IL CASO DI SERGIO BRAMINI DI MONZA
di Mauro Suttora
Oggi, 7 dicembre 2017
«Per non licenziare 32 dipendenti ho ipotecato la casa. La mia azienda è fallita, anche se ho 4 milioni di crediti con la pubblica amministrazione».
La Icom spa dell’imprenditore Sergio Bramini di Monza va bene, si aggiudica appalti importanti. Ma i pagamentinon arrivano, lui ipoteca la casa.
L’azienda fallisce, e ora è stato sfrattato: «Vivo con i miei figli e la mia nipotina. Ho pensato di suicidarmi. La Icom andava bene, ho vinto vari appalti nel Sud Italia, in Sicilia e a Napoli per l’emergenza rifiuti, ma i pagamenti non sono arrivati e le banche hanno interrotto le linee di credito».
Bramini avrebbe potuto chiudere l’azienda licenziando tutti i dipendenti, ma non lo ha fatto: «Ho pensato alle trentadue famiglie che dipendevano da me, e ho ipotecato la mia casa. Sono comunque fallito».
Il tribunale ha decretato il fallimento della Icom nel 2011, due anni prima dell’entrata in vigore della legge europea che obbliga lo stralcio di dissesti provocati dal mancato pagamento di enti pubblici. Bramini, quindi, non può usufruirne.
Nonostante le promesse, l'Italia è ancora maglia nera in Europa per i tempi di pagamento degli enti pubblici alle imprese fornitrici.
Per questo la Ue ha riattivato la procedura d'infrazione, aperta nel 2013. Allora il premier Matteo Renzi fece approvare il decreto Sblocca debiti.
Ma secondo l’Ance (Associazione nazionale costruttori edili) il 70% delle imprese di costruzioni registra ancora ritardi, che causano gravi ripercussioni: metà di esse hanno ridotto gli investimenti, e una su tre ha dovuto licenziare. Si arriva a ritardi di 168 giorni (più di cinque mesi), contro il limite di 60 giorni.
«La vicenda di Bramini non è la prima in Italia, e non sarà l’ultima se il governo non cambierà rotta», dice a Oggi Andrea Innocenti, consulente d’impresa. «La procedura promessa da Renzi in tv era semplice: le aziende con crediti verso gli enti pubblici maturati entro il 2013 chiedevano la certificazione con garanzia dello stato. Poi andavano da una banca a farsi anticipare i soldi, e la banca a sua volta avrebbe ottenuto entro 180 giorni il pagamento, grazie a un fondo apposito».
Tutto semplice, quindi?
«No, perchè proprio lo stato ha iniziato a negare le nomine dei commissari ad acta per la certificazione, per esempio per le Ato, Autorità d’ambito territoriale ottimale, in Sicilia, sostenendo che non sarebbero enti pubblici, ma spa, società per azioni, private. Eppure sono enti istituiti per legge, che riscuotevano la tassa rifiuti».
Le ex Nettezze urbane.
«Sì. Ma ci sono voluti ricorsi in tribunale per ristabilire questa semplice verità. E nonostante le sentenze, i governi hanno continuato a non certificare. Anche nell’unico caso in cui lo hanno fatto, non hanno pagato la banca che ha anticipato i soldi all'azienda, circa 35 milioni. Hanno così creato un pregiudizio e una diffidenza di tutte le banche italiane, che a quel punto hanno negato alle aziende operazioni simili».
Perché?
«Un commissario ha ammesso in privato, con me, di non avere certificato dei crediti per "imposizioni informali del ministero dell’Economia"».
A quanto ammontano i crediti pubblici non pagati?
«La Sicilia da sola ha accumulato debiti per almeno due miliardi di euro, non inseriti nei bilanci dello stato. Mi sembra insomma che il governo stia “nascondendo” molti debiti alla Ue. Intanto le aziende falliscono, e vari imprenditori si suicidano».
Mauro Suttora