarnigione in Kosovo», rivela Chalmers Johnson, massimo esperto mondiale del complesso militare-industriale Usa, «anche se proprio lì c’è la base più costosa mai costruita dall’America dopo la guerra in Vietnam: l'immenso Camp Bondsteel sorto nel 1999 e poi gestito dalla Kellogg, Brown & Root, società privata controllata dalla Halliburton del vicepresidente Dick Cheney. E nei rapporti ufficiali non c’è traccia di basi in Afghanistan, Iraq, Israele, Kuwait, Kirgizistan, Qatar e Uzbekistan, malgrado l’esercito Usa abbia installato colossali basi in tutti questi Paesi dopo l’11 settembre 2001».
È appena uscito negli Usa (e subito entrato nella classifica dei best seller del New York Times) l’ultimo libro di Johnson: “Nemesis: The Last Days of the American Republic”. I due precedenti, “Gli ultimi giorni dell’Impero americano” (2001) e “Le lacrime dell’impero” (2005) sono stati tradotti in Italia da Garzanti.
Ci vuole mezzo milione di persone per far funzionare questo immenso apparato di guarnigioni estere permanenti. Oltre ai 250mila soldati, ci sono altrettanti impiegati civili americani e locali. Il tutto a un costo astronomico. Il bilancio militare Usa ha superato ormai i 500 miliardi di dollari l’anno (700, secondo le organizzazioni pacifiste americane, che includono anche le spese per le pensioni e gli ospedali dei veterani, nonché gli interessi sui debiti di guerra). Per capire l’enormità della cifra, basti dire che le spese militari mondiali ammontano a 1.100 miliardi di dollari. Da soli, quindi, gli Stati Uniti spendono in armi più di tutte le altre nazioni della Terra messe assieme.
Insomma: Vicenza è solo un piccolo tassello di un impero gigantesco, descritto con particolari gustosi da Johnson. Per esempio, il Pentagono è il più grande gestore di campi da golf del mondo: ne gestisce ben 234 in ogni continente per la ricreazione dei propri soldati. Acquista 200 mila confezioni all’anno di creme abbronzanti. Possiede perfino una stazione di sci privata a Garmisch in Baviera, e un hotel di charme riservato agli ufficiali a Tokyo...
Johnson paragona il moderno impero Usa a quelli del passato: l’ateniese, il romano, l’inglese di un secolo fa. E scopre curiose analogie: «Sia Roma, sia l’Inghilterra, contavano su una trentina di basi militari maggiori per controllare i loro domini. Ebbene, è la stessa cifra delle installazioni più grosse che oggi possiedono gli Usa, oltre alla dozzina di portaerei».
Ma il parallelo più pericoloso è quello politico: alla lunga, la predominanza dei militari minò le istituzioni della repubblica romana portando necessariamento all’impero, mentre un senato logoro e corrotto s’inchinò di fronte alle pretese del generale vittorioso, l’«uomo forte». È lo stesso percorso che Johnson vede attuarsi oggi negli Stati Uniti. «Impero», d’altronde, non è più parola tabù a Washington. Ormai non la pronunciano solo Cassandre antimilitariste come Gore Vidal o Noam Chomski, ma anche ammiratori sinceri della nozione imperiale come Niall Ferguson.
Il nuovo libro di Johnson analizza la recente riedizione delle Guerre stellari, progetto fallimentare di Ronald Reagan negli anni ’80. La balzana idea di proteggere (soltanto) Polonia e Repubblica Ceca da improbabili missili di Corea del Nord o Iran serve solo a seminare discordia fra gli alleati europei, e risentimento nella Russia. «Divide et impera», appunto: l’antica regola imperiale. E la Nato assomiglia sempre più alla Lega di Delo, l’«alleanza ineguale» con cui gli ateniesi tennero sottomesse le città greche. Ma solo per trent’anni: dopo, ci fu la ribellione con la guerra del Peloponneso e il declino di Atene.
Curiosamente, sono sempre gli ex militari ad accorgersi per primi dei pericoli del militarismo. Il generale Eisenhower denunciò nel ’61 il «complesso militare-industriale» Usa. Ma anche Johnson è un ex ufficiale della guerra di Corea, nonché consulente Cia dal ’67 al ’73. Conosce insomma i suoi polli, e l’immensa ragnatela dei loro interessi.
Friday, March 23, 2007
Spedizioni militari italiane
TU CHIAMALE, SE VUOI, UMANITARIE
L’analisi del «decreto Afghanistan» fornisce dettagli a tratti grotteschi sulle nostre missioni all’estero. Con sottomarini che danno la caccia a Bin Laden e finanziamenti per cento semafori a Nassirya...
di Mauro Suttora
Diario, 23 marzo 2007
Otto milioni, 174 mila e 817 euro. Tanto costa al contribuente italiano l’operazione Active Endeavour per l’anno 2007. Cos’è? Stiamo dando la caccia a terroristi e pirati nel Mediterraneo con due navi e un sommergibile. Non si sa mai: che Osama mediti di attaccarci con qualche Mas? Che i discendenti dei saraceni vogliano assaltare le nostre coste? Le petroliere in rotta verso i porti italiani rischiano di essere silurate da Al Qaeda o abbordate da nuovi corsari berberi?
Bando agli scherzi. L’Operazione Sforzo Attivo (che tristezza dirla in italiano, perde ogni fascino da 007, suona come un rimedio contro la costipazione intestinale) è autorizzata dal comma tre, articolo tre del disegno di legge che converte il decreto 31 gennaio 2007 “recante proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali”. Già approvata dalla Camera con soli tre voti contrari su 630, martedì 27 marzo approda al Senato.
È ben nascosta nelle pieghe del famoso ‘decreto Afghanistan’, quello che ogni sei mesi fa venire il mal di pancia alla sinistra. Ma, per una volta, lasciamo perdere i tradimenti del senatore Turigliatto, i tentennamenti di Franca Rame o l’ottima salute di Rita Levi Montalcini. Immergiamoci nella lettura delle 300 pagine del decreto che periodicamente rischia di far cadere il governo Prodi.
La prima novità è che i militaristi nostrani hanno dimezzato le loro sofferenze. Sotto Berlusconi, infatti, le spedizioni armate al’estero dovevano essere finanziate ogni sei mesi. D’ora in poi, invece, i decreti di proroga durano un anno. Un piccolo sforzo, insomma, e poi fino al 2008 non se ne parla più.
Il titolo del decreto, poi: soave, nessuna traccia dell’aggettivo “militare”. Potrebbe trattarsi di un miliardo di euro donato a “missioni umanitarie” di Albert Schweitzer o madre Teresa. Le parole sono importanti. Ha voglia Nino Sergi, segretario generale di Intersos (volontari civili), a protestare: “Se un intervento è con le armi, non può essere ‘umanitario’. Chiamatelo di peace-keeping, peace-enforcing, sostegno alla pace, come volete. Ma non ‘umanitario’”.
Battaglia persa. È da un quarto di secolo (Libano 1982) che le nostre forze armate, tornate a organizzare spedizioni all’estero, spargono a piene mani parole profumate come “pace” e “umanitario”. Solo pochi cinici riottosi come Milan Kundera hanno smascherato l’impostura, bollando il tutto come “umanisteria”. Ma è almeno da Srebrenica (1995) e comunque dal Kosovo (1999) che i pacifisti hanno perso la loro guerra semantica. Sono stati spossessati perfino della loro ragion d’essere, del loro ‘brand’: la pace. Oggi sono i militari a “mantenere la pace”, dal Libano all’Afghanistan.
Per confondere le acque, quindi, i primi due articoli del decreto stanziano qualche briciola per la ‘cooperazione allo sviluppo’ (quella vera, la civile, che infatti compete al ministero degli Esteri): 30 milioni per l’Afghanistan, altri trenta al Libano, cinque e mezzo al Sudan. Anche dieci milioni all’Unione africana per la Somalia, figurarsi. Ci sono i 127mila euro per una conferenza sulla giustizia in Afghanistan da tenersi a Roma, e ne regaleremo altri 300mila ai libanesi sotto forma di rilevatori di mine.
Conquistata la simpatia delle Ong e quindi il voto della sinistra, con l’articolo tre si arriva al sodo. E infatti gli stanziamenti passano da otto a nove cifre: 386.680.214 euro per i 2.500 militari in Libano, 310 milioni per i 2.000 in Afghanistan e ad Abu Dhabi, 143 milioni per i 2.300 che ancora languono dimenticati dopo otto anni in Kosovo, trenta milioni per i 900 in Bosnia (ma questi ultimi solo per sei mesi, perché c’è la possibilità che dopo dodici anni finalmente rientrino).
E poi una miriade di altre microspedizioni: i 18 carabinieri a Hebron (un milione e mezzo), i 17 che dovrebbero sorvegliare la frontiera di Rafah fra Gaza ed Egitto se gli israeliani la tenessero aperta (1,4 milioni), fino ai quattro militari in Darfur (600mila euro), quattro in Congo, altri quattro a Cipro, e tre milioni per cento nostri addestratori, in Albania da dieci anni.
Soldi spesi bene? Dipende dai gusti politici di ciascuno di noi, ovviamente. “Mi sembra un miliardo stanziato secondo il principio ‘Se ci siamo, contiamo’”, dice Sergi. Show the flag, mostrare la bandiera ovunque possibile. Era la regola in voga130 anni fa, all’apice del colonialismo: l’Italietta crispina se ne entusiasmò. Poi però arrivò Adua. Volle sedersi a tavola anche Mussolini, per mangiarsi Nizza e Savoia, Corsica e Tunisia. “Siamo un grande Paese e una media potenza”, si limita a dire oggi D’Alema. “Facciamo parte del G8, dobbiamo avere senso di responsabilità”, ci ammaestra la gandhiana Emma Bonino.
Che lettura interessante, questo decreto. Pagina 109, tabelle di spesa per la missione Afghanistan. Indennità di contingente per due nostri ufficiali e quattro sottufficiali di collegamento (esercito e aeronautica) presso il comando Usa di Tampa in Florida. Ma non ci avevano detto che la missione afghana era a guida Nato, e non statunitense? E il quartier generale Nato non sta a Bruxelles?
L’operazione più attraente, come abbiamo anticipato, è la Active Endeavour. Questa è sicuramente una missione in cui gli americani non contano tantissimo, e l’indizio che ce lo fa capire è lo spelling di ‘endeavour’: in americano scrivono ‘endeavor’, come ‘humor’, quindi quella ‘u’ in più significa che c’è una predominanza europea.
Spiega la relazione che introduce il decreto: “Questa missione Nato, svolta da forze navali, è finalizzata a dare prevenzione e protezione contro azioni terroristiche e di pirateria marittima nell’area orientale del Mediterraneo, attraverso operazioni di contromisure mine, attività di controllo e sorveglianza marittima e servizi di scorta del naviglio mercantile”.
La Active Endeavour nacque il 12 settembre 2001, sull’onda dell’attentato alle Torri. Ma se pattugliare il mare europeo poteva essere un’idea compensibile in quelle settimane di orgasmo, in cui le forze armate di tutto il mondo occidentale facevano a gara ad autoassegnarsi nuovi compiti (e finanziamenti) antiterrorismo, a sei anni di distanza è lecito domandarsi: quanti terroristi sono stati scoperti grazie a questa sorveglianza? Quanti attentati sventati? La Nato fa mai un’analisi costi/benefici? A meno che l’unica vera mission dell’Alleanza, dopo il crollo del comunismo 18 anni fa, sia trovare e drammatizzare un nuovo nemico purchessia, per giustificare la mancata smobilitazione dopo la fine della guerra fredda. Certo, pare che Sheik Khaled Muhamad, numero tre di Al Qaeda arrestato nel 2003 in Pakistan e da allora prigioniero a Guantanamo, abbia alluso a petroliere Usa da far saltare a Gibilterra.
Fatto sta che l’Italia contribuisce ad Active Endeavour con 105 marinai imbarcati sulla fregata Maestrale, sul cacciamine Termoli e, dulcis in fundo, sul sommergibile Todaro nuovo di zecca: varato in febbraio, ha appena terminato l’8 marzo il suo primo mese di navigazione alla ricerca di Osama. Questo sottomarino appartiene alla nuova classe italo-tedesca U212-A, 130 milioni ad esemplare, un secondo gioiellino (lo Sciré) appena sfornato dalla Fincantieri in Liguria per la gioia delle maestranze (c’è lavoro), degli ammiragli (c’è prestigio) e anche del sottosegretario diessino (ma soprattutto spezzino, quindi cantieri) alla Difesa, Lorenzo Forcieri.
I militari in Libano sono pagati meglio che quelli in Afghanistan (pag.125). Ognuno di loro prende in media, grazie alle indennità di missione, 105 mila euro all’anno (180 euro al giorno oltre allo stipendio), contro i 78 mila degli sfortunati spediti a Kabul e Herat. Forse anche da questa disparità nasce la riluttanza verso compiti realmente “operativi” (traduzione: combattimento) in Afghanistan.
Le penne monarchiche
In realtà in Libano non è che i nostri abbiano un granché da fare. Ecco l’ultimo comunicato stampa del contingente Leonte (15 marzo): “Oggi, una tonnellata di aiuti umanitari sono stati distribuiti a un istituto scolastico per diversamente abili di Tiro. Gli aiuti, composti da pasta, riso, merendine, pelati ecc., sono stati distribuiti dai Lagunari del reggimento ‘Serenissima’. Sono stati affidati al Contingente Italiano da diverse associazioni tra cui: l’Associazione Internazionale Regina Elena, la Together Onlus, ‘Ci siamo anche noi’ di Cavallino Treporti (Ve), Associazione mestrina San Vincenzo, farmacia Ghezzi dell’isola della Giudecca di Venezia...”
L’associazione Regina Elena, che ha fornito anche “matite, penne e zainetti” distribuiti in una scuola elementare libanese dai nostri militari, è un gruppuscolo legittimista monarchico (vogliono ufficialmente il ritorno del re) guidato dal bisnipote di Elena, il principe Serge di Jugoslavia (figlio di Maria Pia di Savoia). Abbiamo quindi soldati della repubblica italiana che distribuiscono la beneficenza di chi vuole il ritorno della monarchia...
Ma per distribuire penne e matite ai bimbi libanesi non bastavano due operatori civili di una qualsiasi Ong? C’era bisogno di mandare un contingente militare di 2.500 soldati con carri armati? I quali peraltro finora non hanno sequestrato neanche una pistola ad acqua agli hezbollah: quindi non stanno eseguendo la loro missione ufficiale, che non è principalmente umanitaria o di sminamento, ma di disarmo degli hezbollah.
Poi ci sono i 75 mila euro stanziati per comprare cento semafori da mettere a Nassirya. Anche installando quattro semafori per incrocio, a Nassirya esistono 25 incroci con un tale traffico da giustificare semafori? E poi: 500 mila euro per la “mappatura satellitare” dei beni culturali irakeni... Oppure: un milione di euro per un corso di 45 giorni per sessanta tecnici del petrolio iracheni a Piacenza (alloggio nell’albergo Piacenza Ovest...), come se le compagnie petrolifere (compresa la nostra Eni) non fossero abbastanza ricche da poter pagar loro la formazione... Oppure due “esperti” da inviare in Curdistan per “facilitare la penetrazione commerciale italiana” (sic) al modico stipendio annuo di 180mila euro l’uno. Siamo sicuri che è di questo che c’è bisogno per pacificare l’Iraq, oggi?
Mauro Suttora
L’analisi del «decreto Afghanistan» fornisce dettagli a tratti grotteschi sulle nostre missioni all’estero. Con sottomarini che danno la caccia a Bin Laden e finanziamenti per cento semafori a Nassirya...
di Mauro Suttora
Diario, 23 marzo 2007
Otto milioni, 174 mila e 817 euro. Tanto costa al contribuente italiano l’operazione Active Endeavour per l’anno 2007. Cos’è? Stiamo dando la caccia a terroristi e pirati nel Mediterraneo con due navi e un sommergibile. Non si sa mai: che Osama mediti di attaccarci con qualche Mas? Che i discendenti dei saraceni vogliano assaltare le nostre coste? Le petroliere in rotta verso i porti italiani rischiano di essere silurate da Al Qaeda o abbordate da nuovi corsari berberi?
Bando agli scherzi. L’Operazione Sforzo Attivo (che tristezza dirla in italiano, perde ogni fascino da 007, suona come un rimedio contro la costipazione intestinale) è autorizzata dal comma tre, articolo tre del disegno di legge che converte il decreto 31 gennaio 2007 “recante proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali”. Già approvata dalla Camera con soli tre voti contrari su 630, martedì 27 marzo approda al Senato.
È ben nascosta nelle pieghe del famoso ‘decreto Afghanistan’, quello che ogni sei mesi fa venire il mal di pancia alla sinistra. Ma, per una volta, lasciamo perdere i tradimenti del senatore Turigliatto, i tentennamenti di Franca Rame o l’ottima salute di Rita Levi Montalcini. Immergiamoci nella lettura delle 300 pagine del decreto che periodicamente rischia di far cadere il governo Prodi.
La prima novità è che i militaristi nostrani hanno dimezzato le loro sofferenze. Sotto Berlusconi, infatti, le spedizioni armate al’estero dovevano essere finanziate ogni sei mesi. D’ora in poi, invece, i decreti di proroga durano un anno. Un piccolo sforzo, insomma, e poi fino al 2008 non se ne parla più.
Il titolo del decreto, poi: soave, nessuna traccia dell’aggettivo “militare”. Potrebbe trattarsi di un miliardo di euro donato a “missioni umanitarie” di Albert Schweitzer o madre Teresa. Le parole sono importanti. Ha voglia Nino Sergi, segretario generale di Intersos (volontari civili), a protestare: “Se un intervento è con le armi, non può essere ‘umanitario’. Chiamatelo di peace-keeping, peace-enforcing, sostegno alla pace, come volete. Ma non ‘umanitario’”.
Battaglia persa. È da un quarto di secolo (Libano 1982) che le nostre forze armate, tornate a organizzare spedizioni all’estero, spargono a piene mani parole profumate come “pace” e “umanitario”. Solo pochi cinici riottosi come Milan Kundera hanno smascherato l’impostura, bollando il tutto come “umanisteria”. Ma è almeno da Srebrenica (1995) e comunque dal Kosovo (1999) che i pacifisti hanno perso la loro guerra semantica. Sono stati spossessati perfino della loro ragion d’essere, del loro ‘brand’: la pace. Oggi sono i militari a “mantenere la pace”, dal Libano all’Afghanistan.
Per confondere le acque, quindi, i primi due articoli del decreto stanziano qualche briciola per la ‘cooperazione allo sviluppo’ (quella vera, la civile, che infatti compete al ministero degli Esteri): 30 milioni per l’Afghanistan, altri trenta al Libano, cinque e mezzo al Sudan. Anche dieci milioni all’Unione africana per la Somalia, figurarsi. Ci sono i 127mila euro per una conferenza sulla giustizia in Afghanistan da tenersi a Roma, e ne regaleremo altri 300mila ai libanesi sotto forma di rilevatori di mine.
Conquistata la simpatia delle Ong e quindi il voto della sinistra, con l’articolo tre si arriva al sodo. E infatti gli stanziamenti passano da otto a nove cifre: 386.680.214 euro per i 2.500 militari in Libano, 310 milioni per i 2.000 in Afghanistan e ad Abu Dhabi, 143 milioni per i 2.300 che ancora languono dimenticati dopo otto anni in Kosovo, trenta milioni per i 900 in Bosnia (ma questi ultimi solo per sei mesi, perché c’è la possibilità che dopo dodici anni finalmente rientrino).
E poi una miriade di altre microspedizioni: i 18 carabinieri a Hebron (un milione e mezzo), i 17 che dovrebbero sorvegliare la frontiera di Rafah fra Gaza ed Egitto se gli israeliani la tenessero aperta (1,4 milioni), fino ai quattro militari in Darfur (600mila euro), quattro in Congo, altri quattro a Cipro, e tre milioni per cento nostri addestratori, in Albania da dieci anni.
Soldi spesi bene? Dipende dai gusti politici di ciascuno di noi, ovviamente. “Mi sembra un miliardo stanziato secondo il principio ‘Se ci siamo, contiamo’”, dice Sergi. Show the flag, mostrare la bandiera ovunque possibile. Era la regola in voga130 anni fa, all’apice del colonialismo: l’Italietta crispina se ne entusiasmò. Poi però arrivò Adua. Volle sedersi a tavola anche Mussolini, per mangiarsi Nizza e Savoia, Corsica e Tunisia. “Siamo un grande Paese e una media potenza”, si limita a dire oggi D’Alema. “Facciamo parte del G8, dobbiamo avere senso di responsabilità”, ci ammaestra la gandhiana Emma Bonino.
Che lettura interessante, questo decreto. Pagina 109, tabelle di spesa per la missione Afghanistan. Indennità di contingente per due nostri ufficiali e quattro sottufficiali di collegamento (esercito e aeronautica) presso il comando Usa di Tampa in Florida. Ma non ci avevano detto che la missione afghana era a guida Nato, e non statunitense? E il quartier generale Nato non sta a Bruxelles?
L’operazione più attraente, come abbiamo anticipato, è la Active Endeavour. Questa è sicuramente una missione in cui gli americani non contano tantissimo, e l’indizio che ce lo fa capire è lo spelling di ‘endeavour’: in americano scrivono ‘endeavor’, come ‘humor’, quindi quella ‘u’ in più significa che c’è una predominanza europea.
Spiega la relazione che introduce il decreto: “Questa missione Nato, svolta da forze navali, è finalizzata a dare prevenzione e protezione contro azioni terroristiche e di pirateria marittima nell’area orientale del Mediterraneo, attraverso operazioni di contromisure mine, attività di controllo e sorveglianza marittima e servizi di scorta del naviglio mercantile”.
La Active Endeavour nacque il 12 settembre 2001, sull’onda dell’attentato alle Torri. Ma se pattugliare il mare europeo poteva essere un’idea compensibile in quelle settimane di orgasmo, in cui le forze armate di tutto il mondo occidentale facevano a gara ad autoassegnarsi nuovi compiti (e finanziamenti) antiterrorismo, a sei anni di distanza è lecito domandarsi: quanti terroristi sono stati scoperti grazie a questa sorveglianza? Quanti attentati sventati? La Nato fa mai un’analisi costi/benefici? A meno che l’unica vera mission dell’Alleanza, dopo il crollo del comunismo 18 anni fa, sia trovare e drammatizzare un nuovo nemico purchessia, per giustificare la mancata smobilitazione dopo la fine della guerra fredda. Certo, pare che Sheik Khaled Muhamad, numero tre di Al Qaeda arrestato nel 2003 in Pakistan e da allora prigioniero a Guantanamo, abbia alluso a petroliere Usa da far saltare a Gibilterra.
Fatto sta che l’Italia contribuisce ad Active Endeavour con 105 marinai imbarcati sulla fregata Maestrale, sul cacciamine Termoli e, dulcis in fundo, sul sommergibile Todaro nuovo di zecca: varato in febbraio, ha appena terminato l’8 marzo il suo primo mese di navigazione alla ricerca di Osama. Questo sottomarino appartiene alla nuova classe italo-tedesca U212-A, 130 milioni ad esemplare, un secondo gioiellino (lo Sciré) appena sfornato dalla Fincantieri in Liguria per la gioia delle maestranze (c’è lavoro), degli ammiragli (c’è prestigio) e anche del sottosegretario diessino (ma soprattutto spezzino, quindi cantieri) alla Difesa, Lorenzo Forcieri.
I militari in Libano sono pagati meglio che quelli in Afghanistan (pag.125). Ognuno di loro prende in media, grazie alle indennità di missione, 105 mila euro all’anno (180 euro al giorno oltre allo stipendio), contro i 78 mila degli sfortunati spediti a Kabul e Herat. Forse anche da questa disparità nasce la riluttanza verso compiti realmente “operativi” (traduzione: combattimento) in Afghanistan.
Le penne monarchiche
In realtà in Libano non è che i nostri abbiano un granché da fare. Ecco l’ultimo comunicato stampa del contingente Leonte (15 marzo): “Oggi, una tonnellata di aiuti umanitari sono stati distribuiti a un istituto scolastico per diversamente abili di Tiro. Gli aiuti, composti da pasta, riso, merendine, pelati ecc., sono stati distribuiti dai Lagunari del reggimento ‘Serenissima’. Sono stati affidati al Contingente Italiano da diverse associazioni tra cui: l’Associazione Internazionale Regina Elena, la Together Onlus, ‘Ci siamo anche noi’ di Cavallino Treporti (Ve), Associazione mestrina San Vincenzo, farmacia Ghezzi dell’isola della Giudecca di Venezia...”
L’associazione Regina Elena, che ha fornito anche “matite, penne e zainetti” distribuiti in una scuola elementare libanese dai nostri militari, è un gruppuscolo legittimista monarchico (vogliono ufficialmente il ritorno del re) guidato dal bisnipote di Elena, il principe Serge di Jugoslavia (figlio di Maria Pia di Savoia). Abbiamo quindi soldati della repubblica italiana che distribuiscono la beneficenza di chi vuole il ritorno della monarchia...
Ma per distribuire penne e matite ai bimbi libanesi non bastavano due operatori civili di una qualsiasi Ong? C’era bisogno di mandare un contingente militare di 2.500 soldati con carri armati? I quali peraltro finora non hanno sequestrato neanche una pistola ad acqua agli hezbollah: quindi non stanno eseguendo la loro missione ufficiale, che non è principalmente umanitaria o di sminamento, ma di disarmo degli hezbollah.
Poi ci sono i 75 mila euro stanziati per comprare cento semafori da mettere a Nassirya. Anche installando quattro semafori per incrocio, a Nassirya esistono 25 incroci con un tale traffico da giustificare semafori? E poi: 500 mila euro per la “mappatura satellitare” dei beni culturali irakeni... Oppure: un milione di euro per un corso di 45 giorni per sessanta tecnici del petrolio iracheni a Piacenza (alloggio nell’albergo Piacenza Ovest...), come se le compagnie petrolifere (compresa la nostra Eni) non fossero abbastanza ricche da poter pagar loro la formazione... Oppure due “esperti” da inviare in Curdistan per “facilitare la penetrazione commerciale italiana” (sic) al modico stipendio annuo di 180mila euro l’uno. Siamo sicuri che è di questo che c’è bisogno per pacificare l’Iraq, oggi?
Mauro Suttora
Tuesday, March 06, 2007
intervista a Francesca Dellera
"In amore sono anarchica"
La Dellera torna in Tv: è la "Contessa di Castiglione"
La cortigiana non si fece scrupoli a concedersi a Napoleone III per il bene dell' Italia. "Anch'io vivo d' impulso in amore e sono anticonformista", rivela Francesca. "Non voglio nemmeno sentire la parola "coppia". Ma poi, a furia di insistere, abbiamo scoperto che un uomo ce l'ha, a Parigi, da due anni...
di Mauro Suttora
Oggi, 6 dicembre 2006
Roma
La vuole fare una foto a cavallo, davanti all' Altare della patria?
"E perché?"
Be', è stata la contessa di Castiglione a far nascere l'Italia, più di Vittorio Emanuele II e almeno quanto Garibaldi. Fu lei a sedurre Napoleone III, convincendolo con le buonissime a combattere per noi contro gli austriaci nel 1859.
"Ahahah...".
La risata di Francesca Dellera è affascinante quanto i suoi occhi e la sua leggendaria pelle bianca. Da vent' anni si è insediata da regina nella fantasia erotica degli italiani (Capriccio di Tinto Brass, 1987), e non se n'è più andata. Anzi, per la verità se n'è andata lei, dall'Italia: a Los Angeles, New York, Londra, ora a Parigi, dietro a uomini misteriosi e ad avventure favolose.
Così non l' abbiamo più ammirata, tranne che ne La Carne di Marco Ferreri nel '91 (dove faceva girare la testa al povero Sergio Castellitto) e in Tv con Nanà cinque anni fa. Una diva un po' accidiosa che ha fatto dell' assenza una virtù. Ma è rimasta nella nostra memoria, indelebile. Ora torna, e praticamente interpreta se stessa: Virginia Oldoini, alias Contessa di Castiglione, film in due puntate su Raiuno da domenica 3 dicembre, con Jeanne Moreau e Sergio Rubini.
"È un personaggio che ho sentito molto vicino, anch' io vivo d' impulso come lei. La Castiglione è una donna modernissima, che ha vinto gli schemi della sua epoca sfuggendo alle regole e ai pregiudizi. Grande anticonformista, in una società in cui le donne erano completamente sottomesse: contavano solo in quanto mogli dei propri mariti".
Qualcuno però l'ha definita prostituta d' alto bordo: prima Napoleone III, poi amante di Vittorio Emanuele II...
"Ma figurarsi. Ho letto le sue biografie, quella donna non calcolava vantaggi e svantaggi. Si lasciava guidare dalle emozioni, era calda e passionale, e ha sempre pagato in prima persona".
Fatto sta che accettò di farsi mandare da Cavour a Parigi con il preciso compito di portare a letto l' imperatore francese. "Certo, e per un obiettivo nobile e patriottico. Ma per lei la seduzione era una sfida, le piaceva conquistare un uomo. Però alla fine non ne ricavava niente. Morì con pochi soldi, non ha mai capitalizzato le proprie "vittorie". Di Napoleone poi s' innamorò sul serio, anche se il suo cuore in realtà batteva per un giovane anarchico".
E il suo cuore batte per chi, attualmente ? "Un uomo francese, a Parigi".
Da quando ?
"Meno di due anni".
Vivete assieme ?
"Neanche per sogno ! La convivenza è la tomba dell' amore. Quando un uomo torna a casa la sera e si sente in diritto di domandare alla propria donna "Che cosa hai fatto oggi ?", è la fine. L' amore ha bisogno di mistero".
Be' , dipende dalle coppie...
"Già la parola "coppia" mi mette tristezza. Barbara Alberti ha detto: "L' amore è per i coraggiosi, tutto il resto è coppia".
Mi sa che il giovane anarchico che si innamora di lei nel film ha trasformato anche lei in una libertaria libertina.
"Ma io sono sempre stata così. Me lo disse Ferreri: "Tu sei una ribelle anarcoide". Ogni volta che in un rapporto mi sento costretta o condizionata, mi viene voglia di scappare".
Lei non metterà mai su famiglia.
"E perché dovrei ?".
Non vuole dei figli ?
"Perché no, chissà...".
Vabbè, cambiamo argomento. Altre somiglianze con la Castiglione?
"Sono molto incosciente, non riesco mai a fare progetti, a programmare il futuro. Sono indisciplinata e ribelle".
Anche lei fra un quarto di secolo coprirà gli specchi di casa con velluto per non vedersi vecchia ?
"Chissà se ci arriverò, a sessant' anni".
Anche a lei piace conquistare gli uomini solo per il gusto di farlo ?
"Sono troppo pigra per conquistare. Però sono anche fortunata: gli uomini che mi piacciono arrivano da soli".
Ma se non si dà almeno un po' da fare, come succede ? Qual è il suo segreto ? Le basta un' occhiata ?
"Guardi, a Parigi tutte le donne impazzivano per uno sportivo molto sexy..."
Il tennista Yannick Noah ?
"Oddio, ma lei che fa ? È il mio biografo ?"
Mi sono preparato.
"Insomma, non voglio fare nomi, fatto sta che questo comincia a corteggiarmi e io gli dico: "Ma sei sposato". E... "Con la sua risposta mi ha conquistato: "Nessuno è perfetto". Poco dopo si è separato, ma almeno non ha fatto come molti uomini italiani, che negano, montano sceneggiate, dicono sempre "Mi sto separando".
Una volta Cesare Lanza le ha chiesto: "Preferisci possedere o essere posseduta ?". E lei rispose fulminea: "Detesto possedere perché non mi piace essere posseduta". Le è venuta spontanea, o è la citazione di un filosofo?
"Ahahah ! Ma è così semplice, è solo la traduzione del comandamento "Non fare agli altri quello che non vuoi ti venga fatto". Ripeto: sono contro il matrimonio e qualsiasi forma di convivenza".
E dagli. Ma se ci si ama ci si vuole svegliare accanto.
"Sì, i primi tempi. Poi, meglio la lontananza. Accende il desiderio. Guardi Claudia Cardinale: lei se ne sta a Parigi, e il suo Squitieri a Roma. Certi matrimoni sono così ridicoli. Quello di Tom Cruise, per esempio: prevede addirittura una multa in caso di corna".
Le piace fare l' amore ?
"In una storia il sesso è tutto".
La butta sul fisico.
"Macché: trovo antierotici i maschi palestrati. In un uomo mi attira l' intelligenza".
Per esempio ?
"Jeremy Irons".
L' ha conosciuto ?
"No, e non ci tengo: magari mi deluderebbe. Come tipo mi piace anche Benicio Del Toro".
Ma è il contrario di Irons.
"No, è torbido come lui. Più selvaggio. Mi dà l' idea di un portoricano maledetto, figlio della strada".
Lei mi delude. Torniamo alla Castiglione, che fu la prima a posare per foto erotiche. Ne ha fatte di più la contessa o lei ? "Ma io non ho mai posato nuda !".
Su, non scherzi, le ho detto che ho studiato: copertina di Penthouse nell'88, Playmen nel '97.
"Erano solo foto di scena, tratte dai film".
Oh, questo è uno scoop. Perché non fa vita mondana ? Non la si vede mai in giro.
"Ho una casa a Roma, ma abito soprattutto a Parigi. E comunque non m'interessa quel tipo di vita. C'è già così tanta gente che non fa niente, ma appare sempre...".
Il poeta Attilio Bertolucci, padre di Bernardo, ha scritto: "L' anemia fa più bella". Lei si è mai abbronzata ?
"Non sono anemica, ma visto che il sole rovina la carnagione, che sono pigra e che agli uomini la pelle chiara piace, perché dovrei starmene a soffrire al sole?"
Durante le riprese di questo film Jeanne Moreau le ha regalato un libro su Marilyn Monroe, dicendole che le siete apparse entrambe fragili. Lei come si sente ?
"Fragile, sì. La libertà è la cosa più costosa al mondo".
La Dellera torna in Tv: è la "Contessa di Castiglione"
La cortigiana non si fece scrupoli a concedersi a Napoleone III per il bene dell' Italia. "Anch'io vivo d' impulso in amore e sono anticonformista", rivela Francesca. "Non voglio nemmeno sentire la parola "coppia". Ma poi, a furia di insistere, abbiamo scoperto che un uomo ce l'ha, a Parigi, da due anni...
di Mauro Suttora
Oggi, 6 dicembre 2006
Roma
La vuole fare una foto a cavallo, davanti all' Altare della patria?
"E perché?"
Be', è stata la contessa di Castiglione a far nascere l'Italia, più di Vittorio Emanuele II e almeno quanto Garibaldi. Fu lei a sedurre Napoleone III, convincendolo con le buonissime a combattere per noi contro gli austriaci nel 1859.
"Ahahah...".
La risata di Francesca Dellera è affascinante quanto i suoi occhi e la sua leggendaria pelle bianca. Da vent' anni si è insediata da regina nella fantasia erotica degli italiani (Capriccio di Tinto Brass, 1987), e non se n'è più andata. Anzi, per la verità se n'è andata lei, dall'Italia: a Los Angeles, New York, Londra, ora a Parigi, dietro a uomini misteriosi e ad avventure favolose.
Così non l' abbiamo più ammirata, tranne che ne La Carne di Marco Ferreri nel '91 (dove faceva girare la testa al povero Sergio Castellitto) e in Tv con Nanà cinque anni fa. Una diva un po' accidiosa che ha fatto dell' assenza una virtù. Ma è rimasta nella nostra memoria, indelebile. Ora torna, e praticamente interpreta se stessa: Virginia Oldoini, alias Contessa di Castiglione, film in due puntate su Raiuno da domenica 3 dicembre, con Jeanne Moreau e Sergio Rubini.
"È un personaggio che ho sentito molto vicino, anch' io vivo d' impulso come lei. La Castiglione è una donna modernissima, che ha vinto gli schemi della sua epoca sfuggendo alle regole e ai pregiudizi. Grande anticonformista, in una società in cui le donne erano completamente sottomesse: contavano solo in quanto mogli dei propri mariti".
Qualcuno però l'ha definita prostituta d' alto bordo: prima Napoleone III, poi amante di Vittorio Emanuele II...
"Ma figurarsi. Ho letto le sue biografie, quella donna non calcolava vantaggi e svantaggi. Si lasciava guidare dalle emozioni, era calda e passionale, e ha sempre pagato in prima persona".
Fatto sta che accettò di farsi mandare da Cavour a Parigi con il preciso compito di portare a letto l' imperatore francese. "Certo, e per un obiettivo nobile e patriottico. Ma per lei la seduzione era una sfida, le piaceva conquistare un uomo. Però alla fine non ne ricavava niente. Morì con pochi soldi, non ha mai capitalizzato le proprie "vittorie". Di Napoleone poi s' innamorò sul serio, anche se il suo cuore in realtà batteva per un giovane anarchico".
E il suo cuore batte per chi, attualmente ? "Un uomo francese, a Parigi".
Da quando ?
"Meno di due anni".
Vivete assieme ?
"Neanche per sogno ! La convivenza è la tomba dell' amore. Quando un uomo torna a casa la sera e si sente in diritto di domandare alla propria donna "Che cosa hai fatto oggi ?", è la fine. L' amore ha bisogno di mistero".
Be' , dipende dalle coppie...
"Già la parola "coppia" mi mette tristezza. Barbara Alberti ha detto: "L' amore è per i coraggiosi, tutto il resto è coppia".
Mi sa che il giovane anarchico che si innamora di lei nel film ha trasformato anche lei in una libertaria libertina.
"Ma io sono sempre stata così. Me lo disse Ferreri: "Tu sei una ribelle anarcoide". Ogni volta che in un rapporto mi sento costretta o condizionata, mi viene voglia di scappare".
Lei non metterà mai su famiglia.
"E perché dovrei ?".
Non vuole dei figli ?
"Perché no, chissà...".
Vabbè, cambiamo argomento. Altre somiglianze con la Castiglione?
"Sono molto incosciente, non riesco mai a fare progetti, a programmare il futuro. Sono indisciplinata e ribelle".
Anche lei fra un quarto di secolo coprirà gli specchi di casa con velluto per non vedersi vecchia ?
"Chissà se ci arriverò, a sessant' anni".
Anche a lei piace conquistare gli uomini solo per il gusto di farlo ?
"Sono troppo pigra per conquistare. Però sono anche fortunata: gli uomini che mi piacciono arrivano da soli".
Ma se non si dà almeno un po' da fare, come succede ? Qual è il suo segreto ? Le basta un' occhiata ?
"Guardi, a Parigi tutte le donne impazzivano per uno sportivo molto sexy..."
Il tennista Yannick Noah ?
"Oddio, ma lei che fa ? È il mio biografo ?"
Mi sono preparato.
"Insomma, non voglio fare nomi, fatto sta che questo comincia a corteggiarmi e io gli dico: "Ma sei sposato". E... "Con la sua risposta mi ha conquistato: "Nessuno è perfetto". Poco dopo si è separato, ma almeno non ha fatto come molti uomini italiani, che negano, montano sceneggiate, dicono sempre "Mi sto separando".
Una volta Cesare Lanza le ha chiesto: "Preferisci possedere o essere posseduta ?". E lei rispose fulminea: "Detesto possedere perché non mi piace essere posseduta". Le è venuta spontanea, o è la citazione di un filosofo?
"Ahahah ! Ma è così semplice, è solo la traduzione del comandamento "Non fare agli altri quello che non vuoi ti venga fatto". Ripeto: sono contro il matrimonio e qualsiasi forma di convivenza".
E dagli. Ma se ci si ama ci si vuole svegliare accanto.
"Sì, i primi tempi. Poi, meglio la lontananza. Accende il desiderio. Guardi Claudia Cardinale: lei se ne sta a Parigi, e il suo Squitieri a Roma. Certi matrimoni sono così ridicoli. Quello di Tom Cruise, per esempio: prevede addirittura una multa in caso di corna".
Le piace fare l' amore ?
"In una storia il sesso è tutto".
La butta sul fisico.
"Macché: trovo antierotici i maschi palestrati. In un uomo mi attira l' intelligenza".
Per esempio ?
"Jeremy Irons".
L' ha conosciuto ?
"No, e non ci tengo: magari mi deluderebbe. Come tipo mi piace anche Benicio Del Toro".
Ma è il contrario di Irons.
"No, è torbido come lui. Più selvaggio. Mi dà l' idea di un portoricano maledetto, figlio della strada".
Lei mi delude. Torniamo alla Castiglione, che fu la prima a posare per foto erotiche. Ne ha fatte di più la contessa o lei ? "Ma io non ho mai posato nuda !".
Su, non scherzi, le ho detto che ho studiato: copertina di Penthouse nell'88, Playmen nel '97.
"Erano solo foto di scena, tratte dai film".
Oh, questo è uno scoop. Perché non fa vita mondana ? Non la si vede mai in giro.
"Ho una casa a Roma, ma abito soprattutto a Parigi. E comunque non m'interessa quel tipo di vita. C'è già così tanta gente che non fa niente, ma appare sempre...".
Il poeta Attilio Bertolucci, padre di Bernardo, ha scritto: "L' anemia fa più bella". Lei si è mai abbronzata ?
"Non sono anemica, ma visto che il sole rovina la carnagione, che sono pigra e che agli uomini la pelle chiara piace, perché dovrei starmene a soffrire al sole?"
Durante le riprese di questo film Jeanne Moreau le ha regalato un libro su Marilyn Monroe, dicendole che le siete apparse entrambe fragili. Lei come si sente ?
"Fragile, sì. La libertà è la cosa più costosa al mondo".
Monday, March 05, 2007
Anna Nicole Smith
IERI UNA MITOMANE, OGGI UN MITO: COME ELVIS, FOLLE DI FAN VISITANO LA TOMBA
Mauro Suttora per “Oggi”
Nassau, Bahamas
Altro che prendere il sole, andare in barca, giocare a golf. La signora Erica Elshoff è volata dalla sua Florida a Nassau, capitale delle Bahamas, soltanto per recarsi in pellegrinaggio al cimitero dove il 2 marzo è stata sepolta Anna Nicole Smith. E come lei migliaia di americani. Sì, perché l'ex coniglietta di Playboy morta un mese fa è ormai diventata, negli Stati Uniti, una leggenda popolare. Ogni volta che un programma tv parla di lei, gli ascolti s'impennano. Le tirature dei settimanali di gossip aumentano. Ma anche canali seri come la Cnn trasmettono in continuazione programmi su di lei. E perfino il prestigioso quotidiano Washington Post ha pubblicato una lunga biografia di Howard K. Stern, uno dei sette uomini che si proclamano padri della figlia di sei mesi di Anna Nicole, Daniellyn.
L'America impazzisce per la Smith, così come quarant'anni fa si appassionò per le morti di Marilyn e Kennedy, e trent'anni fa assistette incredula alla fine prematura di Elvis Presley. «Dipingono Anna Nicole come una pornostar furba e drogata, invece era una donna forte che si sapeva gestire», dice la signora Elshoff. Che crede alla versione dell'abuso di droghe. Ma, dopo l'autopsia contraddittoria, c'è chi comincia a ipotizzare l'omicidio. Se ne parlerà per anni.
Dopo il cimitero, dove Anna Nicole riposa con le ceneri dell'ex marito Howard Marshall, magnate del petrolio, e accanto alla tomba dell'amatissimo figlio Daniel, il tour dei fan prosegue verso l'ospedale di Nassau, dove il diciannovenne Daniel morì per overdose lo scorso settembre, solo pochi giorni dopo la nascita di Dannielynn. Ultima tappa: la villa Horizons, dove la pin-up ha trascorso gli ultimi mesi della sua avventurosissima vita.
«È un fenomeno di massa, paragonabile solo a quello per la principessa Diana», si frega le mani il ministro del turismo delle Bahamas. Un altro politico locale, il ministro dell'immigrazione Shane Gibson, è finito nei guai dopo che un giornale ha pubblicato una foto di lui a letto assieme ad Anna Nicole (vestiti). La loro amicizia era nota, ma lui ha dovuto dimettersi il 18 febbraio con l'accusa di aver accelerato il «sì» alla domanda di residenza della pin-up, l'anno scorso.
Le frequentazioni maschili di Anna Nicole in effetti erano vorticose. «Stavamo assieme, anche se sapevo che andava a letto anche con altri uomini», ha ammesso Stern, che le faceva da avvocato personale. «Ma a me andava bene, volevo soltanto che fosse felice». Gli altri pretendenti alla paternità di Daniellyn (ma soprattutto agli 89 milioni di dollari di eredità) sono sei. Eccoli.
1) L'ex fidanzato Larry Birkhead, fotografo, da subito ha contestato il riconoscimento della piccola da parte di Stern: «Siamo stati insieme dal 2004 al 2006», assicura, «e ricordo che quando noi eravamo a letto, Stern dormiva su un divano al piano di sotto. Lui era soltanto il suo tuttofare, uno zerbino. Lo scorso maggio abbiamo rotto, perché mi ero rifiutato di comprarle un paio di occhiali da sole. Lei era già incinta di me, ma per ripicca non volle più vedermi e mi tagliò fuori da tutto».
2) Il principe Federico von Anhalt, sessantenne ottavo e (per ora) ultimo marito della novantenne Zsa Zsa Gabor, la quale ha minacciato il divorzio quando pure lui si è vantato di essere andato a letto con Anna Nicole: «Voleva sposarmi per diventare una principessa», ha dichiarato l'attempato playboy, che quel titolo nobiliare lo comprò nell'80.
3) Mark Hatten, che è stato davvero assieme ad Anna Nicole in passato, ma che ora si trova in carcere. Condannato a ben sette anni proprio per averla pedinata e molestata dopo la fine della relazione e avere picchiato il vicino di casa di lei mentre la spiava. Come può averla fecondata, visto che nel periodo del concepimento era al fresco? Semplice: «Le avevo dato una fiala col mio sperma congelato». A spalleggiarlo spunta ora sua sorella Jackie, che si autoproclama «amica da 15 anni» di Anna Nicole, e rivela che lei le avrebbe confidato: «Stern è l'ultimo uomo sulla Terra di cui potrei innamorarmi».
4) Alexander Denk, un attorucolo austriaco che fu assunto come cuoco da Anna Nicole quando lei nel 2002 riuscì a piazzare un reality-show su se stessa su un canale tv Usa, che andò avanti per due stagioni. Ci mise poco a infilarsi pure lui nel letto della generosa coniglietta, che lo promosse guardia del corpo personale.
5) O.J. Simpson: campione di football accusato di avere ucciso la moglie una dozzina di anni fa, scampato alla sedia elettrica per il rotto della cuffia: anche lui eroe popolare americano, dice di aver fatto l'amore con Anna Nicole alla fine del 2005.
6) In questo circo poteva mancare Howard Marshall, il miliardario 89enne che sposò la Smith nel '94, morì dopo 14 mesi e fece scatenare la battaglia dei figli sull'eredità da un miliardo e 600 milioni di dollari? Potrebbe essere lui il padre di Daniellynn, grazie al solito seme congelato. Un'ipotesi che farebbe comodo ai parenti di Marshall che, dopo essere riusciti a far ridurre dai tribunali la quota di eredità di Anna Nicole a 474 e poi a 89 milioni di dollari, oggi si trovano in difficoltà. L'anno scorso, infatti, si è occupata della questione addirittura la Corte Suprema, che ha accolto l'appello della Smith. L'ammontare dell'eredità, quindi, è ancora tutto da decidere.
Lo zoo di cialtroni che si affolla attorno al cadavere della povera Anna Nicole è infine completato da sua mamma, Virginia, che la diede alla luce nel '67 in un paesino del Texas. Non parlava con la figlia da anni, forse decenni, da quando lei smise di servire pollo fritto in un fast food e scappò alla ricerca del successo. Ora ovviamente pure mamma Virginia si è rifatta viva. Esattamente come la madre di Hilary Swank nel film Million Dollar Baby di Clint Eastwood. L'arte imita la vita, ma la vita leggendaria dell'esuberante, bellissima Anna Nicole ormai attrae solo corvi e sciacalli.
Dagospia 16 Marzo 2007
Mauro Suttora per “Oggi”
Nassau, Bahamas
Altro che prendere il sole, andare in barca, giocare a golf. La signora Erica Elshoff è volata dalla sua Florida a Nassau, capitale delle Bahamas, soltanto per recarsi in pellegrinaggio al cimitero dove il 2 marzo è stata sepolta Anna Nicole Smith. E come lei migliaia di americani. Sì, perché l'ex coniglietta di Playboy morta un mese fa è ormai diventata, negli Stati Uniti, una leggenda popolare. Ogni volta che un programma tv parla di lei, gli ascolti s'impennano. Le tirature dei settimanali di gossip aumentano. Ma anche canali seri come la Cnn trasmettono in continuazione programmi su di lei. E perfino il prestigioso quotidiano Washington Post ha pubblicato una lunga biografia di Howard K. Stern, uno dei sette uomini che si proclamano padri della figlia di sei mesi di Anna Nicole, Daniellyn.
L'America impazzisce per la Smith, così come quarant'anni fa si appassionò per le morti di Marilyn e Kennedy, e trent'anni fa assistette incredula alla fine prematura di Elvis Presley. «Dipingono Anna Nicole come una pornostar furba e drogata, invece era una donna forte che si sapeva gestire», dice la signora Elshoff. Che crede alla versione dell'abuso di droghe. Ma, dopo l'autopsia contraddittoria, c'è chi comincia a ipotizzare l'omicidio. Se ne parlerà per anni.
Dopo il cimitero, dove Anna Nicole riposa con le ceneri dell'ex marito Howard Marshall, magnate del petrolio, e accanto alla tomba dell'amatissimo figlio Daniel, il tour dei fan prosegue verso l'ospedale di Nassau, dove il diciannovenne Daniel morì per overdose lo scorso settembre, solo pochi giorni dopo la nascita di Dannielynn. Ultima tappa: la villa Horizons, dove la pin-up ha trascorso gli ultimi mesi della sua avventurosissima vita.
«È un fenomeno di massa, paragonabile solo a quello per la principessa Diana», si frega le mani il ministro del turismo delle Bahamas. Un altro politico locale, il ministro dell'immigrazione Shane Gibson, è finito nei guai dopo che un giornale ha pubblicato una foto di lui a letto assieme ad Anna Nicole (vestiti). La loro amicizia era nota, ma lui ha dovuto dimettersi il 18 febbraio con l'accusa di aver accelerato il «sì» alla domanda di residenza della pin-up, l'anno scorso.
Le frequentazioni maschili di Anna Nicole in effetti erano vorticose. «Stavamo assieme, anche se sapevo che andava a letto anche con altri uomini», ha ammesso Stern, che le faceva da avvocato personale. «Ma a me andava bene, volevo soltanto che fosse felice». Gli altri pretendenti alla paternità di Daniellyn (ma soprattutto agli 89 milioni di dollari di eredità) sono sei. Eccoli.
1) L'ex fidanzato Larry Birkhead, fotografo, da subito ha contestato il riconoscimento della piccola da parte di Stern: «Siamo stati insieme dal 2004 al 2006», assicura, «e ricordo che quando noi eravamo a letto, Stern dormiva su un divano al piano di sotto. Lui era soltanto il suo tuttofare, uno zerbino. Lo scorso maggio abbiamo rotto, perché mi ero rifiutato di comprarle un paio di occhiali da sole. Lei era già incinta di me, ma per ripicca non volle più vedermi e mi tagliò fuori da tutto».
2) Il principe Federico von Anhalt, sessantenne ottavo e (per ora) ultimo marito della novantenne Zsa Zsa Gabor, la quale ha minacciato il divorzio quando pure lui si è vantato di essere andato a letto con Anna Nicole: «Voleva sposarmi per diventare una principessa», ha dichiarato l'attempato playboy, che quel titolo nobiliare lo comprò nell'80.
3) Mark Hatten, che è stato davvero assieme ad Anna Nicole in passato, ma che ora si trova in carcere. Condannato a ben sette anni proprio per averla pedinata e molestata dopo la fine della relazione e avere picchiato il vicino di casa di lei mentre la spiava. Come può averla fecondata, visto che nel periodo del concepimento era al fresco? Semplice: «Le avevo dato una fiala col mio sperma congelato». A spalleggiarlo spunta ora sua sorella Jackie, che si autoproclama «amica da 15 anni» di Anna Nicole, e rivela che lei le avrebbe confidato: «Stern è l'ultimo uomo sulla Terra di cui potrei innamorarmi».
4) Alexander Denk, un attorucolo austriaco che fu assunto come cuoco da Anna Nicole quando lei nel 2002 riuscì a piazzare un reality-show su se stessa su un canale tv Usa, che andò avanti per due stagioni. Ci mise poco a infilarsi pure lui nel letto della generosa coniglietta, che lo promosse guardia del corpo personale.
5) O.J. Simpson: campione di football accusato di avere ucciso la moglie una dozzina di anni fa, scampato alla sedia elettrica per il rotto della cuffia: anche lui eroe popolare americano, dice di aver fatto l'amore con Anna Nicole alla fine del 2005.
6) In questo circo poteva mancare Howard Marshall, il miliardario 89enne che sposò la Smith nel '94, morì dopo 14 mesi e fece scatenare la battaglia dei figli sull'eredità da un miliardo e 600 milioni di dollari? Potrebbe essere lui il padre di Daniellynn, grazie al solito seme congelato. Un'ipotesi che farebbe comodo ai parenti di Marshall che, dopo essere riusciti a far ridurre dai tribunali la quota di eredità di Anna Nicole a 474 e poi a 89 milioni di dollari, oggi si trovano in difficoltà. L'anno scorso, infatti, si è occupata della questione addirittura la Corte Suprema, che ha accolto l'appello della Smith. L'ammontare dell'eredità, quindi, è ancora tutto da decidere.
Lo zoo di cialtroni che si affolla attorno al cadavere della povera Anna Nicole è infine completato da sua mamma, Virginia, che la diede alla luce nel '67 in un paesino del Texas. Non parlava con la figlia da anni, forse decenni, da quando lei smise di servire pollo fritto in un fast food e scappò alla ricerca del successo. Ora ovviamente pure mamma Virginia si è rifatta viva. Esattamente come la madre di Hilary Swank nel film Million Dollar Baby di Clint Eastwood. L'arte imita la vita, ma la vita leggendaria dell'esuberante, bellissima Anna Nicole ormai attrae solo corvi e sciacalli.
Dagospia 16 Marzo 2007
Isoke
Oggi
di Mauro Suttora
Aosta, 14 marzo 2007
"E dopo una settimana Judith ha detto: non puoi stare qui senza soldi e senza lavoro. Devi pagare il mangiare, il dormire. Devi lavorare. E per chi non ha documenti il lavoro è uno solo. Quale, ho detto io. Eh, quand’è il momento lo vedrai, ha detto lei.
«Così una sera mi ha portato al posto di lavoro. Ha detto alle ragazze che stavano con me nella casa: datele un vestito per lavorare, qualche cosa che non mettete più. Mi hanno dato il vestito.
Era solo un paio di mutande. “Sul posto di lavoro si mette questo”, ha detto Judith.
«Era il 26 dicembre del 2000. Come posso dimenticare quel giorno? A Torino c’era la neve. Era la prima volta che la vedevo. Ma quant’è bella, ho detto. Tutto bianco e immobile e quasi incantato. È sempre così bello, qua in Italia? Però faceva freddo. Molto freddo. Così ho detto: io ’ste mutande non me le metto, e ho tenuto i miei jeans».
Così inizia la storia di Isoke Aikpitanyi, 27 anni, alta, bella, fiera, dolce, intelligente. Nigeriana di Benin City. È da lì che provengono, a migliaia, le ragazze buttate dal racket della prostituzione sui marciapiedi italiani: 10-12 ore al giorno di macchine e di clienti, esposte in mutande e tacchi a spillo a ogni genere di violenze e di aggressioni.
Lei, trafficata come le altre, è riuscita a uscirne e a salvarsi. Oggi vive ad Aosta e sta per sposare un italiano: Claudio Magnabosco, 55 anni, funzionario regionale. Ha scritto un libro bellissimo con Laura Maragnani: Le ragazze di Benin City, edizioni Melampo. Lo stile è quello di Oriana Fallaci in Lettera a un bambino mai nato. Coinvolgente, drammatico, mai retorico. Si legge d’un fiato. C’è dentro tutta la sua storia, e quella della tratta delle nere.
«Volevo dare voce a chi non ce l’ha», spiega Isoke, «alle ragazze che ogni sera scendono in strada senza sapere se ritorneranno, perché sono almeno duecento quelle che negli ultimi anni sono state accoltellate, strangolate, uccise a furia di botte o di iniezioni di veleno agricolo».
Senza contare quelle torturate, stuprate e massacrate, ma che sono tornate a casa vive, e dunque non fanno notizia. Le vediamo ogni sera in ogni nostra città, a Roma sulla via Salaria, a Milano in viale Abruzzi, su tutta la statale Adriatica da Rimini a San Benedetto del Tronto nelle Marche, o giù in Puglia da San Severo a Foggia.
Adesso, assieme al suo Claudio, Isoke sta creando una rete, per offrire un percorso d’uscita alle sue amiche ed ex colleghe, un’alternativa alla strada. È nata ad Aosta una casa-alloggio per le ragazze che non ne possono più che porta il suo nome.
«Allora», dice Isoke, «questa storia degli stupri etnici. Le ragazze la vivono tutti i giorni, ogni volta che vanno al lavoro. Escono con due pensieri in testa: forse questa è la sera che incontro il cliente che mi aiuta, che magari mi risolve un po’ il problema del debito. Trenta, cinquanta, sessanta mila euro. Il costo che le ragazze pagano per arrivare in Italia, con la promessa di un lavoro che le salverà dalla miseria nigeriana».
«Arrivano qui», continua Isoke, «e scoprono che il lavoro è uno soltanto, il marciapiede. Sul marciapiede succede di tutto, ma voi non lo sapete. E dunque il secondo pensiero che le ragazze, ogni sera, hanno in testa è questo: speriamo che non mi succeda niente. Ma a una o all’altra qualcosa succede. Sempre. Gli stupri sono la regola».
«Tutti i giorni», denuncia Isoke. Tutti i giorni gliene segnalano uno. Osas, per esempio, arrivata a Torino dopo due anni (due anni? «Sì, due anni interi») di viaggio attraverso l’Africa, su dalla Nigeria fino al deserto del Sahara.In sessanta stipate su un camion, senz’acqua né cibo, e quelle che erano di troppo venivano lasciate giù. Così. A morire, mentre il camion proseguiva verso il nord del Marocco su una pista punteggiata di ossa e di cadaveri.
Arrivata a Torino, Osas è stata buttata sulla strada. Caricata da un cliente. «Dove andiamo?», ha chiesto lui. «Posto tranquillo», ha detto lei. Era una delle poche frasi che le avevano insegnato le compagne di lavoro. Solo che il posto tranquillo era una cascina diroccata nell’hinterland torinese. Lì lui le ha puntato un coltello alla gola. L’ha violentata, picchiata, rapinata. Lei ha urlato e urlato. Da una casa vicina una voce ha gridato: «Ma basta, ma finitela. State zitti».
Solo dopo che l’uomo se n’è andato, qualcuno ha osato mettere il naso fuori: un ragazzo con un cane. «Che vuoi?», ha chiesto mentre il cane le ringhiava contro, «che cosa è successo?». Poi l’ha caricata in macchina e l’ha riportata a Torino. «E’ stato uno degli uomini più gentili che ho incontrato in Italia», dice Osas adesso.
«Ogni ragazza ha in dotazione un pezzo di strada per cui paga ai protettori un affitto mensile dai 150 ai 300 euro», racconta Isoke. «I clienti li chiamiamo “stupratori a pagamento”. Solo perché pagano 25 euro si sentono in diritto di volere qualunque cosa. “Di che ti lamenti, bastarda? I soldi li hai avuti”, ci urlano. E giù botte. Hanno l’ossessione del culo, gli italiani che vanno con le prostitute. Dicono: “Voglio fare quello che con mia moglie non faccio mai”. Tutto quello che vedono nei film porno e con la moglie non hanno il coraggio o il permesso di fare. “Ho pagato”, è la loro frase tipica».
Il libro è pieno di storie orribili, ma anche di una speranza: l’uscita dallo sfruttamento. «E questo», spiega Claudio Magnabosco, «nel 90 per cento dei casi per le ragazze nigeriane avviene grazie a un ex cliente che è diventato amico, fidanzato o marito». Proprio come è capitato a lui, che conobbe Isoke nel 2002 proprio come cliente. Un mese di frequentazione sulla strada, poi la decisione: «Vieni via con me». Quindi il cammino insieme, un percorso non facile, fatto anche di esitazioni e rincorse, che si concluderà felicemente con il giorno del «sì», non appena arriveranno dalla Nigeria i permessi per i parenti di lei.
E poi c’è il loro progetto per le altre, un progetto che punta alla sensibilizzazione dei «consumatori»: «I clienti, se informati, possono diventare una risorsa ed essere i veri avversari del racket», assicura Claudio.
Difficile infatti, a suo parere, che le giovani ex prostitute sopportino la vita delle comunità: troppa disciplina, alla fine moltissime scappano e tornano in strada. «Per uscire», conclude Isoke, «basta darci una opportunità, un permesso di soggiorno anche breve, sei mesi, per cercare un lavoro vero. In cambio dei documenti, invece, oggi le autorità pretendono che denunciamo qualcuno.
«Dobbiamo far sapere quello che succede. Le prostitute-madri alle quali le “maman”, le protettrici nigeriane, prendono i figli per ricattarle. I ragazzi neri che spacciano droga. Le famiglie che spingono le figlie minorenni a venire in Europa, e che poi sono ben contente di ricevere centinaia di euro al mese facendo finta di non sapere. La corruzione che favorisce i trafficanti. Le mutilazioni sessuali, il debito da pagare che non finisce mai, i pastori nigeriani cristiani che collaborano con il racket, le ragazze che muoiono attraversando il deserto. Questa è la tratta. Perché il problema non è solo la prostituzione».
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Aosta, 14 marzo 2007
"E dopo una settimana Judith ha detto: non puoi stare qui senza soldi e senza lavoro. Devi pagare il mangiare, il dormire. Devi lavorare. E per chi non ha documenti il lavoro è uno solo. Quale, ho detto io. Eh, quand’è il momento lo vedrai, ha detto lei.
«Così una sera mi ha portato al posto di lavoro. Ha detto alle ragazze che stavano con me nella casa: datele un vestito per lavorare, qualche cosa che non mettete più. Mi hanno dato il vestito.
Era solo un paio di mutande. “Sul posto di lavoro si mette questo”, ha detto Judith.
«Era il 26 dicembre del 2000. Come posso dimenticare quel giorno? A Torino c’era la neve. Era la prima volta che la vedevo. Ma quant’è bella, ho detto. Tutto bianco e immobile e quasi incantato. È sempre così bello, qua in Italia? Però faceva freddo. Molto freddo. Così ho detto: io ’ste mutande non me le metto, e ho tenuto i miei jeans».
Così inizia la storia di Isoke Aikpitanyi, 27 anni, alta, bella, fiera, dolce, intelligente. Nigeriana di Benin City. È da lì che provengono, a migliaia, le ragazze buttate dal racket della prostituzione sui marciapiedi italiani: 10-12 ore al giorno di macchine e di clienti, esposte in mutande e tacchi a spillo a ogni genere di violenze e di aggressioni.
Lei, trafficata come le altre, è riuscita a uscirne e a salvarsi. Oggi vive ad Aosta e sta per sposare un italiano: Claudio Magnabosco, 55 anni, funzionario regionale. Ha scritto un libro bellissimo con Laura Maragnani: Le ragazze di Benin City, edizioni Melampo. Lo stile è quello di Oriana Fallaci in Lettera a un bambino mai nato. Coinvolgente, drammatico, mai retorico. Si legge d’un fiato. C’è dentro tutta la sua storia, e quella della tratta delle nere.
«Volevo dare voce a chi non ce l’ha», spiega Isoke, «alle ragazze che ogni sera scendono in strada senza sapere se ritorneranno, perché sono almeno duecento quelle che negli ultimi anni sono state accoltellate, strangolate, uccise a furia di botte o di iniezioni di veleno agricolo».
Senza contare quelle torturate, stuprate e massacrate, ma che sono tornate a casa vive, e dunque non fanno notizia. Le vediamo ogni sera in ogni nostra città, a Roma sulla via Salaria, a Milano in viale Abruzzi, su tutta la statale Adriatica da Rimini a San Benedetto del Tronto nelle Marche, o giù in Puglia da San Severo a Foggia.
Adesso, assieme al suo Claudio, Isoke sta creando una rete, per offrire un percorso d’uscita alle sue amiche ed ex colleghe, un’alternativa alla strada. È nata ad Aosta una casa-alloggio per le ragazze che non ne possono più che porta il suo nome.
«Allora», dice Isoke, «questa storia degli stupri etnici. Le ragazze la vivono tutti i giorni, ogni volta che vanno al lavoro. Escono con due pensieri in testa: forse questa è la sera che incontro il cliente che mi aiuta, che magari mi risolve un po’ il problema del debito. Trenta, cinquanta, sessanta mila euro. Il costo che le ragazze pagano per arrivare in Italia, con la promessa di un lavoro che le salverà dalla miseria nigeriana».
«Arrivano qui», continua Isoke, «e scoprono che il lavoro è uno soltanto, il marciapiede. Sul marciapiede succede di tutto, ma voi non lo sapete. E dunque il secondo pensiero che le ragazze, ogni sera, hanno in testa è questo: speriamo che non mi succeda niente. Ma a una o all’altra qualcosa succede. Sempre. Gli stupri sono la regola».
«Tutti i giorni», denuncia Isoke. Tutti i giorni gliene segnalano uno. Osas, per esempio, arrivata a Torino dopo due anni (due anni? «Sì, due anni interi») di viaggio attraverso l’Africa, su dalla Nigeria fino al deserto del Sahara.In sessanta stipate su un camion, senz’acqua né cibo, e quelle che erano di troppo venivano lasciate giù. Così. A morire, mentre il camion proseguiva verso il nord del Marocco su una pista punteggiata di ossa e di cadaveri.
Arrivata a Torino, Osas è stata buttata sulla strada. Caricata da un cliente. «Dove andiamo?», ha chiesto lui. «Posto tranquillo», ha detto lei. Era una delle poche frasi che le avevano insegnato le compagne di lavoro. Solo che il posto tranquillo era una cascina diroccata nell’hinterland torinese. Lì lui le ha puntato un coltello alla gola. L’ha violentata, picchiata, rapinata. Lei ha urlato e urlato. Da una casa vicina una voce ha gridato: «Ma basta, ma finitela. State zitti».
Solo dopo che l’uomo se n’è andato, qualcuno ha osato mettere il naso fuori: un ragazzo con un cane. «Che vuoi?», ha chiesto mentre il cane le ringhiava contro, «che cosa è successo?». Poi l’ha caricata in macchina e l’ha riportata a Torino. «E’ stato uno degli uomini più gentili che ho incontrato in Italia», dice Osas adesso.
«Ogni ragazza ha in dotazione un pezzo di strada per cui paga ai protettori un affitto mensile dai 150 ai 300 euro», racconta Isoke. «I clienti li chiamiamo “stupratori a pagamento”. Solo perché pagano 25 euro si sentono in diritto di volere qualunque cosa. “Di che ti lamenti, bastarda? I soldi li hai avuti”, ci urlano. E giù botte. Hanno l’ossessione del culo, gli italiani che vanno con le prostitute. Dicono: “Voglio fare quello che con mia moglie non faccio mai”. Tutto quello che vedono nei film porno e con la moglie non hanno il coraggio o il permesso di fare. “Ho pagato”, è la loro frase tipica».
Il libro è pieno di storie orribili, ma anche di una speranza: l’uscita dallo sfruttamento. «E questo», spiega Claudio Magnabosco, «nel 90 per cento dei casi per le ragazze nigeriane avviene grazie a un ex cliente che è diventato amico, fidanzato o marito». Proprio come è capitato a lui, che conobbe Isoke nel 2002 proprio come cliente. Un mese di frequentazione sulla strada, poi la decisione: «Vieni via con me». Quindi il cammino insieme, un percorso non facile, fatto anche di esitazioni e rincorse, che si concluderà felicemente con il giorno del «sì», non appena arriveranno dalla Nigeria i permessi per i parenti di lei.
E poi c’è il loro progetto per le altre, un progetto che punta alla sensibilizzazione dei «consumatori»: «I clienti, se informati, possono diventare una risorsa ed essere i veri avversari del racket», assicura Claudio.
Difficile infatti, a suo parere, che le giovani ex prostitute sopportino la vita delle comunità: troppa disciplina, alla fine moltissime scappano e tornano in strada. «Per uscire», conclude Isoke, «basta darci una opportunità, un permesso di soggiorno anche breve, sei mesi, per cercare un lavoro vero. In cambio dei documenti, invece, oggi le autorità pretendono che denunciamo qualcuno.
«Dobbiamo far sapere quello che succede. Le prostitute-madri alle quali le “maman”, le protettrici nigeriane, prendono i figli per ricattarle. I ragazzi neri che spacciano droga. Le famiglie che spingono le figlie minorenni a venire in Europa, e che poi sono ben contente di ricevere centinaia di euro al mese facendo finta di non sapere. La corruzione che favorisce i trafficanti. Le mutilazioni sessuali, il debito da pagare che non finisce mai, i pastori nigeriani cristiani che collaborano con il racket, le ragazze che muoiono attraversando il deserto. Questa è la tratta. Perché il problema non è solo la prostituzione».
Mauro Suttora
Sunday, March 04, 2007
Maria Grazia Cucinotta
"A Pompei scoppia la mia carica sexy"
Oggi, 7 marzo 2007
di Mauro Suttora
Ci volevano due star messinesi, cresciute sotto l’Etna, per il duello mortale che si svolge all’ombra dell’altro grande vulcano italiano, il Vesuvio. Maria Grazia Cucinotta e Lorenzo Crespi si sfidano nella fiction Raiuno che andrà in onda in due puntate lunedì 5 marzo e martedì 6: Pompei.
Lei è Lavinia, moglie del ricco e corrotto Chelidone, mentre lui è il giovane pompeiano Marco, innamorato della schiava Valeria (interpretata da Andrea Osvart). Quest’ultima è insidiata da Chelidone, che vuole sedurla in cambio della libertà. Ma lei gli dice in faccia che piuttosto che cedergli preferirebbe morire
.
«Intanto io, cioè Lavinia, passo il tempo a comprare uomini per me e a procurare amanti a mio marito», ci racconta Maria Grazia. «Negli ultimi giorni di Pompei non esistevano limiti: il mio personaggio è una donna viziata e lussuriosa che passava da un’orgia all’altra. In vita mia non ho mai interpretato un ruolo così forte, all’inizio ero anche un po’ spaventata. Nella mia carriera non ho mai forzato molto la fisicità, mentre questa è una parte tutta sesso. Lavinia, infatti, non ha mai amato né è mai stata amata, la sua è pura perversione. Ma, grazie al regista Giulio Base, che essendo anche attore sa bene come girare certe scene, non si valica mai il limite della volgarità. E i costumi di Paolo Scalabrino sono i più belli del mondo: sembro una vera principessa, e offro il peggio di me senza rimorso...»
Ma il vero protagonista di Pompei è Lorenzo Crespi, l’ex modello di Armani diventato famoso come attore televisivo prima nei panni del maresciallo Palermo nella serie Carabinieri, poi in quelli del tenente Sammarco di Gente di mare. Proprio in questi giorni Crespi si trova in Calabria per le riprese di Gente di mare 2, il seguito delle fortunate avventure della Guardia Costiera.
L’ex fidanzato di Manuela Arcuri, della miss Arianna David e di Marina La Rosa, sex-symbol italico, da quattro mesi sta fisso con una ragazza di cui per ora non rivela l’identità: «Non è ancora il momento». Sono passati dieci anni ormai dal Globo d’Oro vinto come migliore attore esordiente nel film Porzus di Renzo Martinelli. E Lorenzo ha dovuto anche attraversare una prova difficile, bloccato per anni da un’operazione alla colonna vertebrale per stenosi.
Dopo Pompei, la Cucinotta tornerà sul grande schermo il 13 aprile con il film Last minute Marocco, in cui fa la parte della moglie schizzata di Valerio Mastandrea, mamma di due ragazzi. Poi sarà una casalinga in crisi in Sweet Marja
Però, adesso, la grande passione professionale di Maria Grazia è la produzione: «Sto iniziando un cortometraggio in Sicilia con il giovane regista Simone Catania e poi andrò in India per un primo progetto di film a Bollywood. Quello è un Paese fantastico, dov’è un piacere vivere fra gente che dimostra grande dignità e ha la speranza della reincarnazione».
Invece, il centro della vita della Cucinotta è a Roma. Dove sua figlia Giulia, a cinque anni, frequenta la primina e assieme alla mamma sta imparando le prime filastrocche a memoria. Quando può, Maria Grazia la accompagna a scuola al mattino. E il matrimonio con l’imprenditore Giulio Violati va avanti senza scossoni da dodici anni: «Il segreto della nostra sintonia? Non assomigliarsi mai», svela lei.
Sempre richiestissima come simbolo dell’Italia in patria e all’estero, la Cucinotta è reduce dalla cerimonia d’apertura del festival del cinema italiano a Shanghai e Pechino.
Anche Pompei fa parte di un progetto internazionale, il ciclo Imperium di miniserie tv della Lux Vide dei Bernabei, iniziato con Augustus e del quale sono stati girati anche Nerone e San Pietro. Tutto viene girato negli studi in muratura più grandi mai costruiti al mondo, con la riproduzione di Roma antica, ad Hammamet, in Tunisia.
«Pompei è il sito archeologico più visitato della Terra», spiega il regista Base, «milioni di persone sono attratte dalla città sepolta sotto l’eruzione del 79 dopo Cristo. Ma dietro quei cadaveri impietriti c’erano uomini e donne con i loro pensieri e affetti. Ho cercato di farli rivivere nella loro vita quotidiana».
Mauro Suttora
Oggi, 7 marzo 2007
di Mauro Suttora
Ci volevano due star messinesi, cresciute sotto l’Etna, per il duello mortale che si svolge all’ombra dell’altro grande vulcano italiano, il Vesuvio. Maria Grazia Cucinotta e Lorenzo Crespi si sfidano nella fiction Raiuno che andrà in onda in due puntate lunedì 5 marzo e martedì 6: Pompei.
Lei è Lavinia, moglie del ricco e corrotto Chelidone, mentre lui è il giovane pompeiano Marco, innamorato della schiava Valeria (interpretata da Andrea Osvart). Quest’ultima è insidiata da Chelidone, che vuole sedurla in cambio della libertà. Ma lei gli dice in faccia che piuttosto che cedergli preferirebbe morire
.
«Intanto io, cioè Lavinia, passo il tempo a comprare uomini per me e a procurare amanti a mio marito», ci racconta Maria Grazia. «Negli ultimi giorni di Pompei non esistevano limiti: il mio personaggio è una donna viziata e lussuriosa che passava da un’orgia all’altra. In vita mia non ho mai interpretato un ruolo così forte, all’inizio ero anche un po’ spaventata. Nella mia carriera non ho mai forzato molto la fisicità, mentre questa è una parte tutta sesso. Lavinia, infatti, non ha mai amato né è mai stata amata, la sua è pura perversione. Ma, grazie al regista Giulio Base, che essendo anche attore sa bene come girare certe scene, non si valica mai il limite della volgarità. E i costumi di Paolo Scalabrino sono i più belli del mondo: sembro una vera principessa, e offro il peggio di me senza rimorso...»
Ma il vero protagonista di Pompei è Lorenzo Crespi, l’ex modello di Armani diventato famoso come attore televisivo prima nei panni del maresciallo Palermo nella serie Carabinieri, poi in quelli del tenente Sammarco di Gente di mare. Proprio in questi giorni Crespi si trova in Calabria per le riprese di Gente di mare 2, il seguito delle fortunate avventure della Guardia Costiera.
L’ex fidanzato di Manuela Arcuri, della miss Arianna David e di Marina La Rosa, sex-symbol italico, da quattro mesi sta fisso con una ragazza di cui per ora non rivela l’identità: «Non è ancora il momento». Sono passati dieci anni ormai dal Globo d’Oro vinto come migliore attore esordiente nel film Porzus di Renzo Martinelli. E Lorenzo ha dovuto anche attraversare una prova difficile, bloccato per anni da un’operazione alla colonna vertebrale per stenosi.
Dopo Pompei, la Cucinotta tornerà sul grande schermo il 13 aprile con il film Last minute Marocco, in cui fa la parte della moglie schizzata di Valerio Mastandrea, mamma di due ragazzi. Poi sarà una casalinga in crisi in Sweet Marja
Però, adesso, la grande passione professionale di Maria Grazia è la produzione: «Sto iniziando un cortometraggio in Sicilia con il giovane regista Simone Catania e poi andrò in India per un primo progetto di film a Bollywood. Quello è un Paese fantastico, dov’è un piacere vivere fra gente che dimostra grande dignità e ha la speranza della reincarnazione».
Invece, il centro della vita della Cucinotta è a Roma. Dove sua figlia Giulia, a cinque anni, frequenta la primina e assieme alla mamma sta imparando le prime filastrocche a memoria. Quando può, Maria Grazia la accompagna a scuola al mattino. E il matrimonio con l’imprenditore Giulio Violati va avanti senza scossoni da dodici anni: «Il segreto della nostra sintonia? Non assomigliarsi mai», svela lei.
Sempre richiestissima come simbolo dell’Italia in patria e all’estero, la Cucinotta è reduce dalla cerimonia d’apertura del festival del cinema italiano a Shanghai e Pechino.
Anche Pompei fa parte di un progetto internazionale, il ciclo Imperium di miniserie tv della Lux Vide dei Bernabei, iniziato con Augustus e del quale sono stati girati anche Nerone e San Pietro. Tutto viene girato negli studi in muratura più grandi mai costruiti al mondo, con la riproduzione di Roma antica, ad Hammamet, in Tunisia.
«Pompei è il sito archeologico più visitato della Terra», spiega il regista Base, «milioni di persone sono attratte dalla città sepolta sotto l’eruzione del 79 dopo Cristo. Ma dietro quei cadaveri impietriti c’erano uomini e donne con i loro pensieri e affetti. Ho cercato di farli rivivere nella loro vita quotidiana».
Mauro Suttora
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