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Tuesday, May 14, 2024

Giolitti contro Giolitti. La sublime faida di una famiglia che si disputa una centenaria eredità politica



Giovanna, nipote di Giovanni, si candida con Meloni. Seconde e terze generazioni di Giolitti si ribellano: non nel nostro cognome! Complicazioni storiche attorno a Mussolini

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 14 maggio 2024

I parenti di Giovanni Giolitti, cinque volte presidente del Consiglio nel 1892-1921, e di suo nipote Antonio Giolitti, ministro e commissario europeo negli anni ‘60-‘80, protestano contro Giovanna Giolitti, bisnipote dello statista piemontese.

L’avvocatessa di Cavour (Torino), già assessore del suo paese nella lista civica di un sindaco ex democristiano, si è candidata alle Europee per Fratelli d’Italia. “Non nel nostro nome”, scrivono oggi ben 25 discendenti in una lettera a La Stampa, “i valori di FdI sono totalmente incompatibili con quelli della nostra lunga storia familiare”. I parenti specificano di appartenere in sei alla prima generazione, in 14 alla seconda, più cinque congiunti.

“Libertà, democrazia e giustizia sociale”, spiegano zii e cugini, “sono inconciliabili con le radici, i programmi, le scelte e le azioni di Fratelli d’Italia, connotate da un marcato carattere reazionario su Europa, immigrazione, lavoro, limitazione dei diritti di espressione. Minacciano di soffocare la fragile pianta della democrazia che i nostri progenitori avevano aiutato a germogliare e svilupparsi”.

La povera Giovanna non ci sta, e rivendica la sua scelta come “liberale”. È proprio lei la presidente dell’associazione Giovanni Giolitti che coltiva gli studi storici sulla figura del bisnonno. Ultima iniziativa, la presentazione di un libro sul martire antifascista Giacomo Matteotti. Anche il Centro europeo Giolitti di Dronero (Cuneo), più legato all’altro ramo della famiglia, si avvale dell’opera bipartisan del professor Aldo Mola, massimo storico giolittiano. E lei era nel direttivo.

A voler essere pignoli e maligni, un punto di contatto fra la bisnipote e i suoi sdegnati parenti antifascisti forse si può trovare: nel 1922 l’ottuagenario Giolitti votò a favore del governo Mussolini. Come quasi tutti i liberali, sperava infatti di ammansire i fascisti portandoli nell’alveo democratico. Poi un altro scivolone: appoggiò la legge elettorale Acerbo, che favoriva Mussolini. Si riscattò in extremis nel 1924 quando rifiutò di entrare nel listone fascista, facendosi eleggere in una lista autonoma.

Anche oggi, d’altra parte, molti moderati sperano in una ‘civilizzazione’ degli ex Msi e An. Un percorso opposto ma simmetricamente simile a quello del comunista Antonio Giolitti, nipote di Giovanni, che nel 1956 lasciò il Pci per il Psi dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria.

La faida dei Giolitti, comunque, non è l’unica a dividere le celebri famiglie politiche. I parenti democratici di Robert Kennedy junior si sono distanziati dalla sua candidatura indipendente alle presidenziali Usa di novembre. Il rampollo deviato, complottista e novax, rischia infatti di favorire Donald Trump contro Joe Biden. Proprio come nel 2000 i pochi voti del verde Ralph Nader furono determinanti per l’elezione di George Bush jr contro Al Gore.

Tornando in Italia, non conosciamo le inclinazioni politiche dell'ultima generazione Amendola. Se Giorgia scovasse qualche discendente del comunista Giorgio e di suo padre, il liberale Giovanni, ecco un’altra candidatura ad effetto. 

Sempre che i più giovani conoscano la storia, però. Perché dieci anni fa un neodeputato grillino si stupì vedendo il busto di Giovanni Giolitti in un corridoio di Montecitorio. Pensava fosse il nonno dei proprietari della famosa gelateria davanti al Parlamento.

Wednesday, March 03, 2021

La tradizione del silenzio

Draghi e Brusaferro sono accomunati dalla virtù opposta a quella dell'italiano medio: la brevitas

di Mauro Suttora

HuffPost, 3 marzo 2021

Adoro Draghi e Brusaferro. Non a caso la rentrée del secondo in orario di punta tv ha coinciso con l’entrée del primo a palazzo Chigi. E con la sua ammirevole scomparsa dalla tv.

Draghi e Brusaferro sono accomunati dalla virtù opposta a quella dell’italiano medio: la brevitas. Tanto più preziosa in quanto da anni siamo logorati dalla logorrea politica, nel trionfo di chiacchieroni patentati come Conte e Renzi, Salvini e Berlusconi.

Draghi assomiglia invece al miglior primo ministro della storia italiana: Giovanni Giolitti. Il quale detestava parlare a tal punto che riuscì a farsi eleggere in Parlamento senza tenere neanche un comizio. Il parlamentare che non parlava. Naturalmente ciò poteva accadere solo in provincia di Cuneo, fra i laconici montanari del collegio di Dronero che gli rinnovarono la fiducia per quasi mezzo secolo.

“Perché parla così poco?”, chiesero a Giolitti. “Perché quando finisco di dire quel che devo dire, ho finito anche di parlare”.

L’esatto contrario di Arnaldo Forlani, la cui capacità di divagare rimane leggendaria: a un giornalista che gli faceva educatamente notare di avere parlato venti minuti senza rispondere alla sua domanda, rispose serafico: “Potrei continuare per ore”.

Giolitti affinò la sua stringatezza con il miglior ministro di Finanze e Tesoro della storia d’Italia: Quintino Sella, piemontese come lui. Era il suo direttore generale (stesso posto occupato da Draghi 130 anni dopo), e Sella lo convocava nel suo ufficio di primo mattino, con le finestre aperte. “Cosicché io, gelando, non vedevo il momento di essere congedato”, ricordò Giolitti. Risultato: i suoi rapporti furono i più sintetici mai ascoltati in quelle stanze.

Brusaferro era mio compagno al liceo classico di Udine. Già allora era serio, e quindi conciso, come tutti i veri friulani. Ho sperimentato sulla mia pelle la loro proverbiale assenza di facondia. La prima volta che venni invitato a cena dalla famiglia della mia fidanzata, tutto quel che mi disse suo padre fu, a un certo punto: “Mi passi le tegoline, per favore?”.

Ecco, assaporando l’assenza di Draghi dalla conferenza stampa per il suo dcpm, ho pensato che siamo in buone mani. Niente propaganda, nessuna vanteria su “modelli Italia” e “primati nei vaccini”. Spariti gli sproloqui “per rassicurare”.

Brusaferro è l’unico esperto desaparecido dalla tv e dalle polemiche negli ultimi mesi: ha parlato sempre e soltanto nella sua veste ufficiale di presidente dell’Istituto superiore di sanità, durante gli anonimi rapporti del venerdì.

Sono sicuro che non si presenterà alle elezioni e non diventerà assessore regionale in Puglia, come quell’altro scienziato.

Quanto a Draghi, il valore delle sue parole non da oggi è inversamente proporzionale alla frequenza con cui le pronuncia. Speriamo quindi che non dia retta ai tanti esperti di Scienze della comunicazione (laurea da abolire) i quali lo invitano a esternare, e che mantenga invece a lungo il suo ieratico silenzio.

Ci piacciono governanti concreti e noiosi come amministratori di condominio, magari un po’ grigi come quelli dei Grigioni svizzeri. Basta con i gigioni: a teatro e al circo torneremo dopo il virus. Grazie a Draghi e Brusaferro.

Mauro Suttora 

Sunday, December 20, 2020

Cent'anni fa il Natale di sangue a Fiume

Italiani contro italiani, 58 morti, duecento feriti: civili, militari, i dannunziani che un anno prima erano partiti da Ronchi dei Legionari per fondare il loro effimero e incredibile stato libero


Mauro Suttora

HuffPost, 20 dicembre 2020


Cent’anni dal Natale di sangue a Fiume, 1920. Italiani contro italiani, 58 morti, duecento feriti: civili, militari, i dannunziani che un anno prima erano partiti da Ronchi dei Legionari (ora aeroporto di Udine-Trieste) per fondare il loro effimero e incredibile stato libero.

La peggior strage compiuta dalle nostre forze armate in tempo di pace verso concittadini, dopo quella del generale Bava Beccaris nel 1898 a Milano.

Fiume, oggi Rijeka, terza città della Croazia, era un paradiso cosmopolita. Odiata quindi dai sovranisti di allora, italiani e croati, che la volevano tutta per loro. Porto dell’Ungheria nell’impero asburgico, aveva 50mila abitanti, per metà italiani.

Situata nell’ascella dell’Istria, contrariamente a Trieste prima del 1915 non fu scossa dal nostro irredentismo, né dal nazionalismo speculare slavo.

Le minoranze croate, ungheresi, tedesche ed ebraiche vivevano felicemente, arricchendosi in tranquillità accanto agli italiani nella belle époque del Carnaro. 

I piroscafi usciti dai cantieri Cosulich nella prospiciente isola di Lussino (oggi trasferiti a Monfalcone) solcavano gli oceani portando tutte le merci del mondo alla Mitteleuropa attraverso il porto fiumano.

Il sogno finisce con la prima guerra mondiale. Niente Dalmazia all’Italia, come promessoci dagli anglofrancesi nel patto di Londra. Così la frustrazione per la “vittoria mutilata” viene canalizzata da Gabriele D’Annunzio. Non vogliono darci Fiume? E noi ce la prendiamo, eia eia alalà.

Prova generale del fascismo: reduci, arditi, camicie nere, pugnali, gagliardetti, teschi. La funerea paccottiglia militarista permea l’impresa fiumana.

Ma attenzione, avverte Pier Luigi Vercesi nel suo bel libro Fiume, l’avventura che cambiò l’Italia (Neri Pozza, 2017): “Quell’anno diventa un laboratorio rivoluzionario politico, sociale, economico, e anche letterario e teatrale. D’Annunzio governa con un’invenzione al giorno. Fiume si trasforma in ‘città di vita’, dove tutto è concesso: le donne votano, l’omosessualità è tollerata, si può divorziare e ne approfitta Guglielmo Marconi, l’esercito viene abolito in tempo di pace, l’istruzione è gratuita, una nuova Costituzione sovverte le regole borghesi e monarchiche. Perfino Lenin è affascinato dal governo dannunziano”.

Insomma, il Vate conquista Fiume, ma la civiltà fiumana e l’amore libero conquistano i suoi legionari.

Non può continuare. Con il trattato di Rapallo del novembre 1920 fra Italia e la neonata Jugoslavia, Roma rinuncia alla Dalmazia (tranne Zara e l’isola di Lagosta) in cambio dello status di città libera per Fiume.

D’Annunzio rifiuta l’accordo, e Giolitti fa bombardare la città, ponendo fine all’avventura. Alle 4 di pomeriggio del 26 dicembre 1920 la nave Andrea Doria colpisce il Palazzo del governatore. Il poeta è ferito alla testa dai calcinacci nel suo studio. Due giorni dopo si dimette. 

Tuttavia, commenta Vercesi, “D’Annunzio muta il corso della storia d’Italia e probabilmente d’Europa, orchestrando la più reale rappresentazione dello spirito del tempo”.

Mauro Suttora

Wednesday, October 28, 2015

Elogio del riassunto

CONTRO LA PIAGA DEI LOGORROICI, RISCOPRIAMO LA VIRTU' DELLA SINTESI

Oggi, 21 ottobre 2015

di Mauro Suttora



Veni, vidi, vici. Il riassunto di Giulio Cesare su una battaglia vinta rimane insuperato, duemila anni dopo. E purtroppo non ci sono più politici come Giovanni Giolitti, che così spiegò cent’anni fa la propria laconicità: «Quando ho finito di dire quel che devo dire, ho finito anche di parlare».

Il problema è che proprio nell’era di Twitter e sms, i quali con il loro limite dei 140 caratteri ci dovrebbero costringere alla sintesi, scopriamo di non essere affatto capaci di riassumere. «Che non vuol dire solo essere brevi, ma anche saper cogliere il succo del discorso», avverte Ugo Cardinale, già docente di linguistica all’università di Trieste, autore del libro L’arte di riassumere (ed. Il Mulino).

I dati Ocse su lettura e comprensione sono tragici. Appena tre italiani su cento raggiungono i livelli più alti di competenza linguistica (rapporto fra lettura e comprensione), contro il 12% nella media dei 25 Paesi partecipanti.

«La prova che un testo è stato compreso sta nel saperlo riassumere», spiega a Oggi il professor Cardinale, «perché per riepilogare occorre non solo memoria, ma anche capacità di individuare le informazioni più importanti. Dobbiamo ricostruire mentalmente quel che abbiamo letto o ascoltato».

Ricordate i riassunti che si facevano a scuola? Negli ultimi decenni questa pratica è andata un po’ in disuso. Si privilegiano i dettati, sia alle elementari che alle medie. Per non parlare degli sciagurati test a scelta multipla, in cui basta piazzare una x sulla risposta giusta.
Così, quando arrivano alle scuole superiori, molti studenti si perdono di fronte a libri lunghi e complessi. «Non riescono a “scoprire il superfluo”», dice il professor Cardinale: applicare il setaccio della sintesi mentale per salvare i concetti-chiave.

L’incredibile caso di Pocahontas

Il resto dei danni lo fa la politica. Un esempio? «Una donna indiana d’America è promessa sposa del guerriero più forte del villaggio, ma anela a qualcosa di più e incontra il capitano John Smith».
È la trama, in due parole, del cartone animato Disney Pocahontas. Ma Netflix, la piattaforma di film in streaming che il 22 ottobre sbarca in Italia, l’ha cambiata così: «Una giovane ragazza indiana d’America prova a seguire il suo cuore e a proteggere la sua tribù, quando i coloni arrivano e minacciano la terra che ama».

Entrambi i riassunti sono giusti. Ma sembrano due film diversi. Le femministe e i paladini degli indiani hanno tacciato la prima versione di sessismo e razzismo. Così è piombata la mannaia del “politicamente corretto”.

«Proprio per questo sostengo che il riassunto è una questione non solo cognitiva, ma anche etica», dice Cardinale, «perché dobbiamo avere un grande rispetto dell’autore. Non si può riassumere seguendo i propri schemi mentali, occorre immedesimarsi nel pensiero dell’altro».

«Per riassumere leggo tre volte il testo, trovo le cose fondamentali e le appunto», dice Filippo Bonomonte, 14 anni, primo anno al liceo milanese Virgilio. «È l’unico modo di imparare, non solo in italiano ma anche in storia e geografia. Il problema semmai è qualche prof, che ripete dieci volte la stessa cosa».

Nel 1982 Umberto Eco chiese a dodici scrittori di condensare in poche righe il loro romanzo preferito. Alberto Moravia si cimentò con Delitto e castigo, Piero Chiara con I promessi sposi. Ma anche questo esperimento provocò controversie. Italo Calvino bocciò Alberto Arbasino, accusandolo di avere infarcito il suo riassunto di Madame Bovary con commenti personali.
   
Insomma, le pillole di wikipedia ci sembrano facili. «Invece sono difficilissime da concepire», conclude il professor Cardinale, «e infatti Pascal così si scusò con un amico: “Ti mando una lettera lunga, perché non ho avuto il tempo di scriverne una breve”».

Soluzione: limare, ridurre all’osso. E, per i discorsi, sottoporre gli oratori al supplizio che il ministro Quintino Sella infliggeva ai suoi collaboratori, fra cui il giovane Giolitti: «Teneva le riunioni alle sette del mattino, tutti noi in piedi, col freddo che entrava dalle finestre spalancate. Così ci sbrigavamo».

Mauro Suttora  

Wednesday, January 02, 2013

Silvio VI°


La resurrezione di Berlusconi, che si candida per la terza volta

Oggi, 20 dicembre 2012

di Mauro Suttora

Età di alcuni personaggi storici quando "tornarono in campo":

Churchill 76 (come Berlusconi oggi)
De Gaulle 68
Napoleone 46
Mussolini 60
Peron 78
Fanfani 74, 79
Giolitti 77

Aveva gli stessi anni di Silvio Berlusconi oggi (76) Winston Churchill nel 1951, quando tornò premier sei anni dopo la bocciatura da parte degli ingrati inglesi, nonostante avesse vinto la Seconda guerra mondiale. E Juan Domingo Peron era ancora più anziano nel 1973, quando a 78 anni ridiventò presidente del'Argentina.

Non è questione d'età, quindi. La «resurrezione» di Berlusconi, che si candida presidente del Consiglio per la sesta volta un anno dopo l'uscita da palazzo Chigi per opera di Mario Monti e di Giorgio Napolitano, ha parecchi precedenti nella storia.

Data la statura del personaggio, cominciamo con Napoleone. Il quale perse il potere giovanissimo, a 46 anni nel 1814, ma in fretta lo riconquistò dopo pochi mesi d'esilio all'isola d'Elba. Non è comunque un paragone beneaugurante per il nostro Silvio: com'è noto il suo ritorno durò appena cento giorni, prima della definitiva sconfitta a Waterloo nel 1815 e il secondo esilio in un'isola assai più lontana, Sant'Elena.

Più a lungo durò il tragico «secondo tempo» di Benito Mussolini, dopo la defenestrazione del 25 luglio 1943. Nel giro di due mesi il dittatore era già tornato a guidare la repubblica di Salò. Che però, reggendosi solo grazie ai tedeschi, dopo un anno e mezzo crollò.

Sono quelli di due grandi leader democratici, quindi, gli esempi più promettenti per Berlusconi. Churchill durò al potere quattro anni nella sua terza vita politica (dopo la prima come ministro conservatore dal 1908 al ’29 e la seconda come premier anti-Hitler dal ’40 al ’45). Nel 1955 abbandonò per sempre il potere, ma senza essere sconfitto: lasciò spontaneamente Downing Street al suo delfino Anthony Eden, dopo aver vinto anche il Nobel della Letteratura.

L’altro famoso «revenant» del ’900 è stato il generale Charles De Gaulle. Dimessosi sdegnoso da presidente nel 1946, fu richiamato in servizio a furor di popolo nel ’58, all’età di 68 anni. Un anno da premier, e poi ben dieci anni come primo presidente della Quinta Repubblica francese. Neppure il maggio ’68 riuscì a scalzarlo. Se ne andò un anno dopo, ma lasciando anche lui l’Eliseo al fedelissimo Georges Pompidou.

Molto più lungo, e in esilio a Madrid, il «digiuno» patito da Peron dopo la fine della sua prima presidenza (1946-’55): diciotto anni. Tornò a Buenos Aires nel ’73 a fianco della seconda moglie Isabel, che però non riuscì a sostituire la prima moglie Evita nel cuore degli argentini. E dopo otto mesi il vecchio populista morì d’infarto.
    
E in Italia? Berlusconi può rifarsi a due anziani statisti richiamati in servizio per risolvere situazioni turbolente. Il 77enne liberale Giovanni Giolitti nel 1920 formò il suo quinto governo, sei anni dopo il quarto, di fronte alle opposte turbolenze rosse e nere. Ma durò appena un anno, e alla fine i fascisti prevalsero.

Meno drammatici gli ultimi ritorni al governo del democristiano aretino Amintore Fanfani, già premier nel 1954, nel ’58 e poi fino al ’63, prima di diventare il ministro degli esteri di Aldo Moro con il centrosinistra. Nel 1982, a 74 anni, sostituì per pochi mesi Giovanni Spadolini a palazzo Chigi, perché la Dc non voleva andare al voto dell’83 sotto il primo premier laico.
Soprannominato «rieccolo» da Indro Montanelli, Fanfani guidò di nuovo il governo nel 1987 per la sesta volta a ben 79 anni: appena tre mesi, anche qui giusto il tempo di gestire le elezioni dopo la defenestrazione del socialista Bettino Craxi.
Mauro Suttora