L’impero delle 737 basi militari
Il Diario, 23 marzo 2007
di Mauro Suttora
Altro che Vicenza. Sono 737 in 130 Paesi, le basi militari statunitensi nel mondo. Ufficialmente: in realtà aumentate fino a un migliaio sotto la presidenza di Bush il Piccolo. «Il Pentagono, per esempio, non cita alcuna guarnigione in Kosovo», rivela Chalmers Johnson, massimo esperto mondiale del complesso militare-industriale Usa, «anche se proprio lì c’è la base più costosa mai costruita dall’America dopo la guerra in Vietnam: l'immenso Camp Bondsteel sorto nel 1999 e poi gestito dalla Kellogg, Brown & Root, società privata controllata dalla Halliburton del vicepresidente Dick Cheney. E nei rapporti ufficiali non c’è traccia di basi in Afghanistan, Iraq, Israele, Kuwait, Kirgizistan, Qatar e Uzbekistan, malgrado l’esercito Usa abbia installato colossali basi in tutti questi Paesi dopo l’11 settembre 2001».
È appena uscito negli Usa (e subito entrato nella classifica dei best seller del New York Times) l’ultimo libro di Johnson: “Nemesis: The Last Days of the American Republic”. I due precedenti, “Gli ultimi giorni dell’Impero americano” (2001) e “Le lacrime dell’impero” (2005) sono stati tradotti in Italia da Garzanti.
Ci vuole mezzo milione di persone per far funzionare questo immenso apparato di guarnigioni estere permanenti. Oltre ai 250mila soldati, ci sono altrettanti impiegati civili americani e locali. Il tutto a un costo astronomico. Il bilancio militare Usa ha superato ormai i 500 miliardi di dollari l’anno (700, secondo le organizzazioni pacifiste americane, che includono anche le spese per le pensioni e gli ospedali dei veterani, nonché gli interessi sui debiti di guerra). Per capire l’enormità della cifra, basti dire che le spese militari mondiali ammontano a 1.100 miliardi di dollari. Da soli, quindi, gli Stati Uniti spendono in armi più di tutte le altre nazioni della Terra messe assieme.
Insomma: Vicenza è solo un piccolo tassello di un impero gigantesco, descritto con particolari gustosi da Johnson. Per esempio, il Pentagono è il più grande gestore di campi da golf del mondo: ne gestisce ben 234 in ogni continente per la ricreazione dei propri soldati. Acquista 200 mila confezioni all’anno di creme abbronzanti. Possiede perfino una stazione di sci privata a Garmisch in Baviera, e un hotel di charme riservato agli ufficiali a Tokyo...
Johnson paragona il moderno impero Usa a quelli del passato: l’ateniese, il romano, l’inglese di un secolo fa. E scopre curiose analogie: «Sia Roma, sia l’Inghilterra, contavano su una trentina di basi militari maggiori per controllare i loro domini. Ebbene, è la stessa cifra delle installazioni più grosse che oggi possiedono gli Usa, oltre alla dozzina di portaerei».
Ma il parallelo più pericoloso è quello politico: alla lunga, la predominanza dei militari minò le istituzioni della repubblica romana portando necessariamento all’impero, mentre un senato logoro e corrotto s’inchinò di fronte alle pretese del generale vittorioso, l’«uomo forte». È lo stesso percorso che Johnson vede attuarsi oggi negli Stati Uniti. «Impero», d’altronde, non è più parola tabù a Washington. Ormai non la pronunciano solo Cassandre antimilitariste come Gore Vidal o Noam Chomski, ma anche ammiratori sinceri della nozione imperiale come Niall Ferguson.
Il nuovo libro di Johnson analizza la recente riedizione delle Guerre stellari, progetto fallimentare di Ronald Reagan negli anni ’80. La balzana idea di proteggere (soltanto) Polonia e Repubblica Ceca da improbabili missili di Corea del Nord o Iran serve solo a seminare discordia fra gli alleati europei, e risentimento nella Russia. «Divide et impera», appunto: l’antica regola imperiale. E la Nato assomiglia sempre più alla Lega di Delo, l’«alleanza ineguale» con cui gli ateniesi tennero sottomesse le città greche. Ma solo per trent’anni: dopo, ci fu la ribellione con la guerra del Peloponneso e il declino di Atene.
Curiosamente, sono sempre gli ex militari ad accorgersi per primi dei pericoli del militarismo. Il generale Eisenhower denunciò nel ’61 il «complesso militare-industriale» Usa. Ma anche Johnson è un ex ufficiale della guerra di Corea, nonché consulente Cia dal ’67 al ’73. Conosce insomma i suoi polli, e l’immensa ragnatela dei loro interessi.
Wednesday, March 28, 2007
Friday, March 23, 2007
Spedizioni militari italiane
TU CHIAMALE, SE VUOI, UMANITARIE
L’analisi del «decreto Afghanistan» fornisce dettagli a tratti grotteschi sulle nostre missioni all’estero. Con sottomarini che danno la caccia a Bin Laden e finanziamenti per cento semafori a Nassirya...
di Mauro Suttora
Diario, 23 marzo 2007
Otto milioni, 174 mila e 817 euro. Tanto costa al contribuente italiano l’operazione Active Endeavour per l’anno 2007. Cos’è? Stiamo dando la caccia a terroristi e pirati nel Mediterraneo con due navi e un sommergibile. Non si sa mai: che Osama mediti di attaccarci con qualche Mas? Che i discendenti dei saraceni vogliano assaltare le nostre coste? Le petroliere in rotta verso i porti italiani rischiano di essere silurate da Al Qaeda o abbordate da nuovi corsari berberi?
Bando agli scherzi. L’Operazione Sforzo Attivo (che tristezza dirla in italiano, perde ogni fascino da 007, suona come un rimedio contro la costipazione intestinale) è autorizzata dal comma tre, articolo tre del disegno di legge che converte il decreto 31 gennaio 2007 “recante proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali”. Già approvata dalla Camera con soli tre voti contrari su 630, martedì 27 marzo approda al Senato.
È ben nascosta nelle pieghe del famoso ‘decreto Afghanistan’, quello che ogni sei mesi fa venire il mal di pancia alla sinistra. Ma, per una volta, lasciamo perdere i tradimenti del senatore Turigliatto, i tentennamenti di Franca Rame o l’ottima salute di Rita Levi Montalcini. Immergiamoci nella lettura delle 300 pagine del decreto che periodicamente rischia di far cadere il governo Prodi.
La prima novità è che i militaristi nostrani hanno dimezzato le loro sofferenze. Sotto Berlusconi, infatti, le spedizioni armate al’estero dovevano essere finanziate ogni sei mesi. D’ora in poi, invece, i decreti di proroga durano un anno. Un piccolo sforzo, insomma, e poi fino al 2008 non se ne parla più.
Il titolo del decreto, poi: soave, nessuna traccia dell’aggettivo “militare”. Potrebbe trattarsi di un miliardo di euro donato a “missioni umanitarie” di Albert Schweitzer o madre Teresa. Le parole sono importanti. Ha voglia Nino Sergi, segretario generale di Intersos (volontari civili), a protestare: “Se un intervento è con le armi, non può essere ‘umanitario’. Chiamatelo di peace-keeping, peace-enforcing, sostegno alla pace, come volete. Ma non ‘umanitario’”.
Battaglia persa. È da un quarto di secolo (Libano 1982) che le nostre forze armate, tornate a organizzare spedizioni all’estero, spargono a piene mani parole profumate come “pace” e “umanitario”. Solo pochi cinici riottosi come Milan Kundera hanno smascherato l’impostura, bollando il tutto come “umanisteria”. Ma è almeno da Srebrenica (1995) e comunque dal Kosovo (1999) che i pacifisti hanno perso la loro guerra semantica. Sono stati spossessati perfino della loro ragion d’essere, del loro ‘brand’: la pace. Oggi sono i militari a “mantenere la pace”, dal Libano all’Afghanistan.
Per confondere le acque, quindi, i primi due articoli del decreto stanziano qualche briciola per la ‘cooperazione allo sviluppo’ (quella vera, la civile, che infatti compete al ministero degli Esteri): 30 milioni per l’Afghanistan, altri trenta al Libano, cinque e mezzo al Sudan. Anche dieci milioni all’Unione africana per la Somalia, figurarsi. Ci sono i 127mila euro per una conferenza sulla giustizia in Afghanistan da tenersi a Roma, e ne regaleremo altri 300mila ai libanesi sotto forma di rilevatori di mine.
Conquistata la simpatia delle Ong e quindi il voto della sinistra, con l’articolo tre si arriva al sodo. E infatti gli stanziamenti passano da otto a nove cifre: 386.680.214 euro per i 2.500 militari in Libano, 310 milioni per i 2.000 in Afghanistan e ad Abu Dhabi, 143 milioni per i 2.300 che ancora languono dimenticati dopo otto anni in Kosovo, trenta milioni per i 900 in Bosnia (ma questi ultimi solo per sei mesi, perché c’è la possibilità che dopo dodici anni finalmente rientrino).
E poi una miriade di altre microspedizioni: i 18 carabinieri a Hebron (un milione e mezzo), i 17 che dovrebbero sorvegliare la frontiera di Rafah fra Gaza ed Egitto se gli israeliani la tenessero aperta (1,4 milioni), fino ai quattro militari in Darfur (600mila euro), quattro in Congo, altri quattro a Cipro, e tre milioni per cento nostri addestratori, in Albania da dieci anni.
Soldi spesi bene? Dipende dai gusti politici di ciascuno di noi, ovviamente. “Mi sembra un miliardo stanziato secondo il principio ‘Se ci siamo, contiamo’”, dice Sergi. Show the flag, mostrare la bandiera ovunque possibile. Era la regola in voga130 anni fa, all’apice del colonialismo: l’Italietta crispina se ne entusiasmò. Poi però arrivò Adua. Volle sedersi a tavola anche Mussolini, per mangiarsi Nizza e Savoia, Corsica e Tunisia. “Siamo un grande Paese e una media potenza”, si limita a dire oggi D’Alema. “Facciamo parte del G8, dobbiamo avere senso di responsabilità”, ci ammaestra la gandhiana Emma Bonino.
Che lettura interessante, questo decreto. Pagina 109, tabelle di spesa per la missione Afghanistan. Indennità di contingente per due nostri ufficiali e quattro sottufficiali di collegamento (esercito e aeronautica) presso il comando Usa di Tampa in Florida. Ma non ci avevano detto che la missione afghana era a guida Nato, e non statunitense? E il quartier generale Nato non sta a Bruxelles?
L’operazione più attraente, come abbiamo anticipato, è la Active Endeavour. Questa è sicuramente una missione in cui gli americani non contano tantissimo, e l’indizio che ce lo fa capire è lo spelling di ‘endeavour’: in americano scrivono ‘endeavor’, come ‘humor’, quindi quella ‘u’ in più significa che c’è una predominanza europea.
Spiega la relazione che introduce il decreto: “Questa missione Nato, svolta da forze navali, è finalizzata a dare prevenzione e protezione contro azioni terroristiche e di pirateria marittima nell’area orientale del Mediterraneo, attraverso operazioni di contromisure mine, attività di controllo e sorveglianza marittima e servizi di scorta del naviglio mercantile”.
La Active Endeavour nacque il 12 settembre 2001, sull’onda dell’attentato alle Torri. Ma se pattugliare il mare europeo poteva essere un’idea compensibile in quelle settimane di orgasmo, in cui le forze armate di tutto il mondo occidentale facevano a gara ad autoassegnarsi nuovi compiti (e finanziamenti) antiterrorismo, a sei anni di distanza è lecito domandarsi: quanti terroristi sono stati scoperti grazie a questa sorveglianza? Quanti attentati sventati? La Nato fa mai un’analisi costi/benefici? A meno che l’unica vera mission dell’Alleanza, dopo il crollo del comunismo 18 anni fa, sia trovare e drammatizzare un nuovo nemico purchessia, per giustificare la mancata smobilitazione dopo la fine della guerra fredda. Certo, pare che Sheik Khaled Muhamad, numero tre di Al Qaeda arrestato nel 2003 in Pakistan e da allora prigioniero a Guantanamo, abbia alluso a petroliere Usa da far saltare a Gibilterra.
Fatto sta che l’Italia contribuisce ad Active Endeavour con 105 marinai imbarcati sulla fregata Maestrale, sul cacciamine Termoli e, dulcis in fundo, sul sommergibile Todaro nuovo di zecca: varato in febbraio, ha appena terminato l’8 marzo il suo primo mese di navigazione alla ricerca di Osama. Questo sottomarino appartiene alla nuova classe italo-tedesca U212-A, 130 milioni ad esemplare, un secondo gioiellino (lo Sciré) appena sfornato dalla Fincantieri in Liguria per la gioia delle maestranze (c’è lavoro), degli ammiragli (c’è prestigio) e anche del sottosegretario diessino (ma soprattutto spezzino, quindi cantieri) alla Difesa, Lorenzo Forcieri.
I militari in Libano sono pagati meglio che quelli in Afghanistan (pag.125). Ognuno di loro prende in media, grazie alle indennità di missione, 105 mila euro all’anno (180 euro al giorno oltre allo stipendio), contro i 78 mila degli sfortunati spediti a Kabul e Herat. Forse anche da questa disparità nasce la riluttanza verso compiti realmente “operativi” (traduzione: combattimento) in Afghanistan.
Le penne monarchiche
In realtà in Libano non è che i nostri abbiano un granché da fare. Ecco l’ultimo comunicato stampa del contingente Leonte (15 marzo): “Oggi, una tonnellata di aiuti umanitari sono stati distribuiti a un istituto scolastico per diversamente abili di Tiro. Gli aiuti, composti da pasta, riso, merendine, pelati ecc., sono stati distribuiti dai Lagunari del reggimento ‘Serenissima’. Sono stati affidati al Contingente Italiano da diverse associazioni tra cui: l’Associazione Internazionale Regina Elena, la Together Onlus, ‘Ci siamo anche noi’ di Cavallino Treporti (Ve), Associazione mestrina San Vincenzo, farmacia Ghezzi dell’isola della Giudecca di Venezia...”
L’associazione Regina Elena, che ha fornito anche “matite, penne e zainetti” distribuiti in una scuola elementare libanese dai nostri militari, è un gruppuscolo legittimista monarchico (vogliono ufficialmente il ritorno del re) guidato dal bisnipote di Elena, il principe Serge di Jugoslavia (figlio di Maria Pia di Savoia). Abbiamo quindi soldati della repubblica italiana che distribuiscono la beneficenza di chi vuole il ritorno della monarchia...
Ma per distribuire penne e matite ai bimbi libanesi non bastavano due operatori civili di una qualsiasi Ong? C’era bisogno di mandare un contingente militare di 2.500 soldati con carri armati? I quali peraltro finora non hanno sequestrato neanche una pistola ad acqua agli hezbollah: quindi non stanno eseguendo la loro missione ufficiale, che non è principalmente umanitaria o di sminamento, ma di disarmo degli hezbollah.
Poi ci sono i 75 mila euro stanziati per comprare cento semafori da mettere a Nassirya. Anche installando quattro semafori per incrocio, a Nassirya esistono 25 incroci con un tale traffico da giustificare semafori? E poi: 500 mila euro per la “mappatura satellitare” dei beni culturali irakeni... Oppure: un milione di euro per un corso di 45 giorni per sessanta tecnici del petrolio iracheni a Piacenza (alloggio nell’albergo Piacenza Ovest...), come se le compagnie petrolifere (compresa la nostra Eni) non fossero abbastanza ricche da poter pagar loro la formazione... Oppure due “esperti” da inviare in Curdistan per “facilitare la penetrazione commerciale italiana” (sic) al modico stipendio annuo di 180mila euro l’uno. Siamo sicuri che è di questo che c’è bisogno per pacificare l’Iraq, oggi?
Mauro Suttora
L’analisi del «decreto Afghanistan» fornisce dettagli a tratti grotteschi sulle nostre missioni all’estero. Con sottomarini che danno la caccia a Bin Laden e finanziamenti per cento semafori a Nassirya...
di Mauro Suttora
Diario, 23 marzo 2007
Otto milioni, 174 mila e 817 euro. Tanto costa al contribuente italiano l’operazione Active Endeavour per l’anno 2007. Cos’è? Stiamo dando la caccia a terroristi e pirati nel Mediterraneo con due navi e un sommergibile. Non si sa mai: che Osama mediti di attaccarci con qualche Mas? Che i discendenti dei saraceni vogliano assaltare le nostre coste? Le petroliere in rotta verso i porti italiani rischiano di essere silurate da Al Qaeda o abbordate da nuovi corsari berberi?
Bando agli scherzi. L’Operazione Sforzo Attivo (che tristezza dirla in italiano, perde ogni fascino da 007, suona come un rimedio contro la costipazione intestinale) è autorizzata dal comma tre, articolo tre del disegno di legge che converte il decreto 31 gennaio 2007 “recante proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali”. Già approvata dalla Camera con soli tre voti contrari su 630, martedì 27 marzo approda al Senato.
È ben nascosta nelle pieghe del famoso ‘decreto Afghanistan’, quello che ogni sei mesi fa venire il mal di pancia alla sinistra. Ma, per una volta, lasciamo perdere i tradimenti del senatore Turigliatto, i tentennamenti di Franca Rame o l’ottima salute di Rita Levi Montalcini. Immergiamoci nella lettura delle 300 pagine del decreto che periodicamente rischia di far cadere il governo Prodi.
La prima novità è che i militaristi nostrani hanno dimezzato le loro sofferenze. Sotto Berlusconi, infatti, le spedizioni armate al’estero dovevano essere finanziate ogni sei mesi. D’ora in poi, invece, i decreti di proroga durano un anno. Un piccolo sforzo, insomma, e poi fino al 2008 non se ne parla più.
Il titolo del decreto, poi: soave, nessuna traccia dell’aggettivo “militare”. Potrebbe trattarsi di un miliardo di euro donato a “missioni umanitarie” di Albert Schweitzer o madre Teresa. Le parole sono importanti. Ha voglia Nino Sergi, segretario generale di Intersos (volontari civili), a protestare: “Se un intervento è con le armi, non può essere ‘umanitario’. Chiamatelo di peace-keeping, peace-enforcing, sostegno alla pace, come volete. Ma non ‘umanitario’”.
Battaglia persa. È da un quarto di secolo (Libano 1982) che le nostre forze armate, tornate a organizzare spedizioni all’estero, spargono a piene mani parole profumate come “pace” e “umanitario”. Solo pochi cinici riottosi come Milan Kundera hanno smascherato l’impostura, bollando il tutto come “umanisteria”. Ma è almeno da Srebrenica (1995) e comunque dal Kosovo (1999) che i pacifisti hanno perso la loro guerra semantica. Sono stati spossessati perfino della loro ragion d’essere, del loro ‘brand’: la pace. Oggi sono i militari a “mantenere la pace”, dal Libano all’Afghanistan.
Per confondere le acque, quindi, i primi due articoli del decreto stanziano qualche briciola per la ‘cooperazione allo sviluppo’ (quella vera, la civile, che infatti compete al ministero degli Esteri): 30 milioni per l’Afghanistan, altri trenta al Libano, cinque e mezzo al Sudan. Anche dieci milioni all’Unione africana per la Somalia, figurarsi. Ci sono i 127mila euro per una conferenza sulla giustizia in Afghanistan da tenersi a Roma, e ne regaleremo altri 300mila ai libanesi sotto forma di rilevatori di mine.
Conquistata la simpatia delle Ong e quindi il voto della sinistra, con l’articolo tre si arriva al sodo. E infatti gli stanziamenti passano da otto a nove cifre: 386.680.214 euro per i 2.500 militari in Libano, 310 milioni per i 2.000 in Afghanistan e ad Abu Dhabi, 143 milioni per i 2.300 che ancora languono dimenticati dopo otto anni in Kosovo, trenta milioni per i 900 in Bosnia (ma questi ultimi solo per sei mesi, perché c’è la possibilità che dopo dodici anni finalmente rientrino).
E poi una miriade di altre microspedizioni: i 18 carabinieri a Hebron (un milione e mezzo), i 17 che dovrebbero sorvegliare la frontiera di Rafah fra Gaza ed Egitto se gli israeliani la tenessero aperta (1,4 milioni), fino ai quattro militari in Darfur (600mila euro), quattro in Congo, altri quattro a Cipro, e tre milioni per cento nostri addestratori, in Albania da dieci anni.
Soldi spesi bene? Dipende dai gusti politici di ciascuno di noi, ovviamente. “Mi sembra un miliardo stanziato secondo il principio ‘Se ci siamo, contiamo’”, dice Sergi. Show the flag, mostrare la bandiera ovunque possibile. Era la regola in voga130 anni fa, all’apice del colonialismo: l’Italietta crispina se ne entusiasmò. Poi però arrivò Adua. Volle sedersi a tavola anche Mussolini, per mangiarsi Nizza e Savoia, Corsica e Tunisia. “Siamo un grande Paese e una media potenza”, si limita a dire oggi D’Alema. “Facciamo parte del G8, dobbiamo avere senso di responsabilità”, ci ammaestra la gandhiana Emma Bonino.
Che lettura interessante, questo decreto. Pagina 109, tabelle di spesa per la missione Afghanistan. Indennità di contingente per due nostri ufficiali e quattro sottufficiali di collegamento (esercito e aeronautica) presso il comando Usa di Tampa in Florida. Ma non ci avevano detto che la missione afghana era a guida Nato, e non statunitense? E il quartier generale Nato non sta a Bruxelles?
L’operazione più attraente, come abbiamo anticipato, è la Active Endeavour. Questa è sicuramente una missione in cui gli americani non contano tantissimo, e l’indizio che ce lo fa capire è lo spelling di ‘endeavour’: in americano scrivono ‘endeavor’, come ‘humor’, quindi quella ‘u’ in più significa che c’è una predominanza europea.
Spiega la relazione che introduce il decreto: “Questa missione Nato, svolta da forze navali, è finalizzata a dare prevenzione e protezione contro azioni terroristiche e di pirateria marittima nell’area orientale del Mediterraneo, attraverso operazioni di contromisure mine, attività di controllo e sorveglianza marittima e servizi di scorta del naviglio mercantile”.
La Active Endeavour nacque il 12 settembre 2001, sull’onda dell’attentato alle Torri. Ma se pattugliare il mare europeo poteva essere un’idea compensibile in quelle settimane di orgasmo, in cui le forze armate di tutto il mondo occidentale facevano a gara ad autoassegnarsi nuovi compiti (e finanziamenti) antiterrorismo, a sei anni di distanza è lecito domandarsi: quanti terroristi sono stati scoperti grazie a questa sorveglianza? Quanti attentati sventati? La Nato fa mai un’analisi costi/benefici? A meno che l’unica vera mission dell’Alleanza, dopo il crollo del comunismo 18 anni fa, sia trovare e drammatizzare un nuovo nemico purchessia, per giustificare la mancata smobilitazione dopo la fine della guerra fredda. Certo, pare che Sheik Khaled Muhamad, numero tre di Al Qaeda arrestato nel 2003 in Pakistan e da allora prigioniero a Guantanamo, abbia alluso a petroliere Usa da far saltare a Gibilterra.
Fatto sta che l’Italia contribuisce ad Active Endeavour con 105 marinai imbarcati sulla fregata Maestrale, sul cacciamine Termoli e, dulcis in fundo, sul sommergibile Todaro nuovo di zecca: varato in febbraio, ha appena terminato l’8 marzo il suo primo mese di navigazione alla ricerca di Osama. Questo sottomarino appartiene alla nuova classe italo-tedesca U212-A, 130 milioni ad esemplare, un secondo gioiellino (lo Sciré) appena sfornato dalla Fincantieri in Liguria per la gioia delle maestranze (c’è lavoro), degli ammiragli (c’è prestigio) e anche del sottosegretario diessino (ma soprattutto spezzino, quindi cantieri) alla Difesa, Lorenzo Forcieri.
I militari in Libano sono pagati meglio che quelli in Afghanistan (pag.125). Ognuno di loro prende in media, grazie alle indennità di missione, 105 mila euro all’anno (180 euro al giorno oltre allo stipendio), contro i 78 mila degli sfortunati spediti a Kabul e Herat. Forse anche da questa disparità nasce la riluttanza verso compiti realmente “operativi” (traduzione: combattimento) in Afghanistan.
Le penne monarchiche
In realtà in Libano non è che i nostri abbiano un granché da fare. Ecco l’ultimo comunicato stampa del contingente Leonte (15 marzo): “Oggi, una tonnellata di aiuti umanitari sono stati distribuiti a un istituto scolastico per diversamente abili di Tiro. Gli aiuti, composti da pasta, riso, merendine, pelati ecc., sono stati distribuiti dai Lagunari del reggimento ‘Serenissima’. Sono stati affidati al Contingente Italiano da diverse associazioni tra cui: l’Associazione Internazionale Regina Elena, la Together Onlus, ‘Ci siamo anche noi’ di Cavallino Treporti (Ve), Associazione mestrina San Vincenzo, farmacia Ghezzi dell’isola della Giudecca di Venezia...”
L’associazione Regina Elena, che ha fornito anche “matite, penne e zainetti” distribuiti in una scuola elementare libanese dai nostri militari, è un gruppuscolo legittimista monarchico (vogliono ufficialmente il ritorno del re) guidato dal bisnipote di Elena, il principe Serge di Jugoslavia (figlio di Maria Pia di Savoia). Abbiamo quindi soldati della repubblica italiana che distribuiscono la beneficenza di chi vuole il ritorno della monarchia...
Ma per distribuire penne e matite ai bimbi libanesi non bastavano due operatori civili di una qualsiasi Ong? C’era bisogno di mandare un contingente militare di 2.500 soldati con carri armati? I quali peraltro finora non hanno sequestrato neanche una pistola ad acqua agli hezbollah: quindi non stanno eseguendo la loro missione ufficiale, che non è principalmente umanitaria o di sminamento, ma di disarmo degli hezbollah.
Poi ci sono i 75 mila euro stanziati per comprare cento semafori da mettere a Nassirya. Anche installando quattro semafori per incrocio, a Nassirya esistono 25 incroci con un tale traffico da giustificare semafori? E poi: 500 mila euro per la “mappatura satellitare” dei beni culturali irakeni... Oppure: un milione di euro per un corso di 45 giorni per sessanta tecnici del petrolio iracheni a Piacenza (alloggio nell’albergo Piacenza Ovest...), come se le compagnie petrolifere (compresa la nostra Eni) non fossero abbastanza ricche da poter pagar loro la formazione... Oppure due “esperti” da inviare in Curdistan per “facilitare la penetrazione commerciale italiana” (sic) al modico stipendio annuo di 180mila euro l’uno. Siamo sicuri che è di questo che c’è bisogno per pacificare l’Iraq, oggi?
Mauro Suttora
Tuesday, March 06, 2007
intervista a Francesca Dellera
"In amore sono anarchica"
La Dellera torna in Tv: è la "Contessa di Castiglione"
La cortigiana non si fece scrupoli a concedersi a Napoleone III per il bene dell' Italia. "Anch'io vivo d' impulso in amore e sono anticonformista", rivela Francesca. "Non voglio nemmeno sentire la parola "coppia". Ma poi, a furia di insistere, abbiamo scoperto che un uomo ce l'ha, a Parigi, da due anni...
di Mauro Suttora
Oggi, 6 dicembre 2006
Roma
La vuole fare una foto a cavallo, davanti all' Altare della patria?
"E perché?"
Be', è stata la contessa di Castiglione a far nascere l'Italia, più di Vittorio Emanuele II e almeno quanto Garibaldi. Fu lei a sedurre Napoleone III, convincendolo con le buonissime a combattere per noi contro gli austriaci nel 1859.
"Ahahah...".
La risata di Francesca Dellera è affascinante quanto i suoi occhi e la sua leggendaria pelle bianca. Da vent' anni si è insediata da regina nella fantasia erotica degli italiani (Capriccio di Tinto Brass, 1987), e non se n'è più andata. Anzi, per la verità se n'è andata lei, dall'Italia: a Los Angeles, New York, Londra, ora a Parigi, dietro a uomini misteriosi e ad avventure favolose.
Così non l' abbiamo più ammirata, tranne che ne La Carne di Marco Ferreri nel '91 (dove faceva girare la testa al povero Sergio Castellitto) e in Tv con Nanà cinque anni fa. Una diva un po' accidiosa che ha fatto dell' assenza una virtù. Ma è rimasta nella nostra memoria, indelebile. Ora torna, e praticamente interpreta se stessa: Virginia Oldoini, alias Contessa di Castiglione, film in due puntate su Raiuno da domenica 3 dicembre, con Jeanne Moreau e Sergio Rubini.
"È un personaggio che ho sentito molto vicino, anch' io vivo d' impulso come lei. La Castiglione è una donna modernissima, che ha vinto gli schemi della sua epoca sfuggendo alle regole e ai pregiudizi. Grande anticonformista, in una società in cui le donne erano completamente sottomesse: contavano solo in quanto mogli dei propri mariti".
Qualcuno però l'ha definita prostituta d' alto bordo: prima Napoleone III, poi amante di Vittorio Emanuele II...
"Ma figurarsi. Ho letto le sue biografie, quella donna non calcolava vantaggi e svantaggi. Si lasciava guidare dalle emozioni, era calda e passionale, e ha sempre pagato in prima persona".
Fatto sta che accettò di farsi mandare da Cavour a Parigi con il preciso compito di portare a letto l' imperatore francese. "Certo, e per un obiettivo nobile e patriottico. Ma per lei la seduzione era una sfida, le piaceva conquistare un uomo. Però alla fine non ne ricavava niente. Morì con pochi soldi, non ha mai capitalizzato le proprie "vittorie". Di Napoleone poi s' innamorò sul serio, anche se il suo cuore in realtà batteva per un giovane anarchico".
E il suo cuore batte per chi, attualmente ? "Un uomo francese, a Parigi".
Da quando ?
"Meno di due anni".
Vivete assieme ?
"Neanche per sogno ! La convivenza è la tomba dell' amore. Quando un uomo torna a casa la sera e si sente in diritto di domandare alla propria donna "Che cosa hai fatto oggi ?", è la fine. L' amore ha bisogno di mistero".
Be' , dipende dalle coppie...
"Già la parola "coppia" mi mette tristezza. Barbara Alberti ha detto: "L' amore è per i coraggiosi, tutto il resto è coppia".
Mi sa che il giovane anarchico che si innamora di lei nel film ha trasformato anche lei in una libertaria libertina.
"Ma io sono sempre stata così. Me lo disse Ferreri: "Tu sei una ribelle anarcoide". Ogni volta che in un rapporto mi sento costretta o condizionata, mi viene voglia di scappare".
Lei non metterà mai su famiglia.
"E perché dovrei ?".
Non vuole dei figli ?
"Perché no, chissà...".
Vabbè, cambiamo argomento. Altre somiglianze con la Castiglione?
"Sono molto incosciente, non riesco mai a fare progetti, a programmare il futuro. Sono indisciplinata e ribelle".
Anche lei fra un quarto di secolo coprirà gli specchi di casa con velluto per non vedersi vecchia ?
"Chissà se ci arriverò, a sessant' anni".
Anche a lei piace conquistare gli uomini solo per il gusto di farlo ?
"Sono troppo pigra per conquistare. Però sono anche fortunata: gli uomini che mi piacciono arrivano da soli".
Ma se non si dà almeno un po' da fare, come succede ? Qual è il suo segreto ? Le basta un' occhiata ?
"Guardi, a Parigi tutte le donne impazzivano per uno sportivo molto sexy..."
Il tennista Yannick Noah ?
"Oddio, ma lei che fa ? È il mio biografo ?"
Mi sono preparato.
"Insomma, non voglio fare nomi, fatto sta che questo comincia a corteggiarmi e io gli dico: "Ma sei sposato". E... "Con la sua risposta mi ha conquistato: "Nessuno è perfetto". Poco dopo si è separato, ma almeno non ha fatto come molti uomini italiani, che negano, montano sceneggiate, dicono sempre "Mi sto separando".
Una volta Cesare Lanza le ha chiesto: "Preferisci possedere o essere posseduta ?". E lei rispose fulminea: "Detesto possedere perché non mi piace essere posseduta". Le è venuta spontanea, o è la citazione di un filosofo?
"Ahahah ! Ma è così semplice, è solo la traduzione del comandamento "Non fare agli altri quello che non vuoi ti venga fatto". Ripeto: sono contro il matrimonio e qualsiasi forma di convivenza".
E dagli. Ma se ci si ama ci si vuole svegliare accanto.
"Sì, i primi tempi. Poi, meglio la lontananza. Accende il desiderio. Guardi Claudia Cardinale: lei se ne sta a Parigi, e il suo Squitieri a Roma. Certi matrimoni sono così ridicoli. Quello di Tom Cruise, per esempio: prevede addirittura una multa in caso di corna".
Le piace fare l' amore ?
"In una storia il sesso è tutto".
La butta sul fisico.
"Macché: trovo antierotici i maschi palestrati. In un uomo mi attira l' intelligenza".
Per esempio ?
"Jeremy Irons".
L' ha conosciuto ?
"No, e non ci tengo: magari mi deluderebbe. Come tipo mi piace anche Benicio Del Toro".
Ma è il contrario di Irons.
"No, è torbido come lui. Più selvaggio. Mi dà l' idea di un portoricano maledetto, figlio della strada".
Lei mi delude. Torniamo alla Castiglione, che fu la prima a posare per foto erotiche. Ne ha fatte di più la contessa o lei ? "Ma io non ho mai posato nuda !".
Su, non scherzi, le ho detto che ho studiato: copertina di Penthouse nell'88, Playmen nel '97.
"Erano solo foto di scena, tratte dai film".
Oh, questo è uno scoop. Perché non fa vita mondana ? Non la si vede mai in giro.
"Ho una casa a Roma, ma abito soprattutto a Parigi. E comunque non m'interessa quel tipo di vita. C'è già così tanta gente che non fa niente, ma appare sempre...".
Il poeta Attilio Bertolucci, padre di Bernardo, ha scritto: "L' anemia fa più bella". Lei si è mai abbronzata ?
"Non sono anemica, ma visto che il sole rovina la carnagione, che sono pigra e che agli uomini la pelle chiara piace, perché dovrei starmene a soffrire al sole?"
Durante le riprese di questo film Jeanne Moreau le ha regalato un libro su Marilyn Monroe, dicendole che le siete apparse entrambe fragili. Lei come si sente ?
"Fragile, sì. La libertà è la cosa più costosa al mondo".
La Dellera torna in Tv: è la "Contessa di Castiglione"
La cortigiana non si fece scrupoli a concedersi a Napoleone III per il bene dell' Italia. "Anch'io vivo d' impulso in amore e sono anticonformista", rivela Francesca. "Non voglio nemmeno sentire la parola "coppia". Ma poi, a furia di insistere, abbiamo scoperto che un uomo ce l'ha, a Parigi, da due anni...
di Mauro Suttora
Oggi, 6 dicembre 2006
Roma
La vuole fare una foto a cavallo, davanti all' Altare della patria?
"E perché?"
Be', è stata la contessa di Castiglione a far nascere l'Italia, più di Vittorio Emanuele II e almeno quanto Garibaldi. Fu lei a sedurre Napoleone III, convincendolo con le buonissime a combattere per noi contro gli austriaci nel 1859.
"Ahahah...".
La risata di Francesca Dellera è affascinante quanto i suoi occhi e la sua leggendaria pelle bianca. Da vent' anni si è insediata da regina nella fantasia erotica degli italiani (Capriccio di Tinto Brass, 1987), e non se n'è più andata. Anzi, per la verità se n'è andata lei, dall'Italia: a Los Angeles, New York, Londra, ora a Parigi, dietro a uomini misteriosi e ad avventure favolose.
Così non l' abbiamo più ammirata, tranne che ne La Carne di Marco Ferreri nel '91 (dove faceva girare la testa al povero Sergio Castellitto) e in Tv con Nanà cinque anni fa. Una diva un po' accidiosa che ha fatto dell' assenza una virtù. Ma è rimasta nella nostra memoria, indelebile. Ora torna, e praticamente interpreta se stessa: Virginia Oldoini, alias Contessa di Castiglione, film in due puntate su Raiuno da domenica 3 dicembre, con Jeanne Moreau e Sergio Rubini.
"È un personaggio che ho sentito molto vicino, anch' io vivo d' impulso come lei. La Castiglione è una donna modernissima, che ha vinto gli schemi della sua epoca sfuggendo alle regole e ai pregiudizi. Grande anticonformista, in una società in cui le donne erano completamente sottomesse: contavano solo in quanto mogli dei propri mariti".
Qualcuno però l'ha definita prostituta d' alto bordo: prima Napoleone III, poi amante di Vittorio Emanuele II...
"Ma figurarsi. Ho letto le sue biografie, quella donna non calcolava vantaggi e svantaggi. Si lasciava guidare dalle emozioni, era calda e passionale, e ha sempre pagato in prima persona".
Fatto sta che accettò di farsi mandare da Cavour a Parigi con il preciso compito di portare a letto l' imperatore francese. "Certo, e per un obiettivo nobile e patriottico. Ma per lei la seduzione era una sfida, le piaceva conquistare un uomo. Però alla fine non ne ricavava niente. Morì con pochi soldi, non ha mai capitalizzato le proprie "vittorie". Di Napoleone poi s' innamorò sul serio, anche se il suo cuore in realtà batteva per un giovane anarchico".
E il suo cuore batte per chi, attualmente ? "Un uomo francese, a Parigi".
Da quando ?
"Meno di due anni".
Vivete assieme ?
"Neanche per sogno ! La convivenza è la tomba dell' amore. Quando un uomo torna a casa la sera e si sente in diritto di domandare alla propria donna "Che cosa hai fatto oggi ?", è la fine. L' amore ha bisogno di mistero".
Be' , dipende dalle coppie...
"Già la parola "coppia" mi mette tristezza. Barbara Alberti ha detto: "L' amore è per i coraggiosi, tutto il resto è coppia".
Mi sa che il giovane anarchico che si innamora di lei nel film ha trasformato anche lei in una libertaria libertina.
"Ma io sono sempre stata così. Me lo disse Ferreri: "Tu sei una ribelle anarcoide". Ogni volta che in un rapporto mi sento costretta o condizionata, mi viene voglia di scappare".
Lei non metterà mai su famiglia.
"E perché dovrei ?".
Non vuole dei figli ?
"Perché no, chissà...".
Vabbè, cambiamo argomento. Altre somiglianze con la Castiglione?
"Sono molto incosciente, non riesco mai a fare progetti, a programmare il futuro. Sono indisciplinata e ribelle".
Anche lei fra un quarto di secolo coprirà gli specchi di casa con velluto per non vedersi vecchia ?
"Chissà se ci arriverò, a sessant' anni".
Anche a lei piace conquistare gli uomini solo per il gusto di farlo ?
"Sono troppo pigra per conquistare. Però sono anche fortunata: gli uomini che mi piacciono arrivano da soli".
Ma se non si dà almeno un po' da fare, come succede ? Qual è il suo segreto ? Le basta un' occhiata ?
"Guardi, a Parigi tutte le donne impazzivano per uno sportivo molto sexy..."
Il tennista Yannick Noah ?
"Oddio, ma lei che fa ? È il mio biografo ?"
Mi sono preparato.
"Insomma, non voglio fare nomi, fatto sta che questo comincia a corteggiarmi e io gli dico: "Ma sei sposato". E... "Con la sua risposta mi ha conquistato: "Nessuno è perfetto". Poco dopo si è separato, ma almeno non ha fatto come molti uomini italiani, che negano, montano sceneggiate, dicono sempre "Mi sto separando".
Una volta Cesare Lanza le ha chiesto: "Preferisci possedere o essere posseduta ?". E lei rispose fulminea: "Detesto possedere perché non mi piace essere posseduta". Le è venuta spontanea, o è la citazione di un filosofo?
"Ahahah ! Ma è così semplice, è solo la traduzione del comandamento "Non fare agli altri quello che non vuoi ti venga fatto". Ripeto: sono contro il matrimonio e qualsiasi forma di convivenza".
E dagli. Ma se ci si ama ci si vuole svegliare accanto.
"Sì, i primi tempi. Poi, meglio la lontananza. Accende il desiderio. Guardi Claudia Cardinale: lei se ne sta a Parigi, e il suo Squitieri a Roma. Certi matrimoni sono così ridicoli. Quello di Tom Cruise, per esempio: prevede addirittura una multa in caso di corna".
Le piace fare l' amore ?
"In una storia il sesso è tutto".
La butta sul fisico.
"Macché: trovo antierotici i maschi palestrati. In un uomo mi attira l' intelligenza".
Per esempio ?
"Jeremy Irons".
L' ha conosciuto ?
"No, e non ci tengo: magari mi deluderebbe. Come tipo mi piace anche Benicio Del Toro".
Ma è il contrario di Irons.
"No, è torbido come lui. Più selvaggio. Mi dà l' idea di un portoricano maledetto, figlio della strada".
Lei mi delude. Torniamo alla Castiglione, che fu la prima a posare per foto erotiche. Ne ha fatte di più la contessa o lei ? "Ma io non ho mai posato nuda !".
Su, non scherzi, le ho detto che ho studiato: copertina di Penthouse nell'88, Playmen nel '97.
"Erano solo foto di scena, tratte dai film".
Oh, questo è uno scoop. Perché non fa vita mondana ? Non la si vede mai in giro.
"Ho una casa a Roma, ma abito soprattutto a Parigi. E comunque non m'interessa quel tipo di vita. C'è già così tanta gente che non fa niente, ma appare sempre...".
Il poeta Attilio Bertolucci, padre di Bernardo, ha scritto: "L' anemia fa più bella". Lei si è mai abbronzata ?
"Non sono anemica, ma visto che il sole rovina la carnagione, che sono pigra e che agli uomini la pelle chiara piace, perché dovrei starmene a soffrire al sole?"
Durante le riprese di questo film Jeanne Moreau le ha regalato un libro su Marilyn Monroe, dicendole che le siete apparse entrambe fragili. Lei come si sente ?
"Fragile, sì. La libertà è la cosa più costosa al mondo".
Monday, March 05, 2007
Anna Nicole Smith
IERI UNA MITOMANE, OGGI UN MITO: COME ELVIS, FOLLE DI FAN VISITANO LA TOMBA
Mauro Suttora per “Oggi”
Nassau, Bahamas
Altro che prendere il sole, andare in barca, giocare a golf. La signora Erica Elshoff è volata dalla sua Florida a Nassau, capitale delle Bahamas, soltanto per recarsi in pellegrinaggio al cimitero dove il 2 marzo è stata sepolta Anna Nicole Smith. E come lei migliaia di americani. Sì, perché l'ex coniglietta di Playboy morta un mese fa è ormai diventata, negli Stati Uniti, una leggenda popolare. Ogni volta che un programma tv parla di lei, gli ascolti s'impennano. Le tirature dei settimanali di gossip aumentano. Ma anche canali seri come la Cnn trasmettono in continuazione programmi su di lei. E perfino il prestigioso quotidiano Washington Post ha pubblicato una lunga biografia di Howard K. Stern, uno dei sette uomini che si proclamano padri della figlia di sei mesi di Anna Nicole, Daniellyn.
L'America impazzisce per la Smith, così come quarant'anni fa si appassionò per le morti di Marilyn e Kennedy, e trent'anni fa assistette incredula alla fine prematura di Elvis Presley. «Dipingono Anna Nicole come una pornostar furba e drogata, invece era una donna forte che si sapeva gestire», dice la signora Elshoff. Che crede alla versione dell'abuso di droghe. Ma, dopo l'autopsia contraddittoria, c'è chi comincia a ipotizzare l'omicidio. Se ne parlerà per anni.
Dopo il cimitero, dove Anna Nicole riposa con le ceneri dell'ex marito Howard Marshall, magnate del petrolio, e accanto alla tomba dell'amatissimo figlio Daniel, il tour dei fan prosegue verso l'ospedale di Nassau, dove il diciannovenne Daniel morì per overdose lo scorso settembre, solo pochi giorni dopo la nascita di Dannielynn. Ultima tappa: la villa Horizons, dove la pin-up ha trascorso gli ultimi mesi della sua avventurosissima vita.
«È un fenomeno di massa, paragonabile solo a quello per la principessa Diana», si frega le mani il ministro del turismo delle Bahamas. Un altro politico locale, il ministro dell'immigrazione Shane Gibson, è finito nei guai dopo che un giornale ha pubblicato una foto di lui a letto assieme ad Anna Nicole (vestiti). La loro amicizia era nota, ma lui ha dovuto dimettersi il 18 febbraio con l'accusa di aver accelerato il «sì» alla domanda di residenza della pin-up, l'anno scorso.
Le frequentazioni maschili di Anna Nicole in effetti erano vorticose. «Stavamo assieme, anche se sapevo che andava a letto anche con altri uomini», ha ammesso Stern, che le faceva da avvocato personale. «Ma a me andava bene, volevo soltanto che fosse felice». Gli altri pretendenti alla paternità di Daniellyn (ma soprattutto agli 89 milioni di dollari di eredità) sono sei. Eccoli.
1) L'ex fidanzato Larry Birkhead, fotografo, da subito ha contestato il riconoscimento della piccola da parte di Stern: «Siamo stati insieme dal 2004 al 2006», assicura, «e ricordo che quando noi eravamo a letto, Stern dormiva su un divano al piano di sotto. Lui era soltanto il suo tuttofare, uno zerbino. Lo scorso maggio abbiamo rotto, perché mi ero rifiutato di comprarle un paio di occhiali da sole. Lei era già incinta di me, ma per ripicca non volle più vedermi e mi tagliò fuori da tutto».
2) Il principe Federico von Anhalt, sessantenne ottavo e (per ora) ultimo marito della novantenne Zsa Zsa Gabor, la quale ha minacciato il divorzio quando pure lui si è vantato di essere andato a letto con Anna Nicole: «Voleva sposarmi per diventare una principessa», ha dichiarato l'attempato playboy, che quel titolo nobiliare lo comprò nell'80.
3) Mark Hatten, che è stato davvero assieme ad Anna Nicole in passato, ma che ora si trova in carcere. Condannato a ben sette anni proprio per averla pedinata e molestata dopo la fine della relazione e avere picchiato il vicino di casa di lei mentre la spiava. Come può averla fecondata, visto che nel periodo del concepimento era al fresco? Semplice: «Le avevo dato una fiala col mio sperma congelato». A spalleggiarlo spunta ora sua sorella Jackie, che si autoproclama «amica da 15 anni» di Anna Nicole, e rivela che lei le avrebbe confidato: «Stern è l'ultimo uomo sulla Terra di cui potrei innamorarmi».
4) Alexander Denk, un attorucolo austriaco che fu assunto come cuoco da Anna Nicole quando lei nel 2002 riuscì a piazzare un reality-show su se stessa su un canale tv Usa, che andò avanti per due stagioni. Ci mise poco a infilarsi pure lui nel letto della generosa coniglietta, che lo promosse guardia del corpo personale.
5) O.J. Simpson: campione di football accusato di avere ucciso la moglie una dozzina di anni fa, scampato alla sedia elettrica per il rotto della cuffia: anche lui eroe popolare americano, dice di aver fatto l'amore con Anna Nicole alla fine del 2005.
6) In questo circo poteva mancare Howard Marshall, il miliardario 89enne che sposò la Smith nel '94, morì dopo 14 mesi e fece scatenare la battaglia dei figli sull'eredità da un miliardo e 600 milioni di dollari? Potrebbe essere lui il padre di Daniellynn, grazie al solito seme congelato. Un'ipotesi che farebbe comodo ai parenti di Marshall che, dopo essere riusciti a far ridurre dai tribunali la quota di eredità di Anna Nicole a 474 e poi a 89 milioni di dollari, oggi si trovano in difficoltà. L'anno scorso, infatti, si è occupata della questione addirittura la Corte Suprema, che ha accolto l'appello della Smith. L'ammontare dell'eredità, quindi, è ancora tutto da decidere.
Lo zoo di cialtroni che si affolla attorno al cadavere della povera Anna Nicole è infine completato da sua mamma, Virginia, che la diede alla luce nel '67 in un paesino del Texas. Non parlava con la figlia da anni, forse decenni, da quando lei smise di servire pollo fritto in un fast food e scappò alla ricerca del successo. Ora ovviamente pure mamma Virginia si è rifatta viva. Esattamente come la madre di Hilary Swank nel film Million Dollar Baby di Clint Eastwood. L'arte imita la vita, ma la vita leggendaria dell'esuberante, bellissima Anna Nicole ormai attrae solo corvi e sciacalli.
Dagospia 16 Marzo 2007
Mauro Suttora per “Oggi”
Nassau, Bahamas
Altro che prendere il sole, andare in barca, giocare a golf. La signora Erica Elshoff è volata dalla sua Florida a Nassau, capitale delle Bahamas, soltanto per recarsi in pellegrinaggio al cimitero dove il 2 marzo è stata sepolta Anna Nicole Smith. E come lei migliaia di americani. Sì, perché l'ex coniglietta di Playboy morta un mese fa è ormai diventata, negli Stati Uniti, una leggenda popolare. Ogni volta che un programma tv parla di lei, gli ascolti s'impennano. Le tirature dei settimanali di gossip aumentano. Ma anche canali seri come la Cnn trasmettono in continuazione programmi su di lei. E perfino il prestigioso quotidiano Washington Post ha pubblicato una lunga biografia di Howard K. Stern, uno dei sette uomini che si proclamano padri della figlia di sei mesi di Anna Nicole, Daniellyn.
L'America impazzisce per la Smith, così come quarant'anni fa si appassionò per le morti di Marilyn e Kennedy, e trent'anni fa assistette incredula alla fine prematura di Elvis Presley. «Dipingono Anna Nicole come una pornostar furba e drogata, invece era una donna forte che si sapeva gestire», dice la signora Elshoff. Che crede alla versione dell'abuso di droghe. Ma, dopo l'autopsia contraddittoria, c'è chi comincia a ipotizzare l'omicidio. Se ne parlerà per anni.
Dopo il cimitero, dove Anna Nicole riposa con le ceneri dell'ex marito Howard Marshall, magnate del petrolio, e accanto alla tomba dell'amatissimo figlio Daniel, il tour dei fan prosegue verso l'ospedale di Nassau, dove il diciannovenne Daniel morì per overdose lo scorso settembre, solo pochi giorni dopo la nascita di Dannielynn. Ultima tappa: la villa Horizons, dove la pin-up ha trascorso gli ultimi mesi della sua avventurosissima vita.
«È un fenomeno di massa, paragonabile solo a quello per la principessa Diana», si frega le mani il ministro del turismo delle Bahamas. Un altro politico locale, il ministro dell'immigrazione Shane Gibson, è finito nei guai dopo che un giornale ha pubblicato una foto di lui a letto assieme ad Anna Nicole (vestiti). La loro amicizia era nota, ma lui ha dovuto dimettersi il 18 febbraio con l'accusa di aver accelerato il «sì» alla domanda di residenza della pin-up, l'anno scorso.
Le frequentazioni maschili di Anna Nicole in effetti erano vorticose. «Stavamo assieme, anche se sapevo che andava a letto anche con altri uomini», ha ammesso Stern, che le faceva da avvocato personale. «Ma a me andava bene, volevo soltanto che fosse felice». Gli altri pretendenti alla paternità di Daniellyn (ma soprattutto agli 89 milioni di dollari di eredità) sono sei. Eccoli.
1) L'ex fidanzato Larry Birkhead, fotografo, da subito ha contestato il riconoscimento della piccola da parte di Stern: «Siamo stati insieme dal 2004 al 2006», assicura, «e ricordo che quando noi eravamo a letto, Stern dormiva su un divano al piano di sotto. Lui era soltanto il suo tuttofare, uno zerbino. Lo scorso maggio abbiamo rotto, perché mi ero rifiutato di comprarle un paio di occhiali da sole. Lei era già incinta di me, ma per ripicca non volle più vedermi e mi tagliò fuori da tutto».
2) Il principe Federico von Anhalt, sessantenne ottavo e (per ora) ultimo marito della novantenne Zsa Zsa Gabor, la quale ha minacciato il divorzio quando pure lui si è vantato di essere andato a letto con Anna Nicole: «Voleva sposarmi per diventare una principessa», ha dichiarato l'attempato playboy, che quel titolo nobiliare lo comprò nell'80.
3) Mark Hatten, che è stato davvero assieme ad Anna Nicole in passato, ma che ora si trova in carcere. Condannato a ben sette anni proprio per averla pedinata e molestata dopo la fine della relazione e avere picchiato il vicino di casa di lei mentre la spiava. Come può averla fecondata, visto che nel periodo del concepimento era al fresco? Semplice: «Le avevo dato una fiala col mio sperma congelato». A spalleggiarlo spunta ora sua sorella Jackie, che si autoproclama «amica da 15 anni» di Anna Nicole, e rivela che lei le avrebbe confidato: «Stern è l'ultimo uomo sulla Terra di cui potrei innamorarmi».
4) Alexander Denk, un attorucolo austriaco che fu assunto come cuoco da Anna Nicole quando lei nel 2002 riuscì a piazzare un reality-show su se stessa su un canale tv Usa, che andò avanti per due stagioni. Ci mise poco a infilarsi pure lui nel letto della generosa coniglietta, che lo promosse guardia del corpo personale.
5) O.J. Simpson: campione di football accusato di avere ucciso la moglie una dozzina di anni fa, scampato alla sedia elettrica per il rotto della cuffia: anche lui eroe popolare americano, dice di aver fatto l'amore con Anna Nicole alla fine del 2005.
6) In questo circo poteva mancare Howard Marshall, il miliardario 89enne che sposò la Smith nel '94, morì dopo 14 mesi e fece scatenare la battaglia dei figli sull'eredità da un miliardo e 600 milioni di dollari? Potrebbe essere lui il padre di Daniellynn, grazie al solito seme congelato. Un'ipotesi che farebbe comodo ai parenti di Marshall che, dopo essere riusciti a far ridurre dai tribunali la quota di eredità di Anna Nicole a 474 e poi a 89 milioni di dollari, oggi si trovano in difficoltà. L'anno scorso, infatti, si è occupata della questione addirittura la Corte Suprema, che ha accolto l'appello della Smith. L'ammontare dell'eredità, quindi, è ancora tutto da decidere.
Lo zoo di cialtroni che si affolla attorno al cadavere della povera Anna Nicole è infine completato da sua mamma, Virginia, che la diede alla luce nel '67 in un paesino del Texas. Non parlava con la figlia da anni, forse decenni, da quando lei smise di servire pollo fritto in un fast food e scappò alla ricerca del successo. Ora ovviamente pure mamma Virginia si è rifatta viva. Esattamente come la madre di Hilary Swank nel film Million Dollar Baby di Clint Eastwood. L'arte imita la vita, ma la vita leggendaria dell'esuberante, bellissima Anna Nicole ormai attrae solo corvi e sciacalli.
Dagospia 16 Marzo 2007
Isoke
Oggi
di Mauro Suttora
Aosta, 14 marzo 2007
"E dopo una settimana Judith ha detto: non puoi stare qui senza soldi e senza lavoro. Devi pagare il mangiare, il dormire. Devi lavorare. E per chi non ha documenti il lavoro è uno solo. Quale, ho detto io. Eh, quand’è il momento lo vedrai, ha detto lei.
«Così una sera mi ha portato al posto di lavoro. Ha detto alle ragazze che stavano con me nella casa: datele un vestito per lavorare, qualche cosa che non mettete più. Mi hanno dato il vestito.
Era solo un paio di mutande. “Sul posto di lavoro si mette questo”, ha detto Judith.
«Era il 26 dicembre del 2000. Come posso dimenticare quel giorno? A Torino c’era la neve. Era la prima volta che la vedevo. Ma quant’è bella, ho detto. Tutto bianco e immobile e quasi incantato. È sempre così bello, qua in Italia? Però faceva freddo. Molto freddo. Così ho detto: io ’ste mutande non me le metto, e ho tenuto i miei jeans».
Così inizia la storia di Isoke Aikpitanyi, 27 anni, alta, bella, fiera, dolce, intelligente. Nigeriana di Benin City. È da lì che provengono, a migliaia, le ragazze buttate dal racket della prostituzione sui marciapiedi italiani: 10-12 ore al giorno di macchine e di clienti, esposte in mutande e tacchi a spillo a ogni genere di violenze e di aggressioni.
Lei, trafficata come le altre, è riuscita a uscirne e a salvarsi. Oggi vive ad Aosta e sta per sposare un italiano: Claudio Magnabosco, 55 anni, funzionario regionale. Ha scritto un libro bellissimo con Laura Maragnani: Le ragazze di Benin City, edizioni Melampo. Lo stile è quello di Oriana Fallaci in Lettera a un bambino mai nato. Coinvolgente, drammatico, mai retorico. Si legge d’un fiato. C’è dentro tutta la sua storia, e quella della tratta delle nere.
«Volevo dare voce a chi non ce l’ha», spiega Isoke, «alle ragazze che ogni sera scendono in strada senza sapere se ritorneranno, perché sono almeno duecento quelle che negli ultimi anni sono state accoltellate, strangolate, uccise a furia di botte o di iniezioni di veleno agricolo».
Senza contare quelle torturate, stuprate e massacrate, ma che sono tornate a casa vive, e dunque non fanno notizia. Le vediamo ogni sera in ogni nostra città, a Roma sulla via Salaria, a Milano in viale Abruzzi, su tutta la statale Adriatica da Rimini a San Benedetto del Tronto nelle Marche, o giù in Puglia da San Severo a Foggia.
Adesso, assieme al suo Claudio, Isoke sta creando una rete, per offrire un percorso d’uscita alle sue amiche ed ex colleghe, un’alternativa alla strada. È nata ad Aosta una casa-alloggio per le ragazze che non ne possono più che porta il suo nome.
«Allora», dice Isoke, «questa storia degli stupri etnici. Le ragazze la vivono tutti i giorni, ogni volta che vanno al lavoro. Escono con due pensieri in testa: forse questa è la sera che incontro il cliente che mi aiuta, che magari mi risolve un po’ il problema del debito. Trenta, cinquanta, sessanta mila euro. Il costo che le ragazze pagano per arrivare in Italia, con la promessa di un lavoro che le salverà dalla miseria nigeriana».
«Arrivano qui», continua Isoke, «e scoprono che il lavoro è uno soltanto, il marciapiede. Sul marciapiede succede di tutto, ma voi non lo sapete. E dunque il secondo pensiero che le ragazze, ogni sera, hanno in testa è questo: speriamo che non mi succeda niente. Ma a una o all’altra qualcosa succede. Sempre. Gli stupri sono la regola».
«Tutti i giorni», denuncia Isoke. Tutti i giorni gliene segnalano uno. Osas, per esempio, arrivata a Torino dopo due anni (due anni? «Sì, due anni interi») di viaggio attraverso l’Africa, su dalla Nigeria fino al deserto del Sahara.In sessanta stipate su un camion, senz’acqua né cibo, e quelle che erano di troppo venivano lasciate giù. Così. A morire, mentre il camion proseguiva verso il nord del Marocco su una pista punteggiata di ossa e di cadaveri.
Arrivata a Torino, Osas è stata buttata sulla strada. Caricata da un cliente. «Dove andiamo?», ha chiesto lui. «Posto tranquillo», ha detto lei. Era una delle poche frasi che le avevano insegnato le compagne di lavoro. Solo che il posto tranquillo era una cascina diroccata nell’hinterland torinese. Lì lui le ha puntato un coltello alla gola. L’ha violentata, picchiata, rapinata. Lei ha urlato e urlato. Da una casa vicina una voce ha gridato: «Ma basta, ma finitela. State zitti».
Solo dopo che l’uomo se n’è andato, qualcuno ha osato mettere il naso fuori: un ragazzo con un cane. «Che vuoi?», ha chiesto mentre il cane le ringhiava contro, «che cosa è successo?». Poi l’ha caricata in macchina e l’ha riportata a Torino. «E’ stato uno degli uomini più gentili che ho incontrato in Italia», dice Osas adesso.
«Ogni ragazza ha in dotazione un pezzo di strada per cui paga ai protettori un affitto mensile dai 150 ai 300 euro», racconta Isoke. «I clienti li chiamiamo “stupratori a pagamento”. Solo perché pagano 25 euro si sentono in diritto di volere qualunque cosa. “Di che ti lamenti, bastarda? I soldi li hai avuti”, ci urlano. E giù botte. Hanno l’ossessione del culo, gli italiani che vanno con le prostitute. Dicono: “Voglio fare quello che con mia moglie non faccio mai”. Tutto quello che vedono nei film porno e con la moglie non hanno il coraggio o il permesso di fare. “Ho pagato”, è la loro frase tipica».
Il libro è pieno di storie orribili, ma anche di una speranza: l’uscita dallo sfruttamento. «E questo», spiega Claudio Magnabosco, «nel 90 per cento dei casi per le ragazze nigeriane avviene grazie a un ex cliente che è diventato amico, fidanzato o marito». Proprio come è capitato a lui, che conobbe Isoke nel 2002 proprio come cliente. Un mese di frequentazione sulla strada, poi la decisione: «Vieni via con me». Quindi il cammino insieme, un percorso non facile, fatto anche di esitazioni e rincorse, che si concluderà felicemente con il giorno del «sì», non appena arriveranno dalla Nigeria i permessi per i parenti di lei.
E poi c’è il loro progetto per le altre, un progetto che punta alla sensibilizzazione dei «consumatori»: «I clienti, se informati, possono diventare una risorsa ed essere i veri avversari del racket», assicura Claudio.
Difficile infatti, a suo parere, che le giovani ex prostitute sopportino la vita delle comunità: troppa disciplina, alla fine moltissime scappano e tornano in strada. «Per uscire», conclude Isoke, «basta darci una opportunità, un permesso di soggiorno anche breve, sei mesi, per cercare un lavoro vero. In cambio dei documenti, invece, oggi le autorità pretendono che denunciamo qualcuno.
«Dobbiamo far sapere quello che succede. Le prostitute-madri alle quali le “maman”, le protettrici nigeriane, prendono i figli per ricattarle. I ragazzi neri che spacciano droga. Le famiglie che spingono le figlie minorenni a venire in Europa, e che poi sono ben contente di ricevere centinaia di euro al mese facendo finta di non sapere. La corruzione che favorisce i trafficanti. Le mutilazioni sessuali, il debito da pagare che non finisce mai, i pastori nigeriani cristiani che collaborano con il racket, le ragazze che muoiono attraversando il deserto. Questa è la tratta. Perché il problema non è solo la prostituzione».
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Aosta, 14 marzo 2007
"E dopo una settimana Judith ha detto: non puoi stare qui senza soldi e senza lavoro. Devi pagare il mangiare, il dormire. Devi lavorare. E per chi non ha documenti il lavoro è uno solo. Quale, ho detto io. Eh, quand’è il momento lo vedrai, ha detto lei.
«Così una sera mi ha portato al posto di lavoro. Ha detto alle ragazze che stavano con me nella casa: datele un vestito per lavorare, qualche cosa che non mettete più. Mi hanno dato il vestito.
Era solo un paio di mutande. “Sul posto di lavoro si mette questo”, ha detto Judith.
«Era il 26 dicembre del 2000. Come posso dimenticare quel giorno? A Torino c’era la neve. Era la prima volta che la vedevo. Ma quant’è bella, ho detto. Tutto bianco e immobile e quasi incantato. È sempre così bello, qua in Italia? Però faceva freddo. Molto freddo. Così ho detto: io ’ste mutande non me le metto, e ho tenuto i miei jeans».
Così inizia la storia di Isoke Aikpitanyi, 27 anni, alta, bella, fiera, dolce, intelligente. Nigeriana di Benin City. È da lì che provengono, a migliaia, le ragazze buttate dal racket della prostituzione sui marciapiedi italiani: 10-12 ore al giorno di macchine e di clienti, esposte in mutande e tacchi a spillo a ogni genere di violenze e di aggressioni.
Lei, trafficata come le altre, è riuscita a uscirne e a salvarsi. Oggi vive ad Aosta e sta per sposare un italiano: Claudio Magnabosco, 55 anni, funzionario regionale. Ha scritto un libro bellissimo con Laura Maragnani: Le ragazze di Benin City, edizioni Melampo. Lo stile è quello di Oriana Fallaci in Lettera a un bambino mai nato. Coinvolgente, drammatico, mai retorico. Si legge d’un fiato. C’è dentro tutta la sua storia, e quella della tratta delle nere.
«Volevo dare voce a chi non ce l’ha», spiega Isoke, «alle ragazze che ogni sera scendono in strada senza sapere se ritorneranno, perché sono almeno duecento quelle che negli ultimi anni sono state accoltellate, strangolate, uccise a furia di botte o di iniezioni di veleno agricolo».
Senza contare quelle torturate, stuprate e massacrate, ma che sono tornate a casa vive, e dunque non fanno notizia. Le vediamo ogni sera in ogni nostra città, a Roma sulla via Salaria, a Milano in viale Abruzzi, su tutta la statale Adriatica da Rimini a San Benedetto del Tronto nelle Marche, o giù in Puglia da San Severo a Foggia.
Adesso, assieme al suo Claudio, Isoke sta creando una rete, per offrire un percorso d’uscita alle sue amiche ed ex colleghe, un’alternativa alla strada. È nata ad Aosta una casa-alloggio per le ragazze che non ne possono più che porta il suo nome.
«Allora», dice Isoke, «questa storia degli stupri etnici. Le ragazze la vivono tutti i giorni, ogni volta che vanno al lavoro. Escono con due pensieri in testa: forse questa è la sera che incontro il cliente che mi aiuta, che magari mi risolve un po’ il problema del debito. Trenta, cinquanta, sessanta mila euro. Il costo che le ragazze pagano per arrivare in Italia, con la promessa di un lavoro che le salverà dalla miseria nigeriana».
«Arrivano qui», continua Isoke, «e scoprono che il lavoro è uno soltanto, il marciapiede. Sul marciapiede succede di tutto, ma voi non lo sapete. E dunque il secondo pensiero che le ragazze, ogni sera, hanno in testa è questo: speriamo che non mi succeda niente. Ma a una o all’altra qualcosa succede. Sempre. Gli stupri sono la regola».
«Tutti i giorni», denuncia Isoke. Tutti i giorni gliene segnalano uno. Osas, per esempio, arrivata a Torino dopo due anni (due anni? «Sì, due anni interi») di viaggio attraverso l’Africa, su dalla Nigeria fino al deserto del Sahara.In sessanta stipate su un camion, senz’acqua né cibo, e quelle che erano di troppo venivano lasciate giù. Così. A morire, mentre il camion proseguiva verso il nord del Marocco su una pista punteggiata di ossa e di cadaveri.
Arrivata a Torino, Osas è stata buttata sulla strada. Caricata da un cliente. «Dove andiamo?», ha chiesto lui. «Posto tranquillo», ha detto lei. Era una delle poche frasi che le avevano insegnato le compagne di lavoro. Solo che il posto tranquillo era una cascina diroccata nell’hinterland torinese. Lì lui le ha puntato un coltello alla gola. L’ha violentata, picchiata, rapinata. Lei ha urlato e urlato. Da una casa vicina una voce ha gridato: «Ma basta, ma finitela. State zitti».
Solo dopo che l’uomo se n’è andato, qualcuno ha osato mettere il naso fuori: un ragazzo con un cane. «Che vuoi?», ha chiesto mentre il cane le ringhiava contro, «che cosa è successo?». Poi l’ha caricata in macchina e l’ha riportata a Torino. «E’ stato uno degli uomini più gentili che ho incontrato in Italia», dice Osas adesso.
«Ogni ragazza ha in dotazione un pezzo di strada per cui paga ai protettori un affitto mensile dai 150 ai 300 euro», racconta Isoke. «I clienti li chiamiamo “stupratori a pagamento”. Solo perché pagano 25 euro si sentono in diritto di volere qualunque cosa. “Di che ti lamenti, bastarda? I soldi li hai avuti”, ci urlano. E giù botte. Hanno l’ossessione del culo, gli italiani che vanno con le prostitute. Dicono: “Voglio fare quello che con mia moglie non faccio mai”. Tutto quello che vedono nei film porno e con la moglie non hanno il coraggio o il permesso di fare. “Ho pagato”, è la loro frase tipica».
Il libro è pieno di storie orribili, ma anche di una speranza: l’uscita dallo sfruttamento. «E questo», spiega Claudio Magnabosco, «nel 90 per cento dei casi per le ragazze nigeriane avviene grazie a un ex cliente che è diventato amico, fidanzato o marito». Proprio come è capitato a lui, che conobbe Isoke nel 2002 proprio come cliente. Un mese di frequentazione sulla strada, poi la decisione: «Vieni via con me». Quindi il cammino insieme, un percorso non facile, fatto anche di esitazioni e rincorse, che si concluderà felicemente con il giorno del «sì», non appena arriveranno dalla Nigeria i permessi per i parenti di lei.
E poi c’è il loro progetto per le altre, un progetto che punta alla sensibilizzazione dei «consumatori»: «I clienti, se informati, possono diventare una risorsa ed essere i veri avversari del racket», assicura Claudio.
Difficile infatti, a suo parere, che le giovani ex prostitute sopportino la vita delle comunità: troppa disciplina, alla fine moltissime scappano e tornano in strada. «Per uscire», conclude Isoke, «basta darci una opportunità, un permesso di soggiorno anche breve, sei mesi, per cercare un lavoro vero. In cambio dei documenti, invece, oggi le autorità pretendono che denunciamo qualcuno.
«Dobbiamo far sapere quello che succede. Le prostitute-madri alle quali le “maman”, le protettrici nigeriane, prendono i figli per ricattarle. I ragazzi neri che spacciano droga. Le famiglie che spingono le figlie minorenni a venire in Europa, e che poi sono ben contente di ricevere centinaia di euro al mese facendo finta di non sapere. La corruzione che favorisce i trafficanti. Le mutilazioni sessuali, il debito da pagare che non finisce mai, i pastori nigeriani cristiani che collaborano con il racket, le ragazze che muoiono attraversando il deserto. Questa è la tratta. Perché il problema non è solo la prostituzione».
Mauro Suttora
Sunday, March 04, 2007
Maria Grazia Cucinotta
"A Pompei scoppia la mia carica sexy"
Oggi, 7 marzo 2007
di Mauro Suttora
Ci volevano due star messinesi, cresciute sotto l’Etna, per il duello mortale che si svolge all’ombra dell’altro grande vulcano italiano, il Vesuvio. Maria Grazia Cucinotta e Lorenzo Crespi si sfidano nella fiction Raiuno che andrà in onda in due puntate lunedì 5 marzo e martedì 6: Pompei.
Lei è Lavinia, moglie del ricco e corrotto Chelidone, mentre lui è il giovane pompeiano Marco, innamorato della schiava Valeria (interpretata da Andrea Osvart). Quest’ultima è insidiata da Chelidone, che vuole sedurla in cambio della libertà. Ma lei gli dice in faccia che piuttosto che cedergli preferirebbe morire
.
«Intanto io, cioè Lavinia, passo il tempo a comprare uomini per me e a procurare amanti a mio marito», ci racconta Maria Grazia. «Negli ultimi giorni di Pompei non esistevano limiti: il mio personaggio è una donna viziata e lussuriosa che passava da un’orgia all’altra. In vita mia non ho mai interpretato un ruolo così forte, all’inizio ero anche un po’ spaventata. Nella mia carriera non ho mai forzato molto la fisicità, mentre questa è una parte tutta sesso. Lavinia, infatti, non ha mai amato né è mai stata amata, la sua è pura perversione. Ma, grazie al regista Giulio Base, che essendo anche attore sa bene come girare certe scene, non si valica mai il limite della volgarità. E i costumi di Paolo Scalabrino sono i più belli del mondo: sembro una vera principessa, e offro il peggio di me senza rimorso...»
Ma il vero protagonista di Pompei è Lorenzo Crespi, l’ex modello di Armani diventato famoso come attore televisivo prima nei panni del maresciallo Palermo nella serie Carabinieri, poi in quelli del tenente Sammarco di Gente di mare. Proprio in questi giorni Crespi si trova in Calabria per le riprese di Gente di mare 2, il seguito delle fortunate avventure della Guardia Costiera.
L’ex fidanzato di Manuela Arcuri, della miss Arianna David e di Marina La Rosa, sex-symbol italico, da quattro mesi sta fisso con una ragazza di cui per ora non rivela l’identità: «Non è ancora il momento». Sono passati dieci anni ormai dal Globo d’Oro vinto come migliore attore esordiente nel film Porzus di Renzo Martinelli. E Lorenzo ha dovuto anche attraversare una prova difficile, bloccato per anni da un’operazione alla colonna vertebrale per stenosi.
Dopo Pompei, la Cucinotta tornerà sul grande schermo il 13 aprile con il film Last minute Marocco, in cui fa la parte della moglie schizzata di Valerio Mastandrea, mamma di due ragazzi. Poi sarà una casalinga in crisi in Sweet Marja
Però, adesso, la grande passione professionale di Maria Grazia è la produzione: «Sto iniziando un cortometraggio in Sicilia con il giovane regista Simone Catania e poi andrò in India per un primo progetto di film a Bollywood. Quello è un Paese fantastico, dov’è un piacere vivere fra gente che dimostra grande dignità e ha la speranza della reincarnazione».
Invece, il centro della vita della Cucinotta è a Roma. Dove sua figlia Giulia, a cinque anni, frequenta la primina e assieme alla mamma sta imparando le prime filastrocche a memoria. Quando può, Maria Grazia la accompagna a scuola al mattino. E il matrimonio con l’imprenditore Giulio Violati va avanti senza scossoni da dodici anni: «Il segreto della nostra sintonia? Non assomigliarsi mai», svela lei.
Sempre richiestissima come simbolo dell’Italia in patria e all’estero, la Cucinotta è reduce dalla cerimonia d’apertura del festival del cinema italiano a Shanghai e Pechino.
Anche Pompei fa parte di un progetto internazionale, il ciclo Imperium di miniserie tv della Lux Vide dei Bernabei, iniziato con Augustus e del quale sono stati girati anche Nerone e San Pietro. Tutto viene girato negli studi in muratura più grandi mai costruiti al mondo, con la riproduzione di Roma antica, ad Hammamet, in Tunisia.
«Pompei è il sito archeologico più visitato della Terra», spiega il regista Base, «milioni di persone sono attratte dalla città sepolta sotto l’eruzione del 79 dopo Cristo. Ma dietro quei cadaveri impietriti c’erano uomini e donne con i loro pensieri e affetti. Ho cercato di farli rivivere nella loro vita quotidiana».
Mauro Suttora
Oggi, 7 marzo 2007
di Mauro Suttora
Ci volevano due star messinesi, cresciute sotto l’Etna, per il duello mortale che si svolge all’ombra dell’altro grande vulcano italiano, il Vesuvio. Maria Grazia Cucinotta e Lorenzo Crespi si sfidano nella fiction Raiuno che andrà in onda in due puntate lunedì 5 marzo e martedì 6: Pompei.
Lei è Lavinia, moglie del ricco e corrotto Chelidone, mentre lui è il giovane pompeiano Marco, innamorato della schiava Valeria (interpretata da Andrea Osvart). Quest’ultima è insidiata da Chelidone, che vuole sedurla in cambio della libertà. Ma lei gli dice in faccia che piuttosto che cedergli preferirebbe morire
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«Intanto io, cioè Lavinia, passo il tempo a comprare uomini per me e a procurare amanti a mio marito», ci racconta Maria Grazia. «Negli ultimi giorni di Pompei non esistevano limiti: il mio personaggio è una donna viziata e lussuriosa che passava da un’orgia all’altra. In vita mia non ho mai interpretato un ruolo così forte, all’inizio ero anche un po’ spaventata. Nella mia carriera non ho mai forzato molto la fisicità, mentre questa è una parte tutta sesso. Lavinia, infatti, non ha mai amato né è mai stata amata, la sua è pura perversione. Ma, grazie al regista Giulio Base, che essendo anche attore sa bene come girare certe scene, non si valica mai il limite della volgarità. E i costumi di Paolo Scalabrino sono i più belli del mondo: sembro una vera principessa, e offro il peggio di me senza rimorso...»
Ma il vero protagonista di Pompei è Lorenzo Crespi, l’ex modello di Armani diventato famoso come attore televisivo prima nei panni del maresciallo Palermo nella serie Carabinieri, poi in quelli del tenente Sammarco di Gente di mare. Proprio in questi giorni Crespi si trova in Calabria per le riprese di Gente di mare 2, il seguito delle fortunate avventure della Guardia Costiera.
L’ex fidanzato di Manuela Arcuri, della miss Arianna David e di Marina La Rosa, sex-symbol italico, da quattro mesi sta fisso con una ragazza di cui per ora non rivela l’identità: «Non è ancora il momento». Sono passati dieci anni ormai dal Globo d’Oro vinto come migliore attore esordiente nel film Porzus di Renzo Martinelli. E Lorenzo ha dovuto anche attraversare una prova difficile, bloccato per anni da un’operazione alla colonna vertebrale per stenosi.
Dopo Pompei, la Cucinotta tornerà sul grande schermo il 13 aprile con il film Last minute Marocco, in cui fa la parte della moglie schizzata di Valerio Mastandrea, mamma di due ragazzi. Poi sarà una casalinga in crisi in Sweet Marja
Però, adesso, la grande passione professionale di Maria Grazia è la produzione: «Sto iniziando un cortometraggio in Sicilia con il giovane regista Simone Catania e poi andrò in India per un primo progetto di film a Bollywood. Quello è un Paese fantastico, dov’è un piacere vivere fra gente che dimostra grande dignità e ha la speranza della reincarnazione».
Invece, il centro della vita della Cucinotta è a Roma. Dove sua figlia Giulia, a cinque anni, frequenta la primina e assieme alla mamma sta imparando le prime filastrocche a memoria. Quando può, Maria Grazia la accompagna a scuola al mattino. E il matrimonio con l’imprenditore Giulio Violati va avanti senza scossoni da dodici anni: «Il segreto della nostra sintonia? Non assomigliarsi mai», svela lei.
Sempre richiestissima come simbolo dell’Italia in patria e all’estero, la Cucinotta è reduce dalla cerimonia d’apertura del festival del cinema italiano a Shanghai e Pechino.
Anche Pompei fa parte di un progetto internazionale, il ciclo Imperium di miniserie tv della Lux Vide dei Bernabei, iniziato con Augustus e del quale sono stati girati anche Nerone e San Pietro. Tutto viene girato negli studi in muratura più grandi mai costruiti al mondo, con la riproduzione di Roma antica, ad Hammamet, in Tunisia.
«Pompei è il sito archeologico più visitato della Terra», spiega il regista Base, «milioni di persone sono attratte dalla città sepolta sotto l’eruzione del 79 dopo Cristo. Ma dietro quei cadaveri impietriti c’erano uomini e donne con i loro pensieri e affetti. Ho cercato di farli rivivere nella loro vita quotidiana».
Mauro Suttora
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