Wednesday, September 10, 2025

Sabaudi vs neoborbonici. La grottesca disfida monarchica sul Ponte sullo Stretto

A chi propone di intitolare a Giuseppe Garibaldi l'opera più annunciata della storia italica, replicano indignati i neoborbonici che propongono che sia piuttosto "delle due Sicilie"

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 10 settembre 2025

I monarchici sabaudi propongono con largo anticipo di dedicare il ponte sullo Stretto a Giuseppe Garibaldi. I neoborbonici, altrettanto monarchici, si dichiarano fieramente contrari: "Meglio chiamarlo ponte delle Due Sicilie, Garibaldi era un invasore colonialista". Ognuno ha le guerre civili che si merita. Almeno le nostre sono nonviolente, senza battaglioni Azov, flottiglie globali e Smotrich. Ma i paroloni volano lo stesso

Esaminiamo allora le cospicue forze in campo. La garibaldina Umi (Unione monarchica italiana) vanta 70mila iscritti. Però il suo presidente, l'avvocato (napoletano!) Alessandro Sacchi, ha racimolato solo 2.677 preferenze alle ultime Europee nella circoscrizione sud: maglia nera di Forza Italia, che invece ha regalato 144mila voti all'ex monarchico Antonio Tajani. 

I neoborbonici sono un variegato mondo di buontemponi, cresciuti online nell'ultimo ventennio assieme a complottisti e grillini. Che qualcosa non quadrasse nel racconto fiabesco del Risorgimento propinatoci dai sussidiari delle elementari ce ne accorgemmo appena sfogliammo le pagine di Gaetano Salvemini, Piero Gobetti o Antonio Gramsci. Poi sono arrivate le pregevoli opere di Gigi Di Fiore e Pino Aprile (padre di Marianna). Il problema, come sempre, sono i seguaci. 

I neoborbonici, a discuterci su Facebook, si rivelano spesso gran pezzi di reazionari. Letteralmente: nati in reazione alla Lega Nord degli anni '80 e '90, quella della secessione. Ma vandeani anche contro due secoli di storia. Basta ricordar loro le gloriose vicende della Repubblica napoletana di Eleonora de Fonseca Pimentel, impiccata nel 1799. E soprattutto il 1848: rivoluzione europea nata a Palermo, mesi prima che a Milano (le Cinque Giornate), Roma e Venezia. I meridionali dovrebbero semmai andare orgogliosi di questa loro primazia patriottica continentale.

Poi c'è l'argomento cardine: ferrovia Napoli-Portici, prima in Italia. Vero, battuta di misura la Milano-Monza. Peccato che i Borboni si siano fermati lì. Nel 1861, all'Unità d'Italia, i treni del Nord erano cinquanta volte più estesi di quelli del Sud. E chi vanta qualche altro merito per il Regno delle Due Sicilie può utilmente visitare le masserie pugliesi, dove i servi della gleba sopravvivevano sottoterra (però lì faceva più fresco, brontolano i neoborbon). 

E Garibaldi? Lui è uscito indenne dal revisionismo antirisorgimentale. Tutti ammettono che è l'eroe più grande della storia d'Italia. Se non altro perché combatteva in prima fila, contrariamente a quasi tutti i nostri generali. E allora, merita l'Eroe dei due mondi la titolazione del Ponte sullo Stretto? Forse no. Per un piccolo particolare: non lo ha mai attraversato. Geniale come sempre, per evitare le navi di Franceschiello nell'agosto 1860 sbarcò in Calabria più a sud, partendo da Giardini Naxos (Messina) per approdare a Melito di Porto Salvo. E issando una bandiera degli Stati Uniti per far fessi i borbonici (dove mai l'avesse trovata, è ulteriore materia per cospirazionisti: poteri forti di Wall Street?). 

Il quesito fondamentale, infine. Chi sta a destra e chi a sinistra, in questa buffa disputa sul Ponte che non c'è? Il Regno delle Due Sicilie (1815-1861) fu una monarchia assoluta, e soprattutto una fregatura per Palermo rispetto alla capitale Napoli. Quindi, da quella parte, nulla di progressista.  

E men che meno fra i monarchici dell'Umi, che si appropriano di Garibaldi con gli stessi diritti del Pci nel 1948: pochi. Perché si sono sempre opposti alla repubblica antifascista, fino ad apparentarsi con i neofascisti del Msi. E le roccaforti dei nostalgici sabaudi erano non Torino e il Piemonte, ma Napoli e Catania. Per il grande scorno dei loro cugini neoborbonici. 

Thursday, September 04, 2025

Recensione Green di Archiviostorico.info

Mauro Suttora

Green

Da Celentano a Greta, storia avventurosa degli ecologisti

Neri Pozza, pagg.256, € 20

 https://www.archiviostorico.info/libri-e-riviste/10802-green 

Con "Green" Mauro Suttora compie un tentativo riuscito di articolare una narrazione storica complessiva del movimento ambientalista con particolare riferimento all'evoluzione italiana, pur in costante dialogo con il contesto internazionale. Giornalista di lungo corso con esperienza diretta sui principali fronti geopolitici e ambientali dell'ultimo quarantennio, Suttora adotta una prospettiva dichiaratamente "popolare", che tuttavia non pregiudica la qualità documentaria dell'opera, né la sua coerenza analitica. Il volume si propone come una sintesi storica accessibile ma metodologicamente sorvegliata, capace di restituire la complessità di un movimento eterogeneo, mobile e attraversato da profonde trasformazioni culturali e politiche.

  Il racconto si apre nel 1966, con il riferimento simbolico al brano "Il ragazzo della via Gluck", interpretato da Adriano Celentano al Festival di Sanremo: una scelta che, al di là del valore aneddotico, segna l'ingresso della sensibilità ecologica nella cultura di massa italiana. Pochi mesi più tardi, la fondazione della sezione italiana del WWF a opera di Fulco Pratesi costituirà un punto di svolta più formalizzato nella nascita di un ambientalismo organizzato. Già nel 1955, tuttavia, l'associazione Italia Nostra si era posta l'obiettivo di difendere il patrimonio culturale e paesaggistico nazionale, anticipando alcuni degli assunti metodologici del successivo movimento ecologista, con un'attenzione particolare alla pianificazione urbanistica e alla conservazione del territorio.

  Il percorso tracciato da Suttora si sviluppa secondo una scansione cronologica che copre oltre sei decenni di storia ambientale, mantenendo una costante attenzione al nesso fra crisi ecologica, mutamenti economici globali e rappresentanza politica. Centrale, in questo senso, è la riflessione sul Rapporto "The Limits to Growth" (1972), commissionato dal Club di Roma e realizzato da un'équipe del MIT sotto la direzione di Donella e Dennis Meadows. L'autore ne coglie la portata paradigmatica: non solo in termini di diffusione dell'idea di "limiti biofisici" alla crescita economica, ma anche per il suo ruolo nel riformulare l'intero impianto epistemologico delle politiche di sviluppo.

  Il volume prosegue con l'analisi delle diverse fasi di istituzionalizzazione dell'ambientalismo, a partire dalla formazione dei primi partiti verdi europei. In Italia, la nascita delle Liste Verdi nel 1987 rappresenta un episodio cruciale, benché il consenso elettorale non abbia mai superato la soglia del 6% a livello nazionale (elezioni europee del 1989). Suttora non elude le criticità strutturali che hanno ostacolato il radicamento dell'ecologismo politico nel panorama italiano: l'eccessiva frammentazione organizzativa, l'incapacità di elaborare una proposta coerente oltre la dimensione protestataria, la tendenza alla subalternità nei confronti di coalizioni maggiori.

  Il disastro di Černobyl' del 1986 viene correttamente individuato come catalizzatore di un'opposizione al nucleare che in Italia trovò una traduzione politica diretta nel referendum abrogativo del 1987, il cui esito sancì il progressivo disimpegno del Paese dall'energia atomica. L'autore ricostruisce con precisione il contesto internazionale, inserendo il caso italiano all'interno di una più ampia ondata antinucleare che ha attraversato l'Europa negli anni Ottanta. Similmente, la Conferenza di Rio del 1992 viene analizzata come momento di passaggio verso una nuova fase dell'ambientalismo, sempre più orientata al problema delle emissioni climalteranti e del riscaldamento globale, con il conseguente spostamento dell'attenzione dal localismo originario alla dimensione planetaria della crisi ecologica.

  Degna di nota è la parte dedicata ai riconoscimenti istituzionali ottenuti da figure simboliche del nuovo ambientalismo globale. La keniota Wangari Maathai, fondatrice del Green Belt Movement, prima donna africana a ricevere il Premio Nobel per la Pace (2004), incarna un'ecologia profondamente intrecciata con le istanze di giustizia sociale e di emancipazione femminile. Similmente, il Nobel assegnato ad Al Gore nel 2007, in seguito alla diffusione del documentario "An Inconvenient Truth" (2006), segnala l'emersione di una sensibilità ecologista nel cuore stesso delle élite transnazionali.

  Suttora dedica particolare attenzione anche alla svolta contemporanea rappresentata dall'attivismo giovanile, con l'irruzione sulla scena pubblica di Greta Thunberg nel 2018 e la nascita del movimento Fridays for Future. La trattazione è equilibrata e scevra da entusiasmi retorici: l'autore ne riconosce la capacità di catalizzare l'attenzione mediatica e riattivare la mobilitazione collettiva, ma non tace i limiti dell'azione simbolica, né le difficoltà strutturali nel tradurre la protesta in cambiamento legislativo stabile. L'analisi tocca anche i casi controversi di disobbedienza civile e vandalismo a fini dimostrativi, collocandoli all'interno di una riflessione più ampia sulle tensioni fra urgenza climatica e legittimità democratica delle forme di lotta.

  L'ultima parte del volume affronta con competenza il quadro normativo internazionale, dal Protocollo di Kyoto (1997) all'Accordo di Parigi (2015), per giungere al Green Deal europeo, che sancisce l'impegno dell'Unione verso una transizione climatica strutturale. Suttora evidenzia con lucidità le contraddizioni di tale processo, in particolare gli effetti redistributivi della transizione energetica, che rischiano di accentuare diseguaglianze sociali e squilibri economici. Particolare rilievo è dato al fenomeno del "negazionismo di Stato", esemplificato dal ritiro degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi sotto la presidenza di Donald Trump, poi revocato con l'insediamento di Joe Biden.

  L'autore attinge a una vasta gamma di materiali – documenti istituzionali, articoli giornalistici, interviste, dati statistici – selezionati con attenzione e contestualizzati criticamente. Lo stile, pur narrativo, mantiene un registro sobrio e scorrevole, adatto a una lettura colta ma non specialistica.

  Nel complesso, il volume si configura come un contributo significativo alla storiografia sull'ambientalismo, colmando una lacuna nella saggistica italiana recente.

La Redazione, 2 settembre 2025

Tuesday, September 02, 2025

Sì è genocidio. Lo hanno deciso genocidiologi autonominati

La bizzarra pronuncia della Iags, che ha votato la sentenza su Israele fra i suoi membri. Si diventa tali se ci si dichiara attivisti dei diritti umani e si paga una quota. La giuria di Ponzio Pilato dava più garanzie

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 2 settembre 2025 

Lo ha deciso la Iags, International association of genocide scholars: Israele è colpevole di genocidio a Gaza. Scansatevi, corti internazionali dell’Aia che un anno fa avete aperto inchieste e disposto l’arresto di Bibi Netanyahu, ma non avete ancora concluso niente. La sentenza è arrivata ieri, inappellabile, emessa dall’Associazione internazionale degli studiosi di genocidio. I quali ammontano a ben 500, e l’86 per cento di loro ha votato contro Israele. 

Incuriositi, siamo andati a vedere chi sono i membri di questo consesso. Definito da qualcuno “il più autorevole al mondo”. Può darsi, anche perché è l'unico a occuparsi della triste materia. 

Abbiamo così scoperto che chiunque può iscriversi all’Associazione: basta dichiararsi “attivista dei diritti umani” e pagare online una quota dai 35 dollari annui a 135, a seconda del reddito. Sconto a chi si iscrive per due anni: 50-210 dollari. L’elenco soci sul sito mostra una prevalenza di arabi e terzomondisti, studenti di materie come “studi anticoloniali”, “storia dei movimenti di liberazione in Africa e Sudamerica”, ecc.

Curioso ribaltamento, per un organismo fondato nel 1994 dallo psicologo Israel Charny, dalla sociologa ebrea americana Helen Fein e dal sopravvissuto all’Olocausto Robert Melson. Fino ad allora il dibattito era sull’equiparazione del genocidio armeno a quello ebraico, con molti studiosi trincerati sull’unicità di quest’ultimo. Difficile ottenere lo status di genocidio anche per l’Holomodor ucraino del 1933 e per quello cambogiano del 1975-78. 

Poi, con lo sterminio dei tutsi ruandesi e la strage di Srebrenica nel 1995, il concetto di genocidio si è ampliato. E si sono moltiplicate le cattedre sull’argomento nelle università di tutto il mondo. Cosicché oggi i soci dell’Associazione spaziano dai curdi che chiedono un riconoscimento per i loro supplizi agli appassionati di giustizia di transizione, riparativa, di popoli indigeni, autoritarismo, gender, terapia del trauma, diritti 2SLGBTQI+. Insomma, quel tipo di studi accademici finiti nel mirino della presidenza Trump.

Nell’elenco dei membri Iags abbiamo trovato due soli italiani: i docenti universitari Flavia Lucenti, non più attiva, e Stefano Saluzzo, che insegna diritto internazionale all’ateneo del Piemonte orientale.

Fra un mese l’Associazione terrà il suo congresso biennale in Sud Africa. Sede appropriata, visto che è stato il governo di Johannesburg a chiedere l’incriminazione di Israele per genocidio a Gaza.

Quale valore giuridico ha il pronunciamento dei “genocidiologi”? Zero. Quanto al peso politico di questa primizia di sentenza planetaria “democratica”, emessa tramite sondaggio online da studiosi autonominati, probabilmente la giuria della piazza cui Ponzio Pilato fece scegliere fra Gesù e Barabba era più equilibrata.