Showing posts with label maria elena garaj. Show all posts
Showing posts with label maria elena garaj. Show all posts

Wednesday, June 26, 2002

La legge Bossi Fini sugli immigrati

NON CI UMILIANO LE IMPRONTE DIGITALI, MA LE CODE DI ORE

di Mauro Suttora

Milano, 26 giugno 2002

Dopo tutte le polemiche suscitate dalla nuova legge sull’immigrazione Bossi-Fini (già approvata dalla Camera, dovrebbe avere il sì del Senato entro la fine del mese) abbiamo chiesto l’opinione ad alcuni immigrati extracomunitari. E abbiamo scoperto con sorpresa che il principale punto di dissenso fra destra e sinistra, cioè le impronte digitali che d’ora in poi dovranno essere prese a tutti gli extracomunitari che vogliono risiedere in Italia (compresi statunitensi o svizzeri), non disturbano in realtà nessuno. Anche perché nei Paesi d’origine è normale che figurino sui documenti d’identità.

È la burocrazia italiana, invece, il principale nemico degli immigrati. Fastidi enormi sorgono anche per problemi minimi: «Io dovevo solo far annotare sul mio permesso di soggiorno il nuovo numero di passaporto, perché il vecchio era scaduto», racconta Fatiha Benkirane, 40 anni, portinaia marocchina a Milano. «Sono andata in questura alle nove di mattina, c’era una coda lunghissima. Mi hanno detto di tornare il giorno dopo. Ma l’indomani alle sette c’era già la fila. Così è dovuto venire mio marito alle tre di notte, e ha dovuto aspettare fino alle dieci». 

«In questura trattano come delinquenti anche noi immigrati regolari», spiega il marito Alì, 40 anni, laureato in legge a Casablanca, che lavora nelle celle frigorifere del mercato del pesce, a meno 15 gradi. «E non importa che io sia in Italia da tredici anni, abbia sempre lavorato, pagato le tasse, il bollo dell’auto e non abbia mai avuto il minimo problema con la giustizia».

«Fa bene la nuova legge a permettere di consegnare i documenti anche in Posta, così si eviteranno gli affollamenti. Io nel ’96 ho dovuto stare in coda tutta la notte», conferma Maria Elena Garaj, 35 anni, laureata e professoressa di scuola media in Perù, in Italia dal ’96, «badante» di una signora di 97 anni e dirigente dell’organizzazione Acli-Colf. La sua amica Maria Samora, salvadoregna: «Non mi sento umiliata dalle impronte digitali, ma dalle attese infinite per prenotare anche una semplice visita medica».

E Daniel Di Virgilio, 38 anni, infermiere all’ospedale San Raffaele di Milano: «Ho aspettato un anno per il riconoscimento dei miei titoli di studio in Argentina. Eppure c’è carenza di infermieri, qui offrono 1300-1500 euro agli appena assunti con alloggio in residence a soli 200 euro mensili. Ma solo stranieri e meridionali accettano, anche perché bisogna lavorare a turno di domenica e di notte». 

«Si parla tanto delle impronte digitali, ma non capisco cosa ci sia di male», dice Sckalcim, albanese di 33 anni che lavora nei campi a Conversano (Bari). «Se uno viene in Italia per lavorare che problema ha a lasciare le impronte? Chi non vuole farlo è perché magari ha la coscienza sporca, o forse pensa di voler andare a rubare».

Tutti gli immigrati sono passati attraverso un periodo più o meno lungo di irregolarità. «Noi siamo stati fortunati», spiegano i coniugi Benkirane, «perché nel ’90, poco dopo il nostro arrivo, c’è stata la sanatoria della legge Martelli».

 La legge Turco-Napolitano è servita invece a sanare la situazione di Maria Elena, che arrivata in Italia con visto turistico di tre mesi ha trovato lavoro dopo due settimane, ma è rimasta senza permesso per un anno: «Non avevo paura di essere espulsa come clandestina, perché se ci si comporta bene non ti fermano solo per un controllo. Però cercavo di essere prudente». Dell’ultima sanatoria, quella del ‘98, ha usufruito Maria Samora. 

Di Virgilio mette in luce una contraddizione della legge: «Non si può assumere chi non ha il permesso di soggiorno, ma per ottenerlo bisogna lavorare: è un circolo vizioso assurdo». Quanto all’albanese Sckalcim, «sono sbarcato in canotto dalle parti di Lecce, poi ho raggiunto la stazione più vicina a piedi e da lì ho preso un treno per la Sicilia, dove sono andato per raccogliere l’uva».

I coniugi Benkirane sono arrivati dal Marocco nell’89 e hanno lavorato a Genova, Piacenza e Milano. Alì ha fatto il custode in un circolo di golf, ma gli davano un milione e 700mila lire al mese, mentre un italiano che faceva il suo stesso lavoro prendeva tre milioni. «Però in Italia non c’è razzismo», dice, «contrariamente a Francia e Spagna. In Francia si sta meglio perché gli immigrati possono avere facilmente case popolari e un sussidio come tutti in caso di disoccupazione, ma ci sono episodi di intolleranza. Noi in Italia invece ci troviamo bene, e non vogliamo tornare in Marocco. Anche perché ormai nostra figlia Rim ha sei anni, le piace molto la scuola materna italiana, e da settembre andrà in prima elementare».

«Mi piacerebbe poter tornare in Perù, ma è impossibile», dice la badante Maria Elena, «perché il mio stipendio da professoressa era di 200 euro al mese. Ho cercato di emigrare negli Stati Uniti prima di venire in Italia, ma non ci sono riuscita perché lì le regole per entrare sono molto più severe». Anche l’infermiere Di Virgilio si è ormai stabilito in Italia: ha sposato un’infermiera colombiana e ha due figli, uno di due anni e l’altro di otto mesi.

La legge Bossi-Fini è più dura con i clandestini. Che ne pensate? 
«Per noi marocchini il problema è entrare in Spagna», spiega Alì. «Da lì, poi, si può circolare abbastanza tranquillamente per tutta Europa. Non è difficile corrompere le guardie di frontiera, pagando una tangente. O nascondersi su camion e corriere. Comunque, se i clandestini commettono reati bisogna prenderli e mandarli via».
Ma spesso gli irregolari nascondono la loro identità e il Paese d’origine. 
«Allora che la polizia italiana mi assuma come consulente», scherza Alì, «bastano tre parole in arabo per capire dall’accento se uno viene dall’Egitto, dal Marocco o dalla Tunisia...» 
«Sono d’accordo con le pene più severe per i clandestini», dice Maria Elena.

È tutto sommato buona questa nuova legge per l’albanese Sckalcim, per i suoi conterranei Cim ma italianizzatosi in Gino, come ormai lo chiamano tutti. Gino porta sul suo volto i segni di un passato difficile, che lui ormai considera alle spalle anche se, attualmente, ogni giorno la sua vita è scandita da ben 13-15 ore di lavoro. 

«Dopo aver finito la scuola, nel 1989 sono andato a fare il servizio militare», racconta Gino. «Poi con la caduta del comunismo non c’era lavoro e in casa eravamo otto fratelli, così bisognava darsi da fare. Allora sono riuscito ad attraversare la frontiera e ad andare a lavorare, come clandestino, nei campi della Grecia. Non si guadagnava molto, ma era l’unica cosa che potevo fare. Dopo cinque anni, mio cognato che stava in Italia mi disse di venire qui, che si sta meglio. A Tirana contattai le persone che mi hanno fatto attraversare l’Adriatico, e sono arrivato. All’inizio ho lavorato per la vendemmia in Sicilia tutto il giorno. Di notte dormivamo in una casetta in campagna».

Finita la raccolta dell’uva Sckalcim doveva trovare un nuovo lavoro. Sempre il cognato gli suggerì di andare nel foggiano per raccogliere pomodori. «Feci tutta la stagione», racconta Sckalcim, «prima piantavamo i pomodori, poi li curavamo e infine li raccoglievamo, sempre nella clandestinità, dormendo nei campi». Quando anche la stagione dei pomodori finì Gino dovette cercarsi altro. Così chiamò un vecchio amico che viveva a Conversano, il quale gli consigliò di raggiungerlo. 

Lì ha trovato la sua piccola America. «È vero. Il posto è davvero accogliente. Il mio amico mi ha fatto conoscere un proprietario terriero che dopo un po’ di lavoro in nero ha deciso di regolarizzarmi, fornendomi un contratto e aiutandomi a preparare i documenti per il permesso di soggiorno. Nel frattempo sono riuscito a trovare anche una stanza in affitto da un italiano che si è fidato, chiedendomi solo di non fare troppo chiasso. Quando ho avuto i documenti in regola sono tornato in Albania e ho sposato la mia fidanzata, siamo stati insieme una settimana e poi sono tornato in Italia dove ho subito iniziato a preparare i documenti per far venire in Italia anche mia moglie. Ci sono riuscito un anno fa. Appena è arrivata qui abbiamo preso in affitto una casa tutta per noi, sono 85 metri quadri e ci troviamo bene. Così abbiamo deciso di fare un figlio e da tre mesi abbiamo una bambina. Viviamo felici, anche se il lavoro è molto duro».

Cosa pensi della nuova legge per l’immigrazione? 
«Da quel che ho sentito mi sembra buona». 
E sul fatto che per avere il permesso di soggiorno serve il contratto di lavoro?
«È giusto. Se non hai il lavoro, cosa vieni a fare? Certo, il fatto che se lo perdi ti cacciano via non è bello, ma se ti danno un po’ di tempo per cercarne un altro allora va bene». 
Toglieranno anche lo sponsor, la persona che garantisce con vitto e alloggio per l’immigrato.
«Penso che anche questo sia giusto, perché un conto è avere il lavoro, un altro è avere tutte queste cose, che sembrano buone ma che in realtà non ti permettono di cambiare datore di lavoro. Così chi te le offre alla fine ti sfrutta ancora di più». 
Insomma, forse ha ragione l’ex ministro Claudio Martelli, autore della prima regolamentazione dell’immigrazione dodici anni fa: «Il problema non sono più le leggi, ma la loro applicazione pratica giorno per giorno».
Mauro Suttora