Friday, August 30, 1991

Il golpe di Mosca

FUORI GORBACIOV, ECCO ELTSIN. UNA RIVOLUZIONE CON SOLI TRE MORTI SEPPELLISCE IL COMUNISMO

dal nostro inviato a Mosca Mauro Suttora


Europeo, 30 agosto 1991





«Cambiar nome? Non serve a niente. Anch'io ho cambiato nome, quattro volte. Ma adesso che sono arrivata al terzo marito mi ritrovo uguale a prima, con lo stesso caratteraccio».


Piazza Puskin, una bella e tiepida notte moscovita. Sotto la statua del poeta si danno appuntamento le coppiette di innamorati. Davanti a McDonald's c'è la solita fila di mezzo chilometro per un hamburger americano. E dall'altra parte della piazza, sotto la sede del settimanale Moskovskie Novosti, Notizie di Mosca, una centinaio di persone commentano la morte del partito comunista sovietico, decretata dal presidente Michail Gorbaciov 24 ore prima.


La battuta più bella la pronuncia la pluridivorziata Elena, contro chi ipotizza una resurrezione sotto diverso nome per i 14 milioni di membri di un Pcus rinnovato e purgato.




Un altro struggente tramonto chiude la settimana decisiva per la storia dell'Unione Sovietica. Era cominciata lunedì mattina sotto la pioggia, e con i carri armati del golpe nelle strade. È finita sabato sotto il sole con le dimissioni di Gorbaciov da segretario del Pcus, lo scioglimento del partito e la antica-nuova bandiera russa tricolore che sventola sul Cremlino.


In mezzo, sei giorni di rivoluzione. Una bella rivoluzione, con pochi morti e molta ironia. Perfino Gorbaciov è riuscito a scherzare sulla propria prigionia in Crimea. «È la nostra quinta rivoluzione», ricorda un signore in un capannello di piazza Puskin. E conta: quella decabrista nell'800, quella socialista nel 1905, la menscevica nel febbraio '17, la bolscevica nell'ottobre '17... D'estate, però, è la prima volta. Ma anche sulla numerazione delle loro rivoluzioni i russi riescono a litigare: «Quello bolscevico fu un colpo di stato, non una rivoluzione di popolo», puntualizza stizzito un altro.


Le uniche due parole che mettono d'accordo tutti sono «democrazia» e «Eltsin». La gente preferisce quest'ultimo, presidente della Russia (che copre il 75 per cento dell'Urss), a Gorbaciov, presidente tuttora non eletto di una cosa che ormai esiste ogni giorno di meno: l'Unione Sovietica.


Questa volta, contrariamente a 74 anni fa, i sei giorni di rivoluzione non hanno sconvolto il mondo. Più modestamente, lo hanno tranquillizzato. Le mamme russe ora portano i figli a visitare le barricate che hanno protetto Eltsin e il suo parlamento dai militari. Come la signora Ludmila Salnikova, che già la sera di giovedì 21 agosto conduce per mano la figlia Xenia di 8 anni a vedere in Piazza Rossa i fuochi d'artificio della festa antigolpista. La incontriamo in metropolitana, alla stazione del viale della Pace (Prospekt Mira).


È eccitata, felice e arrabbiatissima: «Dopo i botti andremo ad assaltare la sede del partito comunista», annuncia. «Ho appena visto la conferenza stampa di Gorbaciov in tv, quello scemo difende ancora il partito che l'ha tradito». Nella carrozza del metro (il biglietto costa quindici copechi, sei lire italiane) la gente legge i quotidiani con i primi titoli sul golpe fallito. I generali golpisti avevano chiuso tutti i giornali tranne sei, quelli fedeli al Pcus. Il giorno dopo Eltsin li ha fatti riaprire tutti, tranne quei sei (tra i quali l'esimia Pravda).


Usciamo con Ludmila e Xenia alla stazione del metro Barricada che ricorda gli scontri del 1905 fra i soldati zaristi e i rivoluzionari. Per coincidenza, le nuove barricate sono a poche decine di metri. E qui bisogna spiegare che il Bielo Dom, la Casa Bianca di Eltsin, si trova in una parte di Mosca che, come quasi tutta la città, non è a misura d'uomo bensì di Stalin e della sua megalomania.


Per capirci: non sareste presi dalla disperazione, o perlomeno da agorafobia, se doveste improvvisare qualche ostacolo antitank attorno al palazzo della Farnesina a Roma? La grande fortuna dei diecimila giovani di Eltsin è che, a mani nude, hanno potuto contare su un cantiere aperto proprio davanti al parlamento per lavori di fognatura in viale Kalinin. Si può quindi affermare, con rispetto parlando, che la nuova democrazia russa è nata non sulla canna del fucile, ma grazie a tubi di fogna e traversine di cemento.


Queste commoventi barricate, tenute su con tavoli, sedie, tondini di ferro, pezzi di pavé, perfino rami d'albero e tutto ciò che i giovani di Eltsin hanno trovato, sono diventate monumento nazionale. Nessuno osa più toccarle. Eppure tre filobus bruciacchiati ostruiscono il traffico su una delle principali circonvallazioni di Mosca. Vari deputati hanno proposto di lasciarne uno intatto per ricordo.


E per ricordare, adesso, la piccola Xenia, due anni dopo i suoi coetanei del muro di Berlino, si porta a casa un pezzo di fil di ferro della barricata come reliquia storica. Attorno si beve, si canta, si balla, si fa festa. Sono tornati il sorriso e l'entusiasmo sui visi tristi dei moscoviti. Perfino alcune guide turistiche dei greggi in viaggio organizzato hanno giunto una nuova tappa al tour della città: un po' di storia contemporanea, oltre a quella imbalsamata nel Cremlino.


Non si è ancora asciugata l'acqua nelle pozzanghere di viale Ciaikovski, in quel sottopasso illuminato dai neon arancioni che la Cnn ha mostrato a tutto il mondo in diretta nella notte degli scontri. Qui ci sono stati i tre morti che hanno pagato per tutti i milioni di russi il passaggio dalla dittatura alla democrazia.


A scuola ci hanno insegnato che la libertà concessa dall'alto, come quella della perestroika gorbacioviana, vale poco se non è conquistata anche con un conflitto, una rivolta, magari un po' di sangue. Per fortuna le rivoluzioni moderne sono sempre più spesso nonviolente. A volte hanno successo (Europa dell'Est, Filippine), a volte no (Cina, Birmania). «Ma la paura di una nuova strage tipo piazza Tian an men ha paralizzato molti soldati», commenta Oleg Finestein, scrittore, «questi generali non erano golpisti professionisti».


«Buonanotte amico, siamo con te». «In memoria vostra, amici». Nei tre punti dove si è ucciso ora ci sono montagne di fiori e queste scritte pitturate in bianco. «Riebata», amico, ha preso il posto di «Tovarish», compagno, parola squalificata perché comunista. Anzi, «comunista» è ormai diventato un insulto a Mosca. Centinaia di persone, soprattutto donne pie di mezza età che si raccolgono in preghiera, continuano a portar fiori ai nuovi martiri di viale Ciaikovski.


Arriviamo tardi, con Ludmila e Xenia, alla manifestazione contro la sede del Pcus (che poi Eltsin ha fatto chiudere), perché la grande attrazione della notte è l'abbattimento della statua di Felix Djerzinski, nella piazza di fronte alla sede del Kgb da lui fondato. Il giorno dopo è andata giù a picconate la statua di Sverdlov, e adesso tutti i dirigenti bolscevichi rischiano. Anche il monumento a Lenin in piazza Octoberskaia è nel mirino dei moscoviti.


«Io butterei giù anche il busto di Marx di fronte al teatro Bolscioi», propone Ludmila ormai in preda a furia iconoclasta. Per adesso ci si sfoga con le scritte. Sul basamento di Marx con l'appello storico «Proletari di tutto il mondo unitevi» qualcuno ha aggiunto «...e combattete contro il comunismo». Il giorno dopo invece campeggia un grosso «Scusatemi». Un turista stalinista italiano che indossa una giacca a vento con la scritta Cariplo comincia a urlare: «Porci fascisti! Dopo che li hanno fatti studiare tutti gratis, bel ringraziamento!»


Poco più in là, in piazza del Maneggio, cominciano i funerali di stato per le tre vittime. Cerimonia lunghissima e solenne che raggiunge l'apice quando, sotto la Casa Bianca, Eltsin raggiunge il corteo e porta le condoglianze ai parenti. Per la verità ai funerali non c'era moltissima gente, al massimo centomila persone. Non è neanche vero che la gente si rivolta in massa contro il partito comunista: la vita va avanti tranquilla, ed erano poche centinaia i dimostranti contro il palazzo del Comitato centrale del Pcus (quello dentro al Cremlino su cui adesso sventola la bandiera tricolore russa al posto di quella rossa).


In realtà questa è una rivoluzione soprattutto televisiva, con decine di milioni di persone le quali ogni giorno si bloccano davanti alle tv che trasmettono tutto in diretta e a canali unificati per ore e ore. Va bene l'entusiasmo per la libertà, ma se la gente non ricomincia a lavorare l'economia andrà ancora più a rotoli. Ora l'inflazione è al 100 per cento, i prezzi raddoppiano ogni anno. La produzione è crollata di un decimo e il rublo si cambia a quaranta lire, contro le 700 del cambio ufficiale.


L'unico posto a Mosca dove fra i lavoratori regna una perfetta e disciplinata efficienza, senza televisori nel retro ad aggravare la leggendaria accidia slava, è forse Pizza Hut. La Casa della pizza americana ha aperto da poco due ristoranti: uno nell'ex via Gorki tornata all'antico nome Tverskaia, l'altro in viale Kutuzovski, dove stanno molte redazioni di giornali e tv straniere che il governo sovietico costringe in quasi topaie.


Pizza Hut è un esempio agghiacciante di come potrebbero finire le cose se i governanti sovietici non introdurranno la libertà di mercato. Ogni ristorante ha tre porte. In due si paga con rubli (per sedersi e per l'asporto), nella terza in dollari. In teoria anche un russo potrebbe avere dollari. In pratica no, visto che dieci dollari, il minimo per chi vuole mangiare qualcosa, equivalgono a 320 rubli. Cioè la metà di uno stipendio mensile medio.


Così Pizza Hut e tutti i posti dove si può pagare in dollari hanno file lunghissime per i russi schiavi del loro rublo, mentre l'entrata è libera per i privilegiati occidentali. Certo, non si può passare al libero mercato da un giorno all'altro. Ma Gorbaciov finora non ha riformato granché. I russi sperano che Eltsin vada più avanti. «Tanto, peggio di così non possiamo stare», dice Andrei Sedov, ingegnere che da sei mesi ha abbandonato l'industria militare in cui lavorava e si è messo in proprio con una sua società.


Mauro Suttora

Boris Eltsin, un po' Pertini un po' Pannella

... E POI LEOLUCA ORLANDO, ANDREOTTI, REAGAN, KENNEDY: ECCO A CHI ASSOMIGLIA IL NUOVO CAPO RUSSO

Europeo, 30 agosto 1991

dal nostro inviato a Mosca Mauro Suttora



Tradotto in italiano, Boris Nicolaievich Eltsin è un misto fra Sandro Pertini, Marco Pannella e Leoluca Orlando. Insomma, ci siamo capiti: una bomba ambulante. Con lui lo spettacolo è sempre assicurato. La noia - principale caratteristica della politica, in Russia come in Italia - è eliminata.

Come Pertini, Eltsin capisce al volo l'umore della gente che ha di fronte, e trova sempre le parole giuste. Parole terra terra: è l'unico leader sovietico a non parlare in politichese. E come il nostro ex presidente, fa impazzire la scorta quando si immerge nella folla, il suo ambiente naturale.

In questo è differente da Michail Gorbaciov, i cui «colloqui col popolo» sono troppo spesso sapientemente filtrati dal servizio d'ordine. Inoltre, quando Boris si trova di fronte a un operaio, lo ascolta. Gorby invece lo affligge con un monologo prolisso pensando alla tv che inquadra la scena.

Come Pannella, il nuovo «zar della Russia» ama i gesti teatrali. Nei due anni in cui è stato segretario del partito comunista di Mosca (cioè sindaco) gli piaceva improvvisare incursioni nei negozi per scoprire di persona le magagne del mercato nero.

Una volta, nell'87, si mette in fila davanti a una macelleria e, arrivato al banco, ordina un chilo di vitello. «Non c'è», gli risponde stancamente il commesso. Allora Boris, sicuro del contrario, piomba in magazzino e blocca le fettine di vitello che stavano uscendo dal retro verso le dacie della nomenklatura.

Memorabile anche il suo abbandono pubblico del partito comunista in pieno congresso, l'anno scorso: ha attraversato l'immensa sala da solo, a passo lento, in mezzo a un silenzio glaciale e imbarazzato. «Beh», brontolò Gorbaciov, seccatissimo per la figuraccia in diretta tv davanti all'intera Unione Sovietica, «adesso possiamo continuare i lavori». E mezza Russia cambiò canale.

Anche il capo dei radicali russi, come quello italiano, si lamenta sempre per l'ostracismo dei giornalisti. In particolare nei primi mesi di quest'anno, quando i giornali ancora controllati dal partito comunista (quasi tutti, in barba alla glasnost) lo hanno bersagliato con una campagna diffamatoria.

Ma i russi, dopo settant'anni di «disinformazia», sanno leggere fra le righe: chi è attaccato dalla Pravda si guadagna automaticamente la reputazione di brav'uomo. Risultato: alle elezioni del 12 giugno 1991 Eltsin è diventato il primo presidente democraticamente eletto nella storia della Russia, con quasi il 60 per cento dei voti.

Come Leoluca Orlando, anche Corvo bianco (questo il suo soprannome) ha un ciuffo ribelle che gli casca sulla fronte. E pure lui è un ex sindaco estraneo all'apparato: quando fu nominato viveva solo da pochi mesi a Mosca, dove lo ha chiamato da Sverdlovsk Gorbaciov nell'85.

Anche lui è stato cacciato perché pestava i piedi dei potenti, ha abbandonato il suo partito (come Orlando la Dc) ed è stato rieletto trionfalmente dalla città che aveva cercato di ripulire: 89 per cento dei voti come deputato di Mosca nel marzo '89.

«Ho lottato contro la mafia, ma non sono riuscito a colpire i suoi collegamenti con la politica»: frase pronunciata da Eltsin, ma che a Palermo suona familiare. Nei suoi comizi Eltsin suda, ci mette foga e convinzione. Poca sostanza e nessuna concretezza, accusano all'unisono i critici di Boris e Leoluca. Tre parole magiche nella loro bocca: «Democrazia, libertà, pulizia».

Andiamo avanti con i paragoni. Come Ronald Reagan, Eltsin sbadiglia quando i suoi consulenti lo tediano con briefing sull'economia. «Però», si difende lui, «in un anno a Mosca sono riuscito a portare in tribunale 860 apparatchik accusati di corruzione: non è conreta economia, questa?»

Gorbaciov si lesse da cima a fondo le 400 pagine del piano Shatalin che l'anno scorso doveva riformare l'economia sovietica in 500 giorni. Ne discusse per sette ore con l'autore. Alla fine lo buttò nel cestino perché non piaceva ai conservatori. Eltsin invece ammette di non avere studiato il mattone. Però nella sua Russia il piano di liberalizzazione lo sta applicando.

Nei rapporti con le donne, Eltsin è paragonabile a John Kennedy: un mandrillo. Però più romantico: come tutti i russi, sommerge con innumerevoli mazzi di fiori le sue predilette. E poi è anche cardiopatico, ha 60 anni, non può permettersi grandi performances.

Naturalmente in pubblico giura eterno e fedele amore alla moglie Maia che gli ha dato due figlie. E che ha un grosso pregio, per un politico russo: è brutta. Molto più brutta di Raissa Gorbaciova, soprannominata con fastidio «la zarina» dalle invidiose matrone russe.

Per la sua capacità di risorgere sempre dopo sconfitte che avrebbero distrutto un toro, il paragone casereccio lo si può fare con Giulio Andreotti. Alla fine dell'87 fu cacciato non solo dalla poltrona di sindaco di Mosca, ma perse anche la sedia del Politburo. Fu allora che lo soprannominarono «kamikaze della perestroika».

Subì perfino l'umiliazione di vedere pubblicato sulla Pravda il resoconto dell'allucinante processo che gli fecero Gorbaciov e i gerarchi comunisti, in perfetto stile stalinista. Con tanto di autocritica estorta: «Sì è vero, mi ha rovinato l'ambizione».

Gorbaciov gliene ha fatte passare di tutti i colori. Adesso Eltsin si vendica. Ogni giorno lo bacchetta sulle dita, come prima Gorby faceva con lui. «In qualsiasi altro Paese del mondo Eltsin sarebbe da anni al governo. Ma l'Urss è un Paese particolare», ha scritto il Financial Times.

Eppure l'Ovest lo ha sempre snobbato. C'è un signore, in particolare, che adesso dovrebbe nascondersi per la vergogna. Si chiama Jean-Pierre Cot, francese, vicepresidente del parlamento europeo. Pochi mesi fa, quando Eltsin era già leader indiscusso della Russia, gli impedì di parlare di fronte all'Europarlamento. Lo trattò come un mendicante e un ubriacone.

Si dice che Eltsin non è amato dall'intellighenzia perché è un populista. Storie. Fior di intellettuali hanno abbandonato da mesi Gorbaciov per diventare suoi consiglieri: l'economista Oleg Bogomolov, la sociologa Tatiana Zaslavskaia e l'esperto di affari esteri Georgi Arbatov, tutti gorbacioviani schifati dagli alleati trogloditi che Gorby si era scelto.

«Il comunismo? Sì, in Unione sovietica c'è. Però funziona solo per venti persone: i membri del Politburo, quelli con la villa», ha scritto Eltsin nella sua autobiografia (Confessioni sul tema, tradotto in Italia dall'editore Leonardo).

«Quando mi hanno fatto entrare per la prima volta nella mia dacia a Mosca, nell'85, mi sono perso. Avevamo tre camerieri, tre cuochi, un giardiniere». L'ingegnere edile alto 1 e 88 calato dagli Urali ora si dovrà abituare a governare l'Urss (o almeno la Russia) tirandola fuori dal caos.

Mauro Suttora