Friday, August 08, 2025

Resort a Gaza? C'era già, e io ci ho dormito

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it , 8 agosto 2025

Il 15 agosto di vent'anni fa, nel 2005, il premier israeliano Ariel Sharon fece sgomberare gli insediamenti ebraici di Gaza. Il più grande, Gush Katif, era enorme: si estendeva per ben dieci chilometri sulla costa sud della Striscia, dal confine egiziano di Rafah. Ci abitavano e lavoravano 7mila coloni, stretti fra le spiagge del mar Mediterraneo e il campo profughi di Khan Yunis.

Quando lo visitai nel gennaio 2001, unico giornalista italiano, Sharon aveva appena scatenato la seconda Intifada con la sua passeggiata nella spianata delle moschee a Gerusalemme. Era considerato un criminale quanto oggi Bibi Netanyahu  perché aveva permesso la strage di Sabra e Chatila nel 1982 in Libano. 

Accanto a questa provocazione, però, Sharon decise di abbandonare le colonie di Gaza. Non per fare un favore ai palestinesi: semplicemente, costava troppo proteggerle dopo la fine dell'occupazione israeliana di Gaza (1967-1994). E solo lui, duro di estrema destra, poteva permettersi una simile ritirata.

Ecco la cronaca della mia visita a Gush Katif, e in particolare al suo villaggio più grande, Neve Dekalim, assieme a Gianni Gelmi, fotografo del settimanale Oggi:


Arriviamo ad Ashkelon, ultima città israeliana prima di Gaza, e cerchiamo di salire sull’autobus numero 36, che porta a Neve Dekalim. Ha doppi vetri blindati antiproiettile e una grata di ferro sul parabrezza per proteggersi dalle pietre dell’Intifada. Ma la corriera è piena di soldati e soldatesse di leva diciottenni che tornano dalle licenze: non c’è più posto, neanche in piedi.

In Israele il servizio militare dura tre anni per i maschi, due per le femmine, e non può essere rinviato per motivi di studio. È impressionante vedere tutti questi ragazzi in tuta mimetica verde girare col mitra in spalla, ma anche preoccupante constatare come chiunque possa lasciare qualcosa nel bagagliaio del bus, senza controlli. [Gli attentati in quei mesi erano all'ordine del giorno, ndr].

Il bus successivo della linea 36 parte solo dopo due ore, e allora cerchiamo un taxi. Ma i tassisti ci avvertono subito: “Fino a Neve Dekalim non andiamo, ci fermiamo alla frontiera di Kissufim. Per gli ultimi dieci chilometri dovete arrangiarvi, perché lì i palestinesi tirano pietre. E anche peggio: una settimana fa ci hanno lasciato la pelle due soldati israeliani di pattuglia”.

Accettiamo e arriviamo alla frontiera fra campi color verde smeraldo che ci sorprendono, perché qui siamo molto a sud, al confine con l’Egitto, quasi nel deserto del Sinai. Il tassista è un ebreo i cui genitori lasciarono la Libia nel 1948, dopo la prima guerra fra Israele e i Paesi arabi. Al confine con la striscia di Gaza telefoniamo all’insediamento di Neve Dekalim. Dror Vanunu, un 25enne che è una specie di assessore, sapeva già della nostra visita; promette di venire a prenderci con la sua auto.

Al posto di blocco ci sono cavalli di frisia, filo spinato, trincee, pezzi di muro di cemento armato prefabbricato e chiodi sull’asfalto. Due giovani coloni ebrei fanno autostop verso Israele sotto il sole. C’è un grande parcheggio di auto: molte appartengono a coloni che fanno ‘car sharing’ (pendolari che usano la stessa macchina, o che non vogliono rischiare di farsi distruggere la propria dai sassi palestinesi).

Qui fino al 1967 (la guerra dei Sei giorni di Moshe Dayan) passava la frontiera fra Israele ed Egitto. Poi c’è stata l’occupazione israeliana. Dal 1994, con gli accordi di Oslo fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, Gaza è diventata palestinese.

Ma i soldati israeliani mantengono il controllo delle strade che portano agli insediamenti ebraici, sia qui che in Cisgiordania: sono quasi 200mila i coloni israeliani che vivono in territorio palestinese, e sono aumentati di oltre 50mila dal ’94. [Oggi sono 350mila, ndr].

Arriva Vanunu, laureato in storia del Medio oriente, che sulla nuca porta il tipico ‘centrino’ degli ebrei ortodossi. Con lui attraversiamo i dieci chilometri della ‘linea di fuoco’. La cosiddetta ‘seconda Intifada’ da tre mesi ormai sconvolge queste strade e ha causato quasi 400 morti, in gran maggioranza palestinesi.

“I nostri soldati hanno dovuto tagliare tutti gli alberi lungo la strada per evitare agguati ad auto e bus. Possiamo passare solo con due auto per volta”. 

E un muro di cemento separa per tre km le due corsie della principale autostrada di Gaza, che la attraversa da nord a sud: apartheid automobilistico, di qua gli israeliani, di là i palestinesi. Vicino alla strada sorgono i silos di una grande fabbrica di farina: “I palestinesi costruiscono apposta edifici alti vicino ai nostri insediamenti per poterci sparare”, si lamenta Vanunu.

Entriamo nel territorio dell’insediamento, che si estende per più di venti kmq fino al mar Mediterraneo: “Qui nel 1970 non vivevano arabi, c’era solo sabbia”, assicura Vanunu, “quindi non abbiamo portato via niente a nessuno”. Oggi tutto il terreno è ricoperto da serre, campi coltivati e addirittura prati all’inglese. Sembra di stare in California, oppure in un golf club.

Arriviamo nella cooperativa agricola di Gush Katif, e Vanunu ci mostra orgoglioso un allevamento modello di 300 mucche: “Ciascuna fa 8mila litri all’anno, più di quelle olandesi”. Il direttore dell’allevamento Beni Ginsberg sta seguendo la mungitura su una rotonda dove le vacche girano automaticamente, per poi tornare nelle stalle all’aperto: “Produciamo quasi quattro milioni di litri all’anno, che mandiamo ogni giorno a Gerusalemme in autobotte”. 

[Notevoli quantità del latte israeliano prodotto a Gaza andava anche al Cairo, ma ci chiesero di non scriverlo per non rovinare i buoni rapporti con l'Egitto, ndr].

Poi c’è la seconda meraviglia: uno sterminato vivaio con milioni di fiori e piante in serra: “Il 60 per cento delle piante d’Israele viene da qui ed esportiamo fiori in tutto il mondo, soprattutto in Olanda”, dice Amazia Yehiely, 37 anni, uno dei capi delle settanta famiglie che lavorano nelle serre. “Selezioniamo geneticamente le piante. Prendiamo le cinquemila migliori e le incrociamo, per ottenere la foglia perfetta”.

Pare che, in effetti, l’insalata di Gush Katif sia apprezzata dappertutto in Israele, in quanto priva di vermi. Fino a ottobre lavoravano qui anche molti palestinesi, ma dopo l’attentato a un bus di bambini in cui è morto un insegnante i rapporti si sono interrotti: Israele ha bloccato tutte le frontiere ai palestinesi. Niente più lavoro per decine di migliaia di frontalieri, quindi. Alla mancanza di manodopera i coloni cercano di sopperire con operai thailandesi, e con giovani volontari ebrei che vengono a lavorare in turni settimanali.

Proprio negli spartani bungalow dove sono ospitati questi ragazzi ci porta Vanunu: mangeremo e dormiremo con loro, in quello che fino alla scorsa estate si chiamava ‘Palm Beach’ ed era un affollato villaggio turistico in riva al mare. I giovani israeliani vi praticavano il surf. 

Ora è protetto da soldati che lo hanno circondato di filo spinato e sorvegliano la spiaggia con postazioni ogni cento metri. C’è infatti il timore di incursioni notturne da parte di commandos palestinesi. Di fronte ai nostri bungalow sta un accampamento di beduini, con le loro tende e cammelli: “Loro sono tranquilli, si trovano bene con noi”, spiega Vanunu,”anche perché sanno che sotto i palestinesi starebbero peggio”.

Due chilometri più avanti c’è il villaggio vero e proprio di Neve Dekalim (traduzione: posto delle palme) che è formato da casette bianche tipo Lego con tetti di tegole arancioni. All’entrata a sinistra c’è una scuola elementare per 700 alunni con uno zoo (“Ogni bimbo ha il suo animale”), a destra il benzinaio. Ci sono poi un centro commerciale con negozi e supermercato, due sinagoghe nuovissime (una di rito sefardita, l’altra askenazita), un centro culturale, un centro religioso ortodosso, una scuola media, due licei (maschile e femminile) e ben sette asili nido e materne.

I coloni, infatti, figliano in quantità: ci sono famiglie con sei e anche dieci rampolli. Il nostro cicerone Vanunu ha già due figli dalla moglie 23enne Keren, professoressa di liceo fuori dall’insediamento, nel paese di Netivot, in Israele. Molti dei coloni sono professionisti (medici, avvocati, scienziati) che lavorano in Israele: quindi il flusso sulla ‘strada del terrore’ è continuo.

La professoressa Ronit Balaban insegna informatica nella scuola media del villaggio, ma poche settimane fa durante la lezione una pallottola palestinese ha spaccato la finestra dell’aula e si è conficcata sotto la sua cattedra. Così le hanno messo dei sacchetti di sabbia davanti ai vetri, e adesso le sembra di stare veramente in trincea. “Durante gli scontri si sentono gli spari”, dice, e aggiunge ironica: “Trovo una certa difficoltà a ottenere l’attenzione dei ragazzi con i proiettili che fischiano…”

La signora Balaban insegna part-time, perché aiuta il marito nella floricoltura: due mesi fa erano alla Fiera di Milano per l’esposizione Gardenia, ora parteciperanno alla Fiera di Essen in Germania. Viaggiano parecchio: quando diedero ad Arafat il Nobel per la pace, loro si spinsero fino a Oslo per fischiarlo personalmente. “La Bibbia parla della Terra promessa come ‘terra di latte e miele’, e noi stiamo lavorando per realizzare il sogno”, dice Vanunu.

Ma, domandiamo, vi rendete conto che siete circondati da palestinesi in un territorio che da sette anni è stato assegnato a loro, e che quindi prima o poi dovrete andarvene?

“In realtà abbiamo una lista d’attesa di 78mila persone che vogliono venire a vivere negli insediamenti”, risponde lui, “da noi sono appena arrivate quindici famiglie dalla Francia. Quanto alla sensazione di stare in un ghetto, beh, sa… essendo ebrei, ci siamo abbastanza abituati. E poi, se ci pensa, è tutta Israele a essere circondata e perennemente insicura, non solo noi. I palestinesi hanno sempre sparato sui bambini e sui bus scolastici”.

A Neve Dekalim invece il bersaglio sono le volontarie sedicenni costrette ad andare al lavoro in un blindato dell’esercito. Questi insediamenti sono sicuramente una provocazione permanente nei confronti dei palestinesi, e anche un ostacolo per il ‘processo di pace’. 

Ma mangiando e parlando a cena con questi ragazzi, ci accorgiamo che lo spirito eroico e pionieristico dei kibbutz di sinistra oggi sopravvive soprattutto qui, fra i coloni che votano a destra (per il generale Ariel Sharon, favorito alle elezioni del 6 febbraio contro l’attuale premier socialista Ehud Barak). Loro, i nazionalisti ebrei, stanno felici in prima linea e costringono l’esercito israeliano a sforzi e spese immense per difenderli.

La loro testardaggine garantisce tensioni e guerre anche per il prossimo mezzo secolo. Non sarebbe più facile e ragionevole spostare tutto (mucche da latte, serre modello, prati perfetti e villette linde) solo dieci chilometri più a est, in Israele?

“Possiamo anche farlo”, concede Vanunu, “ma poi chi ci garantisce che i palestinesi non ci chiederanno qualcos’altro? Perché sui loro libri di scuola, pagati anche dall’Italia, il nome ‘Israele’ è ancora cancellato dalle carte geografiche? Come possiamo fidarci, di fronte a episodi simili? Avete visto la felicità dei giovani palestinesi con le mani lorde del sangue del giovane israeliano linciato a Ramallah?”

Resort a Gaza? C'era già, e io ci ho dormito

di Mauro Suttora

Il 15 agosto di vent'anni fa, nel 2005, il premier israeliano Ariel Sharon fece sgomberare gli insediamenti ebraici di Gaza

Huffington Post, 8 agosto 2025


Il 15 agosto di vent'anni fa, nel 2005, il premier israeliano Ariel Sharon fece sgomberare gli insediamenti ebraici di Gaza. Il più grande, Gush Katif, era enorme: si estendeva per ben dieci chilometri sulla costa sud della Striscia, dal confine egiziano di Rafah. Ci abitavano e lavoravano 7mila coloni, stretti fra le spiagge del mar Mediterraneo e il campo profughi di Khan Yunis.

Quando lo visitai nel gennaio 2001, unico giornalista italiano, Sharon aveva appena scatenato la seconda Intifada con la sua passeggiata nella spianata delle moschee a Gerusalemme. Era considerato un criminale quanto oggi Bibi Netanyahu  perché aveva permesso la strage di Sabra e Chatila nel 1982 in Libano. 

Accanto a questa provocazione, però, Sharon decise di abbandonare le colonie di Gaza. Non per fare un favore ai palestinesi: semplicemente, costava troppo proteggerle dopo la fine dell'occupazione israeliana di Gaza (1967-1994). E solo lui, duro di estrema destra, poteva permettersi una simile ritirata.

Ecco la cronaca della mia visita a Gush Katif, e in particolare al suo villaggio più grande, Neve Dekalim, assieme a Gianni Gelmi, fotografo del settimanale Oggi:

Arriviamo ad Ashkelon, ultima città israeliana prima di Gaza, e cerchiamo di salire sull’autobus numero 36, che porta a Neve Dekalim. Ha doppi vetri blindati antiproiettile e una grata di ferro sul parabrezza per proteggersi dalle pietre dell’Intifada. Ma la corriera è piena di soldati e soldatesse di leva diciottenni che tornano dalle licenze: non c’è più posto, neanche in piedi.

In Israele il servizio militare dura tre anni per i maschi, due per le femmine, e non può essere rinviato per motivi di studio. È impressionante vedere tutti questi ragazzi in tuta mimetica verde girare col mitra in spalla, ma anche preoccupante constatare come chiunque possa lasciare qualcosa nel bagagliaio del bus, senza controlli. [Gli attentati in quei mesi erano all'ordine del giorno, ndr].

Il bus successivo della linea 36 parte solo dopo due ore, e allora cerchiamo un taxi. Ma i tassisti ci avvertono subito: “Fino a Neve Dekalim non andiamo, ci fermiamo alla frontiera di Kissufim. Per gli ultimi dieci chilometri dovete arrangiarvi, perché lì i palestinesi tirano pietre. E anche peggio: una settimana fa ci hanno lasciato la pelle due soldati israeliani di pattuglia”.

Accettiamo e arriviamo alla frontiera fra campi color verde smeraldo che ci sorprendono, perché qui siamo molto a sud, al confine con l’Egitto, quasi nel deserto del Sinai. Il tassista è un ebreo i cui genitori lasciarono la Libia nel 1948, dopo la prima guerra fra Israele e i Paesi arabi. Al confine con la striscia di Gaza telefoniamo all’insediamento di Neve Dekalim. Dror Vanunu, un 25enne che è una specie di assessore, sapeva già della nostra visita; promette di venire a prenderci con la sua auto.

Al posto di blocco ci sono cavalli di frisia, filo spinato, trincee, pezzi di muro di cemento armato prefabbricato e chiodi sull’asfalto. Due giovani coloni ebrei fanno autostop verso Israele sotto il sole. C’è un grande parcheggio di auto: molte appartengono a coloni che fanno ‘car sharing’ (pendolari che usano la stessa macchina, o che non vogliono rischiare di farsi distruggere la propria dai sassi palestinesi).

Qui fino al 1967 (la guerra dei Sei giorni di Moshe Dayan) passava la frontiera fra Israele ed Egitto. Poi c’è stata l’occupazione israeliana. Dal 1994, con gli accordi di Oslo fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, Gaza è diventata palestinese.

Ma i soldati israeliani mantengono il controllo delle strade che portano agli insediamenti ebraici, sia qui che in Cisgiordania: sono quasi 200mila i coloni israeliani che vivono in territorio palestinese, e sono aumentati di oltre 50mila dal ’94. [Oggi sono 350mila, ndr].

Arriva Vanunu, laureato in storia del Medio oriente, che sulla nuca porta il tipico ‘centrino’ degli ebrei ortodossi. Con lui attraversiamo i dieci chilometri della ‘linea di fuoco’. La cosiddetta ‘seconda Intifada’ da tre mesi ormai sconvolge queste strade e ha causato quasi 400 morti, in gran maggioranza palestinesi.

“I nostri soldati hanno dovuto tagliare tutti gli alberi lungo la strada per evitare agguati ad auto e bus. Possiamo passare solo con due auto per volta”. 

E un muro di cemento separa per tre km le due corsie della principale autostrada di Gaza, che la attraversa da nord a sud: apartheid automobilistico, di qua gli israeliani, di là i palestinesi. Vicino alla strada sorgono i silos di una grande fabbrica di farina: “I palestinesi costruiscono apposta edifici alti vicino ai nostri insediamenti per poterci sparare”, si lamenta Vanunu.

Entriamo nel territorio dell’insediamento, che si estende per più di venti kmq fino al mar Mediterraneo: “Qui nel 1970 non vivevano arabi, c’era solo sabbia”, assicura Vanunu, “quindi non abbiamo portato via niente a nessuno”. Oggi tutto il terreno è ricoperto da serre, campi coltivati e addirittura prati all’inglese. Sembra di stare in California, oppure in un golf club.

Arriviamo nella cooperativa agricola di Gush Katif, e Vanunu ci mostra orgoglioso un allevamento modello di 300 mucche: “Ciascuna fa 8mila litri all’anno, più di quelle olandesi”. Il direttore dell’allevamento Beni Ginsberg sta seguendo la mungitura su una rotonda dove le vacche girano automaticamente, per poi tornare nelle stalle all’aperto: “Produciamo quasi quattro milioni di litri all’anno, che mandiamo ogni giorno a Gerusalemme in autobotte”. 

[Notevoli quantità del latte israeliano prodotto a Gaza andava anche al Cairo, ma ci chiesero di non scriverlo per non rovinare i buoni rapporti con l'Egitto, ndr].

Poi c’è la seconda meraviglia: uno sterminato vivaio con milioni di fiori e piante in serra: “Il 60 per cento delle piante d’Israele viene da qui ed esportiamo fiori in tutto il mondo, soprattutto in Olanda”, dice Amazia Yehiely, 37 anni, uno dei capi delle settanta famiglie che lavorano nelle serre. “Selezioniamo geneticamente le piante. Prendiamo le cinquemila migliori e le incrociamo, per ottenere la foglia perfetta”.

Pare che, in effetti, l’insalata di Gush Katif sia apprezzata dappertutto in Israele, in quanto priva di vermi. Fino a ottobre lavoravano qui anche molti palestinesi, ma dopo l’attentato a un bus di bambini in cui è morto un insegnante i rapporti si sono interrotti: Israele ha bloccato tutte le frontiere ai palestinesi. Niente più lavoro per decine di migliaia di frontalieri, quindi. Alla mancanza di manodopera i coloni cercano di sopperire con operai thailandesi, e con giovani volontari ebrei che vengono a lavorare in turni settimanali.

Proprio negli spartani bungalow dove sono ospitati questi ragazzi ci porta Vanunu: mangeremo e dormiremo con loro, in quello che fino alla scorsa estate si chiamava ‘Palm Beach’ ed era un affollato villaggio turistico in riva al mare. I giovani israeliani vi praticavano il surf. 

Ora è protetto da soldati che lo hanno circondato di filo spinato e sorvegliano la spiaggia con postazioni ogni cento metri. C’è infatti il timore di incursioni notturne da parte di commandos palestinesi. Di fronte ai nostri bungalow sta un accampamento di beduini, con le loro tende e cammelli: “Loro sono tranquilli, si trovano bene con noi”, spiega Vanunu,”anche perché sanno che sotto i palestinesi starebbero peggio”.

Due chilometri più avanti c’è il villaggio vero e proprio di Neve Dekalim (traduzione: posto delle palme) che è formato da casette bianche tipo Lego con tetti di tegole arancioni. All’entrata a sinistra c’è una scuola elementare per 700 alunni con uno zoo (“Ogni bimbo ha il suo animale”), a destra il benzinaio. Ci sono poi un centro commerciale con negozi e supermercato, due sinagoghe nuovissime (una di rito sefardita, l’altra askenazita), un centro culturale, un centro religioso ortodosso, una scuola media, due licei (maschile e femminile) e ben sette asili nido e materne.

I coloni, infatti, figliano in quantità: ci sono famiglie con sei e anche dieci rampolli. Il nostro cicerone Vanunu ha già due figli dalla moglie 23enne Keren, professoressa di liceo fuori dall’insediamento, nel paese di Netivot, in Israele. Molti dei coloni sono professionisti (medici, avvocati, scienziati) che lavorano in Israele: quindi il flusso sulla ‘strada del terrore’ è continuo.

La professoressa Ronit Balaban insegna informatica nella scuola media del villaggio, ma poche settimane fa durante la lezione una pallottola palestinese ha spaccato la finestra dell’aula e si è conficcata sotto la sua cattedra. Così le hanno messo dei sacchetti di sabbia davanti ai vetri, e adesso le sembra di stare veramente in trincea. “Durante gli scontri si sentono gli spari”, dice, e aggiunge ironica: “Trovo una certa difficoltà a ottenere l’attenzione dei ragazzi con i proiettili che fischiano…”

La signora Balaban insegna part-time, perché aiuta il marito nella floricoltura: due mesi fa erano alla Fiera di Milano per l’esposizione Gardenia, ora parteciperanno alla Fiera di Essen in Germania. Viaggiano parecchio: quando diedero ad Arafat il Nobel per la pace, loro si spinsero fino a Oslo per fischiarlo personalmente. “La Bibbia parla della Terra promessa come ‘terra di latte e miele’, e noi stiamo lavorando per realizzare il sogno”, dice Vanunu.

Ma, domandiamo, vi rendete conto che siete circondati da palestinesi in un territorio che da sette anni è stato assegnato a loro, e che quindi prima o poi dovrete andarvene?

“In realtà abbiamo una lista d’attesa di 78mila persone che vogliono venire a vivere negli insediamenti”, risponde lui, “da noi sono appena arrivate quindici famiglie dalla Francia. Quanto alla sensazione di stare in un ghetto, beh, sa… essendo ebrei, ci siamo abbastanza abituati. E poi, se ci pensa, è tutta Israele a essere circondata e perennemente insicura, non solo noi. I palestinesi hanno sempre sparato sui bambini e sui bus scolastici”.

A Neve Dekalim invece il bersaglio sono le volontarie sedicenni costrette ad andare al lavoro in un blindato dell’esercito. Questi insediamenti sono sicuramente una provocazione permanente nei confronti dei palestinesi, e anche un ostacolo per il ‘processo di pace’. 

Ma mangiando e parlando a cena con questi ragazzi, ci accorgiamo che lo spirito eroico e pionieristico dei kibbutz di sinistra oggi sopravvive soprattutto qui, fra i coloni che votano a destra (per il generale Ariel Sharon, favorito alle elezioni del 6 febbraio contro l’attuale premier socialista Ehud Barak). Loro, i nazionalisti ebrei, stanno felici in prima linea e costringono l’esercito israeliano a sforzi e spese immense per difenderli.

La loro testardaggine garantisce tensioni e guerre anche per il prossimo mezzo secolo. Non sarebbe più facile e ragionevole spostare tutto (mucche da latte, serre modello, prati perfetti e villette linde) solo dieci chilometri più a est, in Israele?

“Possiamo anche farlo”, concede Vanunu, “ma poi chi ci garantisce che i palestinesi non ci chiederanno qualcos’altro? Perché sui loro libri di scuola, pagati anche dall’Italia, il nome ‘Israele’ è ancora cancellato dalle carte geografiche? Come possiamo fidarci, di fronte a episodi simili? Avete visto la felicità dei giovani palestinesi con le mani lorde del sangue del giovane israeliano linciato a Ramallah?”

Dall’altra parte dei muri di cemento che fanno da fragile frontiera per questi coloni ebrei ci sono i campi profughi di Gaza, Khan Yuinis, Rafah. Vere e proprie bidonvilles dove i fondamentalisti islamici arruolano facilmente giovani esaltati pronti a farsi martirizzare. 

A pochi metri di distanza, così, si toccano fisicamente la disperazione del Terzo mondo e la supertecnologia degli israeliani. L’assurdo labirinto delle enclaves ebraiche è una spina insopportabile nel fianco dei palestinesi. La prossima settimana andremo a sentire anche le loro ragioni.

E così facemmo, con il risultato che all'aeroporto di Tel Aviv, prima di imbarcarci per l'Italia, subimmo un interrogatorio di terzo grado da parte di giovani ispettori dei servizi segreti israeliani. La nostra colpa? Non aver avvisato il ministero dell'Informazione del nostro viaggio a Gaza. E, ancora peggio: essere andati a intervistare anche i palestinesi dopo i coloni ebrei.

Nel Ferragosto di quattro anni dopo, Gush Katif e Neve Dekalim furono sgomberate. I soldati israeliani rasero tutto stupidamente al suolo, affinché i palestinesi non si impossessassero di case, sinagoghe, scuole e ambulatori. 

Il presidente ebreo statunitense della Banca mondiale, James Wolfensohn, riuscì a finanziare personalmente con mezzo milione di dollari soltanto il salvataggio delle serre, per consegnarle e farle coltivare dai palestinesi. Che però finirono saccheggiate e distrutte anch'esse, perché i poliziotti dell'Anp (Autorità nazionale palestinese) non riuscirono a proteggerle da ladri e vandali. 

Due anni dopo, nel 2007, tutta la Anp fu travolta da Hamas, dopo aver perso le elezioni. E oggi alcuni dei ragazzi che surfavano sulle onde di Gush Katif, o che frequentavano il resort nelle loro vacanze, ci sono tornati come soldati della nuova, ennesima guerra.

Thursday, July 17, 2025

Esuli italiani

Finalmente una mostra, forse persino senza polemiche

di Mauro Suttora

Il ministro Giuli domani annuncia “Frontiera adriatica”, che apre a ottobre al Vittoriano a Roma. Un’idea di Sangiuliano che può prendere dimensioni impreviste. Il problema della parola “foibe” e il frastuono di liti di minoranza

Huffingtonpost.it , 17 luglio 2025

Venerdì 18 luglio il ministro della Cultura Alessandro Giuli presenta alla stampa estera la mostra 'Frontiera adriatica: storie di esuli italiani', che aprirà il 5 ottobre al Vittoriano. Attenzione alle parole: non esuli 'istriani, giuliani, fiumani, dalmati', ovvero i 350mila che abbandonarono le loro case dal 1944 al 1954. Gli organizzatori hanno intelligentemente allargato la definizione, chiamandoli semplicemente 'italiani'.

Ma basterà questo annacquamento semantico a sopire le polemiche sulle foibe, facendo finalmente conquistare a quell'esodo lo status di memoria condivisa super partes?

Fu il precedente ministro Gennaro Sangiuliano, un anno fa, a concedere alla Federazione degli esuli guidata da Giuseppe De Vergottini e Renzo Codarin la prestigiosa sede del complesso monumentale dedicato a Vittorio Emanuele II nel centro di Roma.

L'istituto Vive (Vittoriano e palazzo Venezia) ha messo a disposizione della mostra spazi ristrutturati accanto al museo del Risorgimento. 

Secondo Sangiuliano, però, la manifestazione doveva essere solo "il primo passo verso la realizzazione del Museo del Ricordo qui a Roma, dedicato alla memoria dei martiri italiani delle foibe, massacrati dalla cieca violenza comunista titina. L'esposizione accenderà, in un luogo altamente simbolico e centrale per l'identità nazionale, un faro potente sul buco nero della memoria legata all'esodo. Restituiamo, dopo troppo silenzio, la dovuta visibilità e la giusta dignità alla tragedia delle foibe".

Parole destinate a riaccendere il dibattito, perché a sinistra qualcuno non condivide l'apertura bipartisan con cui anche Giorgio Napolitano, Piero Fassino e Luciano Violante promossero nel 2004 l'istituzione del Giorno del Ricordo, proposto dall'ex missino Roberto Menia. 

Da allora, ogni anno il 10 febbraio (data in cui nel 1947 fu firmata la cessione di Istria, Fiume, isole del Quarnaro e Zara alla Jugoslavia) una manciata di nostalgici comunisti e fascisti rinfocola le polemiche. Ovviamente aumentate con il centrodestra al governo.

A placare gli animi dovrebbe essere la dicitura 'temporanea' apposta alla mostra. Ma non v'è chi non veda che l'ambizione è quella di farla durare almeno fino all'80esimo anniversario della strage sulla spiaggia Vergarolla (Pola), nell'agosto 1946, che spinse migliaia di famiglie terrorizzate a fuggire in Italia. Per poi magari prolungarla fino al 10 febbraio 2027, anniversario a cifra tonda del trattato di Parigi. E giunti a quel punto, perché smontarla? Trasformata in permanente, ecco pronto il museo auspicato da Sangiuliano.

Così, nel cuore di Roma, verrà ricordato un crimine del comunismo. E quelli del fascismo? Basterà a chi vuole coltivare anche la memoria dei partigiani il museo della Liberazione in via Tasso, dove le SS di Herbert Kappler ed Erich Priebke incarcerarono i futuri presidenti Giuseppe Saragat e Sandro Pertini, e torturarono centinaia di antifascisti come il ministro Giuliano Vassalli?

A Milano, zona porta Volta, è in costruzione il museo della Resistenza. Doveva costare 25 milioni, ora ce ne vogliono altri sei e il sindaco Beppe Sala è andato a chiederli al ministro Giuli. Potrebbe essere questo il prezzo da pagare per pareggiare i conti col museo romano dell'Esodo. 

Intanto, però, c'è chi storce il naso perfino sulla data di inaugurazione della mostra al Vittoriano. Il 5 ottobre 1943 infatti venne infoibata dai partigiani jugoslavi Norma Cossetto, studentessa istriana 23enne con l'unica colpa di avere un padre fascista. 

È diventata il simbolo dei 15mila italiani uccisi o desaparecidos in quegli anni tremendi. Nonostante il presidente Carlo Azeglio Ciampi l'abbia insignita della medaglia d'oro alla memoria, capita ancora che qualche sciagurato insozzi le targhe delle vie a lei dedicate in tutta Italia.

Tuesday, July 15, 2025

Garibaldi fu ferito

Forward #29, 27 marzo 2023

Certo, l’eroe dei due mondi non deve aver preso bene la decisione assunta da Cavour di regalare Nizza alla Francia per convincerla a combattere la seconda guerra di indipendenza a fianco dei piemontesi. I Bianchi diventano Le Blanc e i De Ponti sono Du Pont dall’oggi al domani. 

Quelli che non cambiano mai nome, pur vivendo costantemente in luoghi di frontiera, sono i mercenari: loro e i monaci, spiega Mauro Suttora in “Confini”, sono “gli unici global medievali senza confini”. 

Annibale coi suoi elefanti sembra abbia passato le Alpi al colle delle Traversette del Monginevro, come D’Artagnan nel 1664. I confini infatti sono legati ai monti. Ma non sempre: ogni regola esiste per essere disattesa, cosicché la piccola val Cramariola contesa tra Italia e Svizzera fu assegnata alla prima da un imparziale giudice statunitense nel 1864, l’ambasciatore di Abraham Lincoln George Marsh: riconoscendo nella storia i diritti italiani, il territorio passò di mano senza alcun indennizzo né economico né geografico.

Anche i fiumi sono confini naturali, ma non sempre. Tra Italia e Svizzera il Gaggiolo diventa Clivio, poi Lanza e sfocia nell’Olona. E il Tresa è maschile in Italia e femminile in Svizzera. 

A Gorizia, ma anche tra Turchia e Siria, la frontiera la fa una ferrovia. Tra Italia e Slovenia è stato per decenni il confine più temperato della guerra fredda: oggi sul Collio sloveno verso l’Italia c’è un parco della Pace. Anche per non scordare i cinquantamila soldati italiani e trentacinquemila austriaci morti nell’agosto del 1916 per conquistare la città o per difenderla. Da parte italiana erano i sardi della Brigata Sassari, ragazzi circondati da un mare che non è mai un confine. 

Questo e molto altro è nel libro “Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere” di Mauro Suttora, edizioni Neri Pozza, Vicenza, 2021

Thursday, July 10, 2025

Srebrenica e Gaza

Evoluzione e tradimento del termine "genocidio"

di Mauro Suttora

Per qualificare la mattanza di trent’anni fa, si estese il concetto di genocidio coniato sull’eliminazione degli armeni e applicato a Norimberga. L’ulteriore slittamento per la strage dei palestinesi però non regge (l’autogol del diritto umanitario)

Huffington Post

10 luglio 2025

Fino all’11 luglio 1995 (strage di Srebrenica) per fare un genocidio ci volevano milioni di morti. O almeno qualche centinaio di migliaia. Quindi, in ordine cronologico: armeni, ucraini (Holomodor anni 30), ebrei, cambogiani, etiopi, ruandesi tutsi. Andando indietro, indiani degli Usa, maya, aztechi e incas: genocidi di successo, civiltà quasi sparite.

Tutti sappiamo che l'etimo di genocidio è “uccisione di una razza”. E che la parola fu coniata nel 1944 da un giurista ebreo polacco, Raphael Lemkin, per dire l’indicibile e applicarlo al processo di Norimberga.

Dopo Srebrenica, tuttavia, i giuristi in àmbito Onu hanno allargato il significato del neologismo. Per dirla in penalistese, hanno valorizzato l’elemento soggettivo del reato. Quindi ora non c’è più bisogno che un genocidio intacchi significativamente la consistenza numerica di un popolo, di una razza, di una religione: è sufficiente la “volontà” genocidiaria. 

Il generale Ratko Mladic e i presidenti Slobodan Milosevic (Serbia) e Radovan Karadzic (serbi di Bosnia) ammazzarono a sangue freddo 8mila prigionieri bosgnacchi (bosniaci musulmani). Ma se avessero potuto ne avrebbero uccisi molti di più, visto che il loro intento dichiarato era la pulizia etnica.

Esiste però un numero minimo per “integrare la fattispecie del reato” di genocidio? Perché poco prima di Srebrenica si verificarono altri massacri come quello di Tuzla, con decine di vittime. Ma, anche se tutte “concorrevano al medesimo disegno criminoso” (l’eliminazione dei bosniaci croati e islamici), il tribunale internazionale per la ex Jugoslavia non comminò l’ergastolo ai comandanti serbi responsabili.

Vale anche il ragionamento inverso: i numeri dei morti possono essere più alti (12mila le vittime dell’assedio serbo a Sarajevo), ma poiché furono centellinati in quattro anni (1992-96) non sono diventati il “nuovo genocidio” che invece debuttò a Srebrenica.

E oggi? È plausibile accusare Israele di genocidio per Gaza? A parte qualche frase dei gentiluomini Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir (12% alle elezioni del 2022 per la loro estrema destra) nessuno in Israele dichiara una volontà genocidiaria verso i palestinesi. 

Non lo dicono però lo fanno egualmente? I 56mila morti denunciati da Hamas in due anni sono meno dei 65mila civili italiani bombardati dagli alleati nel biennio 1943-45: vittime di guerre tremende, non di uno sterminio preordinato. E infatti non ci sono state accuse di genocidio per le mattanze di Aleppo e Mosul lo scorso decennio. Né risultano esecuzioni a freddo di prigionieri palestinesi da parte israeliana, come accadde a Srebrenica.

Il paradosso è che lo slittamento semantico del genocidio iniziato trent’anni fa in Bosnia fu il risultato dell’applicazione del diritto umanitario. Ovvero della volontà, da parte di benemeriti difensori dei diritti umani come Bernard Kouchner o Emma Bonino, di sancire un “diritto-dovere d’intervento” negli affari interni di un Paese da parte della comunità internazionale, nei casi estremi di patente violazione del diritto alla vita. Di qui l’istituzione del Tribunale penale internazionale.

Mai avrebbero pensato, l’allora ministro francese e la commissaria Ue, che la loro interpretazione estensiva del genocidio avrebbe un giorno armato la propaganda proPal di attiviste come Rula Jebreal o Francesca Albanese.

Tuesday, July 01, 2025

Intervista sulla Storia dei verdi

INTERVISTA A MAURO SUTTORA SUL SUO LIBRO 'GREEN, STORIA DEGLI ECOLOGISTI' (ed. Neri Pozza, giugno 2025)

L'autore ripercorre l'evoluzione della coscienza ambientalista in Italia e all'estero, soffermandosi sui suoi risvolti politici e sociali

Neripozza.it/blog

Nel suo libro ripercorre la storia dell’ambientalismo dagli anni Sessanta a oggi: qual è stata la scintilla che ha davvero cambiato la mentalità delle persone nei confronti dell’ambiente, a livello culturale, valoriale e politico?

"In Italia le scintille sono state tante. Nel 1955 viene fondata Italia nostra e capiamo che bisogna conservare i centri storici, invece di sventrarli per costruire palazzi nuovi. Ma purtroppo la speculazione edilizia continua negli anni '60 e '70.

Nel 1966, dopo il successo di Celentano col Ragazzo della via Gluck, un giovane Fulco Pratesi apre a Roma la sezione italiana del Wwf. Le due vicende non sono correlate, ma danno l'idea dello spirito del tempo: conservazione dello spazio urbano e protezione degli uccelli migratori, con l'inaugurazione della prima oasi Wwf all'Argentario.

Nel 1970 i giovani pretori d'assalto Adriano Sansa (poi sindaco di Genova) e Gianfranco Amendola (poi eurodeputato verde) emettono i primi divieti di balneazione per le acque inquinate, dando il via all'installazione dei depuratori.

Nel 1972 il Club di Roma di Aurelio Peccei pubblica il rapporto del Mit sui Limiti dello sviluppo: in un pianeta finito le risorse non sono illimitate, quindi occorre fermare e ridurre la crescita della popolazione e dei nostri consumi.

Nel 1976 la fuga di diossina da una fabbrica di Seveso (Monza) ci apre gli occhi sull'inquinamento industriale. Subito dopo il partito radicale inizia la campagna contro le centrali nucleari, culminata nel referendum del 1987 che le vieta, e in quello del 2011, dopo il disastro di Fukushima, che ribadisce lo stop. Nel frattempo nascono le liste verdi, che nel 1989 ottengono il 6% alle europee".

Quanto sono intrecciate la crisi climatica e la crisi sociale, e quanto è importante sottolineare l’impatto della crisi climatica nella nostra vita quotidiana? E in merito a questo, a che punto siamo in Italia, secondo lei, nel processo di costruzione di una coscienza ecologica nelle persone?

"Fino agli anni '80 la sinistra chiudeva un occhio davanti all'inquinamento, temendo che regole troppo strette danneggiassero la produzione e quindi provocassero licenziamenti dei lavoratori. Gli ecologisti erano accusati di essere ricchi borghesi che avevano il tempo di occuparsi di parchi, giardini e animali, perché non dovevano preoccuparsi di portare a casa lo stipendio a fine mese. 

È la stessa polemica di oggi contro il Green deal, ma a parti invertite: ora è la destra ad accusare la sinistra di imporre limiti troppo severi alle emissioni, causando quindi licenziamenti nell'industria automobilistica.

Quanto alla coscienza ecologica nelle persone, mi pare ben sviluppata anche in Italia. Ormai la maggior parte della nostra elettricità proviene da fonti rinnovabili, buona parte del territorio è tutelata con parchi, e proprio un mese fa è stata approvata una nuova legge per la protezione degli animali.

Tuttavia, come diceva il nostro massimo filosofo dell'ecologia Alex Langer, scomparso 30 anni fa (luglio 1995), e al quale dedico un capitolo del libro, l'ambientalismo non può basarsi solo sui divieti: per diventare desiderabile deve scaturire dalla libera volontà di ciascuno di noi, che spontaneamente decidiamo di consumare di meno per ridurre l'impronta ecologica e aumentare la sostenibilità del nostro impatto ambientale. Altrimenti lo stato e l'Europa verranno visti come nemici cui è lecito disobbedire".

Negli ultimi anni hanno fatto molto discutere gli atti di disobbedienza civile e di attacco a luoghi artistici (dalla polvere di carbone nella fontana di Trevi alla vernice su monumenti ed edifici di rilievo, che lei stessa richiama nel libro) per richiamare l’attenzione sul problema del cambiamento climatico. Che significato hanno per lei queste azioni, e che conseguenze possono avere nel dibattito politico e sociale?

"Ormai è un capitolo chiuso, oltre a essere l'ultimo capitolo del libro. I movimenti ispirati da Greta Thunberg (Extinction rebellion, Ultima generazione, Fridays for future) hanno capito che queste azioni erano controproducenti. Soprattutto quelle che bloccavano il traffico nelle ore di punta impedendo alla gente di andare a lavorare. Quindi le hanno abbandonate. Sempre nell'àmbito della nonviolenza, però, continuano a praticare azioni dirette per obiettivi specifici. Per esempio Greenpeace contro l'Eni, accusata di eccessiva lentezza nella transizione dalle energie fossili a quelle pulite, o contro le fabbriche d'armi o i ristoranti di lusso.

Quanto a Greta, ha inspiegabilmente abbandonato la campagna per il clima da lei iniziata nel 2018. È diventata una pro-palestinese sfegatata, come racconto nel libro. Va bene che il riciclaggio è una buona pratica ecologica, ma nel suo caso mi sembra un po' sconcertante".

Thursday, June 05, 2025

Storia critica dell'ambientalismo. Dalla via Gluck a Greta Thunberg



di Mauro Suttora

Il pianeta sta male, ma chi se ne occupa sta decisamente meglio: da associazioni storiche a nuovi protagonisti, da grandi progetti a recenti successi, come ecologia e animalismo hanno cambiato le nostre vite. Mauro Suttora ci parla del suo ultimo libro

Huffingtonpost.it, 5 giugno 2025

Dov’è finita Greta Thunberg? La ragazzina svedese che nel 2018 scosse il mondo protestando contro il cambiamento climatico è sparita dalla scena ambientalista. A 22 anni si è riconvertita in proPal, quattro giorni fa è salpata da Catania in barca a vela verso Gaza con la Freedom flotilla, ma pochi se ne sono accorti. Anche se ha cambiato rotta agitatoria, emette sempre dichiarazioni apocalittiche. Tuttavia i suoi seguaci (soprannominati ‘gretini’ dagli avversari) sono diminuiti: nei Fridays for future sfilavano in milioni, oggi sono ridotti a migliaia.

Eppure il riscaldamento globale, benché offuscato da pandemia e guerre, continua a scaldare il dibattito politico del pianeta. Il Green deal europeo e le altre misure per la decarbonizzazione sono il principale bersaglio delle destre mondiali, quanto se non più di immigrazione e woke.

“Drill, baby, drill!”, è lo slogan di Donald Trump: forza, estraiamo petrolio e gas, vendiamo quello liquido all’Europa al posto della Russia, avanti con la vecchia energia fossile.

E dall’altra parte chi c’è? Che fine hanno fatto i verdi, dopo aver raggiunto il 20% in Francia e in Germania, aver sfiorato la presidenza Usa con Al Gore nel 2000 e in Finlandia un anno fa con Pekka Haavisto?

Gli ecologisti sono vivi e vegeti. E godono di ottima salute. Il Wwf International ha un bilancio di un miliardo di dollari all’anno, l’americano Sierra Club vanta tre milioni e mezzo di iscritti nonostante Trump – o forse grazie a lui. Da noi Italia Nostra festeggia il settantesimo compleanno, il Wwf va per i 60, Legambiente compie 45 anni. Greenpeace, sbarcata in Italia nel 1986, ora rivolge le sue azioni dirette nonviolente contro l’Eni, accusandolo di inerzia sulla transizione energetica. 

E accanto alle grandi associazioni sono nati i nuovi ‘climattivisti’ di Extinction rebellion e Ultima generazione. Che si mobilitano online come gli animalisti di Essere animali e Animal equality, autori di blitz e video che infiammano il dibattito. Per fortuna hanno smesso di bloccare raccordi anulari e danneggiare quadri, per evitare la nomea di ecovandali 

La scorsa settimana gli zoofili (Lipu, Lav, Enpa, Leidaa, anticaccia, pet-friendly) hanno festeggiato l’approvazione della nuova legge che protegge cani e gatti dai maltrattamenti.

Ecologia e animalismo sono le due gambe del movimento verde. Che negli anni 70 e 80 ne aveva una terza, l’antimilitarismo, evaporata dopo l’appoggio dei verdi tedeschi e italiani governativi agli interventi umanitari Onu e Nato in Bosnia (1995) e Kosovo (1999). Oggi i Grünen in Germania appoggiano l’aiuto militare all’Ucraina e il riarmo europeo. Mentre i verdi italiani, alleati con l’estrema sinistra in Avs e beneficiari dell’effetto Ilaria Salis che li ha issati al 6% alle europee 2024, rimangono pacifisti.

Queste vicende racconto nel libro 'Green, storia avventurosa degli ecologisti da Celentano a Greta' (ed. Neri Pozza), ricordando la prima canzone ambientalista dell’Adriano nazionale: Il ragazzo della via Gluck, eliminata a Sanremo 1966. Pochi mesi dopo Fulco Pratesi fondò il Wwf Italia. E da allora i verdi ci hanno cambiato la vita: molto secondo i sostenitori, troppo per i detrattori. Fatto sta che oggi tutto sembra dover diventare ‘sostenibile’, negli spot pubblicitari come nei proclami politici. Conviene quindi conoscere bene i protagonisti della lobby verde, le loro idee e metodi, i bilanci, le strategie. E anche qualche segreto: finanziamenti imbarazzanti, complicità col greenwashing di aziende dubbie.

Illustro filosofia e proposte dei pionieri: Alex Langer in Italia, Petra Kelly in Germania, Daniel Cohn-Bendit in Francia. Ammoniva Langer 30 anni fa: “L’ecologia deve diventare desiderabile, i comportamenti virtuosi non possono essere imposti dall’alto. La responsabilità ambientalista può affermarsi non perché un dittatore illuminato dice: ‘Devi bere poca acqua, usare poca elettricità, viaggiare meno in auto, mettiamo il carabiniere accanto ai funghi per controllare che tu non ne prenda troppi’, ma per libero convincimento. Una logica burocratica e repressiva difficilmente può convincere. Occorre una forte spinta etica in positivo”.

Un appello libertario valido tuttora, per difenderci da quei politici irresistibilmente attratti dall’eterna tentazione di “mettere le mutande al mondo”. Per compiacere Greta, com’è accaduto col Green deal del 2020, o per qualche altra ottima intenzione. Il tecnodirigismo diventa meno autoritario se è dipinto di verde? O quando provoca 20mila licenziamenti alla Volkswagen? Il dilemma oggi è tutto qui. 

Saturday, May 31, 2025

Mauro Suttora: "Un mondo ecologico è necessario"

Intervista a Gazzetta di Parma, 31 maggio 2025:
Da Celentano fino a Greta Thunberg, sono sessant’anni che il movimento verde anche in Italia ha una coscienza rispettosa dell’ambiente: ma un mondo ecologico è ancora possibile?
“È non solo possibile, ma necessario. Quando nacque Italia nostra nel 1955, quindi 70 anni fa, il concetto di ‘centro storico’ non esisteva.
Si costruiva all’impazzata demolendo preziosi quartieri antichi. Oggi nessuno lo farebbe. E dopo la nascita del Wwf nel 1966 si sono moltiplicati parchi e aree protette, che ora coprono il 21 per cento dell’Italia. Allora invece i parchi erano solo quattro: Gran Paradiso, Abruzzi, Circeo e Stelvio. Nel libro racconto le incredibili vicende delle prime aree protette Wwf, con l’impegno di Fulco Pratesi e del geniale marchese Incisa della Rocchetta”.
Tra fauna e flora, quali gli esemplari a rischio immediato? Quali perdite irrimediabili potrebbe subire il pianeta?
“Legambiente pubblica la lista delle biodiversità a rischio. La Lipu, Lega italiana protezione uccelli, avverte che sono più di 200 le specie in difficoltà. Mare vivo e Sea Sheperd lanciano l’allarme per la pesca troppo intensiva. La diminuzione delle api minaccia tutto l’equilibrio della flora, per le mancate impollinazioni. Gli orsi bruni marsicani sono ridotti a 60. Buone notizie invece per gli stambecchi e per le tartarughe Caretta Caretta, con molte associazioni ecologiste impegnate a proteggerne le nidificazioni sulle spiagge”.
Rispetto al resto dei Paesi europei l’Italia è diligente o poco attenta nella salvaguardia ambientale?
“Siamo nella media, anche se nelle regioni flagellate dalle mafie i cosiddetti ‘ecoreati’ rovinano l’ambiente. Basti pensare alla Terra dei fuochi nel casertano, con le discariche abusive. Nel libro pubblico l’elenco di tutti gli ‘ecomostri’ abbattuti sulle coste italiane, grazie alle pressioni ambientaliste”.
Le cordate politiche dei verdi che hanno dato la scalata a comuni, regioni e parlamento, spesso con risultati modesti, hanno ancora un peso reale o hanno perso visibilità e interesse?
“Le liste verdi hanno debuttato nel 1985, ma non sono mai riuscite a superare il 6% in Italia, mentre in Germania e Francia hanno raggiunto il 20. In Finlandia il candidato verde alle presidenziali un anno fa ha sfiorato la vittoria col 49%. Ora i verdi italiani sono confluiti in Avs (Alleanza verdi sinistra), però nel libro ricordo che erano nati con lo slogan ‘Nè a destra né a sinistra, ma davanti’. Curiosamente i grünen tedeschi, che erano antimilitaristi, oggi invece appoggiano l’aiuto militare all’Ucraina. Ma la frattura fra ecologisti e pacifisti risale al 1999, quando i verdi che erano al governo in Italia e Germania appoggiarono l’intervento umanitario Nato contro la Serbia di Milosevic, per proteggere i civili del Kosovo”.
Su quali personaggi politici nei vari Paesi europei oggi possiamo identificare la lotta ecologista per un mondo che ha bisogno di ripristini urgenti?
“È proprio questo il problema degli ecologisti oggi. Tramontata la stella di Greta Thunberg, la ragazza svedese che nel 2018 aveva infiammato il mondo ma che ora si batte soprattutto per i palestinesi e contro Israele, non ci sono più personaggi di rilievo. Mentre nel libro dedico tre capitoli a leader carismatici del passato che hanno popolarizzato l’ecologia: Alex Langer in Italia, Petra Kelly in Germania, Daniel Cohn-Bendit in Francia. Langer, in particolare, è stato un vero e proprio profeta. Diceva che i comportamenti ecologisti non possono essere imposti dall’alto, ma devono nascere da una nostra consapevolezza spontanea che ci faccia rispettare l’ambiente. L’ho conosciuto, lui per primo non aveva l’auto, si spostava col non inquinante treno. Purtroppo si tolse la vita nel 1995, disperato perché di fronte agli attacchi serbi contro Sarajevo la nonviolenza che predicava si rivelò impotente, e quindi si rese conto che un intervento armato dell’Onu era inevitabile per proteggere i civili”.
Con la situazione economica in peggioramento si parla già di rinviare certe iniziative della green economy per evitare dannose ripercussioni. È cominciata la marcia indietro?
“Sì, il Green deal adottato dall’Europa nel 2020 è stato una fuga in avanti con l’imposizione delle auto elettriche entro il 2030. Non parliamo degli Usa, dove Trump spinge sul petrolio e sull’export di gas liquido in Europa. Ma è solo una questione di velocità: la transizione verde verso le energie rinnovabili è inevitabile, perché conveniente: sole, vento e idroelettrici sono gratis. Nel libro affronto lo spinoso problema del ‘greenwashing’, cioè di industrie inquinanti che cercano di darsi una ripittata verde fingendo di essere ‘sostenibili’ solo perché danno un po’ di soldi per piantare qualche albero. Lo ha fatto la società farmaceutica Roche, responsabile del disastro di Seveso con la diossina nel 1976, piantumando un’area verde nella vicina Monza”.
Le associazioni (sono tante) per la salvaguardia della natura tipo Wwf politicamente come sono schierate? A sinistra, a destra o al centro?
“L’unica schierata a sinistra è Legambiente, nata nel 1980 nell’area Pci. Le altre sono neutrali, specialmente Italia nostra, Lipu e gli animalisti. Fra questi c’è l’associazione di Vittoria Brambilla, deputata di Forza Italia. La più combattiva è Greenpeace, approdata in Italia negli anni ’80: privilegia le azioni dirette nonviolente, come i nuovi climattivisti di Extinction rebellion e Ultima generazione. I quali per fortuna ora hanno abbandonato i danneggiamenti e i blocchi stradali, per i quali erano stati accusati di ecovandalismo. Una delle loro ultime azioni si è svolta a Brescia il 15 gennaio di quest’anno, quando hanno bloccato i camion all’entrata dell’industria bellica Breda del gruppo Leonardo. Greenpeace è l’unica grande organizzazione che non accetta soldi né dallo stato né dalle aziende, e quindi non subisce condizionamenti. Il suo principale avversario è l’Eni, accusato di non impegnarsi abbastanza sulle energie rinnovabili”.



Friday, May 23, 2025

Il pretesto cinese. Gli intrecci con Pechino che Trump usa per torchiare Harvard


I legami dell'ateneo con il colosso cinese Xpcc, accusato di sfruttare la minoranza uigura, 2,6 milioni di dipendenti che lavorano a programmi di ricerca militare, alcuni di essi a Boston con borse di studio pagate dalla stessa azienda

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 23 maggio 2025

Perché Donald Trump minaccia di togliere all'università di Harvard il permesso di iscrivere studenti stranieri (6.800 su 25mila, più di un quarto)?

Fra le varie accuse spicca quella di avere coltivato legami con una grande impresa  paramilitare cinese: la Xpcc (Xinjiang Production and Construction Corps). Si tratta di un gigante economico con 2,6 milioni di dipendenti che opera nell'immensa regione della Cina orientale, lo Xinjiang, patria degli uiguri musulmani.

Sotto lo stretto controllo del partito comunista, la Xpcc è una specie di stato nello stato che fattura 50 miliardi di euro, il 20% del pil in quell'instabile territorio di frontiera: fabbriche, fattorie, coltivazioni, ma anche tribunali, prigioni, polizia. È accusata di deportare gli uiguri in campi di concentramento, lavoro e rieducazione politica, con violazioni dei diritti umani e addirittura pratiche genocidiarie. Per questo è stata sanzionata da Usa, Canada ed Europa.

Ciononostante l'università di Harvard si avvale di fondi del dipartimento della Difesa Usa per finanziare progetti di ricerca militare cui hanno accesso specializzandi cinesi arrivati a Boston con borse di studio della Xpcc.

Un programma di Harvard finito nel mirino della Commissione d'inchiesta della Camera Usa sul Partito comunista cinese, guidata dal repubblicano John Moolenaar, è la China Health Partnership. Ai suoi insegnamenti di politica sanitaria hanno partecipato dirigenti della Xpcc.

"Temiamo che le risorse e i servizi erogati attraverso questi corsi possano violare le leggi statunitensi, e aiutare la Xpcc a continuare la repressione degli uiguri e di altre minoranze etniche in Cina", ha scritto Moolenaar ad Harvard, spalleggiato da Tim Walberg, pure lui deputato repubblicano del Michigan, presidente della commissione Istruzione e lavoro, e dalla trumpiana di ferro newyorkese Elise Stefanik. I tre richiedono i documenti interni che organizzano queste partnership con possibili "avversari stranieri". 

Un'altra collaborazione controversa dell'ateneo del Massachusetts è quella con la Tsinghua University cinese sui delicatissimi 'zero-index materials' per l'intelligenza artificiale grazie a fondi federali militari Darpa (Defense advanced research projects agency). 

Ci sono poi gli scienziati di Harvard che lavorano con la Zhejiang University sulla ricerca dei polimeri, con preziose applicazioni per l'industria aeronautica e quindi foraggiata dall'Air Force Usa, così come un programma con la Huazhong University sulle 'leghe a memoria di forma', altro campo d'avanguardia. 

I tre politici repubblicani intimano l'ovvio ad Harvard: "I vostri scienziati non devono contribuire allo sviluppo di capacità militari da parte di un potenziale avversario".

Il problema è che sono tanti i campi scientifici al confine col pericoloso 'dual use' (sia civile che militare): microelettronica, meccanica quantistica, intelligenza artificiale. Per non parlare della collaborazione Harvard-Cina sui trapianti d'organo, dati i crescenti sospetti internazionali su provenienza e metodi d'espianto degli organi da parte di Pechino.

Naturalmente sono dilemmi che riguardano non solo Harvard, ma ogni maggiore università statunitense. Trump ha preso di mira quelle più di sinistra, come anche la Columbia di New York, ma anche la conservatrice Stanford in California soffre il taglio dei fondi federali sulla sanità. 

Ora Harvard ha tre giorni di tempo per fornire al governo e al Congresso i documenti richiesti. È difficile che l'università possa rinunciare a migliaia di rette studentesche straniere dal valore astronomico: 83mila dollari annui ciascuna, quasi sempre integrate con borse di studio. 

Ma poiché l'ammissione a un'università Usa fornisce un diritto pressoché automatico al prezioso visto per motivi di studio, è inevitabile che il governo voglia esercitare un qualche scrutinio su questo terreno di sua esclusiva competenza. Anche perché la Cina fra migliaia di studenti e scienziati può sempre infilare qualche insospettabile spia. Non si arriverà a espulsioni di massa di studenti stranieri dagli Stati Uniti: ci sarà un accordo con Harvard, oppure ci penseranno i giudici a bloccarle. Ma i 277mila studenti cinesi negli Usa verranno sicuramente passati al setaccio. Il Ministero degli Esteri di Pechino ha condannato la decisione dell'amministrazione Trump, definendola una mossa di "politicizzazione dell'istruzione". 

Wednesday, April 23, 2025

Milan non l'è un gran Milan. La diocesi più grande d'Europa è assente al conclave

È la prima volta che succede da un secolo e mezzo. L'arcivescovo Mario Delpini, 73 anni, da otto sulla cattedra di Sant'Ambrogio, non è mai stato nominato cardinale da Bergoglio. Pare che il motivo sia la mancata sorveglianza sul caso di un prete accusato di pedofilia. Un'assenza clamorosa

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 23 aprile 2025 

Milano, la diocesi più grande d'Europa, non parteciperà all'elezione del Papa. È la prima volta che succede, da un secolo e mezzo. Il suo arcivescovo Mario Delpini, 73 anni, da otto sulla cattedra di Sant'Ambrogio, non è mai stato nominato cardinale da papa Francesco. Pare che la ragione sia la mancata sorveglianza in passato sul caso di un prete accusato di pedofilia. Ma i cinque milioni di fedeli battezzati della diocesi ambrosiana (su 5,6 milioni di abitanti) sono amareggiati. E a loro si associano quelli di Venezia, il cui patriarca è anch'esso privo di porpora cardinalizia. 

Sarà un'assenza clamorosa, perché tutti i papi italiani del '900, tranne il romano Eugenio Pacelli, sono venuti da Milano e Venezia: Albino Luciani (Giovanni Paolo I), Giovanni Battista Montini (Paolo VI), Angelo Roncalli (Giovanni XXIII), Achille Ratti (Pio XI), Giuseppe Sarto (Pio X). E Carlo Maria Martini lo sarebbe diventato se non si fosse ammalato.

La diocesi di Milano si estende ben oltre i confini della sua provincia: copre mezza Lombardia, da Varese a Lecco, da Monza a Treviglio (Bergamo). Anche in Svizzera, nel canton Ticino, molte zone seguono tuttora il rito ambrosiano. E la ferita si è acuita quando nel 2022 è diventato cardinale Oscar Cantoni, vescovo di Como, sede secondaria. Quasi una beffa. 

Milano è la quarta diocesi più grande del mondo, superata soltanto da Kinshasa (Congo) con sette milioni di battezzati su dodici milioni di abitanti, Guadalajara (Messico) con sei milioni e San Paolo (Brasile), 5,1 milioni. Però i loro arcivescovi sono tutti cardinali. L'ultimo milanese non cardinale fu Luigi Nazari di Calabiana (1867-93), ma solo perché era troppo legato ai Savoia (addirittura senatore del regno di Sardegna), in un'epoca segnata dal conflitto stato-chiesa dopo la breccia di Porta Pia. 

Neanche Parigi parteciperà al conclave, il suo arcivescovo non è cardinale. Curioso invece che lo sia il vescovo della piccola Ajaccio in Corsica, meta dell'ultimo viaggio di Bergoglio. E in Italia vantano un cardinale Agrigento e Siena, mentre Palermo ne è priva.

Anche all'estero il papato di Francesco ci lascia delle incongruenze. In Mongolia i 1.400 cattolici (lo 0,04% dei 3,3 milioni di abitanti) sono così pochi che non hanno neppure una diocesi: la loro è una prefettura apostolica. Ciononostante, nel 2022 è stato inopinatamente creato cardinale il simpatico e aitante ex boy scout cuneese Giorgio Marengo, allora 48enne, prefetto apostolico nella capitale Ulan Bator. Era il cardinale più giovane del mondo fino all'ancor più singolare nomina durante l'ultimo concistoro nello scorso dicembre di un ucraino 45enne, Mykola Byčok, che però non vive nel suo Paese bensì in Australia, a guidare i 36mila cattolici ucraini emigrati lì. 

In Marocco il colonialismo non è finito: i 22mila cattolici (su 33 milioni di abitanti) possono contare sul cardinale arcivescovo di Rabat Cristobal Lopez Romero, spagnolo. Francesco ha incardinato anche il vescovo di Tonga (12mila cattolici su centomila abitanti, meno di una qualsiasi parrocchia italiana) e quelli di Papua Nuova Guinea o Timor Est. Invece interi stati come Venezuela o Bolivia, con decine di milioni di cattolici, non hanno neanche un cardinale elettore. 

Bergoglio aveva un debole per l'Asia. Possono contare su un cardinale la Birmania, mezzo milione di fedeli su 50 milioni di abitanti (l'uno per cento) o la Thailandia, con 300mila su 60 milioni. Da quattro mesi c'è perfino un cardinale, non iraniano, per i 62mila cattolici persiani: un frate cappuccino belga. L'Iran ha 92 milioni di abitanti, quindi i cattolici rappresentano lo 0,6% della popolazione. 

Certo, il collegio cardinalizio non funziona come un parlamento mondiale della Chiesa. Oltre ai criteri di rappresentanza il papa tiene conto di altri fattori: valorizzazione delle periferie, singoli vescovi premiati per la loro opera pastorale, per il loro apporto intellettuale o di devozione. D'altra parte, succede così anche nelle grandi democrazie laiche: negli Usa il Wyoming (mezzo milione di abitanti) ha due senatori come California (40 milioni), Texas (30) o New York (20). 

Speriamo che lo Spirito Santo illumini i porporati nella cappella Sistina, spingendoli a eleggere un Santo Padre che torni a essere paterno e comprensivo anche per la negletta Milano. 

Tuesday, April 15, 2025

La Svizzera a modo suo. Dibatte su come trattare con Trump, poi mette sul tavolo 162 miliardi

Qui le aziende private non chiedono sovvenzioni, come in Italia, ma danno al governo i fondi per evitare i dazi. Novartis da sola stanzia 23 miliardi, Roche altri 10. E poi gli altri giganti: Nestlé, Rolex, Abb, Bühler, Stadler

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 15 aprile 2025

"Niente trattative con i regimi neofascisti. Non dobbiamo assolutamente cedere ai ricatti di Trump". Parola di Jacqueline Badran, la politica più votata della Svizzera: 150mila preferenze alle ultime elezioni del 2023. Il suo partito socialista con il 18% è il secondo del parlamento elvetico, dietro l'Unione democratica di centro col 28%. Karin Keller-Sutter, presidente federale svizzera, liberale (14% dei voti), ha invece telefonato a Donald Trump, spedendo a Washington Helene Budliger Artieda, direttrice del potente Seco, il segretariato dell'Economia di Berna. Sarà lei la plenipotenziaria che negozierà sui dazi, fissati arbitrariamente dal presidente Usa al 31%, contro il 20% per l'Unione europea.

Chi avrà la meglio, fra queste due posizioni apparentemente inconciliabili? Quella innaffiata dai soldi, naturalmente. Cioè dai 150 miliardi di franchi svizzeri (circa 162 miliardi di euro) che la signora Budliger prometterà di investire negli Usa durante i prossimi quattro anni. Perché i socialisti possono inveire finché vogliono contro il "neofascista Trump". Ma al governo ci sono anche loro, con due ministri su sette: formula fissa dal 1959, due ciascuno a Udc e liberali, più uno a un partitino di centro. E questa grossissima coalizione non verrà scalfita neanche dalle mattane di Washington. Quindi la signora socialista Badran con il suo estremismo verbale potrà fare il pieno dei voti antitrumpiani alle prossime elezioni, ma nulla di più.

Anche perché i 150 miliardi da offrire a Trump non sono soldi pubblici: provengono dalle multinazionali svizzere che prevedono di investirli in fabbriche e impianti negli Stati Uniti. Contrariamente all'Italia, dove gli imprenditori minacciati dai dazi si sono affrettati a chiedere allo stato 25 miliardi di provvidenze pubbliche, in Svizzera sono le aziende private a dare al governo i fondi per evitarli.

Novartis da sola stanzia 23 miliardi, la concorrente farmaceutica Roche altri dieci. E poi gli altri giganti: Nestlé, Rolex, Abb, Bühler, Stadler che produrrà treni negli Usa. In totale, la Camera di commercio svizzero-americana stima che verranno superati agilmente i cento miliardi, fino a sfiorare i 150: "Sono investimenti che in buona parte avremmo effettuato comunque".  C'è un importante risvolto in questo pacchetto elvetico: comprende anche l'istruzione professionale e l'addestramento per i loro nuovi dipendenti statunitensi. Proprio quello che vogliono i fautori della reindustrializzazione trumpiana. 

La ciliegina sulla torta, infine, è la promessa di acquistare altri aerei da guerra F-35 e sistemi di difesa Patriot made in Usa. In barba, ancora una volta, alle proteste della socialista Badran: "Non compriamo più armamenti dagli Usa, cancelliamo gli F-35. Se dobbiamo spendere miliardi in nuove armi, facciamolo con i nostri partner europei". Difficile che succeda. Perché così recita l'antico motto della politica estera svizzera: "Riparati e cerca di cavartela". Se funzionò con Hitler, andrà bene anche con Trump. 

Saturday, March 08, 2025

Il giulivo Pd per il no di Salvini al rearm di Meloni

"Bravo Matteo, ora ascoltaci anche su sanità, salario minimo e trasporti". L'imbarazzante post sulla pagina Instagram dem

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 8 marzo 2025

"Bravo Matteo, ora ascoltaci anche su sanità, salario minimo e trasporti". Il Pd è felice per il no di Salvini alla politica estera di Giorgia Meloni e così, come si dice in politica, cerca di infilarsi nelle contraddizioni della maggioranza per farla esplodere. O almeno per incrinarla, logorarla, metterla in difficoltà.

"No alle armi!". Ecco il nuovo slogan per la seconda metà del secondo decennio del primo secolo del terzo millennio. Una svolta epocale, che affratellerà Pd (perlomeno quello di un post ufficiale su Instagram in un pomeriggio di sabato, a Milano è ancora carnevale) e quel che resta della Lega contro i Fratelli d'Italia, in nome del pacifismo.

No a quali armi? Non sottilizziamo. Il messaggio dev'essere chiaro e semplice. Quindi no agli 800 miliardi di Ursula von der Leyen, perché solo su questo Elly Schlein e Matteo vanno d'accordo. 

Il Pd però dice sì all'integrazione delle forze armate Ue con i suoi 81 differenti stati maggiori (27 Paesi con tre armi ciascuno), mentre Salvini su questo è sovranista come Giorgia. Così come detesta Emmanuel Macron e la sua offerta di estendere al continente l'ombrello nucleare francese.

Sull'Ucraina, poi, finora c'è stata sempre solidarietà nazionale. Ma l'ha rotta Giuseppe Conte, e figurarsi se Salvini gli lascia i voti pacifisti.

Insomma, se la spregiudicatezza può essere una virtù in politica, l'occhiolino del Pd a Matteo è comprensibile. Magari fra un po' cancelleranno il post dicendo che era uno scherzo goliardico. In fondo abbiamo già sperimentato due anni di governo democratico-grillino, e allora perché non un trio Elly-Matteo-Giuseppe in nome della pace?

Anche perché ormai Meloni non può più essere accusata di essere atlantista, aggettivo evaporato dopo la svolta trumpiana. E se Trump si allea con Putin, potrà il Pd fare lo stesso con la Lega?

Ieri è mancato Pasquale Laurito, lo storico estensore della Velina rossa. Ai suoi tempi il severo Pci avrebbe liquidato la fantasiosa apertura a Salvini come "avventurismo".

Temiamo che per gli odierni dirigenti Pd questa parola significhi solo "turismo di avventura": rispondere con battute alle battute d'avanspettacolo di Giorgia.

Wednesday, March 05, 2025

I vescovi europei duri contro Putin e Trump. Oltre il pacifismo ecumenico di Francesco

La Commissione delle conferenze episcopali della Comunità europea pubblica un documento dai toni inusuali, contro l'aggressione del Cremlino e le narrazioni della Casa Bianca: "Respingiamo fermamente qualsiasi tentativo di distorcere la realtà"

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 5 marzo 2025  

L'invasione dell'Ucraina da parte della Russia è "ingiustificabile". "Siamo grati alla Ue che ha fornito un sostegno al popolo ucraino": non solo umanitario, politico ed economico, ma anche "militare". Perché l'Ucraina lotta "per il destino dell'intero continente europeo e di un mondo libero e democratico". Ieri i vescovi Ue, riuniti nella Comece (Commissione delle conferenze episcopali della Comunità europea), hanno pubblicato un documento dai toni inusuali, lontani dal pacifismo ecumenico di papa Francesco. 

"Il popolo ucraino soffre da più di tre anni", scrivono i prelati della Commissione, alla cui presidenza siede dal 2023 il vescovo di Latina monsignor Mariano Crociata (nomen omen?), "e gli siamo vicini". Essi affermano di pregare per morti e feriti di entrambi gli schieramenti, e ci mancherebbe. Ma anche per "chi continua a difendere la propria patria", ovvero soltanto gli ucraini. 

I vescovi europei picchiano duro su Vladimir Putin: "L'invasione dell'Ucraina da parte della Russia è una palese violazione del diritto internazionale". Auspicano che la Corte penale internazionale prosegua nel suo procedimento contro il presidente russo: "L'uso della forza per alterare i confini e gli atti atroci commessi contro i civili richiedono una ricerca di giustizia e responsabilità". E alla Russia toccherà pagare: "La comunità internazionale deve assistere l'Ucraina nella ricostruzione delle infrastrutture distrutte. La Russia, l'aggressore, deve partecipare adeguatamente a questo sforzo".

Ce n'è anche per Donald Trump: "Una pace integrale, giusta e duratura può essere raggiunta solo attraverso negoziati. Qualsiasi sforzo di dialogo deve essere sostenuto da una forte solidarietà transatlantica e deve coinvolgere la vittima dell'aggressione: l'Ucraina. Respingiamo fermamente qualsiasi tentativo di distorcere la realtà di tale aggressione".

L'imbarazzo in Vaticano per questa dura presa di posizione dei vescovi europei è palpabile. Il sito ufficiale Vatican news l'ha pubblicata solo in inglese, francese e tedesco. I canali italiano e spagnolo l'hanno confinata in poche righe all'interno di un altro articolo. 

Saturday, March 01, 2025

Hácha, chi era costui? Zelensky ricorda il presidente ceco maltrattato da Hitler



Una scena come quella della Casa Bianca non si era mai vista, e non la si raccontava dal 1939. Perché, ogni volta, non preannuncia niente di buono. Piccolo excursus storico, dal führer a Trump

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 1 marzo 2025

All'una della notte fra il 14 e 15 marzo 1939 il presidente della Cecoslovacchia, Emil Hácha, viene ricevuto da Adolf Hitler nel palazzo della Cancelleria di Berlino. Cinque mesi prima il suo Paese è stato amputato del 15% del territorio (come oggi l’Ucraina): i Sudeti finiscono alla Germania, in base agli accordi di Monaco. Che però non placano l’ingordigia nazista. Il führer fa aspettare Hácha per ore prima di incontrarlo. Poi, entrato nella sala con il ministro degli Esteri, Joachim von Ribbentrop, intima ad Hácha: “Firmi questo foglio per chiedere la protezione del Reich”. Hácha rifiuta (come ieri Volodymyr Zelensky con Donald Trump sulla cessione delle terre rare e le garanzie di sicurezza): “Non posso, devo almeno consultare i miei ministri”. “Non è questo il momento di trattare, ma di prender nota delle irrevocabili decisioni del popolo tedesco!”, gli risponde Hitler. Che firma e se ne va… 

Ribbentrop rivela ad Hácha che quattro ore dopo, alle sei del mattino, l’esercito tedesco invaderà quel che resta della Cecoslovacchia. Al 66enne presidente boemo viene un infarto. Dopo qualche iniezione si riprende, gli viene permesso di telefonare a Praga svegliando qualche suo ministro. Tiene duro fino alle 4 del mattino. Poi capitola. Anche il suo predecessore Edvard Beneš era stato umiliato a Monaco nel settembre ’38: neppure ammesso alle trattative fra i quattro Grandi (proprio come oggi Zelensky).

La rottura di ieri alla Casa Bianca è una primizia della storia mondiale. Mai era successo che uno scontro fra due capi di Stato venisse trasmesso in diretta mondovisione. Finora i vertici internazionali, anche i più burrascosi, erano sempre stati protetti dalla discrezione diplomatica. Quando si litiga lo si fa a porte chiuse, e nel successivo comunicato si scrive che è avvenuto “un franco scambio di vedute”.

Leggendari sono rimasti gli scatti degli statisti più irascibili, come il generale Charles De Gaulle. Hitler e Stalin invece erano gelidi. Il führer perse le staffe solo con l’ammiraglio ungherese Miklós Horthy e con il cancelliere austriaco Engelbert Dolfuss, che poi fece assassinare. Il 5 gennaio 1939 Hitler invita a Berchtesgaden il ministro degli Esteri polacco Jozef Beck con la moglie. Mentre bevono un tè gli intima di cedere Danzica alla Germania. Beck è riluttante. Sappiamo come finì: otto mesi dopo Hitler e Stalin si spartiscono la Polonia. 

Dobbiamo al Kgb la trascrizione della drammatica telefonata di un’ora e venti minuti fra il sovietico Leonid Breznev e il cecoslovacco Alexander Dubček del 13 agosto 1968: “Caro Sasha, devi far smettere gli attacchi anticomunisti dei giornali di Praga”. “Stiamo facendo il possibile”. “Ci avete ingannati, avete sabotato gli accordi”. Il 20 agosto i tank, questa volta dell’Armata rossa, invadono di nuovo la Cecoslovacchia trent’anni dopo i nazisti. 

Lo scontro recente più violento fra occidentali è quello dell'estate 2015 del premier greco Alexis Tsipras contro Angela Merkel e Mark Rutte durante il vertice Ue che costringe Atene a cedere sul proprio debito. Urla, a notte fonda Tsipras abbandona la sala. Poi rientra e all’alba arriva la firma. 

E gli italiani? Notevole il dissidio fra Bettino Craxi e Maggie Thatcher sempre in un summit Ue, a Milano nel 1985. Brutte conseguenze per il presidente Antonio Segni, colpito da ictus il 7 agosto 1964 durante un’accesa discussione col premier Aldo Moro e Giuseppe Saragat (era l’estate del “tintinnar di sciabole”, con pericoli di golpe veri o presunti).

Per il resto, si scivola nella sceneggiata. Come quella dello scontro fra Beppe Grillo e Pier Luigi Bersani a un tavolo in diretta social nel 2013, o ddel “Kapò”, dieci anni prima, lanciato da Silvio Berlusconi al tedesco Martin Schulz nell’Europarlamento. La più memorabile resta il “Che fai, mi cacci?” di Gianfranco Fini a Berlusconi nel 2010. Ieri Zelensky è stato cacciato veramente dalla Casa Bianca trumpiana. Ma questa volta il video dopo dieci minuti era su tutti i cellulari del pianeta. 

Thursday, February 27, 2025

Un würstel va di traverso a Radio radicale

Prima censura nell'emittente libertaria

24 febbraio 2025
Tu quoque, Roberta! Questa mattina Roberta Jannuzzi, la magnifica rassegnista stampa di Radio radicale, ha commesso peccato mortale. Ha detto che non avrebbe detto il titolo principale del quotidiano Libero, perché non vuole scendere al livello dei tabloid.
Cosi, spinto dalla curiosità sono corso in edicola a comprarlo. Delusione: sulla prima pagina del giornale diretto da Mario Sechi campeggia la scritta 'S'è bruciato il würstel', riferito alla 'caduta di Berlino' (nell'occhiello) e al voto tedesco.
Speravo in qualcosa di molto più pruriginoso, un altro accenno alla patata come ai tempi di Virginia Raggi, oltretutto i tuberi sono tipici della Germania. Oppure un urlo politicamente scorrettissimo degno di Daniele Capezzone, già segretario del partito della Jannuzzi e oggi direttore editoriale di Libero. Invece niente. Solo una salsiccia, che dai tempi di Benito Jacovitti non scandalizza più nessuno.
Avrei assolto il peccato di omissione di Roberta, la rassegnista più brava d'Italia, se fosse andato in onda su qualsiasi altra radio o tv. Ma non sull'emittente radicale. Che si vanta a ragione di essere "la voce di tutti", libertaria, sia provocatoria che ecumenica.
Marco Pannella, il suo fondatore, Massimo Bordin, grande direttore e rassegnista, e anche Lino Jannuzzi (nessuna parentela), altro direttore storico, non solo avrebbero dato spazio al würstel, ma ci avrebbero imbastito su un bel dibattito. Per puro spirito di contraddizione.
Non c'è bisogno di scomodare Karl Popper e la necessità, per un liberale, di sottoporre sempre a verifica le proprie opinioni, arrivando alla loro 'falsificazione' ("e se fosse vero il contrario?"). Basta essere un po' rompiballe o possedere curiosità intellettuale.
"Nel 1946, sedicenne, al liceo compravo due copie del giornale Risorgimento liberale", raccontava Pannella, "una per me e una per suscitare dibattito fra i compagni di classe", molto più a sinistra di lui.
Uno dei miei massimi piaceri di pannellologo (sì, ho all'attivo tre biografie non autorizzate su Marco, una vera mania) era scrivere articoli che punzecchiavano i radicali, per poi ascoltare la mattina dopo Bordin insultarmi sarcasticamente in rassegna stampa, e a volte incassare pure gli improperi di Pannella che non resisteva alle critiche e si collegava in diretta.
Insomma, cara Roberta, non ti ho mai incontrato né parlato, ma la tua voce soffice e precisa accompagna da anni i miei risvegli fino a ingelosire mia moglie, nonostante l'auricolare per non disturbarla o forse proprio per questo.
Quindi per favore non costringermi a comprare giornali solo perché colpiti dalle tue dolci e insensate censure. E poi cos'hai contro i tabloid? Sono quelli con i titoli più divertenti: quando lavoravo a New York leggevo sempre il popolare, volgare e irridente New York Post prima del sussiegoso Times di stoca' per farmi una bella risata.
Gli stessi titoli icastici di Libero, d'altronde, li verga da anni il Manifesto, magari più sofisticati ma sempre liberatori. Perciò coraggio: non temere la diversità, la destra e i würstel.