Showing posts with label greenpeace. Show all posts
Showing posts with label greenpeace. Show all posts

Thursday, December 19, 1991

Dateci una zampa, maghi del marketing















Il Wwf ha raggiunto quota 300mila soci. Greenpeace ne fa mille in più ogni mese. La Lipu è inondata di coupon per salvare la marmotta. Le nuove armi dei verdi si chiamano mailing, fund raising e sponsorship


di Mauro Suttora


Europeo, 20 dicembre 1991


Se continua così, fra qualche anno il Wwf avrà più iscritti del Pds. I soci italiani del World Wide Fund for Nature (Fondo mondiale per la natura) da 25mila che erano nel 1981 hanno appena festeggiato quota 300mila. Performance impressionante: poche associazioni al mondo possono vantare una crescita del 1200% in appena dieci anni.

Ma va bene anche alle altre organizzazioni ecologiste: dalla Lega Ambiente con i suoi 60mila iscritti, a Greenpeace che ne ha raccolti 55mila in soli tre anni, e che continua ad aumentare al ritmo di mille al mese.

Tutto questo nonostante il disastro ambientale italiano, la delusione dei verdi come partito, le sconfitte ripetute dei referendum anticaccia: da quello nazionale del 1990 a quelli in Friuli due settimane fa. Rigettati dalla politica, gli ecologisti nostrani si consolano partecipando con accanimento a iniziative concrete in favore della natura: piantano alberi, puliscono parchi, ramazzano spiagge, curano uccellini feriti. Ma mettono anche mano al portafogli: ‘adottano’ delfini, finanziano oasi, comprano magliette, regalano animali di peluche scelti dai cataloghi natalizi del Pandashop…

È un’attività frenetica che coinvolge una quindicina di associazioni nazionali più una miriade di gruppi locali, con bilanci annui che vanno dai 25 miliardi del Wwf ai 30 milioni della Lac (Lega abolizione caccia). E sono oltre mezzo milione gli italiani che hanno in tasca la tessera di una (o più di una) organizzazione ambientalista. Ma non è più un boom affidato al caso: da qualche anno l’entusiasmo spontaneo degli amanti della natura viene stimolato e poi organizzato scientificamente da esperti di marketing. I quali stanno importando in Italia le tecniche più avanzate del fund raising, del mailing e delle sponsorship, già sviluppatissime negli Stati Uniti.

Storicamente il nostro è un Paese cattolico in cui la carità è da sempre monopolio di missionari, suore e dame di san Vincenzo. E la raccolta di fondi per organismi laici senza scopo di lucro (Croce rossa, ricerca contro il cancro e altre gravi malattie) non è facilitata, come in America, dalla deducibilità fiscale dei contributi.

Ma i nuovi maghi del marketing verde non si son persi d’animo, e tanto per cominciare hanno messo a buon frutto le centinaia di migliaia di firme e indirizzi raccolti per i referendum. “A quegli 800mila firmatari abbiamo spedito una lettera con l’invito ad associarsi, e la risposta è stata buona”, ci dice Valerio Neri, direttore generale del Wwf.

Neri, 40 anni, è il superman dei nuovi manager ambientali. Ha insegnato filosofia del linguaggio all’università di Roma ed è entrato nel Wwf nel 1982. Le sue iniziative di direct marketing per convincere i soci a rinnovare l’iscrizione hanno avuto subito successo, e questo è stato molto importante per l’associazione del Panda negli anni della crescita impetuosa. Troppe volte, infatti, un eccessivo ricambio dei soci vanifica il reclutamento di nuovi iscritti: se molti non rinnovano la tessera, alla fine il saldo è insoddisfacente. “La percentuale di rinnovi è molto alta per il Wwf: bastano due-tre lettere di sollecito e arriviamo all’80 per cento”, spiega Neri.

Dal 1989 Neri è direttore generale dell’associazione fondata e presieduta da Fulco Pratesi, succedendo a Staffan de Mistura (oggi impegnato con l’Unicef in Jugoslavia) che già aveva introdotto buone dosi di managerialità nel Wwf. L’anno scorso un sondaggio Espansione-Swg fra 300 dirigenti italiani ha collocato Neri al quinto posto fra i direttori marketing più bravi d’Italia, e al terzo fra i creatori delle operazioni più innovative.

Così si è coronata una carriera cominciata per caso. “Ma la mia precedente esperienza di filosofo del linguaggio è stata preziosa”, sostiene Neri. “Un’operazione di mailing infatti costa molto, per cui occorre calibrare bene il messaggio da inserire nella lettera. Nella comunicazione ambientale dobbiamo far leva su emozioni e ricordi del linguaggio privato per catturare l’interesse”.

Insomma, Neri applica gli insegnamenti del filosofo Ludwig Wittgenstein quando scrive di suo pugno molte delle lettere con cui il Wwf, magari usando come testimonial Piero Angela, sollecita i simpatizzanti all’azione e al contributo finanziario. “La raccolta fondi è soltanto uno dei nostri obiettivi”, precisa Neri, “perché vogliamo anche spingere i nostri soci a compiere atti pratici, come spedire cartoline per qualche petizione a un uomo di governo, o a cessare un comportamento inquinante, fino ad assumere personalmente iniziative concrete”. Come i soci Wwf che hanno piantato alberi poche settimane fa a Milano.


Un altro asso nella manica del Wwf è Marina Salamon. Questa 33enne proprietaria della Doxa (con il padre Ennio che la dirige da 35 anni) e imprenditrice tessile (con l’ex compagno Luciano Benetton controlla due aziende a Treviso che fatturano 150 miliardi) fa parte della commissione Ambiente della Confindustria, e da un anno è anche consigliere d’amministrazione del Wwf Italia. Ha l’incarico di seguire le vendite del Pandashop, catalogo per corrispondenza allegato alla rivista mensile del Wwf che incassa cinque miliardi all’anno.

“Da adolescente frequentavo i campi di lavoro del Wwf”, ricorda la Salamon, “e ho riannodato i rapporti nell’86, quando ho aiutato a organizzare le cerimonie per il venticinquennale del Wwf internazionale ad Assisi”. Salamon senior a suo tempo si era impegnato con Italia Nostra a Milano per la creazione del parco del Ticino. Adesso sua figlia dedica in media una decina di ore alla settimana per andare a Roma e Milano alle riunioni Wwf. “Mi sono laureata, ho lavorato, e adesso posso permettermi di coltivare i miei veri interessi”, dice.

Anche dentro Confindustria Marina Salamon sta combattendo la sua battaglia ecologista. “È stato Luigi Abete a volere che m’impegnassi nel comitato Ambiente. Io per la verità producendo vestiti non ho grossi problemi di coscienza, anche perché compro tessuti già colorati. La mia impressione è che le grosse aziende, coordinate da Federchimica, Assoplastica e Assovetro, si stiano muovendo per ridurre l’inquinamento. Ma restano i problemi delle piccole industrie, e soprattutto di leggi confuse con sovrapposizione di poteri fra Stato e regioni. Non vorrei comunque ridurmi a fare il Bertuzzi [primo difensore civico d’Italia, ndr] della situazione, quella che parla e denuncia ma con scarsi risultati concreti. Per questo mi trovo meglio fra i giovani imprenditori, che ultimamente hanno assunto posizioni coraggiose, e non solo sui temi ambientali: penso al caso Libero Grassi e alla mafia in Sicilia”.

Le vendite del Pandashop curate dalla Salamon hanno un catalogo stampato su carta riciclata e provengono in gran parte da canali alternativi alle normali strutture industriali: comunità di ex tossicodipendenti o handicappati, cooperative del Terzo mondo). Assieme al professor Luigi Boitani, docente di management ambientale all’università di Roma, la Salamon ha vincolato a parco regionale 150 ettari di sue tenute in Toscana, vicino a Siena. E la scorsa settimana questa pasionaria dell’ambiente è volata in Kenya e Uganda, dove Boitani ha progettato nuovi parchi naturali, e dove stanno molti di quegli elefanti e rinoceronti per i quali il Wwf ha organizzato campagne negli ultimi anni.

Intanto, proprio una ricerca Doxa ha scoperto che il marchio del panda è conosciuto dall’80% degli italiani, e che il Wwf è noto perfino più della Croce rossa come raccoglitore di fondi. Perciò le aziende private fanno la coda per ottenere una sponsorizzazione che permetta di legare la propria immagine a quella prestigiosa del Wwf. “Ma accettiamo meno del 10 per cento delle proposte che ci vengono fatte”, dice Neri. Dagli sponsor il Wwf incassa un miliardo e mezzo annuo, che destina ai 42 parchi gestiti a proprie spese. La sponsorizzazione più grossa attualmente è quella della Perfetti, che abbina la caramella Golia all’orso bianco.

Con 26 dipendenti a tempo pieno, 300 obiettori in servizio civile, 300 sedi e 4mila Panda club nelle scuole, il Wwf riesce a proteggere quasi 20mila ettari di territorio in Italia, e a spendere più del ministero dell’Ambiente per i suoi parchi nazionali.


Un’altra storia di successo è quella di Greenpeace. Specializzata in spettacolari azioni dirette nonviolente, è sbarcata in Italia da pochi anni. L’unica sede è a Roma, dove con il direttore Gianni Squitieri  lavorano 12 persone. Non ha chiesto obiettori al ministero della Difesa. I 55mila soci contribuiscono in media con 40mila lire annue, e il bilancio si aggira sui due miliardi.

La responsabile marketing di Greenpeace è Silvia Provera, 33 anni, laureata in biologia: “La ‘raccolta fondi’ in Italia è quasi inesistente come tecnica specializzata”, ci dice nella sede sotto l’Aventino. “Per questo Greenpeace mia ha mandata a frequentare per due settimane un corso universitario di ‘fund raising’ a San Francisco. Ne sono uscita stordita: le organizzazioni no profit statunitensi si occupano quasi tutte di donne violentate, bambini brutalizzati, malattie terribili e altre amenità del genere. Ma lì il mailing raggiunge vette di sofisticazione scientifica. Anche perché società apposite sono in grado di affittare indirizzari perfino ridicoli, nella loro precisione: tutti i divorziati degli ultimi tre mesi, o chi acquista cibi naturali, o i ‘giovani evoluti’ che ‘vanno spesso al camping’, e così via…”

In Italia le liste sono più approssimative, garantiscono raramente una ‘redemption’ (risposta positiva) superiore al 3-4%. “Invece in Gran Bretagna e Olanda Greenpeace riesce a raggiungere risultati strepitosi con il mailing: perfino il 18 per cento su liste ‘fredde’, cioè di persone che non hanno dimostrato in precedenza interessi particolari per l’ambiente”.

In Olanda Greenpeace ha 700mila iscritti: uno in ogni famiglia. E da noi c’è il grande ostacolo della posta lenta, che rende difficoltose grosse spedizioni di lettere. Un’altra tecnica che le organizzazioni non a scopo di lucro utilizzano all’estero è lo scambio reciproco di indirizzari. In alcuni Paesi la legge lo proibisce, per non invadere la privacy con quantità non richieste di ‘junk mail’, posta spazzatura. Ma il divieto è superabile stampando la clausola “Se lei non vuole che il suo indirizzo venga dato ad altri, sbarri questa casella”. Quasi nessuno lo fa.

“In Italia però le associazioni ecologiste sono gelose, non prestano mai ad altri i propri indirizzari”, dice Silvia Provera. “Eppure i nostri iscritti spesso sono complementari. Il Wwf, per esempio, rispetto a noi ha soci o più giovani o più anziani, e più nell’area del protezionismo che in quella dell’ecologia politica. Noi invece siamo forti fra i 20-45enni”.

Per statuto, al contrario del Wwf, Greenpeace non può concedere il proprio marchio, farsi sponsorizzare né accettare donazioni da aziende: solo privati cittadini. “Abbiamo declinato anche i finanziamenti del ministero dell’Ambiente, perché non prendiamo soldi da governi. E perché abbiamo scoperto che in Italia pure questi fondi sono un po’ lottizzati”, dice la Provera. “Una volta mi ha telefonato un’associazione di pellicciai che voleva assolutamente farci una donazione. Ho spiegato che potevamo accettare solo il contributo del presidente come singola persona”.

Anche Greenpeace nella rivista mensile che invia ai soci ha un piccolo catalogo di magliette, adesivi e cartoline. Offre pure il disco inciso dalle principali rockstar per finanziare le campagne contro la caccia alle balene in Unione Sovietica, che ha venduto tre milioni di copie.


La Lega Ambiente (presidente Ermete Realacci, segretaria Renata Ingrao, 60mila iscritti) si sta avvicinando adesso alle campagne di mailing. “Con Antonio Lubrano come testimonial”, spiega l’amministratrice Rita Tiberi, “abbiamo contattato tutti i firmatari dei referendum. Così è cambiata un po’ anche la natura della nostra associazione, perché 20mila persone si sono iscritte direttamente alla sede nazionale senza passare per uno dei nostri 600 circoli locali”.

Una ventina di impiegati, 30 obiettori, due miliardi a bilancio, l’attività di Lega Ambiente si impernia soprattutto sulla Goletta verde estiva e sul Treno verde invernale, che girano Italia e Mediterraneo misurando l’inquinamento. I soci, più di sinistra delle altre associazioni, sono anche più severi nella scelta degli sponsor: hanno protestato quando la Montedison di Raul Gardini aveva sponsorizzato un loro convegno. Così il marchio del cigno verde non viene concesso alle aziende, che possono solo offrire fondi.

Ce l’hanno fatta Duracell con le sue pile (in risposta ad altre pile concorrenti abbinate al Wwf), Italstat, Assovetro, il detersivo ecologico Atlas, il consorzio Replast che ricicla la plastica. La Banca Toscana e Il Monte dei Paschi hanno sponsorizzato un convegno internazionale particolarmente costoso. E Ottavio Missoni ha disegnato tre magliette per la Goletta verde.


La Lipu (Lega italiana protezione uccelli), che gestisce 15 oasi e due ospedali veterinari, ha 30mila soci e due miliardi e mezzo di budget. Presidente, l’ex giornalista Rai Mario Pastore. Si è fatta sponsorizzare da Polenghi un centro per le cicogne a Racconigi (Cuneo), Invicta ha finanziato l’oasi di Torrile (Parma) e altri suoi benefattori sono stati Piaggio e Virgin dischi. Grande successo ha riscosso la recente campagna per la marmotta: ben 45mila coupon stampati su giornali sono arrivati alla sede nazionale di Parma, e formeranno un ottimo target per i prossimi mailing.


Italia Nostra, 20mila soci, si è fatta sponsorizzare da Scavolini e dal Lysoform della Lever quattro aree di rimboschimento post incendi. “Ma i mailing non possiamo permetterceli, costano troppo”, dice il segretario Vittorio Machella.

Molto intraprendente invece il presidente di Europe Conservation Fabio Ausenda: “Abbiamo raccolto 400 milioni da settemila donatori per le nostre campagne di adozione di lupi, balene e delfini”. Fra i finanziatori Moschino e Fox video per i lupi e Prénatal per le balene.

La più grande associazione animalista (da non confondere, avvertono gli specialisti, con i ‘conservazionisti’) è la Lav (Lega antivivisezione): 16 mila iscritti, 90 sedi, mezzo miliardo in bilancio, nessun obiettore (“Il ministero ce li nega”), niente personale stipendiato: “Siamo tutti volontari, al massimo c’è qualche rimborso spese”. Sono loro a inscenare ogni anno, all’apertura della Scala, gli happening anti-pellicce.

Anche Kronos 1991, specializzato nel misurare l’inquinamento di mari, laghi e fiumi, ha un modello lontano da quello ‘commerciale’ del Wwf: “Vogliamo che i nostri 4mila iscritti si mobilitino direttamente, non ci interessano i soci solo finanziari o epistolari”, dice il segretario Silvano Vinceti.

Sulla stessa lunghezza d’onda la Lac (Lega anticaccia) di Carlo Consiglio, professore di zoologia all’università di Roma, e Federnatura, che raduna 10mila soci sotto la presidenza di Francesco Corbetta, docente di botanica all’Aquila.

Apertissimi alle sponsorizzazioni sono invece il Fai (Fondo ambiente italiano, 15mila soci, bilancio di tre miliardi) di Giulia Maria Crespi, gli Amici della Terra e Marevivo (30 mila soci, un miliardo di budget: Tirrena assicurazioni, Marina militare, Enel, Alenia, Telespazio).

Quanto a Mountain Wilderness, l’associazione di Reinhold Messner che conta un migliaio di soci, ha ricevuto contributi da Fidia (farmaceutici) e Geospirit (abbigliamento sportivo).

Infine Animal Amnesty: “Siamo un ufficio di pubbliche relazioni per animali”, spiega l’addetto stampa Enzo Del Verme. Ottomila soci dichiarati, dieci addetti a tempo pieno, sono loro a coniare slogan fulminanti come “Tua madre ha una pelliccia? La mia non l’ha più”, oppure “Se pensi che la corrida sia divertente, prova a fare il toro”. Sponsor: Fiorucci, Videomusic, Young & Rubicam. 


















Saturday, September 07, 1985

L’affare Greenpeace/ Parla l’uomo che ha sfidato Mitterrand














Non ci fermerai con quella sporca bomba”


Odiato da americani e sovietici ma appoggiato dai pacifisti, l’ecologo David McTaggart rivela perché l’affondamento della ‘Rainbow Warrior’ può diventare un boomerang per il presidente francese


di Mauro Suttora


Europeo, 7 settembre 1985


Rue de la Bûcherie, Parigi: un vicoletto del Quartiere latino. Voltato l’angolo, Notre-Dame. Due passi più in là, il minuscolo teatro Huchette, dove da trent’anni ogni sera danno La cantatrice calva e La lezione di Eugène Ionesco. 

Ma la vera commedia dell’assurdo, da un mese e mezzo, si svolge al numero 3: la sede di Greenpeace, il movimento di ecologisti internazionali. Una vetrina al piano terra, uno stanzone pieno di belle ragazze indaffarate che parlano quasi tutte inglese, i soliti soli ridenti dei verdi alle pareti. E un poster con su scritto: “Quando l’ultimo albero sarà tagliato, l’ultimo fiume avvelenato e l’ultimo pesce morto, allora l’uomo scoprirà che non ci si nutre di soldi”.

Dal 10 luglio, da quando cioè la nave di Greenpeace Rainbow Warrior è stata affondata in Nuova Zelanda da agenti della Dgse (la Cia francese) e il fotografo Fernando Pereira è rimasto ucciso dallo scoppio dalle mine collocate sotto la chiglia della nave, nella sede parigina del movimento c’è un viavai frenetico. “Siamo stati inondati da giornalisti di tutto il mondo, ma anche da lettere e contributi di simpatizzanti”, dice Louise Trussell, 33 anni, neozelandese, presidente della sezione francese.


Rimasti assai a corto di argomenti di fronte all’assurdità del fatto (“nauseabondo”, lo ha qualificato perfino il capo del sindacato socialista Cfdt, Edmond Maire), i difensori dell’operato del governo di François Mitterrand non hanno trovato di meglio che ricorrere alla plurisecolare tesi del “complotto anglosassone”: c’è cascato anche l’altrimenti posato vulcanologo Haroun Tazieff.

Insomma, che ci fanno tutti questi inglesi, canadesi, americani e australiani in Francia? Che ci fanno soprattutto nell’oceano Pacifico, che per metà è francese? E perché, invece di incaponirsi contro i nostri esperimenti atomici nell’atollo di Mururoa, questi maledetti ecologisti internazionali non vanno a infastidire gli inglesi, gli statunitensi, i sovietici? Anche loro sono potenze nucleari, anche loro fanno esplodere bombe sotterranee.

“Sì, e la media è di un esperimento nucleare ogni settimana nel mondo. Dopo Hiroshima ci sono state altre 1500 esplosioni”, risponde David McTaggart, 52 anni, miliardario canadese, presidente di Greenpeace International. “Quel che i francesi dimenticano, è che siamo nati nel 1971 proprio per opporci agli esperimenti nucleari degli Stati Uniti in Alaska. E la nostra protesta fu così efficace che l’anno dopo furono sospesi”.


McTaggart è un personaggio singolare. Nel 1973 navigava tranquillo, ignaro di ecologia, sul suo yacht in crociera fra Tahiti e le isole Figi. Venne a sapere che i francesi avevano interdetto alla navigazione internazionale un’ampia zona attorno a Mururoa, ben al di là delle tradizionali dodici miglia delle acque territoriali, in occasione dell’esplosione di una loro bomba sperimentale. Ciò lo irritò e lo spinse a far vela verso la Polinesia francese. Venne speronato senza pietà dalle motovedette francesi e ferito a un occhio.

Ma, contemporaneamente, altre personalità stuzzicavano i militari messi a custodia della ‘force de frappe’ nei mari del Sud. Il generale pacifista Paris de la Bollardière, eroe di tre guerre (mondiale, Indocina, Algeria), era sceso in un canotto assieme a un prete (Jean Toulat), un professore di filosofia (Jean-Marie Muller) e un ecologo (Brice Lalonde), violando la zona proibita.


Soprattutto, si erano mobilitati i due giornalisti più famosi di Francia, Jean-Jacques Servan-Schreiber e Françoise Giroud, alla testa del settimanale L’Express, allora su posizioni radicali. “Le foto dei soldati che picchiavano gli ecologisti furono nascoste da un ragazza nella vagina, sfuggirono al sequestro e vennero pubblicate su tutti i giornali”, racconta McTaggart. Alla fine le forze armate dovettero chinare la testa: nel 1974 gli esperimenti nucleari in atmosfera furono sospesi.

Forse ancora assetati di vendetta, forse timorosi di una pessima figura di fronte all’opinione pubblica mondiale (Davide contro Golia: piroghe, dinghy e gommoni all’abbordaggio di cannoniere), i militari francesi sono andati per le spicce dopo l’annuncio di una nuova campagna antinucleare per il settembre di quest’anno. Ma il risultato è stato soltanto il raddoppio della scandalo: uno in luglio per l’assassinio, e un altro assai probabile al momento dei nuovi esperimenti fra quattro settimane.

Il bello è che in Francia quasi nessuno è contrario alla bomba atomica nazionale, neanche i comunisti. I giornali, anche quelli di sinistra, accusano i servizi segreti più per l’imperizia omicida dimostrata nell’affondare il Rainbow Warrior che per il fatto in sé.

Il consenso unanime in materia militare è incrinato soltanto dai verdi. Però anche il loro capo, Brice Lalonde, pur chiedendo le dimissioni del ministro della Difesa Charles Hernu, dichiara: “Se c’è la bomba, ci vuole un posto dove sperimentarla”.


Ma ormai la Francia agli antipodi è odiata. Il premier ‘pacifista’ neozelandese David Lange appoggia apertamente Greenpeace e condanna il “terrorismo di stato francese”. Laburista, ha addirittura chiesto l’espulsione dei francesi dall’Internazionale socialista. Tutti i governi del Pacifico meridionale hanno firmato proprio in luglio un trattato di denuclearizzazione, chiedendo che anche la Francia lo rispetti.

Sapendo di avere, almeno per il momento, il coltello dalla parte del manico, McTaggart smorza i toni: “Non accuso di omicidio il governo francese, non ci sono ancora le prove”. Ma di fronte alla muscolosa sortita ferragostana di Mitterrand, effettuata per coprirsi le spalle dall’opposizione di destra (“Ordino alla Marina di opporsi con ogni mezzo alla violazione delle nostre acque territoriali”), il leader verde non flette di un millimetro: “Il Pacifico deve restare pacifico. Noi abbiamo sempre usato, e sempre useremo, metodi nonviolenti. Ma chiediamo che la Francia rispetti la denuclearizzazione del Pacifico. Anzi, perché Mitterrand non promuove egli stesso un trattato per la proibizione totale degli esperimenti atomici?”


Provocatore. Pirata nonviolento. Agente dei russi. Finora Greenpeace aveva goduto di una simpatia quasi generale, in tutto il mondo. Anche in Francia, dove il leggendario comandante Eric Cousteau è dei loro, così come la scrittrice Marguerite Yourcenar, e Brigitte Bardot ha finanziato abbondantemente la lotta contro l’uccisione delle foche. Ma l’argomento ‘bomba’ oltralpe è un totem-tabù, cosicché ora Greenpeace è accusata di essere infiltrata da spie sovietiche.

“La difesa atomica francese è ‘tout azimut’, a 360 gradi? Be’, anche il nostro no alle esplosioni nucleari lo è”, si difende McTaggart. “Contro i test Usa nel Nevada abbiamo fatto volare una mongolfiera, cinque nostri attivisti si sono intrufolati nella zona di rischio, bloccando tutto per diversi giorni”. E i test sovietici? “Il nostro carnet è pieno di azioni contro i sovietici, in ogni campo”.

Vi accusano però di avere a bordo delle vostre navi strumenti sofisticati, con i quali potreste rilevare dati segreti sulle esplosioni sotterranee.

“Balle. Abbiamo solo contatori geiger da 200 dollari, e una macchina per telefoto che proprio Pereira avrebbe dovuto usare per trasmettere le sue foto all’agenzia Associated Press”. 

Ma un’agente francese ha potuto infiltrarsi tra voi per settimane. Lo stesso potrebbe fare uno 007 di qualunque altro Paese.

“E allora? Non siamo mica un esercito, noi. Teme le spie solo chi ha segreti, e noi non ne abbiamo: tutte le nostre azioni sono pubbliche. Anzi, la massima pubblicità è proprio il nostro obiettivo principale. La nostra unica arma è la fantasia”.


La fantasia. Certo, per chi lamenta che l’avventura sia scomparsa dalla vita moderna, il terrorismo nonviolento di Greenpeace risulta affascinante. E poi, altro che don Chisciotte. A differenza di altri verdi, che passano il tempo a parlare e a lagnarsi, loro ‘fanno’. E soprattutto vincono. La battaglia contro lo sterminio delle balene (due milioni di cetacei catturati negli ultimi cinquant’anni e la balena azzurra, quella più grande, ridotta da centomila a mille esemplari) è stata vinta nel 1982. Solo tre Paesi ‘cattivi’ continuano la caccia: Urss, Giappone e Norvegia.

Sempre nel 1982 l’Europarlamento ha vietato l’import per le pellicce di foca, dando così un colpo mortale al business. E poi le scorie delle centrali nucleari civili: dal 1967 venivano scaricate nell’Atlantico al largo della Spagna. Dopo innumerevoli ‘assalti al canotto’ e incursioni romanzesche da parte dei guerriglieri ambientalisti, dal 1983 i Paesi europei acconsentono a interrarle.

Chi rivelò nel 1982 che la diossina di Seveso era finita in Francia? Greenpeace. E chi smascherò le reticenze delle autorità quando nel 1984 a Ostenda (Belgio) naufragò un carico di scorie radioattive? Sempre quei guastafeste di Paceverde. Più verde che pace, finora: “Siamo ecologisti, non pacifisti”, tenevano a precisare. Ma adesso si sono accorti che il principale inquinamento è quello da armi atomiche e stellari. “Ci opporremo energicamente alle ‘star wars’ perché non vogliamo esplosioni nucleari neanche nello spazio”, annuncia McTaggart.

E in Italia, perché non siete presenti? “Siamo cresciuti molto in fretta, adesso abbiamo due milioni di simpatizzanti in 15 Paesi. Il nostro bilancio nel 1984 è stato di 15 milioni di dollari. Ma siamo indipendenti, riceviamo contributi solo da privati. In Italia temiamo di finire in mezzo a polemiche fra partiti. Comunque chi vuole aiutarci aspettando l’apertura della sezione Italiana può farlo subito, mandandoci un contributo qui a Parigi. In cambio riceverà il nostro bollettino”.



Vade retro Urss: la guerra fra Greenpeace e il Cremlino


Le ostilità fra Greenpeace e l’Unione sovietica iniziarono il 27 giugno 1975, quando la prima nave degli ecologisti, la Phyllis Cormack, tentò di bloccare la caccia della baleniera sovietica Vostok. Al ritorno in Canada furono ben diecimila gli spettatori che festeggiarono l’equipaggio, composto da giovani statunitensi riparati all’estero per evitare la guerra in Vietnam.

Nel 1982 il Sirius attraccò a Leningrado, dove poi gli ecologisti distribuirono volantini in russo contro gli esperimenti nucleari sovietici. Nel luglio dell’anno dopo cinque americani e un canadese partirono dall’Alaska sul Rainbow Warrior e con un gommone Zodiac penetrarono in acque sovietiche. Arrivarono a Lorino in Siberia, sullo stretto di Bering. Anche qui diedero volantini agli stupefatti eschimesi locali. I sei vennero arrestati, liberati dopo quattro giorni e riportati in Alaska.

Manifestazioni simili si sono registrate anche a Berlino Est e in Cecoslovacchia, dove l’anno scorso gli ecologisti sono penetrati per denunciare l’inquinamento provocato dalla piogge acide. Ma l’azione più spettacolare è avvenuta lo scorso ottobre, quando il Sirius si è appostato per giorni sullo stretto di Gibilterra attendendo la flotta baleniera sovietica dell’Antartico, proveniente da Odessa.

Mauro Suttora