Scommesse sul futuro: alla ricerca di nuovi materiali
Idee geniali. Denari pochi. Da 20 anni la chimica italiana campa sugli allori di vecchi brevetti. La via d'uscita per il 2000? Una fusione tra i nostri due giganti, Montedison ed Enichem
di Mauro Suttora
Europeo, 9 gennaio 1988
L'ultima Ferrari Gran turismo, modello F40, ha solo uno scheletro di metallo. Tutta la carrozzeria è di plastica e fibra di vetro: stesso principio del cemento armato (cemento più tondino di ferro), stessa resistenza.
Le pale dell'ultimo elicottero Agusta, l'Eh 101, che si è levato in volo per la prima volta il 14 dicembre, sono anch'esse di 'materiale composito': plastica e fibre di carbonio. Leggerissime, super-resistenti, formula segreta: in aeronautica ogni chilo in meno fa risparmiare miliardi.
Il cestello delle lavatrici Philips degli anni Novanta non sarà in acciaio inossidabile, ma in polipropilene. E ancora: i mobili dei nostri uffici e delle nostre case, i telai delle finestre, i rubinetti, metà dei vestiti che indossiamo, cosmetici e profumi, vernici e detersivi, le medicine... Tutto viene dall'industria chimica.
Gli esperti prevedono per questo settore il raddoppio della produzione nei prossimi vent'anni. Sempre meno legno, metallo, cemento. Sempre più plastica e affini. Eppure per le imprese chimiche italiane questi non sono tempi felici.
Alla Montedison sono momentaneamente in festa dopo la riapertura della Farmoplant di Massa, la fabbrica chiusa da un referendum 'verde' in ottobre. Ma la chimica rimane nel mirino degli ecologisti, che stanno passando all'azione contro altre 14 fabbriche in tutta Italia: per una Farmoplant che (forse) riapre, già inizia una raccolta di firme per la chiusura della Stoppani di Cogoleto (Genova).
Non sono solo le accuse di inquinamento, però, ad angustiare gli industriali chimici. È vero che la spada di Damocle delle proteste locali sta bloccando 800 miliardi di investimenti. Ma è anche vero che la chimica italiana nei guai c'è già per conto suo: ha un deficit con l'estero di 7mila miliardi, il terzo dopo l'energia e l'alimentare; i 230 mila addetti, già diminuiti di 50mila negli anni Ottanta, sono ancora troppi; i due gruppi più grandi, Montedison ed Enichem, diventano nani appena superato il confine, a confronto dei colossi tedeschi Bayer, Basf, Hoechst e della svizzera Ciba Geigy.
Dietro di loro, in Italia, dopo la Snia (gruppo Fiat) che segue a distanza, c'è il deserto: "La struttura della nostra industria chimica", spiega il professor Carlo Maria Guerci, consulente Eni, "è caratterizzata da pochissime imprese grandi, nessuna media e una miriade di piccolissime: dopo le prime tre troviamo in fila ben nove multinazionali, poi una italiana e quindi altre multinazionali".
Il risultato di questa polverizzazione è che l'Italia esporta poco, perché la quota di export sul fatturato è di norma più elevata per le imprese maggiori: nel 1986 solo il 23 per cento della produzione ha varcato le frontiere, contro il 91 per cento dell'Olanda, il 52 della Germania Ovest , il 47 della Gran Bretagna e il 38 della Francia.
Un altro dato, ancor più preoccupante, getta un'ombra sul futuro della chimica italiana: i finanziamenti per la ricerca scientifica. Nulla si può muovere, in questo come in tutti i campi dell'economia moderna, senza ingenti investimenti per l'innovazione tecnologica. Ebbene, oggi l'Italia spende in ricerca e sviluppo nella chimica un decimo della Germania Ovest. Hoechst da sola investe 1500 miliardi di lire l'anno, Montedison ed Enichem assieme non arrivano a 430 miliardi. Il divario non è solo in cifre assolute: sei per cento è la quota di fatturato spesa in ricerca dalla chimica tedesca, 2,6 la percentuale italiana.
"Non è tanto un problema di percentuali, però", precisa il professor Luciano Caglioti, docente universitario a Roma e direttore del Progetto Cnr chimica fine e secondaria. "Per avere un laboratorio efficiente e potente occorre anche fare quel salto di 'massa critica' sotto la quale si disperdono energie". Traduzione: è inutile che centinaia di piccole aziende chimiche italiane mettano in piedi ciascuna il proprio laboratorio. Auspicabile sarebbe invece procedere subito alla prevista fusione fra Montedison ed Enichem, cioè fra il polo privato e quello pubblico della chimica italiana.
Anche così, tuttavia, i problemi non sarebbero risolti. Di nuovo, infatti, l'economia condiziona la scienza e nega alla ricerca le risorse di cui avrebbe bisogno: Montedison deve ripianare un debito di 8mila miliardi, Enichem è stata appena risanata a fatica e per merito soprattutto del calo del dollaro e del petrolio (che continua a essere la materia prima della chimica). Come pretendere da questi due giganti esausti le migliaia di miliardi necessari al salto tecnologico?
Anche lo Stato non fa molto: il progetto Cnr diretto da Caglioti viene finanziato soltanto per venti miliardi annui, anche se riesce a mobilitare risorse private per cinque volte tanto.
Eppure i campi di eccellenza per la chimica italiana non mancano. Per esempio, continuiamo a essere i leader mondiali nel settore delle fibre sintetiche, a trent'anni dai miracoli del premio Nobel Giulio Natta, inventore del polipropilene. Oggi leacril, terital e altri materiali acrilici e poliesteri escono da impianti tecnologicamente avanzati e dominano i mercati internazionali. Negli ultimi due anni Montedison ha venduto 48 brevetti per il polipropilene nel mondo (uno perfino alla Hoechst), e il 60 per cento della produzione mondiale di questo importante materiale è' sotto sua licenza.
Nel campo delle gomme Enichem è leader mondiale per gli elastomeri, e Dutral (Montedison) sforna brevetti ad alto valore aggiunto. Biologi e ricercatori sono mobilitati nei laboratori di tutta Italia, ma soprattutto negli istituti Donegani di Bollate (Milano) e di Novara, per compiere i primi passi nel campo delle biotecnologie.
È qui, nello snodo fra agricoltura e chimica, nella produzione e manipolazione di sementi oltre che di fertilizzanti e antiparassitari, che il nuovo padrone di Montedison, l'agroindustriale Raul Gardini, spera di ottenere i risultati più interessanti e di poterli applicare immediatamente nelle aziende agricole del suo gruppo.
Anche se in Montedison non si sbilanciano, sarà sicuramente la ricerca biotecnologica la prima a essere innaffiata dai nuovi investimenti in ricerca di Foro Buonaparte.
E la plastica, la cara vecchia plastica ? Nonostante i verdi (ma alcuni di loro, come Laura Conti, hanno confessato di amarla), i tre milioni e mezzo di tonnellate consumate in Italia aumentano ogni anno del dieci per cento. Per alcuni tipi particolari di polimeri la crescita è addirittura forsennata, a ritmi del 60 per cento.
Sono soprattutto i 'tecnopolimeri', ovvero le leghe composte da diversi film in polipropilene sovrapposti, a essere incessantemente perfezionati per adeguarsi a ogni tipo di richiesta. I 'blister' per l'imballaggio di frutta, burro e caffè, per esempio, hanno fino a quattro strati laminati diversi: uno trattiene gli aromi, l'altro fa da barriera all'ossigeno, il terzo isola termicamente, il quarto blocca gli odori ambientali.
Ogni automobile è formata da almeno cento chili di plastica: non più solo cruscotti e imbottiture, ma anche paraurti, alloggiamenti dei fari e tutte le fiancate inferiori sono ormai in polipropilene e in altri 'tecnopolimeri'. Metalli come lo zinco invece, di cui nel 1970 venivano usati 50 chili per auto, sono calati a 13 chili.
Diminuisce il peso delle automobili, calano i consumi di benzina e crollano anche i costi di fabbricazione: una sola parte in plastica, stampata da un'unica pressa, prende il posto di 30-40 pezzi metallici da montare uno a uno.
La Fiero della General Motors, l'auto più 'plasticosa' del mondo, ha già venduto 100mila esemplari. Ma saranno dolori per gli sfasciacarrozze, e per chiunque voglia riciclare il materiale: è difficile scindere i vari polimeri, una volta messi assieme.
Gli altri settori del futuro, per la chimica, sono quelli delle leghe amorfe (superconduttori di elettricità che non disperdono energia) e dei materiali compositi. In questi campi Montedison è più avanti di Enichem, perché negli anni scorsi i privati hanno rifilato all'ente di Stato tutta la chimica di base (come gli impianti per la separazione dell'etilene dalla nafta), meno redditizia e spesso disastrata, conservando per sé le 'specialità' e la chimica fine.
Sono otto le società Montedison che producono materiali compositi. Il loro fatturato è 350 miliardi l'anno, con l'obiettivo di triplicarlo in poco tempo. Peccato che tutti questi stupendi superpolimeri, collanti per nuovi usi, fibre per metalli e altre meraviglie tecnologiche servano soprattutto per la guerra: gli ormai famosi cacciamine dell'Intermarine, fibre antiproiettile di Texindustria, corazze della Lasar, spolette Junghans, eliche per siluri della Monfrini.
Unici impieghi simpatici (per ora): i caschi da moto Nolan (Tecnofibre) e gli sci disegnati da Pininfarina che la Monfrini fabbrichera per Anzi Besson. Più in là, addirittura ponti. Sì, ponti interi prefabbricati, che Montedison costruirà assieme alla Schiaretti, società di Parma. Saranno più leggeri, più semplici di quelli d'acciaio. E, quel che conta, più resistenti.
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