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Wednesday, October 03, 2012

Ce la farà l'Ilva a ripulirsi?

Oggi, 26 settembre 2012

di Mauro Suttora

Ce la farà l’Ilva a sopravvivere? La più grande acciaieria d’Europa potrà continuare a dare lavoro a 16 mila famiglie (12 mila dipendenti più l’indotto), senza però inquinare e uccidere?

Dopo lo spettacolare sequestro degli impianti di fine luglio che ha preoccupato l’Italia per tutta l’estate, sembrava che fosse stata trovata una soluzione. L’ultraottantenne proprietario Emilio Riva, tuttora agli arresti domiciliari nella sua villa vicino a Varese, avrebbe finanziato con 400 milioni la messa a norma degli impianti.

Bastano 400 milioni per ripulire?

«Una cifra ridicola, per bonificare ci vuole dieci volte tanto, sui quattro miliardi», ribattono gli ecologisti guidati da Angelo Bonelli, segretario nazionale dei Verdi ma anche consigliere comunale a Taranto, dove la sua lista ha ottenuto il 12 per cento alle recenti elezioni. Ma tutti quei soldi Riva non li ha. E se anche li avesse, non è detto che vorrebbe spenderli: con decine di acciaierie in giro per il mondo, potrebbe chiudere Taranto e trasferire la produzione all’estero, con salari più bassi.

È questo il famigerato «ricatto occupazionale» con cui da anni vengono tenuti buoni gli abitanti di Taranto. In particolare quelli dei quartieri Tamburi e Paolo VI e del comune di Statte, che confinano con l’immensa acciaieria. I quali, si scopre ora dati alla mano, stanno pagando il prezzo più alto dell’inquinamento: decessi aumentati del dieci per cento fra il 2003 e il 2008, tumori increscita del 12.

Attorno a Taranto si muore dall’8 al 27% in più che nel resto della Puglia. In particolare del 5-42% in più per tumore, del 10-28% in più per malattie cardiovascolari, e dell’8-64% in più per malattie respiratorie.

Sono dati dell’Istituto superiore di Sanità, quindi ufficiali, resi pubblici da Bonelli e dal capo degli ecologisti di Taranto, il professore Alessandro Marescotti. Erano stati allegati al provvedimento di sequestro emesso dalla giudice per le indagini preliminari, ma finora sono rimasti riservati. E sono deflagrati come una bomba alla vigilia della presentazione del piano per la messa a norma, prevista per il 30 settembre.

La battaglia sui dati di mortalità

Il ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha fatto querelare Bonelli dall’Avvocatura dello Stato perché i dati sarebbero tendenziosi: «Si stanno manipolando con grande spregiudicatezza dati incompleti e si sta creando una pressione sulla popolazione e sulle autorità. Non c’è nessuno oggi che può dire ci sia una relazione causa-effetto tra le attività industriali attuali dell’Ilva e lo stato di salute della popolazione». In particolare, ha fatto sensazione il dato di +306% (sempre rispetto al resto della Puglia) per le pneumoconiosi, malattie polmonari provocati soprattutto dall’amianto.

«Siamo molto preoccupati»

In questo caso, effettivamente, i numeri assoluti sono così bassi (una ventina), che è difficile e arbitrario fare estrapolazioni. Sarebbe come dire che un tumore di un certo tipo è aumentato del 300% solo perché si è passati da uno a tre casi. Ma è tutto il clima che ha di nuovo arroventato gli animi a Taranto.

Perché ci sono voluti i Verdi per pubblicare questi dati ufficiali? Ora il ministro della Salute tenta di minimizzare, dicendo che si stavano facendo le ultime verifiche prima della pubblicazione il 12 ottobre.

Intanto, i custodi giudiziari hanno bloccato la produzione. Pare che gli interventi di bonifica non possano essere effettuati a impianti accesi. Ma nel caso di un altoforno, si tratta di colossi che solo per essere spenti hanno bisogno di settimane, e altrettante poi per essere riaccesi.

«Siamo molto preoccupati», dice Rocco Palombella, capo del sindacato metalmeccanici Uil, «non vorremmo che Riva prendesse come scusa queste misure per chiudere tutto lo stabilimento». La verità, che nessuno osa dire, è che in questo periodo di crisi alla proprietà potrebbe perfino far comodo chiudere gli impianti, visto che la produzione è bassa.

Tanto peggio tanto meglio

Paradossalmente, anche a Riva potrebbe far comodo drammatizzare la situazione, esattamente come ai Verdi. Per salvare i posti di lavoro (in una zona con la disoccupazione alle stelle) potrebbe chiedere un aiuto allo Stato. Lo ha già fatto, con il suo nuovo presidente Bruno Ferrante (ex prefetto di Milano) che ha chiesto defiscalizzazioni e incentivi. Anche perché l’alternativa sarebbe una maxi cassa integrazione. A carico dello Stato. Tanto paga Pantalone.
Mauro Suttora

Wednesday, August 29, 2012

Ilva di Taranto, i protagonisti

La città è spaccata. Da una parte 16 mila posti di lavoro insostituibili, dall’altra decine di morti per i tumori provocati dall’inquinamento. In mezzo, una giudice severa. Ecco le storie dei protagonisti del dramma

dall'inviato Mauro Suttora

Oggi, 23 agosto 2012

La guerra continua. Per risolvere il pasticcio Ilva non è bastata la discesa nelle Puglie venerdì 17 agosto (brutta data) dei due Corradi, Passera ministro dello Sviluppo economico e Clini titolare dell’Ambiente.

Ad accoglierli a Taranto c’erano tutti, dal vescovo a Raffaele Fitto e Nicola Latorre (si ignora a che titolo invitati, se non per meriti partitici pugliesi). Ma mancavano le uniche due persone col pallino in mano: la gip Patrizia Todisco, che a fine luglio ha fatto sequestrare gli impianti e arrestare i proprietari, e il procuratore capo Franco Sebastio.

Saranno soltanto loro a decidere se l’acciaieria più grande d’Europa rimarrà aperta, oppure se verrà chiusa per «disastro ambientale», con perdita di 16 mila posti di lavoro (4 mila nell’indotto).

Per ora l’appuntamento è rimandato al 30 settembre. Entro quella data il governo darà all’Ilva una nuova Aia (Autorizzazione integrata ambientale) con clausole più stringenti di quella rilasciata appena un anno fa dal ministero dell’Ambiente.

Due tumori in più ogni mese

Nel frattempo, a Taranto si continua a boccheggiare. Per il caldo, ma anche per i fumi esalati dalla fabbrica. I quali provocano, secondo i periti della procura, due morti per tumore al mese. Ventiquattro all’anno più della media nazionale.
È questo, in concreto, il prezzo alla salute pagato dai tarantini.

All’inizio, mezzo secolo fa, l’Italsider era considerato una fortuna. Una delle tante opere statali della Cassa per il Mezzogiorno che dovevano industrializzare il Sud e portarlo ai livelli di benessere del Nord.

«C’erano grandi speranze negli anni Sessanta», spiega Rocco Palombella, segretario nazionale Uilm, «e anche nel decennio successivo, quando lo stabilimento raddoppiò, nessuno faceva caso ai fumi rossi. Sembrava normale che l’industria sporcasse».

Era stato anche normale scegliere un’area a ridosso della città, vicina al mare dove attraccano le navi che portano la materia prima per fare l’acciaio: ferro, e carbone per cuocerlo negli altoforni.

Coprire le montagne di polvere

Poi è arrivata la coscienza ecologica, ed esattamente trent’anni fa un giovane pretore fece condannare l’Italsider per le polveri provenienti dai «parchi minerari». Quel pretore, Sebastio, oggi è il capo della procura di Taranto, cioè della pubblica accusa che ha sequestrato gli impianti.

E i «parchi minerari» sono sempre lì, enormi montagne di materia prima che, quando si alza il vento, trasportano le polveri sui quartieri vicini: Tamburi, Paolo VI. Quest’ultimo nome fa capire che si tratta di palazzi costruiti dopo l’acciaieria, senza preoccuparsi per la scarsa distanza.

«Provate a stendere il bucato», ci dicono le donne del rione Tamburi, «il giorno dopo ce lo ritroviamo rosa».

Un metodo per eliminare l’inconveniente ci sarebbe: non tenere le montagne di ferro all’aperto. In Corea le coprono come se fossero degli stadi. L’Ilva si limitava ad innaffiarle, per evitare che le polveri volassero. Adesso vuole metterci sopra del gel.

Negli anni Ottanta l’acciaio di stato va in crisi, perde centinaia di miliardi. Nel ’95 l’Italsider viene privatizzata, e torna al vecchio nome di Ilva (Elba in latino, l’isola con le miniere di ferro che alimentavano l’acciaieria di Piombino).

I nuovi padroni si chiamano Riva. Emilio ha cominciato negli anni Cinquanta, è un milanese spiccio che oggi, a 86 anni, si ritrova rinchiuso agli arresti domiciliari nella sua villa di Malnate (Varese). È capo di un impero multinazionale con una ventina di acciaierie in tutto il mondo, che l’anno scorso ha incassato 10 miliardi di euro con 327 milioni di utile.

Ora promette di spenderne 140 per mettere in regola gli impianti. Altri 2-300 li fornirebbe lo stato. Basteranno?

«Dipende per fare che cosa», risponde Alessandro Marescotti, capo degli ecologisti. «Per la bonifica di Marghera lo stato sta spendendo cinque miliardi, dieci volte tanto».

Ma è possibile produrre acciaioo in modo pulito? «Con questi impianti, no», taglia corto Marescotti. «Sono obsoleti, devono chiuderli».

Chiudere l’Ilva, che dà da mangiare a centomila persone. Impossibile. A Taranto i disoccupati sono il 40 per cento, e le alternative all’acciaio sono turismo e vini. Che darebbero lavoro a poche centinaia di persone.

E poi, può un Paese avanzato come l’Italia, seconda potenza industriale europea dopo la Germania, rinunciare alla produzione di acciaio? Chiusi gli altoforni di Ganova e Bagnoli (Napoli), ci rimane solo Taranto. La altre acciaierie (Trieste, Piombino) sono piccole e vendute ai russi. Tutti gli esperti dicono che abbiamo bisogno di un «presidio produttivo», per non essere troppo dipendenti dall’estero e da dittature come la Cina. Nessun Paese europeo ha rinunciato a produrre l’acciaio, che serve per fare tutto: ponti e frigoriferi, auto e tubi, posate e cancelli.

E allora? Possibile che sia bastata una semplice gip di provincia per bloccare l’acciaieria più grande d’Europa?

Le intercettazioni svelano che l’Ilva distribuiva soldi per tener buoni politici e giornalisti. Perfino un perito della procura è stato filmato con una busta in un autogrill. Per far rispettare la legge c’è voluta la signora Patrizia Todisco, gip.
Mauro Suttora


1) «Da questo camino esce la diossina che ha avvelenato i nostri formaggi»

Piero Mottolese, 60 anni, pensionato Ilva, ecologista

«Quattro anni fa ero andato a trovare un mio amico pastore che pascolava le sue greggi nei campi a pochi chilometri dall’Ilva. Stava male, era su una sedia a rotelle. Poi è morto di un cancro al cervello. Allora mi è venuta l’idea di portare a far analizzare una forma di pecorino prodotta da lui, che se le mangiava sempre. Risultato: aveva dentro policlorobifenili e diossina che superavano tre volte i limiti di legge. Così hanno vietato i pascoli per un raggio di venti chilometri attorno all’Ilva.

Hanno dovuto abbattere 1.200 capi di bestiame. Non c’è più allevamento, a Taranto. Tante famiglie sono rimaste senza sostentamento. E questo camino, anche se è alto 312 metri, sputa fuori tutte le schifezze che poi ci ricascano addosso. Promettono di mettere limiti alle emissioni, poi però li pospongono di anni. E anche i sistemi di controllo, non funzionano 24 ore su 24.
Per fortuna ora una giudice ha deciso di far rispettare le leggi».


2) «Mi è venuto un tumore, sono stato licenziato per malattia»

Francesco Maggi, 39 anni, ex operaio all’Ilva

«Due anni fa faccio una visita di controllo e mi dicono: lei ha il cancro. Linfoma di Hodgkin. Io stavo bene, ero solo un po’ stanco perché lavoravo di notte e con turni anche di 12 ore. Facevo manutenzione all’Ilva con una ditta esterna. Dopo nove mesi di malattia mi hanno licenziato. Ho cinque figli, con gli straordinari e gli assegni arrivavo a 2.400 al mese.

Ora ho un assegno di mille euro. Vado ogni giorno all’ospedale per le flebo con tutte queste medicine. Vedo i prezzi, 900 euro per uno sciroppo che dura due settimane, e mi chiedo: perché lo stato deve pagare per i danni provocati da un privato? Se sono ancora vivo lo devo a mio fratello, che ha fatto un trapianto di linfociti. Ma sono veramente disperato».


3) «L’Ilva non può chiudere, però deve rispettare le leggi ambientali»

Rocco Palombella, 57 anni, capo del sindacato Uilm

Viene proprio da Taranto il segretario nazionale dei metalmeccanici Uil, che ogni giorno si confronta con Sergio Marchionne e la Fiat: «Ho lavorato trent’anni all’Ilva, ricordo l’emozione del mio primo giorno appena compiuti i 18 anni, nel ’73. Mi misero a spalare carbone, e anche dalle docce usciva acqua nera. Ma eravamo orgogliosi dell’Italsider, che ci dava uno stipendio sicuro invece della precarietà di pesca e campi.

Oggi dobbiamo obbligare l’Ilva a rispettare tutte le leggi ambientali e a non inquinare, altro che chiuderla. L’industria è importante, con le lotte del sindacato abbiamo ridotto a zero le morti sul lavoro all’Ilva negli ultimi anni».


4) «Lottiamo contro i padroni, ma difendiamo i posti di lavoro»

Fabio Boccuni e Giovanni Lippolis, operai Ilva (Fiom)

«Siamo giovani, della generazione che ha sostituito i primi assunti negli anni ’60. Guadagniamo 1.200 euro al mese, con gli straordinari arriveremmo a 1.800, ma li rifiutiamo: bisogna lavorare meno e lavorare tutti. Siamo iscritti alla Fiom, perché gli altri sindacati non lottano abbastanza contro i padroni dell’Ilva per far rispettare gli accordi. Dobbiamo arrivare al minore impatto ambientale possibile. A zero non si può, ma anche chi va in auto inquina.

I Riva hanno acciaierie anche in Germania e Belgio, devono adeguare gli impianti a quei livelli. E con i loro soldi, senza pretendere che sia lo stato, cioè noi, a pagare. I soldi li hanno: qui la redditività per operaio nel 2007 era di 60 mila euro, quindi hanno fatto denaro a palate. Che lo tirino fuori».


5) «C’è chi dice no: addio Taranto, noi emigriamo in Svizzera»

Carmelo Morgante, 40, ha rifiutato un posto all’Ilva

«Quando ho rinunciato a un posto sicuro all’Ilva i miei parenti mi hanno preso per pazzo. Ma c’è chi dice no, come canta Vasco Rossi, che ora è in vacanza proprio
qui vicino, a Castellaneta Marina. Non volevo entrare a respirare per tutta la vita i fumi di quella fabbrica. Niente ricatto occupazionale, come dicono.

Ho imparato a fare il giardiniere, poi ho trovato un posto da magazziniere. Ora mi hanno licenziato per la crisi, e allora con mia moglie e i nostri due figli tornerò a fare il giardiniere. A Zug, in Svizzera. Studiamo il tedesco, prima di partire».


6) «Mio padre rifiutò la città inquinata, ma la stiamo ripulendo. Dateci fiducia»

Vincenzo Dimastromatteo, 42 anni, ingegnere Ilva, capo degli altoforni

«Nel 1977 mio padre non volle trasferirsi con la famiglia da Bari a Taranto, perché era inquinata dalla perenne nube rossa dell’Italsider. Ma da quando lavoro qui, da dieci anni, ho visto fare enormi progressi. Soprattutto negli ultimi due anni, abbiamo compiuto sforzi titanici per eguagliare le cosiddette Bat, le migliori tecnologie disponibili al mondo per ridurre le emissioni. La diossina è stata abbattuta da 8 a 0,4 nanogrammi al metrocubo.

Le classifiche europee ci danno al secondo posto per miglior efficienza energetica, superati soltanto da un’acciaieria in Olanda. Battiamo la Thyssen tedesca con 300 chili di coke per tonnellata di ghisa, contro i loro 340. Certo, non si può arrivare a emissioni zero, ma produrre acciaio rispettando la salute dei cittadini è possibile. E lo stiamo facendo».


7) «Le cozze tarantine erano le migliori, ora dobbiamo buttarle»

Angelo, ex pescatore, oggi ormeggiatore turistico

«L’anno scorso e quest’anno centinaia di tonnellate di cozze allevate nel primo seno del mar Piccolo sono state distrutte perché inquinate oltre i limiti di legge da pcb e diossine.

E pensare che, grazie all’acqua dolce che si mischia a quella salata, erano le migliori d’Italia. Ora poi i consumatori sospettosi non comprano più neanche le cozze coltivate nel secondo seno e in mar Grande, perfettamente salubri secondo tutte le analisi. Il danno per i mitilicoltori tarantini è di un milione e mezzo di euro».


8) «Guardate questa calamita»

Alessandro Marescotti, 54 anni, professore di filosofia e fondatore di Peacelink.

Si batte dal 2005 contro l’Ilva. In queste foto ci mostra che basta posare per terra una calamita nel giardino dove giocano i bimbi nel quartiere Tamburi per tirar su
i residui ferrosi dell’acciaieria.

Mauro Suttora