Sunday, February 20, 2005

Peggy Guggenheim

INTERVISTA A KAROLE VAIL, LA NIPOTE

Oggi, febbraio 2005

dal nostro corrispondente a New York.

«Nella camera da letto dove dormivo era appesa L’Aurora di Paul Delvaux, che sarà in mostra a Roma. Ma quelle donne nude ritratte per metà come tronchi d’albero non mi facevano così paura quanto i quadri surrealisti di Max Ernst...»

Se le ricorda bene, Karole Vail, le tante vacanze estive e pasquali trascorse a casa della nonna Peggy Guggenheim a Venezia negli anni Settanta, in quel palazzo Venier dei Leoni oggi trasformato in museo. Lei era un’adolescente, abitava a Parigi col padre Sindbad e andava al liceo dalle suore. La tremenda nonna Peggy, che neppure a settant’anni aveva perso il gusto per la provocazione, le rivolgeva domande imbarazzanti: «Hai un fidanzatino? Ci sei già andata a letto?» Poi, quando la nipote aveva diciott’anni, le propose scherzando: «Perchè non ti metti con tuo cugino Sandro?» Se la portava in giro per i canali in gondola, la faceva scendere da sola davanti a qualche chiesa e poi, tornata a casa, pretendeva una dettagliata relazione sulle opere d’arte che la ragazza aveva visto. «Potete immaginare che voglia avessi io allora di studiare gli affreschi della scuola veneziana...», ride la signora Vail, «ma per mia nonna ormai la pittura classica italiana era diventata molto più interessante di quella contemporanea, alla quale pure aveva dedicato tutta la sua esistenza».

Scene di una vita inimitabile, quella della più importante e famosa collezionista d’arte del Ventesimo secolo, italiana d’adozione (visse a Venezia dal 1947 alla morte, nel dicembre ‘79). Ora 75 fra le più importanti opere provenienti da varie sedi del museo Guggenheim (New York, Venezia, Bilbao) sono in mostra per tre mesi a Roma, nelle Scuderie del Quirinale a partire dal 3 marzo. E Karole Vail, che lavora per il Guggenheim e nel ‘98 curò la grande mostra per il centenario della morte della nonna, ci aiuta a ripercorrere le tappe della vita di quella che fu anche una straordinaria mecenate. Peggy, infatti, non si limitava ad acquistare le opere di un artista promettente (da Vasily Kandinsky a Marcel Duchamp, da Francis Bacon ad Alexander Calder): si occupava di loro, li frequentava, si faceva frequentare (a volte anche intimamente: pare fosse di un appetito sessuale insaziabile). Le sue case di Parigi, Londra, New York e Venezia sono state per più di mezzo secolo il crocevia dell’intellighenzia culturale e politica internazionale.

«Il mio pittore preferito era Jackson Pollock», ricorda per esempio Karole Vail (nella mostra romana sono esposte varie opere dell’artista americano). Ma Pollock divenne famoso solo negli anni Cinquanta. Prima era misconosciuto, vendeva pochissimo. Ciononostante, Peggy Guggenheim negli anni Quaranta credette in lui, gli organizzò ben quattro mostre personali nella propria galleria newyorkese (la leggendaria “Arte di questo Secolo” sulla Cinquantasettesima Strada, proprio di fronte all’attuale libreria Rizzoli), gli fece dipingere un “murale” a casa propria e gli pagava uno stipendio mensile. Fra i giovani da lei valorizzati ci fu anche il padre di Robert De Niro, pittore che in seguito raggiunse buone quotazioni.

La vita di Peggy Guggenheim fu scandalosa. «Nacque da due delle famiglie ebree più ricche di New York, i proprietari di miniere Guggenheim emigrati dalla Svizzera, e i banchieri Seligman», racconta Karole Vail. «Allo scoppio della Prima guerra mondiale i Guggenheim controllavano l’85 per cento della produzione mondiale di argento, rame e piombo. Benjamin, padre di Peggy, passava il tempo a Parigi tradendo la moglie Florette e lavorando nella ditta che installò gli ascensori sulla torre Eiffel. Morì nel naufragio del Titanic, dopo aver dato il proprio giubbotto di salvataggio e il posto in scialuppa all’amanteche viaggiava con lui, e che nell’elenco dei passeggeri figurava come “signora Guggenheim”. Peggy, rimasta orfana a 14 anni, soffrì molto per la morte del padre che adorava. Lo cercò sempre negli uomini che amò. A 22 anni cercò di ingentilire il proprio naso a melanzana con una plastica, ma l’operazione fallì e da allora il naso si trasformò in una specie di barometro: “Quando sta per arrivare il cattivo tempo si gonfia”, scrisse in una delle sue ben tre autobiografie.

«Durante i sei mesi in cui lavorò a New York nella libreria radicale del cugino, che ispirò a Ernest Hemingway un personaggio in Fiesta, Peggy conobbe mio nonno Laurence Vail, un intellettuale bohemien franco-americano. Si trasferì a Parigi, lui le chiese la mano in cima alla torre Eiffel, si sposarono nel ‘22 e fecero il viaggio di nozze da Capri a Saint Moritz. A Parigi negli anni Venti frequentarono gli ambienti artistici, ebbero due figli - mio padre Sindbad e Pegeen - e litigarono molto. Si lasciarono nell‘estate del ‘28, quando mia nonna dopo aver ballato sui tavoli di un locale a Saint Tropez si mise con lo scrittore John Holms. Ma nel ‘34 Holms morì durante una banale operazione, perchè il livello alcolico nel suo sangue interagì con l’anestetico causandogli un collasso.

«Nel ‘37 Peggy Guggenheim aprì la sua prima galleria d’arte a Londra e conobbe Samuel Beckett, col quale ebbe un’amicizia intima. Espose le opere di Jean Cocteau, Kandinsky, René Magritte, Piet Mondrian, e degli scultori Constantin Brancusi ed Henry Moore. Poi arrivarono Yves Tanguy e Max Ernst: del primo si innamorò, il secondo lo sposò. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale Peggy, tornata a Parigi, approfittò del crollo dei prezzi delle opere d’arte per comprare un quadro al giorno. Fra questi, i Giacomo Balla, Giorgio De Chirico, Salvador Dalì e Francis Picabia ora in mostra a Roma, e due sculture di Alberto Giacometti».

«Dopo l’invasione nazista della Francia», continua Karole Vail, «mia nonna si rifugiò a New York con la sua collezione, e aiutò vari intellettuali come André Breton a scappare negli Stati Uniti. Nel frattempo suo zio Solomon aveva aperto a New York il museo della Pittura non-Oggettiva, predecessore dell’attuale museo Guggenheim, ma Peggy lo definì “una presa in giro”. Nel ‘42 aprì la propria galleria-museo Art of this Century, ma nel ‘47 volle tornare nella sua Europa e scelse Venezia come dimora definitiva. Alla Biennale del ‘48 la Grecia, in preda alla guerra civile, le prestò il proprio padiglione che altrimenti sarebbe rimasto vuoto, e lì Peggy espose la sua collezione. Fu un successo senza precedenti: gli italiani reduci dal fascismo non avevano mai visto tanta arte astratta e surrealista, e gli europei conobbero le avanguardie americane che avrebbero dominato la scena artistica degli anni Cinquanta.

«Peggy Guggenheim conquistò l’ammirazione dei veneziani, che la soprannominarono “Ultima dogaressa”. Nel suo palazzo Venier passavano a farle visita tutti gli artisti più famosi del mondo: attori, scrittori, musicisti, da Marlon Brando a Ian Fleming, da Eugenio Montale a Patricia Highsmith, dal futuro Lord Snowdon a Igor Stravinsky. Il libro degli ospiti è una lista infinita del gotha della cultura mondiale: nessun personaggio passava da Venezia senza fermarsi a far visita a mia nonna. E lei, a sua volta, accompagnava la propria collezione nelle numerose mostre all’estero, da Londra a Stoccolma, da Amsterdam a Parigi. Andò anche a New York a vedere l’edificio rotondo che Frank Lloyd Wright aveva progettato nel ‘58 per il museo Guggenheim: “Un grande garage che si attorciglia come un serpente maligno”, lo liquidò mia nonna. Ciononostante, nel ‘76 accettò che la propria collezione si unisse a quella dello zio Solomon Guggenheim. Nel ‘79, pochi mesi prima di morire, accolse a Venezia lo scrittore Gore Vidal con Paul Newman e sua moglie Joan Woodward. Peggy si entusiasmò quando Newman accettò di baciare una delle sue domestiche: «Così in cambio lei resterà con me ancora per un anno», disse con la sua solita lingua tagliente. Morì in un ospedale di Padova due giorni prima di Natale. Proprio quel giorno Venezia fu invasa dall’acqua alta. Mio padre e mia madre si preoccuparono di mettere in salvo la sua collezione».

Fotografiamo per Oggi Karole Vail di fronte a quel museo Guggenheim di New York che sua nonna aveva disprezzato, o finto di disprezzare. Forte e decisa come Peggy, posa imperterrita per il nostro fotografo a dieci sottozero. Di fronte, Central Park è invaso dalle tende arancioni di Christo: «Il primo grande evento d’arte di questo secolo», lo ha definito il New York Times. Quanto alla grande arte del secolo scorso, quella targata Guggenheim è in mostra a Roma da giovedì: un’occasione unica per gustarla.

Mauro Suttora

Friday, February 18, 2005

L'insopportabile Marco

L'inchiesta vecchio stile

Diario, 18 febbraio 2005 (storia di copertina)

La svalutazione del Marco

Vengono da una lunga storia, da gloriose lotte per i diritti civili, da digiuni eclatanti e campagne verbosissime, hanno contrattato con destra e sinistra. Una canzone popolare sembra fatta apposta per i radicali e dice così: «Mamma Ciccio mi tocca, toccami Ciccio che mamma non vede»

di Mauro Suttora

E' il partito più antico d’Italia, fra quelli in circolazione: compie cinquant’anni a dicembre. «Non abbiamo mai dovuto cambiar nome», proclama orgoglioso Marco Pannella. Coincidenza quasi incredibile: il Partito radicale è nato negli stessi giorni in cui una signora di Montgomery (Alabama), Rosa Parks, rifiutò di alzarsi dal suo sedile in un autobus segregato, iniziando così la lotta per i diritti civili dei negri d’America. Pannella come Martin Luther King? Il paragone è lusinghiero, probabilmente azzardato, ma non campato in aria. Lui, il Marco transnazionale che va per i 75, si ritiene perfettamente maturo per il Nobel, oltre che per il laticlavio perpetuo che Carlo Azeglio Ciampi continua a negare a lui e a Mike Bongiorno. I senatori a vita sono quattro, ci sarebbe ancora un posto, che se però finisse a Pannella provocherebbe un suicidio eccellente: quello di Eugenio Scalfari. E viceversa, perché l’invidia e la gelosia sono reciproche.

Entrambi i grandi vecchi del liberalismo di sinistra italiano erano presenti, quell’11 dicembre 1955, al cinema Cola di Rienzo dove nacque il Partito radicale di Ernesto Rossi e Mario Pannunzio. Si detestavano cordialmente già da anni, galletti troppo ambiziosi nel prestigioso ma angusto pollaio della corrente di sinistra del partito liberale. Da allora, Pannella ha sempre fatto politica praticando in realtà il giornalismo: invincibile il suo penchant per le provocazioni intellettuali, invece di limitarsi a raccogliere comodi consensi surfando fra rassicuranti luoghi comuni come un Fini o un Casini qualsiasi. Scalfari, al contrario, ha fatto giornalismo macinando in realtà politica. E oggi eccoli sempre lì, i due uomini che hanno contato di più per i diritti civili in Italia: l’uno con i suoi digiuni e comizi, l’altro con le copertine dell’Espresso e le prime pagine di Repubblica.

A letto con chiunque.

«Divorzio, aborto, obiezione di coscienza, Tribunale internazionale Onu...»: quando Marco ingrana in tv la litania delle sue conquiste assomiglia all’eterno nonno reduce italiano che ha via via tediato i nipoti con i ricordi dei Mille garibaldini, dei ragazzi del ’99, della Resistenza, del ’68. Questo però è un vecchiaccio felice che ancora il primo agosto scorso volantinava da solo in mezzo al milione di persone arrivate per Simon e Garfunkel davanti al Colosseo: «Firmate i referendum sulla libertà della scienza», urlava sorridente ai passanti. E dove lo si trova nel mondo intero un politico professionista ultrasettuagenario che se va per strada a mendicare una firma per i diritti civili (questa volta dei malati)?

Verso la fine del concerto Simon e Garfunkel hanno intonato una delle loro canzoni più belle e famose, The boxer: «E il pugile si porta addosso il ricordo di ogni guantone che lo ha sbattuto a terra e distrutto/ e lui che urlava con rabbia e vergogna “Io vivo, io vivo!”/ ma il combattente resiste sempre, lailalai...». Peccato che il bilingue Pannella (mamma svizzera francese) non conosca anche l’inglese, altrimenti avrebbe egocentricamente concluso che quella canzone era sicuramente dedicata a lui. Anche perché, serendipity, risale allo stesso anno della legge del divorzio, quel 1970 in cui assieme a Roberto Cicciomessere fece il primo sciopero della fame davanti al Parlamento.

I ragazzi radicali, che da trent’anni continuano testardi a raccogliere firme inutili, perché tanto i referendum vengono sterminati in embrione dalla Corte costituzionale o in culla dagli astenuti, si fidano ciecamente di Pannella. Anche Emma Bonino, che lo segue con una fedeltà commovente. «Sei solo una sua protesi», la insultò Silvio Berlusconi sei anni fa. Fosse vero, lei magari ne sarebbe contenta. Ora è con lui anche in questa stranissima richiesta dell’ospitalità, rivolta contemporaneamente a destra e a sinistra. C’è qualcosa di muliebre nel bisogno di venire corteggiati a 360 gradi, di essere scelti invece di scegliere, e qualcosa di francamente puttanesco nella disponibilità a finire a letto con qualsiasi ospitante. Ma quando una cosa la fanno i radicali, chissà perché assume quasi sempre un sapore diverso, magari grottesco, eppure in qualche modo affascinante. Come quella volta di Toni Negri, nel 1983. O di Cicciolina, quattro anni dopo. O della propria pipì bevuta da Pannella-Don Pisciotte in tv, con Maurizio Costanzo e Ciampi ridotti a implorarlo in diretta a Buona domenica.

Partito mio, quanto mi costi.

Poi, certo, ci sono le ragioni prosaiche e spregiudicate di un partito che, seppur minimo, ha anch’esso un apparato da stipendiare. C’è la convenzione miliardaria di Radio Radicale di Massimo Bordin col Parlamento da rinnovare nel 2006: chi sarà al governo allora? A buttarsi con Silvio Berlusconi oggi, si verrà puniti in caso di vittoria della sinistra, e viceversa. Il call center radicale continua instancabile a telefonare ai simpatizzanti e alla nuova mailing list dei firmatari per i referendum sulla procreazione assistita, ma l’autofinanziamento (comunque il più alto, in percentuale, fra tutti i partiti italiani) non basta a pareggiare i conti. «Duemila iscritti a Radicali italiani hanno versato nell’ultimo anno mezzo milione di euro», riassume la tesoriera Rita Bernardini.

Ma i Radicali italiani guidati da lei e dal segretario Daniele Capezzone sono soltanto una delle tante organizzazioni pannelliane. C’è l’associazione «Nessuno tocchi Caino» contro la pena di morte, guidata da Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, che raccoglie un buon numero di contributi spontanei (in primis quelli di Vasco Rossi, che fa loro propaganda nei suoi concerti), e anche finanziamenti dall’Unione europea per i programmi organizzati. «Non c’è pace senza giustizia» avrebbe potuto chiudere i battenti dopo la vittoria sul Tribunale internazionale Onu, finalmente nato dopo che 60 Paesi hanno firmato il trattato di Roma (non gli Usa, fieri nemici), ma continua a fare lobbying internazionale per aumentare i Paesi firmatari e ora si è riconvertita nella campagna contro le mutilazioni genitali femminili. La Bonino non ha partecipato al bailamme delle trattative sull’ospitalità perché è andata a organizzare con l’ex eurodeputato Gianfranco Dell’Alba un convegno a Gibuti in cui pare che alcuni preti africani abbiano fatto marcia indietro sull’obbligatorietà del taglio della clitoride.

Nel 2004 è nata l’associazione Luca Coscioni, dal nome del malato di sclerosi laterale ridotto all’immobilità che si batte per la ricerca sulle cellule staminali. L’anno scorso, oltre alla raccolta di firme per i referendum, il suo segretario Marco Cappato è riuscito a bloccare una risoluzione Onu sponsorizzata da Vaticano e Usa contro la ricerca sugli embrioni.

Altre associazioni specializzate, infine, gravitano attorno ai radicali: quella anticlericale (animata da Maurizio Turco) e quella antiproibizionista, che portano avanti le battaglie dei decenni scorsi e che avranno vita dura in caso di accordo con Forza Italia. Proprio lunedì scorso Pannella e la Bernardini sono stati assolti per aver distribuito pubblicamente spinelli. Esattamente trent’anni dopo la prima volta.

C’è poi il Prt (Partito radicale transnazionale), rappresentato a New York dai fiorentini Marco Perduca e Matteo Mecacci. Dal loro ufficietto di fronte all’Onu fanno vedere i sorci verdi al Vietnam sulla questione dei Montagnard (la minoranza perseguitata degli altipiani), alla Russia sui ceceni, alla Cina su Tibet, Xinjiang e Falun Gong, e a tutte le dittature in genere. Si battono per la nascita della Omd (Organizzazione mondiale delle democrazie), che dovrebbe innervare l’Onu di spirito nuovo ed emarginare i Paesi autoritari. Una delegazione radicale è andata in Ucraina durante la rivoluzione arancione, mentre Pannella a Capodanno è volato in Cambogia dove i revenants filovietnamiti e polpottisti minacciano la vita democratica. In cambio, periodicamente Vietnam, Russia, Cina e Cuba cercano di far togliere al Prt lo status di ong (organizzazione non governativa) presso l’Onu. Ci hanno provato anche durante l’estate 2004, senza riuscirci.

Tutta questa attività ha subìto un duro colpo con la sconfitta alle europee lo scorso giugno, quando la lista Bonino è crollata dall’8 al 2 per cento. Gli eurodeputati si sono ridotti da sette a due, e di conseguenza anche tutto il corredo di portaborse e finanziamenti (per esempio, i convegni con traduzione simultanea). Inoltre, tutti gli eletti versavano metà stipendio al partito: in lire almeno 10 milioni al mese ciascuno, 70 in totale, quasi 1 miliardo all’anno. Perso pure questo. Poi un mese fa è arrivata la tegola della bocciatura della Consulta all’unico referendum sulla legge della procreazione assistita promosso solo dai radicali. Ed è evaporato un rimborso di 250 mila euro. Per questo Pannella la scorsa estate è dovuto ricorrere a un prestito da parte di George Soros (già convertito in fidi con banche italiane). Il miliardario americano nemico di George Bush junior è vicinissimo ai radicali: con la sua Open Society condivide la battaglia per la Omd, e finanzia la Lia (Lega internazionale antiproibizionista) guidata dal radicale Perduca.

Un neocon chiamato Capezzone.

Come si vede, quasi tutte le attuali campagne italiane e internazionali dei radicali pencolano verso sinistra. Risulta incomprensibile, quindi, l’infatuazione di Capezzone e di qualche altro pannelliano per il movimento neocon Usa. Sulla guerra in Iraq Pannella aveva escogitato una posizione mediana: la mozione «Iraq libero», che invitava Saddam all’esilio per bloccare l’attacco statunitense. Ma da allora sono passati due anni, e in nome della lotta per la democrazia (la più recente scusa di Bush per il proprio militarismo) alcuni radicali sembrano aver dimenticato il loro classico antimilitarismo.

Capezzone, soprattutto, il quale imperversa dappertutto. È lui ormai il nuovo componente della trinità radicale, assieme a Pannella e Bonino. Il sito internet radicale risulta quasi comico nel declamarne le gesta: Capezzone dichiara, Capezzone puntualizza, Capezzone di qua, Capezzone di là, Capezzone a Marchette, Capezzone imitato da Neri Marcorè a SuperCiro, comprate i due libri di Capezzone, per arrivare infine all’imbarazzante «Capezzone a Washington». Che purtroppo non è una missione alla Frank Capra, ma il resoconto audio di una conferenza che lo sventurato ha tenuto pochi mesi fa all’Aei (American Enterprise Institute), cioè il maggiore think tank (molto tank e poco think, per la verità) dei falchi di estrema destra Usa. «Sono gli unici ad avermi invitato», si giustifica lui, segretario di un partito che ha tuttora Gandhi nel simbolo. In effetti nel suo discorso, pronunciato in un ottimo inglese, Capezzone non fa sconti ai neocon: concorda sull’espansione della democrazia, ma dissente educatamente sul mezzo adottato (la guerra). Un’altra missione in partibus infidelium da parte dei non violenti radicali sembrano essere i numerosi commenti che Capezzone-prodigio e Mecacci hanno pubblicato sul Washington Times, cioè il quotidiano reazionario (è la voce del Pentagono) pubblicato dalla setta del reverendo Moon (sì, quello della moglie-lampo filippina del vescovo Milingo...)

Qui in Italia, stranamente, a sinistra uno dei più entusiasti nell’auspicare l’ospitalità verso i radicali è Fausto Bertinotti. Eppure proprio Rifondazione comunista è stata dagli anni Novanta la più implacabile nel denunciare il liberismo e il filoamericanismo pannelliani. Nel 1999, durante la raccolta delle firme per i 20 referendum, i rifondatori organizzarono in varie città comitati per il no contro i nove quesiti «economici» (abrogazione articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, pensioni d’anzianità, Inail, monopolio statale obbligatorio sull’assistenza sanitaria, ritenuta d’acconto e liberalizzazione di collocamento, lavoro a termine, a domicilio e part-time). I militanti comunisti volantinarono vicino ai tavoli radicali, invitando i passanti a non firmare. Poi ci pensò come sempre la Corte costituzionale a far fuori 13 referendum su 20. E alla fine, quando il 21 maggio 2000 si votò, l’astensione annullò tutti gli altri. Ma l’unico che non avrebbe comunque vinto, anche con il quorum del 50 per cento, sarebbe stato quello sull’articolo 18 (reintegro obbligatorio dei dipendenti licenziati ingiustamente). Su questi temi Bertinotti e Pannella sono sempre stati agli antipodi.

Quanto alla non violenza, il recente entusiasmo gandhiano di Rifondazione si dipana in polemica proprio contro i radicali, accusati di aver tradito l’antimilitarismo già con l’astensione del 1991 sulla prima guerra del Golfo, e poi con la sollecitazione degli interventi armati umanitari in Bosnia e Kosovo, nonché dei bombardamenti angloamericani in Iraq del 1998.

Eppure c’è una vicenda sepolta nel passato che forse può spiegare questa bizzarra attrazione fra opposti. Per ben due volte, negli anni Sessanta, i radicali si allearono con il Psiup. E in quel partito militava l’allora ventenne Bertinotti. Alle amministrative del novembre 1964 i radicali invitarono a votare psiuppino. E alle elezioni comunali del giugno 1966 a Roma il Psiup ricambiò, praticando l’ospitalità tanto invocata oggi. Ci fu una lista comune. Non ritenendosi sufficientemente appoggiati, prima del voto i radicali si ritirarono dalle liste. Ciononostante, Pannella arrivò terzo con 1.120 preferenze, anche se non riuscì a entrare in Consiglio comunale.

C’è da dire che nel 1965 i radicali erano riusciti a mandare in galera il sindaco dc di Roma Amerigo Petrucci sollevando lo scandalo Onmi (Opera nazionale maternità e infanzia) sulle truffe dc nel settore dell’assistenza. Quindi, contrariamente a oggi, c’erano battaglie concrete combattute assieme a livello locale. Ma il feeling con la sinistra durò pochissimo: nell’estate 1966 Pannella attaccò il Pci con un’intervista a Giano Accame sul settimanale di destra Nuova Repubblica. «Pannella demistificato», reagì subito sull’Unità Maurizio Ferrara (padre di Giuliano). Che dieci anni dopo raddoppiò con questo epigramma: «I radicali sono gente assai lasciva/Finocchi e vacche nude alla Godiva».

È passato veramente tanto tempo anche da quel 1976 quando Pannella si prese uno sganassone da un portinaio comunista a Botteghe Oscure, e dal 1979 quando fu fischiato al congresso Pci dove il suo loden blu venne scambiato per un «mantello di Dracula»: oggi l’omosessuale comunista Nichi Vendola sollecita l’ospitalità verso i radicali in Puglia. Gli altri due candidati del centrosinistra più filopannelliani sono Ottaviano Del Turco in Abruzzo e la ex radicale (corrente Massimo Teodori) Mercedes Bresso in Piemonte.

Con Berlusconi, politica & miliardi.

Ma insomma, chi sono veramente i radicali? Ovvero: chi è veramente Pannella? Lui l’ospitalità l’ha sempre praticata generosamente: nel 1976 voleva dare asilo a Lotta continua ostracizzata da Dp, nel 1979 ebbe il sogno grandioso di aprire a tutta la sinistra extraparlamentare (Marco Boato, Mimmo Pinto), portandola in dote al Psi per diventare vicesegretario di Bettino Craxi. La testata radicale Liberazione fu ospitata per qualche tempo dentro il quotidiano Lotta continua. Una dozzina d’anni fa Pannella la regalò a Bertinotti, così come regalò il simbolo antinucleare del Sole che ride ai Verdi. Fino agli anni Ottanta la linea ufficiale dei radicali era: «Rinnovamento, unità e alternativa di sinistra». All’inizio dei Novanta il libertarismo divenne anche economico, e quindi rivolta fiscale assieme alla Lega. Poi Umberto Bossi definì Pannella «Culosevich», e addio feeling. Nel 1994 cominciarono i giri di valzer con Berlusconi, terminati però sempre a pesci in faccia. Sostiene l’editorialista di Radio Radicale Iuri Maria Prado: «Oggi è difficile pensare che un elettore ‘’non’’ voti per questo o quello, perché è alleato della Bonino. È semmai facile immaginare che un tal nome possa solo portarne, di voti».

Nel 1999 la lista Bonino era diventata il secondo partito dopo Forza Italia in parecchie città del Nord, da Treviso a Monza. Una media del 12-13 per cento da Torino a Trieste, il quarto partito d’Italia. Se oggi i radicali si mettessero di nuovo con Berlusconi, oltre a portare il loro 2 per cento, acquisirebbero i voti di parecchi delusi della Casa delle libertà. È questo il ragionamento di Benedetto Della Vedova, eurodeputato radicale fino a otto mesi fa ed editorialista del Sole 24 Ore. Lui spinge da sempre per un accordo a destra, ha tenuto i rapporti con Berlusconi e alla fine ha convinto Pannella ad allearsi. Con chiunque, pur di uscire dall’isolamento che li ha cancellati dal Parlamento dal 1996.

Quell’anno, come lista Pannella-Sgarbi, i radicali siglarono anche un accordo finanziario con Berlusconi: se nella quota proporzionale non avessero raggiunto la soglia-ghigliottina del 4 per cento, Forza Italia avrebbe versato loro 10 miliardi: 1 come rimborso elettorale, più 9 miliardi in tranche annuali da 1,8 miliardi l’una. Ma Berlusconi dopo il voto non volle più onorare il contratto, considerandolo nullo perché il Polo aveva perso. La questione venne affidata a un arbitrato, nonostante i radicali avessero promosso un referendum proprio contro gli incarichi extragiudiziali ai magistrati. Nel dicembre 1996 un giudice, pagato 200 milioni per il disturbo, diede ragione a Pannella, e Forza Italia cominciò a pagare. In appello, però, un magistrato diverso ribaltò il verdetto: i radicali non solo non videro più una lira, ma dovettero restituire i miliardi incassati. Rimase loro il dubbio che il Cavaliere, anche in questo caso come in altri più famosi, si fosse mosso con argomenti estremamente «convincenti» nei confronti dell’arbitro d’appello.

«Quando si tratta con Berlusconi è solo un suk», ripete da allora Pannella, disgustato. Soprattutto dai cattolici di Pierferdinando Casini e Rocco Buttiglione, ai quali Berlusconi nel 1996 concesse 100 collegi contro i 43 della lista Pannella-Sgarbi. Lui, invece, aveva chiesto la parità con Ccd e Cdu come unica condizione. E quando non venne ottenuta ritirò i propri candidati. A quel punto Vittorio Sgarbi abbandonò Pannella per tornare da Berlusconi, anche se ormai era troppo tardi per togliere il suo nome dal simbolo. E i radicali per ripicca si candidarono anche nel maggioritario, senza alcuna chance ma con l’unico scopo di far perdere il Polo. Stesso comportamento da «muoia Sansone con tutti i filistei» anche alle politiche del 2001.

Oggi Pannella sembra aver abbandonato questo cupio dissolvi, ma il ricordo amaro delle trattative senza rete di sicurezza lo ha spinto a giocare uno schieramento contro l’altro: «Chiediamo ospitalità, ma se ci offrono le stalle dobbiamo avere un’alternativa», dice, e la preoccupazione suona ragionevole. Meno lo è il suo insistere con il linguaggio fiammeggiante: «Destra e sinistra rappresentano solo la cupola della mafiosità partitocratica, sono cosche contrapposte: allearsi coi corleonesi o con i palermitani per noi è lo stesso».

Cuore o portafogli: ecco il dilemma. Pessimismo cosmico, e un estremismo verbale pronto a scagliarsi indifferentemente, a seconda degli accordi, verso destra o verso sinistra. Eppure all’ospitalità passiva i radicali sono abituati. Abbiamo visto l’episodio col Psiup di Bertinotti, ma nel 1960 si registrò un risultato che ebbe conseguenze per i successivi trent’anni di politica italiana. Ben 51 consiglieri comunali radicali, infatti, furono eletti grazie all’ospitalità del Psi. Tranne a Torino dove l’alleanza fu con il Pri, in una lista dov’era candidato Norberto Bobbio. A Roma salirono in Campidoglio i radicali Antonio Cederna (lo scrittore) e Arnoldo Foà (l’attore). L’exploit fu a Milano: su 19 eletti nella lista Psi-Pr, ben quattro erano radicali: Scalfari, lo scrittore Elio Vittorini, il giornalista Sergio Turone e Alessandro Bodrero. Per Scalfari, in particolare, fu un trionfo: quinto fra i più votati con il quadruplo delle preferenze rispetto a un debuttante Craxi, relegato al quintultimo posto. La cronica antipatia di Craxi verso Scalfari risale a quella ospitalità. E la sua vendetta fu consumata nel 1972, quando Bettino non volle più ricandidare l’ospite Eugenio in parlamento dopo i quattro anni di Scalfari come deputato Psi. Quello fu l’unico quadriennio di politica a tempo pieno per il fondatore di Repubblica così come Pannella fece il giornalista per soli quattro anni a Parigi (per il Giorno) fino al 1963.

Alle europee 1989 il Marco transpartito, scomparsi Leonardo Sciascia ed Enzo Tortora, riuscì a far ospitare i radicali in ben quattro liste diverse: Verdi (Francesco Rutelli bocciato, Adelaide Aglietta eletta), Antiproibizionisti (Marco Taradash, eletto), Psdi (Giovanni Negri, bocciato) e Pri-Pli (se stesso, eletto): «Il più incredibile tentativo di quadratura del cerchio nella storia della politica italiana», commentò Gad Lerner sull’Espresso. «Strategia del cuculo», la definirono altri, ricordando l’uccello che depone le proprie uova nei nidi altrui.

E questa volta? Ammucchiata, orgia, digiuno? I radicali hanno il cuore a sinistra (libertarismo) e il portafogli a destra (liberismo). Ma con Pannella c’è una sola sicurezza: non ci si annoia mai. In politica, è già tantissimo. L’unico consiglio che ama seguire è quello datogli da Pier Paolo Pasolini (l’ennesimo comunista diventato radicale) nel 1975, tre giorni prima di morire: «Siate irriconoscibili, continuate a scandalizzare». Fatto, anche questa volta.

Mauro Suttora