LA LITTLE AMERICA E’ SEMPRE PIU’ GRANDE, AMA E STUDIA L’ITALIA, E ORA APRE LA PORTA DI SAN PANCRAZIO
Il Foglio, sabato 9 giugno 2007, pag. III
Roma. Americani e italiani non si sono mai amati così tanto. Il 2007 sta battendo ogni record per i turisti in arrivo nei due Paesi. L’infatuazione è reciproca: un milione di italiani negli Usa (900mila l’anno scorso), ma soprattutto quattro milioni di statunitensi in Italia. Ci fu l’apice dei tre milioni per il Giubileo 2000, poi il crollo post-11 settembre (un milione nel 2002), ora il boom.
“Incredibile, l’euro a uno e 35 non li ferma, ormai dopo tedeschi e britannici gli statunitensi hanno conquistato il terzo posto fra i visitatori esteri in Italia, sono undici su cento”, rilevano all’Enit. Le compagnie aeree moltiplicano i voli: Continental, American Airlines e US Airlines viaggiano a pieno carico. Eurofly collega direttamente a New York anche Bologna, Napoli e Palermo.
È turismo di alto livello: gente attratta molto dal lago di Como o da Positano, poco da Rimini. Senza dimenticare moda e gastronomia, ci visitano soprattutto “to feed their minds”, per nutrire la mente con storia e cultura nelle città d’arte.
Byebye Londra e Parigi: l’Italia è diventata la scelta preferita dagli universitari americani per i loro stages di uno, tre, sei mesi in Europa. “Ogni anno ne arrivano diecimila solo a Roma, e altrettanti a Firenze”, calcola William Franklin dell’American Academy. I college Usa non sanno più dove metterli: villa La Pietra di lord Acton verso Fiesole non basta a contenere i ragazzi della New York University, i dormitori del Syracuse college scoppiano.
“Nessuno se n’è mai accorto, ma parecchie università americane hanno un campus a Roma”, ci dice la pierre romana-newyorkese Giosetta Capriati, già borsista Fulbright: “La Temple di Philadelphia sul lungotevere Arnaldo da Brescia ha cominciato nel 1967 come Accademia di Belle Arti e negli Anni Novanta ha aggiunto il Liberal Arts College: i loro degrees sono riconosciuti dal governo Italiano. È nato negli anni Sessanta anche il graduate program della Rhode Island School of Design, la più prestigiosa d’America nel settore, con sede a palazzo Cenci nel Ghetto... L’altrettanto importante Pratt Institute di New York ha un programma a Roma, e palazzo Lazzaroni, dietro il teatro Argentina, ospita la Cornell University”.
La John Cabot a Trastevere e la American University al Gianicolo sono invece college undergraduate americani, ma autoctoni: nati direttamente a Roma, senza casa madre negli Usa. Le lauree della Cabot sono riconosciute in Italia, mentre la American sta aspettando la reciprocità.
I romani guardano con indifferenza gli studenti americani seduti ai tavolini dei bar in via della Scala, li confondono con i turisti. Dietro l’angolo c’è Sant’Egidio, diventata famosa in tutto il mondo grazie al presidente Bush. Ma è un po’ più su, a porta San Pancrazio, che pulsa il cuore della cultura “alta” statunitense a Roma. Qui due palazzi con vista e parco fra i più belli della capitale ospitano da 110 anni l’American Academy, che ogni anno offre 75 borse di studio ad artisti e studiosi americani felici di poter risiedere per dodici mesi nella Città Eterna.
Pittori, scultori, architetti, musicisti, storici, archeologi: nomi importanti sono passati nell’ultimo secolo da villa Aurelia (ex quartiere generale di Garibaldi nel 1849), dal principale compositore americano contemporaneo Aaron Copland (nel ’51) a Laurie Anderson l’anno scorso. L’architetto Richard Meyer, autore della nuova Ara Pacis, è stato fellow nel ’74, e i pittori Frank Stella nell’83, Roy Lichtenstein nell’89, Chuck Close nel ’96. Gli scrittori, infine: Joseph Brodsky nell’81, sei anni prima di vincere il Nobel, Nadine Gordimer nell’84, Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran) due anni fa.
Una buona fetta dell’élite intellettuale Usa, insomma, viene a sciacquare i panni in Tevere. In silenzio, quasi in clandestinità: niente glamour, molto understatement. Ma l’anno trascorso a Roma crea legami indissolubili. L’American Academy, a differenza delle altre accademie straniere presenti a Roma (più di venti, come la francese a villa Medici, la tedesca a villa Massimo, la britannica a Valle Giulia), vive di contributi privati.
Varie fondazioni finanziano vitto e alloggio per un fellow, scelto da nove giurie fra migliaia di domande: la Samuel Kress Foundation, per esempio, sta offrendo due anni a Hendrik William Dey dell’università del Michigan per una tesi di dottorato sulle mura Aureliane, e un anno a Lisa Marie Mignone (Columbia University) per una ‘Storia sociale e urbana dell’Aventino’. Kevin Uhalde, professore della Ohio University, sta invece approfondendo “Il potere del perdono nelle comunità cristiane dal 200 al 650”. Fra gli sponsor non mancano i nomi più altisonanti: Carnegie, Rockefeller, Frick, Morgan, Vanderbilt. Bilancio totale annuo: quasi dieci milioni di euro.
Il Drue Heinz Trust (impero del ketchup) fa da mecenate al giornalista Tom Bissell, che sta scrivendo un libro sui Dodici apostoli. La fondazione Mellon permette alla professoressa Marina Rustow dell’Emory University di studiare gli ebrei siciliani nel medioevo. Non manca la storia contemporanea: l’architetta Stephanie Pilat dell’università del Michigan sta approfondendo il programma Ina-casa del dopoguerra, mentre Flora Ghezzo, prof alla Columbia, si dedica alle donne che scrivevano durante il fascismo: ‘Potere, soggettività e desiderio’.
I casi più curiosi sono forse quelli di Gerard Passannante, wunderkind di Princeton ma anche probabile discendente dell’anarchico che attentò alla vita di re Umberto I (“Sono andato a visitare il suo cranio al museo criminologico prima che lo trasferissero in Basilicata”, ci dice), che studia l’influsso di Lucrezio nel Rinascimento, e del padre gesuita Gregory Waldrop, 44 anni (università di Berkeley), il quale ha due anni per approfondire il tema: ‘I preti e la rappresentazione visiva di Siena nel primo Quattrocento’.
Argomenti sofisticati e superspecialistici, ma abbordati con l’entusiasmo di chi, lontano migliaia di chilometri dall’Italia, ha sognato per una vita di poter venire ad abbeverarsi alle fonti della cultura occidentale. L’American Academy of Rome è un’istituzione unica al mondo, gli Stati Uniti non ne hanno altre: nel ’98 l’ex ambasciatore Usa all’Onu Richard Holbrooke ne ha fondata una a Berlino, ma sono appena undici borse semestrali. Newcomers...
Salgo all’Accademia in cima al Gianicolo per incontrare la presidentessa Adele Chatfield-Taylor, lei stessa fellow nell’84, moglie di uno dei maggiori commediografi americani, John Guare (Sei gradi di separazione). Mi offre un caffè al bar interno, poi lo paga: 55 cents. È probabilmente l’unica presidente di un ente a Roma che lo fa. Mi mostra orgogliosa lo splendido parco, i giardini, la biblioteca in rifacimento, l’orto “biologico” (“Tutto ciò che mangiamo è ‘organic’, dobbiamo diventare ‘sostenibili’”). Poi pranzo a una mensa abbastanza spartana. La nuova direttrice, Carmela Vircillo, è per la prima volta un’italiana (ma anche lei ex fellow). È moglie di William Franklin, il pastore anglicano che cura le relazioni esterne.
Due settimane fa, la sera del 28 maggio per la prima volta l’American Academy si è aperta alla vita sociale romana. Alla quale spesso affitta la sua villa Aurelia, ma assieme alla quale quasi mai si mischia. Durante una cena di gala Umberto Eco è stato premiato con la medaglia McKim, dal nome dell’architetto che ha fondato l’Accademia e ne ha progettato il palazzo di 130 stanze. L’anno scorso l’avevano data al pittore Usa Cy Twombly, romano d’adozione.
Con cautela, sono stati invitati un po’ di “socialites” indigeni: l’attrice Laura Morante, Marina Cicogna, Martina Mondadori e Peter Sartogo, l’ambasciatore Antonio Puri Purini, Mario D’Urso, Ferdinando Brachetti Peretti (benzina Api) con Mafalda d’Assia, il crinito Gelasio Gaetani d’Aragona, Furio Colombo, Maria Pace Odescalchi. Quest’ultima aveva fatto da tramite, qualche mese fa, per la festa prematrimoniale di Tom Cruise nella villa Aurelia.
C’erano anche l’ambasciatore Usa Ronald Spogli, il predecessore Reginald Bartholomew, Claudio Cappon (Rai) e Boris Biancheri (Fieg), che è uno dei quattro italiani (su 45) nel consiglio d’amministrazione dell’Academy. Gli altri sono Vittorio Ripa di Meana, la direttrice Vircillo e Verdella Caracciolo, moglie del vicepresidente Finmeccanica Alberto De Benedictis.
In teoria era un fund-raising dinner, ma si sa che i ricchi italiani, contrariamente ai loro omologhi statunitensi, non sono abituati a queste cose. Così alla fine i 200mila euro raccolti sono stati scuciti da qualche società: Finmeccanica, Bulgari, Pirelli Re, Recchi (il marito della Odescalchi) e altre. Serviranno a finanziare borse per artisti e studiosi italiani. In passato ce ne sono stati, per esempio il compositore Goffredo Petrassi nel ’56, ma poi le Fulbright sono state abolite.
Alla fine è arrivato il ministro Francesco Rutelli, che ha parlato anche in inglese. Tutti contenti perché l’Italia e la sua capitale non sono mai stati così fashionable negli Stati Uniti. In autunno il principale mercante d’arte mondiale, il californiano Larry Gagosian, aprirà a Roma (via Crispi) la sua nuova galleria dopo Beverly Hills, New York e Londra. Gli americani ci amano. E noi ricambiamo.
Mauro Suttora
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