l'Unita', lunedi' 28 maggio 2007
prima pagina
I costi della politica.
I Palazzi non finiscono mai
Vittorio Emiliani
(...) Secondo un'inchiesta di Mauro Suttora, comparsa su "Oggi", il Senato e' passato dai tre palazzi del 1980 agli attuali tredici "e vorrebbe espandersi espellendo famiglie (sono 11 solo in Largo Toniolo) dalle loro case a prezzi popolari". Dai quattro edifici occupati dal Parlamento nel 1948 si è balzati alla trentina di oggi, piu' i sedici della Presidenza del Consiglio. Con costi da capogiro. (...)
Monday, May 28, 2007
Friday, May 25, 2007
Christie's: asta Savoia
Maria Gabriella di Savoia mette all'asta i gioielli di famiglia
Londra, 25 maggio 2007
Anche le principesse pagano le tasse. Maria Gabriella di Savoia è costretta a mettere all’asta vari gioielli di famiglia perché deve versare l’imposta di successione sull’eredità della madre Maria José, scomparsa sei anni fa. Il 13 giugno, da Christie’s a Londra, vengono messi all’incanto 41 lotti. La base d’asta totale supera il milione di euro. Il pezzo forte è un diadema di diamanti Fabergé risalente ai tempi di Napoleone, che da solo è valutato fra i 590 e gli 880 mila euro.
Maria Gabriella non nasconde le difficoltà economiche: «Per affrontare il peso non indifferente della tassa ereditaria sul patrimonio di sua madre», scrive infatti il principe Michele di Grecia nell’introduzione al catalogo di Christie’s, «ha deciso di vendere alcuni degli stupendi e rari gioielli ricevuti dai genitori, allo scopo di preservare le parti rimanenti della collezione». Il 27 giugno, sempre da Christie’s a Londra, seguirà una seconda asta di lavori d’arte Savoia.
Vent’anni fa, dopo la morte del padre, la principessa ha dato vita alla fondazione Umberto II e Maria José di Savoia per tenere viva la memoria dei genitori. In essa ha riunito oggetti e documenti che vengono esibiti in mostre e sui quali si organizzano conferenze. La terzogenita di Umberto è diventata una custode dei ricordi di famiglia e da tempo sollecita che anche il cosiddetto «tesoro della Corona», conservato da 61 anni nel caveau della Banca d’Italia, venga almeno esposto, se non consegnato agli eredi.
Intanto, però, è costretta a disfarsi di alcuni pezzi. E ciascuno di questi porta dentro di sé una storia affascinante da raccontare. In due casi c’è di mezzo Napoleone. Il diadema di perle e diamanti che la regina Maria José indossava negli anni Venti, infatti, era appartenuto all’imperatrice Josephine di Beauharnais, prima moglie di Bonaparte, e alla loro nipote Stéphanie. Quest’ultima venne adottata come figlia dalla coppia imperiale, priva di progenie, per farla sposare nel 1806 con Karl Ludwig, granduca di Baden. Il borghese Napoleone, infatti, ambiva a imparentandosi con le famiglie reali europee. Una nipote di Stéphanie, Maria Luisa principessa di Hohenzollern, sposò poi Filippo del Belgio, padre di re Alberto e nonno di Maria José.
La diciottenne principessa indossò il diadema per la prima volta nel 1924, al ballo di debutto alla corte di Bruxelles. Per l’occasione, il pezzo venne modificato: ne fu aggiunta una parte per chiuderlo sul retro. Così Maria José poteva indossarlo sulla fronte, nello stile a bandeau in voga negli anni Venti. Stranamente, però, per il completamento furono utilizzate perle d’imitazione.
La bellissima principessa era fra le più ambite d’Europa. Aveva già incontrato il futuro sposo Umberto, di due anni più grande, quando aveva appena dodici anni ed era stata mandata in collegio a Firenze per sfuggire alla Grande Guerra. Umberto andò a visitarla a Bruxelles nel ’22 e la rivide tre anni dopo nel castello di Racconigi, al matrimonio della sorella Mafalda con Filippo d’Assia. Nel gennaio 1930 Maria José indossò ancora lo stesso bandeau alla vigilia del matrimonio in Vaticano, per trattenere il lungo velo nero al cospetto di papa Pio XI.
L’altro collegamento con Napoleone è il preziosissimo diadema in oro e argento nel quale, alla fine dell’Ottocento, il leggendario gioielliere August Holmström della casa russa Fabergé montò dei diamanti. Questi erano stati regalati all’inizio del secolo dallo zar Alessandro I di Russia all’imperatrice Josephine, quando andò a visitarla a Parigi dopo il divorzio da Napoleone. Eugenio di Beauharnais, figlio di primo letto di Josephine, sposò poi la figlia del re di Baviera, e i diamanti tornarono infine in Russia dopo il matrimonio di un loro figlio con la granduchessa Maria Nicolaevna, primogenita dello zar Nicola. Dopo la Prima guerra mondiale il re del Belgio Alberto, padre di Maria José, acquistò il diadema in Svizzera.
«Ma nessuno lo ha mai indossato», ci dice Stefano Papi, uno dei massimi storici internazionali del gioiello, autore con Maria Gabriella del libro Gioielli di Casa Savoia (Electa, 2002), e che domenica 10 giugno terrà una conferenza sull’argomento da Christie’s a Londra. Dopo la morte di re Alberto nel ’34, il diadema finì al principe Carlo Teodoro di Fiandra, fratello di Maria José, la quale lo ha a sua volta ereditato.
Secoli di storia d’Europa, insomma, sono incastonati in questi gioielli oltre alle perle multicolori e ai diamanti. La «regina di Maggio» Maria José, antifascista, era una donna sportiva che non dava molta importanza a moda e monili. «Ma fra tutte le regine d’Italia è stata di gran lunga la più bella», afferma Michele di Grecia, «per cui anche se l’eleganza era l’ultima delle sue preoccupazioni, nelle foto appare sempre vestita in modo impeccabile. Soprattutto, indossa splendidi gioielli che non reggerebbero il confronto con qualsiasi altra donna di prestigio, ma che su di lei appaiono quasi ninnoli fra i più naturali».
Chi riuscirà allora ad aggiudicarsi la borsetta dorata, con perle e diamanti, che la gioielleria Musy di Torino creò nel 1900 per la regina Margherita di Savoia? Rimasta vedova di re Umberto I, la nonna di Umberto II sapeva che il nipote si era innamorato di una principessa belga con un nome dalla sua stessa iniziale. Così, prima di morire nel ’26, la lasciò a Umberto. E lui poté regalare quella borsetta alla propria fidanzata Maria José.
Mauro Suttora
Londra, 25 maggio 2007
Anche le principesse pagano le tasse. Maria Gabriella di Savoia è costretta a mettere all’asta vari gioielli di famiglia perché deve versare l’imposta di successione sull’eredità della madre Maria José, scomparsa sei anni fa. Il 13 giugno, da Christie’s a Londra, vengono messi all’incanto 41 lotti. La base d’asta totale supera il milione di euro. Il pezzo forte è un diadema di diamanti Fabergé risalente ai tempi di Napoleone, che da solo è valutato fra i 590 e gli 880 mila euro.
Maria Gabriella non nasconde le difficoltà economiche: «Per affrontare il peso non indifferente della tassa ereditaria sul patrimonio di sua madre», scrive infatti il principe Michele di Grecia nell’introduzione al catalogo di Christie’s, «ha deciso di vendere alcuni degli stupendi e rari gioielli ricevuti dai genitori, allo scopo di preservare le parti rimanenti della collezione». Il 27 giugno, sempre da Christie’s a Londra, seguirà una seconda asta di lavori d’arte Savoia.
Vent’anni fa, dopo la morte del padre, la principessa ha dato vita alla fondazione Umberto II e Maria José di Savoia per tenere viva la memoria dei genitori. In essa ha riunito oggetti e documenti che vengono esibiti in mostre e sui quali si organizzano conferenze. La terzogenita di Umberto è diventata una custode dei ricordi di famiglia e da tempo sollecita che anche il cosiddetto «tesoro della Corona», conservato da 61 anni nel caveau della Banca d’Italia, venga almeno esposto, se non consegnato agli eredi.
Intanto, però, è costretta a disfarsi di alcuni pezzi. E ciascuno di questi porta dentro di sé una storia affascinante da raccontare. In due casi c’è di mezzo Napoleone. Il diadema di perle e diamanti che la regina Maria José indossava negli anni Venti, infatti, era appartenuto all’imperatrice Josephine di Beauharnais, prima moglie di Bonaparte, e alla loro nipote Stéphanie. Quest’ultima venne adottata come figlia dalla coppia imperiale, priva di progenie, per farla sposare nel 1806 con Karl Ludwig, granduca di Baden. Il borghese Napoleone, infatti, ambiva a imparentandosi con le famiglie reali europee. Una nipote di Stéphanie, Maria Luisa principessa di Hohenzollern, sposò poi Filippo del Belgio, padre di re Alberto e nonno di Maria José.
La diciottenne principessa indossò il diadema per la prima volta nel 1924, al ballo di debutto alla corte di Bruxelles. Per l’occasione, il pezzo venne modificato: ne fu aggiunta una parte per chiuderlo sul retro. Così Maria José poteva indossarlo sulla fronte, nello stile a bandeau in voga negli anni Venti. Stranamente, però, per il completamento furono utilizzate perle d’imitazione.
La bellissima principessa era fra le più ambite d’Europa. Aveva già incontrato il futuro sposo Umberto, di due anni più grande, quando aveva appena dodici anni ed era stata mandata in collegio a Firenze per sfuggire alla Grande Guerra. Umberto andò a visitarla a Bruxelles nel ’22 e la rivide tre anni dopo nel castello di Racconigi, al matrimonio della sorella Mafalda con Filippo d’Assia. Nel gennaio 1930 Maria José indossò ancora lo stesso bandeau alla vigilia del matrimonio in Vaticano, per trattenere il lungo velo nero al cospetto di papa Pio XI.
L’altro collegamento con Napoleone è il preziosissimo diadema in oro e argento nel quale, alla fine dell’Ottocento, il leggendario gioielliere August Holmström della casa russa Fabergé montò dei diamanti. Questi erano stati regalati all’inizio del secolo dallo zar Alessandro I di Russia all’imperatrice Josephine, quando andò a visitarla a Parigi dopo il divorzio da Napoleone. Eugenio di Beauharnais, figlio di primo letto di Josephine, sposò poi la figlia del re di Baviera, e i diamanti tornarono infine in Russia dopo il matrimonio di un loro figlio con la granduchessa Maria Nicolaevna, primogenita dello zar Nicola. Dopo la Prima guerra mondiale il re del Belgio Alberto, padre di Maria José, acquistò il diadema in Svizzera.
«Ma nessuno lo ha mai indossato», ci dice Stefano Papi, uno dei massimi storici internazionali del gioiello, autore con Maria Gabriella del libro Gioielli di Casa Savoia (Electa, 2002), e che domenica 10 giugno terrà una conferenza sull’argomento da Christie’s a Londra. Dopo la morte di re Alberto nel ’34, il diadema finì al principe Carlo Teodoro di Fiandra, fratello di Maria José, la quale lo ha a sua volta ereditato.
Secoli di storia d’Europa, insomma, sono incastonati in questi gioielli oltre alle perle multicolori e ai diamanti. La «regina di Maggio» Maria José, antifascista, era una donna sportiva che non dava molta importanza a moda e monili. «Ma fra tutte le regine d’Italia è stata di gran lunga la più bella», afferma Michele di Grecia, «per cui anche se l’eleganza era l’ultima delle sue preoccupazioni, nelle foto appare sempre vestita in modo impeccabile. Soprattutto, indossa splendidi gioielli che non reggerebbero il confronto con qualsiasi altra donna di prestigio, ma che su di lei appaiono quasi ninnoli fra i più naturali».
Chi riuscirà allora ad aggiudicarsi la borsetta dorata, con perle e diamanti, che la gioielleria Musy di Torino creò nel 1900 per la regina Margherita di Savoia? Rimasta vedova di re Umberto I, la nonna di Umberto II sapeva che il nipote si era innamorato di una principessa belga con un nome dalla sua stessa iniziale. Così, prima di morire nel ’26, la lasciò a Umberto. E lui poté regalare quella borsetta alla propria fidanzata Maria José.
Mauro Suttora
Wednesday, May 23, 2007
Il nuovo sacco di Roma
Il centro della capitale soffocato dalle sedi dei politici
Venticinque anni fa il Senato aveva tre palazzi. Oggi ne occupa ben 13. Se si aggiungono quelli di Camera e presidenza del Consiglio si arriva a 46 edifici. E non è ancora finita. Ma ora la città si ribella, dicendo il primo «no»
di Mauro Suttora
Oggi, 23 maggio 2007
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è un palazzo di largo Toniolo, nel centro di Roma: il 4 maggio il Primo municipio della capitale ha negato all’unanimità il cambio di destinazione, da abitazioni a uffici, chiesto dal Senato. Non era mai successo che un ente pubblico si opponesse così platealmente alla seconda istituzione dello Stato. Ora la patata bollente finirà nelle mani del sindaco Walter Veltroni, ma questo clamoroso conflitto segna la fine di un’epoca.
Nel 1980 il Senato aveva tre palazzi (Madama, Giustiniani e Carpegna). Oggi ne ha tredici, tutti in centro, e vorrebbe ancora espandersi, espellendo famiglie (sono 11 solo in largo Toniolo) dalle loro case in affitto a prezzi popolari.
È solo l’ultimo capitolo di una «Sprecopoli» che coinvolge non solo il Senato, ma tutte le istituzioni italiane: Camera, presidenza della Repubblica, ministeri.
«Negli ultimi 20 anni i politici hanno fatto quel che hanno voluto», spiega Mario Staderini, il consigliere municipale radicale artefice della bocciatura, «occupando a man bassa palazzi e comprandoli col denaro dei contribuenti. Ventun milioni di euro è costato il palazzo di largo Toniolo assieme a quello di largo Chiavari, acquistati dal Senato tre anni fa. È ora di finirla: oggi, fra Parlamento e presidenza del Consiglio, sono 46 i palazzi del centro dai quali sono stati espulsi i residenti per far spazio ai politici. È un’invasione che sta stravolgendo Roma. L’esatto contrario di quello che si dovrebbe fare: decentrare gli uffici pubblici per decongestionare il centro».
Il numero dei parlamentari non è certo aumentato dall’inizio della Repubblica. Se l’Italia avesse, in proporzione ai nostri quasi 60 milioni di abitanti, la stessa quantità di senatori degli Stati Uniti (che ne hanno cento, su una popolazione di quasi 300 milioni), i seggi di palazzo Madama dovrebbero ridursi da 320 a... 20.
Invece, il sovraffollamento di politici si è tradotto in un vero e proprio «sacco» immobiliare: «Camera e Senato nel 1948 occupavano quattro edifici. Oggi ne hanno una trentina, più i sedici della presidenza del Consiglio», denunciano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, autori di La Casta: così i politici italiani sono diventati intoccabili (Rizzoli), il nuovo libro che racconta gli sprechi della nomenklatura nostrana.
Sessant’anni fa Giulio Andreotti era già sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma il governo non aveva neppure una casa tutta sua: «Quanti edifici avevamo? Fatemi pensare...», riflette il senatore a vita. «Neanche uno, perché a palazzo Chigi stava il ministero degli Esteri, e noi dividevamo il Viminale con gli Interni».
Altri tempi. «Oggi le persone che vivono di politica in Italia, stipendiati come parlamentari, eletti negli enti locali o consulenti, sono un esercito di 427 mila persone», hanno calcolato i senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, usciti dai Ds, nel libro Il costo della democrazia (Mondadori). Costo annuo totale: quattro miliardi di euro.
La pressione maggiore di questa nuova casta si esercita sulla capitale. «Che è soffocata dal traffico provocato dalle auto blu dei politici e delle loro scorte, spesso tanto inutili quanto arroganti, dall’aumento dei prezzi delle abitazioni ormai inavvicinabili in centro, provocato dall’ondata di acquisti da parte di enti pubblici, e quindi dal trasferimento forzoso dei suoi abitanti. Ormai parecchie vie sono frequentate soltanto da turisti e dai politici con i loro portaborse», spiega Staderini.
E pensare che negli anni Ottanta, proprio per evitare svuotamento e «museificazione» del centro di Roma, si era progettato lo Sdo (Sistema direzionale orientale), per spostare ministeri e istituzioni in periferia e alleggerire il traffico verso il centro. Da allora il Comune ha trasferito alcuni uffici all’Ostiense. Per il resto, zero. Anzi, l’espansione del «pubblico» è aumentata.
Con la scusa di sistemare i ministeri «senza portafoglio» in continuo aumento, la presidenza del Consiglio si è scatenata negli acquisti. Nel 2002 ha comprato un pezzo di galleria Colonna, nella piazza omonima: 34 milioni di euro più 7 per ristrutturarla. L’anno dopo altri 41 milioni per un palazzo in via della Mercede. Totale dal 2001 al 2005: 156 milioni di euro.
A piazza San Silvestro accade di peggio: la Camera sta spendendo 650 milioni di euro nell’affitto per 18 anni di quattro palazzi dall’immobiliarista Sergio Scarpellini. Il quale affitta pure al Senato (l’ex albergo Bologna per 3 milioni annui), mentre due milioni e mezzo li ricava dalla gestione di buvette e ristoranti sulla terrazza del palazzo San Macuto (Camera) e del Quirinale.
È un’elefantiasi di cui però soffre tutta la nostra politica, dal Capo dello Stato giù fino ai consiglieri comunali (119 mila) e di quartiere (12 mila). I quali fino a dieci anni fa ricevevano solo pochi gettoni di presenza per poche decine di migliaia di lire, mentre oggi incassano tutti uno stipendio fisso di almeno mille euro al mese.
Insomma, il «povero» Senato si trova in ottima e abbondante compagnia quanto a sprechi. Tanto più gravi se si ricorda che l’Italia ha un debito pubblico astronomico, il più alto d’Europa: oltre 1.500 miliardi di euro.
«Invece di risparmiare si aumentano spazi, posti, spese», dice Staderini. «Ogni parlamentare oggi ha a disposizione in media 80 metri quadri per l’ufficio personale. Non bastano? Ma cadono in fallo anche i più virtuosi. Il ministro dell’Economia Tomaso Padoa-Schioppa, per esempio, ora vuole un nuovo palazzo per il suo ministero. Decentrato? No, in pieno centro: via Sicilia, angolo via Veneto. E al Consiglio superiore della magistratura, abbiamo bocciato l’innalzamento del palazzo di piazza Indipendenza. Dicono che vogliono ricavarci “foresterie”. Ma per chi?».
Commenta il senatore Cesare Salvi: «Dodici anni dopo Mani pulite si riparla di questione morale e di costi eccessivi della politica. Ma la nuova questione morale oggi non si traduce più in violazione del Codice penale. Si trova piuttosto nella moltiplicazione degli incarichi e dei posti, nella lottizzazione a tutti i livelli, nei rapporti impropri fra politica e società civile. E proprio per queste sue caratteristiche è perfino più pericolosa». E quindi? «Serve una riforma radicale della gestione della cosa pubblica. La attendiamo invano dai tempi di Tangentopoli».
Mauro Suttora
Venticinque anni fa il Senato aveva tre palazzi. Oggi ne occupa ben 13. Se si aggiungono quelli di Camera e presidenza del Consiglio si arriva a 46 edifici. E non è ancora finita. Ma ora la città si ribella, dicendo il primo «no»
di Mauro Suttora
Oggi, 23 maggio 2007
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è un palazzo di largo Toniolo, nel centro di Roma: il 4 maggio il Primo municipio della capitale ha negato all’unanimità il cambio di destinazione, da abitazioni a uffici, chiesto dal Senato. Non era mai successo che un ente pubblico si opponesse così platealmente alla seconda istituzione dello Stato. Ora la patata bollente finirà nelle mani del sindaco Walter Veltroni, ma questo clamoroso conflitto segna la fine di un’epoca.
Nel 1980 il Senato aveva tre palazzi (Madama, Giustiniani e Carpegna). Oggi ne ha tredici, tutti in centro, e vorrebbe ancora espandersi, espellendo famiglie (sono 11 solo in largo Toniolo) dalle loro case in affitto a prezzi popolari.
È solo l’ultimo capitolo di una «Sprecopoli» che coinvolge non solo il Senato, ma tutte le istituzioni italiane: Camera, presidenza della Repubblica, ministeri.
«Negli ultimi 20 anni i politici hanno fatto quel che hanno voluto», spiega Mario Staderini, il consigliere municipale radicale artefice della bocciatura, «occupando a man bassa palazzi e comprandoli col denaro dei contribuenti. Ventun milioni di euro è costato il palazzo di largo Toniolo assieme a quello di largo Chiavari, acquistati dal Senato tre anni fa. È ora di finirla: oggi, fra Parlamento e presidenza del Consiglio, sono 46 i palazzi del centro dai quali sono stati espulsi i residenti per far spazio ai politici. È un’invasione che sta stravolgendo Roma. L’esatto contrario di quello che si dovrebbe fare: decentrare gli uffici pubblici per decongestionare il centro».
Il numero dei parlamentari non è certo aumentato dall’inizio della Repubblica. Se l’Italia avesse, in proporzione ai nostri quasi 60 milioni di abitanti, la stessa quantità di senatori degli Stati Uniti (che ne hanno cento, su una popolazione di quasi 300 milioni), i seggi di palazzo Madama dovrebbero ridursi da 320 a... 20.
Invece, il sovraffollamento di politici si è tradotto in un vero e proprio «sacco» immobiliare: «Camera e Senato nel 1948 occupavano quattro edifici. Oggi ne hanno una trentina, più i sedici della presidenza del Consiglio», denunciano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, autori di La Casta: così i politici italiani sono diventati intoccabili (Rizzoli), il nuovo libro che racconta gli sprechi della nomenklatura nostrana.
Sessant’anni fa Giulio Andreotti era già sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma il governo non aveva neppure una casa tutta sua: «Quanti edifici avevamo? Fatemi pensare...», riflette il senatore a vita. «Neanche uno, perché a palazzo Chigi stava il ministero degli Esteri, e noi dividevamo il Viminale con gli Interni».
Altri tempi. «Oggi le persone che vivono di politica in Italia, stipendiati come parlamentari, eletti negli enti locali o consulenti, sono un esercito di 427 mila persone», hanno calcolato i senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, usciti dai Ds, nel libro Il costo della democrazia (Mondadori). Costo annuo totale: quattro miliardi di euro.
La pressione maggiore di questa nuova casta si esercita sulla capitale. «Che è soffocata dal traffico provocato dalle auto blu dei politici e delle loro scorte, spesso tanto inutili quanto arroganti, dall’aumento dei prezzi delle abitazioni ormai inavvicinabili in centro, provocato dall’ondata di acquisti da parte di enti pubblici, e quindi dal trasferimento forzoso dei suoi abitanti. Ormai parecchie vie sono frequentate soltanto da turisti e dai politici con i loro portaborse», spiega Staderini.
E pensare che negli anni Ottanta, proprio per evitare svuotamento e «museificazione» del centro di Roma, si era progettato lo Sdo (Sistema direzionale orientale), per spostare ministeri e istituzioni in periferia e alleggerire il traffico verso il centro. Da allora il Comune ha trasferito alcuni uffici all’Ostiense. Per il resto, zero. Anzi, l’espansione del «pubblico» è aumentata.
Con la scusa di sistemare i ministeri «senza portafoglio» in continuo aumento, la presidenza del Consiglio si è scatenata negli acquisti. Nel 2002 ha comprato un pezzo di galleria Colonna, nella piazza omonima: 34 milioni di euro più 7 per ristrutturarla. L’anno dopo altri 41 milioni per un palazzo in via della Mercede. Totale dal 2001 al 2005: 156 milioni di euro.
A piazza San Silvestro accade di peggio: la Camera sta spendendo 650 milioni di euro nell’affitto per 18 anni di quattro palazzi dall’immobiliarista Sergio Scarpellini. Il quale affitta pure al Senato (l’ex albergo Bologna per 3 milioni annui), mentre due milioni e mezzo li ricava dalla gestione di buvette e ristoranti sulla terrazza del palazzo San Macuto (Camera) e del Quirinale.
È un’elefantiasi di cui però soffre tutta la nostra politica, dal Capo dello Stato giù fino ai consiglieri comunali (119 mila) e di quartiere (12 mila). I quali fino a dieci anni fa ricevevano solo pochi gettoni di presenza per poche decine di migliaia di lire, mentre oggi incassano tutti uno stipendio fisso di almeno mille euro al mese.
Insomma, il «povero» Senato si trova in ottima e abbondante compagnia quanto a sprechi. Tanto più gravi se si ricorda che l’Italia ha un debito pubblico astronomico, il più alto d’Europa: oltre 1.500 miliardi di euro.
«Invece di risparmiare si aumentano spazi, posti, spese», dice Staderini. «Ogni parlamentare oggi ha a disposizione in media 80 metri quadri per l’ufficio personale. Non bastano? Ma cadono in fallo anche i più virtuosi. Il ministro dell’Economia Tomaso Padoa-Schioppa, per esempio, ora vuole un nuovo palazzo per il suo ministero. Decentrato? No, in pieno centro: via Sicilia, angolo via Veneto. E al Consiglio superiore della magistratura, abbiamo bocciato l’innalzamento del palazzo di piazza Indipendenza. Dicono che vogliono ricavarci “foresterie”. Ma per chi?».
Commenta il senatore Cesare Salvi: «Dodici anni dopo Mani pulite si riparla di questione morale e di costi eccessivi della politica. Ma la nuova questione morale oggi non si traduce più in violazione del Codice penale. Si trova piuttosto nella moltiplicazione degli incarichi e dei posti, nella lottizzazione a tutti i livelli, nei rapporti impropri fra politica e società civile. E proprio per queste sue caratteristiche è perfino più pericolosa». E quindi? «Serve una riforma radicale della gestione della cosa pubblica. La attendiamo invano dai tempi di Tangentopoli».
Mauro Suttora
Thursday, May 10, 2007
intervista a Dario Fo
Il premio Nobel per il Coraggio Laico
Oggi, 10 maggio 2007
«La famiglia cosiddetta “naturale”? E quale? Quella della Bibbia, in cui era normale ammazzare la moglie di un altro per impossessarsene, come fece Davide con Betsabea? Quella in cui la donna viene considerata solo un’appendice dell’uomo, fin dalla costola di Adamo, ed è tuttora tenuta in soggezione? La famiglia “naturale” non esiste più, ma è una fortuna».
Il premio Nobel Dario Fo, 81 anni, attacca la Chiesa sui Dico. Sta dalla parte dei laici che nello stesso giorno della manifestazione dei cattolici in piazza San Giovanni a Roma, il 12 maggio, si radunano in piazza Navona per contrapporsi a quella che definiscono «un’offensiva clericale».
«La famiglia tradizionale è in crisi: diminuiscono i matrimoni religiosi, crescono quelli civili e le coppie di fatto. Negli ultimi dieci anni i nati fuori dal matrimonio sono aumentati del 70 per cento. I giovani si sposano sempre più tardi, fanno meno figli. Ma è assurdo dare la colpa di questo sfacelo ai matrimoni non benedetti, ai Dico o alle coppie di fatto. I nostri ragazzi non possono formare una propria famiglia perché le case costano troppo, perché non trovano un lavoro stabile e non hanno prospettive positive. Sbagliano anche i politici quando sollecitano incentivi, premi e contentini per chi fa figli: si preoccupino piuttosto di creare più lavoro e asili nido. Oggi le madri dopo il primo figlio sono costrette a smettere di lavorare, oppure a mendicare un lavoro part-time, perché il reddito diminuisce drasticamente».
Su questo sono d’accordo anche i vescovi.
«Ma sono loro i primi a tenere le donne in una posizione d’inferiorità. Nella Chiesa le donne possono solo obbedire. Contrariamente alla Chiesa dei primi tempi, che prevedeva la figura delle “oranti”, vere e proprie sacerdotesse. Oggi anche dentro alla famiglia sono le donne a sostenere maggiormente il peso del lavoro domestico: il 70 per cento viene fatto da loro. È per questo che fanno meno figli. Per non parlare della violenza subìta in ambito familiare da una donna su dieci. Ma le gerarchie cattoliche, che si ritrovano con chiese e seminari sempre più vuoti, hanno paura di perdere il controllo e se la prendono invece con i gay, con le coppie di fatto, con i Dico».
Perché toni così aspri?
«I vescovi hanno perso il senso del sorriso. I grandi santi erano pieni di ironia e di gioco, Francesco si autodefiniva “giullare di Dio”. Oggi invece le gerarchie ecclesiastiche appaiono sempre imbronciate, pronte a condannare, anacronistiche. E i più in pericolo sono proprio quei tanti cattolici imbarazzati, a disagio di fronte alla prospettiva tetra che viene loro imposta. Il Vaticano è arrivato a dare del terrorista a un comico che oltretutto è un cattolico: da quelle parti devono avere smarrito il senso della misura e della dialettica».
Mauro Suttora
Oggi, 10 maggio 2007
«La famiglia cosiddetta “naturale”? E quale? Quella della Bibbia, in cui era normale ammazzare la moglie di un altro per impossessarsene, come fece Davide con Betsabea? Quella in cui la donna viene considerata solo un’appendice dell’uomo, fin dalla costola di Adamo, ed è tuttora tenuta in soggezione? La famiglia “naturale” non esiste più, ma è una fortuna».
Il premio Nobel Dario Fo, 81 anni, attacca la Chiesa sui Dico. Sta dalla parte dei laici che nello stesso giorno della manifestazione dei cattolici in piazza San Giovanni a Roma, il 12 maggio, si radunano in piazza Navona per contrapporsi a quella che definiscono «un’offensiva clericale».
«La famiglia tradizionale è in crisi: diminuiscono i matrimoni religiosi, crescono quelli civili e le coppie di fatto. Negli ultimi dieci anni i nati fuori dal matrimonio sono aumentati del 70 per cento. I giovani si sposano sempre più tardi, fanno meno figli. Ma è assurdo dare la colpa di questo sfacelo ai matrimoni non benedetti, ai Dico o alle coppie di fatto. I nostri ragazzi non possono formare una propria famiglia perché le case costano troppo, perché non trovano un lavoro stabile e non hanno prospettive positive. Sbagliano anche i politici quando sollecitano incentivi, premi e contentini per chi fa figli: si preoccupino piuttosto di creare più lavoro e asili nido. Oggi le madri dopo il primo figlio sono costrette a smettere di lavorare, oppure a mendicare un lavoro part-time, perché il reddito diminuisce drasticamente».
Su questo sono d’accordo anche i vescovi.
«Ma sono loro i primi a tenere le donne in una posizione d’inferiorità. Nella Chiesa le donne possono solo obbedire. Contrariamente alla Chiesa dei primi tempi, che prevedeva la figura delle “oranti”, vere e proprie sacerdotesse. Oggi anche dentro alla famiglia sono le donne a sostenere maggiormente il peso del lavoro domestico: il 70 per cento viene fatto da loro. È per questo che fanno meno figli. Per non parlare della violenza subìta in ambito familiare da una donna su dieci. Ma le gerarchie cattoliche, che si ritrovano con chiese e seminari sempre più vuoti, hanno paura di perdere il controllo e se la prendono invece con i gay, con le coppie di fatto, con i Dico».
Perché toni così aspri?
«I vescovi hanno perso il senso del sorriso. I grandi santi erano pieni di ironia e di gioco, Francesco si autodefiniva “giullare di Dio”. Oggi invece le gerarchie ecclesiastiche appaiono sempre imbronciate, pronte a condannare, anacronistiche. E i più in pericolo sono proprio quei tanti cattolici imbarazzati, a disagio di fronte alla prospettiva tetra che viene loro imposta. Il Vaticano è arrivato a dare del terrorista a un comico che oltretutto è un cattolico: da quelle parti devono avere smarrito il senso della misura e della dialettica».
Mauro Suttora
Family Day: parla Pezzotta
Oggi, 10 maggio 2007
Pezzotta, ma chi gliel’ha fatto fare?
«Di fare il portavoce del Family Day?»
Sì.
«La famiglia è un valore in cui credo. Un mese fa le associazione organizzatrici della manifestazione di sabato 12 maggio mi hanno chiesto di coprire questo ruolo, e io sono stato ben felice di accettare».
Ma se l’immaginava di finire al centro di tutte queste polemiche?
«Nella vita non si possono fare solo cose comode. Alcune scelte bisogna farle perché ci si crede».
La vita di Savino Pezzotta, 63 anni, non è stata mai comoda. Nato il giorno di Natale ’43 nel paesino di Scanzorosciate (Bergamo), in piena occupazione nazista, a dodici anni ha dovuto lasciare la scuola per andare a lavorare come operaio. Nel ’68 si è sudato la licenza media studiando la sera. Trent’anni fa si è sposato (due figli), vent’anni fa è passato dalla guida dei tessili bergamaschi alla segreteria della Cisl (il sindacato cattolico) provinciale, infine ha guidato la Cisl nazionale dal 2000 all’anno scorso.
E ora, ecco il gioviale ed ecumenico Savino diventare il volto pubblico di una delle manifestazioni più controverse degli ultimi decenni: quella per la famiglia e contro i Dico (la legge sui «diritti di convivenza»), indetta dalle associazioni cattoliche e sostenuta dalla Cei esattamente 33 anni (l’età di Cristo) dopo il referendum sul divorzio del 1974, che vide la sconfitta dei cattolici. Sarà una rivincita?
Pezzotta, che ci fa un cristiano impegnato nel sociale come lei, giovanneo-montiniano anche per ragioni geografiche, alla testa di un’adunata accusata di posizioni vandeane?
«Guardi, le associazioni che organizzano il Family Day sono sì di ispirazione cristiana, ma laiche. E poi io non vedo una discontinuità fra i due papi Giovanni e Paolo VI e i loro successori, Wojtyla e Ratzinger».
Però che l’Osservatore Romano dia del terrorista a un comico che attacca la Chiesa non era mai successo.
«Se si partecipa a una festa del Primo Maggio, per l’unità dei lavoratori, bisogna ricordarsi che fra i lavoratori ce ne sono di diverso orientamento politico, culturale e anche religioso. Quel signore, quindi, ha mancato di rispetto non solo a chi l’ha invitato e alla Chiesa, ma anche a milioni di lavoratori cristiani, che si sono sentiti offesi».
Sì, ma «terrorista»...
«Beh, non è che si puo sempre parlare e straparlare impunemente».
Ma lei la prevedeva un mese fa questa bufera?
«Certo, siamo abituati da sempre a dividerci in guelfi e ghibellini... Ma si tratta solo di polemiche sovrastrutturali. Andiamo al merito: crediamo o no nella famiglia come viene definita nella nostra Costituzione repubblicana, e cioè “società naturale fondata sul matrimonio”? E allora che bisogno c’è di equipararla alle coppie di fatto?»
Per dare a tutti i conviventi, anche dello stesso sesso, uguali diritti.
«Ma questo si può fare già oggi, con le leggi vigenti. Noi diciamo sì a tutti i bisogni delle persone conviventi. Per quanto riguarda le eredità e i diritti di successione, per esempio, basta il codice civile. Le visite negli ospedali le devono poter fare anche i conviventi. Tutte le questioni concrete sono risolvibili, una per una, quindi non capisco l’animosità contro le nostre posizioni: noi non siamo contro le coppie conviventi, ma per la famiglia. Il tema delle convivenze lo si può affrontare in modo rispettoso delle condizioni di vita e dei diritti individuali delle persone».
Non potremmo allora adottare una legge che, rispetto agli estremi del matrimonio gay ammesso dalla cattolicissima Spagna o dei Pacs francesi, si situi a metà strada?
«Se si fa la media si arriva al pollo di Trilussa. Non si può seguire la Costituzione un giorno sì e uno no. Non si può svilire l’istituto del matrimonio. L’orientamento che emerge dai Dico è che “tutto fa famiglia”, tutto è uguale. Che ogni desiderio individuale diventa valore e norma. Lasciamo da parte i valori religiosi e restiamo al punto di vista sociale, politico: è questo il modello culturale che vogliamo per la nostra società? Io no, non mi piace: indebolire la famiglia naturale porta solo danni».
Ma la legge sui Dico è già stata approvata dal governo, dentro al quale sono numerosi i cattolici di sinistra. Perché non accettate questo compromesso?
«Non è un dramma se anche fra cristiani non si è sempre d’accordo su tutto. Sottosegretari e viceministri di questo governo hanno partecipato a cortei antigovernativi. Molti di noi hanno manifestato contro la guerra in Iraq: anche allora siamo andati in piazza, e continueremo a farlo quando in campo ci sono questioni decisive per la società».
Dica la verità: siete contro i Dico perché riconoscono le coppie gay?
«Al contrario: si discriminano i gay proprio riducendoli a categoria. Noi invece proponiamo di trattarli come tutti gli altri: persone liberissime di convivere, senza mascheramenti di nozze civili».
In Messico la Chiesa ha appena scomunicato i deputati cattolici che hanno votato una legge sull’aborto. Finirà così anche in Italia?
«Qui nessuno scomunicherà nessuno, ogni Chiesa decide in autonomia. Però mi sembra corretto il richiamo dei vescovi a comportarsi da cattolici. Non posso non tener conto che il Papa ha definito vita e famiglia valori “non negoziabili” Se sto dentro la Chiesa, significa che sono in comunione con i vescovi e il Papa. Posso non essere d’accordo su qualcosa e posso esercitare anche la “correzione fraterna” nei confronti degli stessi vescovi, se penso che in qualche maniera stiano sbagliando... Il credente non è affatto subordinato. È in comunione, in relazione. Può anche agire difformemente al magistero: cosciente però di sottoporre a tensione la comunione della Chiesa. Quando faccio il sindacalista non mi tolgo la giacca di cattolico per indossare quella da laico. Quella cattolica è un’identità pre-formativa, dalla quale non si può prescindere».
Ma chiedendo leggi che ricalcano i precetti cattolici, non si viola la separazione laica fra Stato e Chiesa?
«Non imponiamo a nessuno il matrimonio religioso, ed è evidente che le leggi dello Stato verranno decise dalla maggioranza. Noi ci limitiamo a far sentire la nostra voce. La disponibilità a confrontarci con altre culture e pensieri è nella natura stessa della nostra cattolicità».
E mentre si litiga sui Dico, le famiglie vanno a rotoli: non si fanno più figli perché costano troppo.
«Ecco, sono questi i problemi veri. Se non si dà valore alla famiglia, non si fa nulla per proteggerla con politiche economiche e sociali. E allora, c’era veramente bisogno di tirar fuori i Dico come una priorità? Si è imposto il tema al Paese, si è fatto diventare centrale un problema che non lo è».
Mauro Suttora
Pezzotta, ma chi gliel’ha fatto fare?
«Di fare il portavoce del Family Day?»
Sì.
«La famiglia è un valore in cui credo. Un mese fa le associazione organizzatrici della manifestazione di sabato 12 maggio mi hanno chiesto di coprire questo ruolo, e io sono stato ben felice di accettare».
Ma se l’immaginava di finire al centro di tutte queste polemiche?
«Nella vita non si possono fare solo cose comode. Alcune scelte bisogna farle perché ci si crede».
La vita di Savino Pezzotta, 63 anni, non è stata mai comoda. Nato il giorno di Natale ’43 nel paesino di Scanzorosciate (Bergamo), in piena occupazione nazista, a dodici anni ha dovuto lasciare la scuola per andare a lavorare come operaio. Nel ’68 si è sudato la licenza media studiando la sera. Trent’anni fa si è sposato (due figli), vent’anni fa è passato dalla guida dei tessili bergamaschi alla segreteria della Cisl (il sindacato cattolico) provinciale, infine ha guidato la Cisl nazionale dal 2000 all’anno scorso.
E ora, ecco il gioviale ed ecumenico Savino diventare il volto pubblico di una delle manifestazioni più controverse degli ultimi decenni: quella per la famiglia e contro i Dico (la legge sui «diritti di convivenza»), indetta dalle associazioni cattoliche e sostenuta dalla Cei esattamente 33 anni (l’età di Cristo) dopo il referendum sul divorzio del 1974, che vide la sconfitta dei cattolici. Sarà una rivincita?
Pezzotta, che ci fa un cristiano impegnato nel sociale come lei, giovanneo-montiniano anche per ragioni geografiche, alla testa di un’adunata accusata di posizioni vandeane?
«Guardi, le associazioni che organizzano il Family Day sono sì di ispirazione cristiana, ma laiche. E poi io non vedo una discontinuità fra i due papi Giovanni e Paolo VI e i loro successori, Wojtyla e Ratzinger».
Però che l’Osservatore Romano dia del terrorista a un comico che attacca la Chiesa non era mai successo.
«Se si partecipa a una festa del Primo Maggio, per l’unità dei lavoratori, bisogna ricordarsi che fra i lavoratori ce ne sono di diverso orientamento politico, culturale e anche religioso. Quel signore, quindi, ha mancato di rispetto non solo a chi l’ha invitato e alla Chiesa, ma anche a milioni di lavoratori cristiani, che si sono sentiti offesi».
Sì, ma «terrorista»...
«Beh, non è che si puo sempre parlare e straparlare impunemente».
Ma lei la prevedeva un mese fa questa bufera?
«Certo, siamo abituati da sempre a dividerci in guelfi e ghibellini... Ma si tratta solo di polemiche sovrastrutturali. Andiamo al merito: crediamo o no nella famiglia come viene definita nella nostra Costituzione repubblicana, e cioè “società naturale fondata sul matrimonio”? E allora che bisogno c’è di equipararla alle coppie di fatto?»
Per dare a tutti i conviventi, anche dello stesso sesso, uguali diritti.
«Ma questo si può fare già oggi, con le leggi vigenti. Noi diciamo sì a tutti i bisogni delle persone conviventi. Per quanto riguarda le eredità e i diritti di successione, per esempio, basta il codice civile. Le visite negli ospedali le devono poter fare anche i conviventi. Tutte le questioni concrete sono risolvibili, una per una, quindi non capisco l’animosità contro le nostre posizioni: noi non siamo contro le coppie conviventi, ma per la famiglia. Il tema delle convivenze lo si può affrontare in modo rispettoso delle condizioni di vita e dei diritti individuali delle persone».
Non potremmo allora adottare una legge che, rispetto agli estremi del matrimonio gay ammesso dalla cattolicissima Spagna o dei Pacs francesi, si situi a metà strada?
«Se si fa la media si arriva al pollo di Trilussa. Non si può seguire la Costituzione un giorno sì e uno no. Non si può svilire l’istituto del matrimonio. L’orientamento che emerge dai Dico è che “tutto fa famiglia”, tutto è uguale. Che ogni desiderio individuale diventa valore e norma. Lasciamo da parte i valori religiosi e restiamo al punto di vista sociale, politico: è questo il modello culturale che vogliamo per la nostra società? Io no, non mi piace: indebolire la famiglia naturale porta solo danni».
Ma la legge sui Dico è già stata approvata dal governo, dentro al quale sono numerosi i cattolici di sinistra. Perché non accettate questo compromesso?
«Non è un dramma se anche fra cristiani non si è sempre d’accordo su tutto. Sottosegretari e viceministri di questo governo hanno partecipato a cortei antigovernativi. Molti di noi hanno manifestato contro la guerra in Iraq: anche allora siamo andati in piazza, e continueremo a farlo quando in campo ci sono questioni decisive per la società».
Dica la verità: siete contro i Dico perché riconoscono le coppie gay?
«Al contrario: si discriminano i gay proprio riducendoli a categoria. Noi invece proponiamo di trattarli come tutti gli altri: persone liberissime di convivere, senza mascheramenti di nozze civili».
In Messico la Chiesa ha appena scomunicato i deputati cattolici che hanno votato una legge sull’aborto. Finirà così anche in Italia?
«Qui nessuno scomunicherà nessuno, ogni Chiesa decide in autonomia. Però mi sembra corretto il richiamo dei vescovi a comportarsi da cattolici. Non posso non tener conto che il Papa ha definito vita e famiglia valori “non negoziabili” Se sto dentro la Chiesa, significa che sono in comunione con i vescovi e il Papa. Posso non essere d’accordo su qualcosa e posso esercitare anche la “correzione fraterna” nei confronti degli stessi vescovi, se penso che in qualche maniera stiano sbagliando... Il credente non è affatto subordinato. È in comunione, in relazione. Può anche agire difformemente al magistero: cosciente però di sottoporre a tensione la comunione della Chiesa. Quando faccio il sindacalista non mi tolgo la giacca di cattolico per indossare quella da laico. Quella cattolica è un’identità pre-formativa, dalla quale non si può prescindere».
Ma chiedendo leggi che ricalcano i precetti cattolici, non si viola la separazione laica fra Stato e Chiesa?
«Non imponiamo a nessuno il matrimonio religioso, ed è evidente che le leggi dello Stato verranno decise dalla maggioranza. Noi ci limitiamo a far sentire la nostra voce. La disponibilità a confrontarci con altre culture e pensieri è nella natura stessa della nostra cattolicità».
E mentre si litiga sui Dico, le famiglie vanno a rotoli: non si fanno più figli perché costano troppo.
«Ecco, sono questi i problemi veri. Se non si dà valore alla famiglia, non si fa nulla per proteggerla con politiche economiche e sociali. E allora, c’era veramente bisogno di tirar fuori i Dico come una priorità? Si è imposto il tema al Paese, si è fatto diventare centrale un problema che non lo è».
Mauro Suttora
Wednesday, May 09, 2007
Le stelle del Piper
La rivoluzione pop degli Anni 60 in un film dei Vanzina su Canale 5
"Aprii il locale per portare in Italia il rock dei Beatles, e fu subito un successo", racconta Giancarlo Bornigia, proprietario del club da 42 anni. "Da Patty Pravo ai Pink Floyd, ci sono passati tutti. Compreso un misterioso Clint Eastwood..."
di Mauro Suttora - Oggi, 9 maggio 2007
Roma. "Per un paio di mesi, dopo l' apertura, ogni sera arrivava un americano vestito da cowboy. Si aggirava silenzioso per il locale, e poi si sedeva in un angolo. Dopo un po' scoprimmo come si chiamava: Clint Eastwood. Stava girando un film di Sergio Leone a Cinecittà". Memorie di Giancarlo Bornigia, 76 anni, fondatore del Piper, lo storico locale notturno romano ora immortalato in un film tv di Carlo Vanzina con Martina Stella, Massimo Ghini, Anna Falchi e Carol Alt: "Era il 1964", ricorda Bornigia. "A Londra era scoppiato il fenomeno dei Beatles. Io e il mio socio, l' avvocato Alberico Crocetta, rilevammo un cinema di via Tagliamento e lo arredammo in stile pop, con quadri di Andy Warhol, Rauschenberg e Schifano. Installammo le prime luci stroboscopiche, con colori psichedelici. E nel febbraio ' 65 aprimmo. Fu un successo immediato".
Era iniziata la rivoluzione dei giovani. Che si ribellavano a tutto: alla guerra in Vietnam, ai genitori che li facevano tornare a casa presto la sera, a una società vecchia e ipocrita. Ben prima del ' 68, i ragazzi usarono tre armi per affermarsi: musica, minigonna e capelli lunghi. "Il Piper era diventato il regno dei "capelloni". Arrivavano da tutta Italia, molti minorenni fuggiti da casa venivano presi dalla polizia ai nostri ingressi. Teddy Reno, allora impresario, rimediò in Inghilterra un complesso che assomigliava ai Beatles. Così tutta Roma vide, stupefatta, i poster giganti di quattro giovanotti con capelli a caschetto che invitavano ad andare al Piper: erano i Rokes di Shel Shapiro".
Temendo che la musica "beat" dei Rokes risultasse un po' troppo indigesta venne ingaggiato pure un complessino che faceva "night" al Club 84, incaricandolo di suonare cose nostrane fra un round e l' altro dei "mostri" inglesi. La formazione che doveva fare il "liscio" era l' Equipe 84. Ma anche loro fin dalla prima sera furono letteralmente costretti, dal pubblico assatanato, a suonare lo stesso tipo di musica dei Rokes. "Tutta Roma parlava del Piper, e per vedere i famosi capelloni arrivarono un sacco di curiosi famosi: Gassman, Zeffirelli, Anna Magnani, Alberto Bevilacqua, Nureyev, Monica Vitti, Albertazzi, Ugo Tognazzi, Lina Wertmueller, Nanni Loy".
Si cominciò anche a ballare quella nuova e strana musica: fra le più scatenate c' erano la quattordicenne Romina Power, Gabriella Ferri e Anita Pallemberg, che dopo pochi mesi si sarebbe messa con un Rolling Stone. Era insomma iniziata una nuova Dolce vita, più giovane e meno annoiata di quella del film di Fellini. Anzi, l' entusiasmo era alle stelle. I giovani credevano veramente di poter cambiare il mondo. E il simbolo dell' esplosione gioiosa degli anni Sessanta in Italia furono il Piper di Roma e il Bandiera Gialla di Rimini. "I nostri giovani non erano né di destra né di sinistra: volevano solo più libertà", ricorda Bornigia. E infatti, appena un mese dopo l' apertura arriva la severa condanna di Noi Donne, giornale del Pci: "Dietro l' aspetto della ribellione si nasconde una rivolta prefabbricata".
Intanto emergono due stelle: Caterina Caselli e Patty Pravo. Quest' ultima era una bella "cubista" che si dimenava sul primo cubo (luminoso) installato in una discoteca italiana. Originale e spregiudicata, era il simbolo dell' amore (relativamente) libero di quella generazione, la prima che ebbe a disposizione la pillola anticoncezionale: "Io i ragazzi me li fumo come sigarette", si vantava.
Patty prese il nome d' arte dai provos libertari di Amsterdam. Incise il suo primo disco, Ragazzo Triste, con testo tradotto da Gianni Boncompagni il quale, avendo allora anche velleità canore, utilizzò la base musicale di Patty per incidere la stessa canzone con il nome d' arte di Paolo Paolo. Un altro insospettabile coinvolto nel Piper fu Giuliano Ferrara, che nel ' 67 si esibì nel coro di un musical quasi hippy con canzoni di Bob Dylan: "Cantava benissimo, e ballava pure", assicura Tito Schipa junior, l' organizzatore.
"Gli orari delle discoteche erano diversi da oggi", ricorda Bornigia, "si cominciava a ballare alle dieci e alle due chiudevamo. Ma c' era la fila già alle otto. Al Piper hanno suonato tutti, da Renato Zero a Loredana Bertè, da Mal dei Primitives a Mia Martini e Rocky Roberts. Ma anche chi non salì sul palco, come Battisti, Dalla o Baglioni, veniva ad ascoltare. E poi c' erano i concerti dei gruppi inglesi e americani, dai Who ai Procol Harum, da David Bowie ai Genesis e ai Pink Floyd. La serata più bella fu quella del francese Georges Moustaki, con la sua canzone Faccia da straniero. A quel concerto venne pure Carla Voltolina, la moglie di Sandro Pertini". Bornigia gestisce tuttora assieme ai due figli il Piper, discoteca con serate concerto.
Mauro Suttora
Dai Beatles ai Nirvana passando per Moustaki
Dopo l' apertura nel 1965, ecco alcune date memorabili del Piper Club di Roma.
1966 Patty Pravo e Caterina Caselli simboli del "yeyé".
1967 Procol Harum (Whiter shade of pale) in concerto.
1968 Gli psichedelici Pink Floyd si esibiscono in aprile.
1969 Arriva Georges Moustaki (Lo Straniero). Bornigia: "La serata più bella".
1972 Controcanzonissima: Guccini, Pfm, Orme, New Trolls.
1973 Austerity: obbligo di chiusura entro mezzanotte.
1979 Torna discoteca con la disco music (John Travolta).
1989 Debutto a Roma dei Nirvana di Kurt Cobain.
2005 Festeggia i quarant' anni di attività ininterrotta: record mondiale.
"Aprii il locale per portare in Italia il rock dei Beatles, e fu subito un successo", racconta Giancarlo Bornigia, proprietario del club da 42 anni. "Da Patty Pravo ai Pink Floyd, ci sono passati tutti. Compreso un misterioso Clint Eastwood..."
di Mauro Suttora - Oggi, 9 maggio 2007
Roma. "Per un paio di mesi, dopo l' apertura, ogni sera arrivava un americano vestito da cowboy. Si aggirava silenzioso per il locale, e poi si sedeva in un angolo. Dopo un po' scoprimmo come si chiamava: Clint Eastwood. Stava girando un film di Sergio Leone a Cinecittà". Memorie di Giancarlo Bornigia, 76 anni, fondatore del Piper, lo storico locale notturno romano ora immortalato in un film tv di Carlo Vanzina con Martina Stella, Massimo Ghini, Anna Falchi e Carol Alt: "Era il 1964", ricorda Bornigia. "A Londra era scoppiato il fenomeno dei Beatles. Io e il mio socio, l' avvocato Alberico Crocetta, rilevammo un cinema di via Tagliamento e lo arredammo in stile pop, con quadri di Andy Warhol, Rauschenberg e Schifano. Installammo le prime luci stroboscopiche, con colori psichedelici. E nel febbraio ' 65 aprimmo. Fu un successo immediato".
Era iniziata la rivoluzione dei giovani. Che si ribellavano a tutto: alla guerra in Vietnam, ai genitori che li facevano tornare a casa presto la sera, a una società vecchia e ipocrita. Ben prima del ' 68, i ragazzi usarono tre armi per affermarsi: musica, minigonna e capelli lunghi. "Il Piper era diventato il regno dei "capelloni". Arrivavano da tutta Italia, molti minorenni fuggiti da casa venivano presi dalla polizia ai nostri ingressi. Teddy Reno, allora impresario, rimediò in Inghilterra un complesso che assomigliava ai Beatles. Così tutta Roma vide, stupefatta, i poster giganti di quattro giovanotti con capelli a caschetto che invitavano ad andare al Piper: erano i Rokes di Shel Shapiro".
Temendo che la musica "beat" dei Rokes risultasse un po' troppo indigesta venne ingaggiato pure un complessino che faceva "night" al Club 84, incaricandolo di suonare cose nostrane fra un round e l' altro dei "mostri" inglesi. La formazione che doveva fare il "liscio" era l' Equipe 84. Ma anche loro fin dalla prima sera furono letteralmente costretti, dal pubblico assatanato, a suonare lo stesso tipo di musica dei Rokes. "Tutta Roma parlava del Piper, e per vedere i famosi capelloni arrivarono un sacco di curiosi famosi: Gassman, Zeffirelli, Anna Magnani, Alberto Bevilacqua, Nureyev, Monica Vitti, Albertazzi, Ugo Tognazzi, Lina Wertmueller, Nanni Loy".
Si cominciò anche a ballare quella nuova e strana musica: fra le più scatenate c' erano la quattordicenne Romina Power, Gabriella Ferri e Anita Pallemberg, che dopo pochi mesi si sarebbe messa con un Rolling Stone. Era insomma iniziata una nuova Dolce vita, più giovane e meno annoiata di quella del film di Fellini. Anzi, l' entusiasmo era alle stelle. I giovani credevano veramente di poter cambiare il mondo. E il simbolo dell' esplosione gioiosa degli anni Sessanta in Italia furono il Piper di Roma e il Bandiera Gialla di Rimini. "I nostri giovani non erano né di destra né di sinistra: volevano solo più libertà", ricorda Bornigia. E infatti, appena un mese dopo l' apertura arriva la severa condanna di Noi Donne, giornale del Pci: "Dietro l' aspetto della ribellione si nasconde una rivolta prefabbricata".
Intanto emergono due stelle: Caterina Caselli e Patty Pravo. Quest' ultima era una bella "cubista" che si dimenava sul primo cubo (luminoso) installato in una discoteca italiana. Originale e spregiudicata, era il simbolo dell' amore (relativamente) libero di quella generazione, la prima che ebbe a disposizione la pillola anticoncezionale: "Io i ragazzi me li fumo come sigarette", si vantava.
Patty prese il nome d' arte dai provos libertari di Amsterdam. Incise il suo primo disco, Ragazzo Triste, con testo tradotto da Gianni Boncompagni il quale, avendo allora anche velleità canore, utilizzò la base musicale di Patty per incidere la stessa canzone con il nome d' arte di Paolo Paolo. Un altro insospettabile coinvolto nel Piper fu Giuliano Ferrara, che nel ' 67 si esibì nel coro di un musical quasi hippy con canzoni di Bob Dylan: "Cantava benissimo, e ballava pure", assicura Tito Schipa junior, l' organizzatore.
"Gli orari delle discoteche erano diversi da oggi", ricorda Bornigia, "si cominciava a ballare alle dieci e alle due chiudevamo. Ma c' era la fila già alle otto. Al Piper hanno suonato tutti, da Renato Zero a Loredana Bertè, da Mal dei Primitives a Mia Martini e Rocky Roberts. Ma anche chi non salì sul palco, come Battisti, Dalla o Baglioni, veniva ad ascoltare. E poi c' erano i concerti dei gruppi inglesi e americani, dai Who ai Procol Harum, da David Bowie ai Genesis e ai Pink Floyd. La serata più bella fu quella del francese Georges Moustaki, con la sua canzone Faccia da straniero. A quel concerto venne pure Carla Voltolina, la moglie di Sandro Pertini". Bornigia gestisce tuttora assieme ai due figli il Piper, discoteca con serate concerto.
Mauro Suttora
Dai Beatles ai Nirvana passando per Moustaki
Dopo l' apertura nel 1965, ecco alcune date memorabili del Piper Club di Roma.
1966 Patty Pravo e Caterina Caselli simboli del "yeyé".
1967 Procol Harum (Whiter shade of pale) in concerto.
1968 Gli psichedelici Pink Floyd si esibiscono in aprile.
1969 Arriva Georges Moustaki (Lo Straniero). Bornigia: "La serata più bella".
1972 Controcanzonissima: Guccini, Pfm, Orme, New Trolls.
1973 Austerity: obbligo di chiusura entro mezzanotte.
1979 Torna discoteca con la disco music (John Travolta).
1989 Debutto a Roma dei Nirvana di Kurt Cobain.
2005 Festeggia i quarant' anni di attività ininterrotta: record mondiale.
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