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Tuesday, August 22, 2023

Viva la diversità, abbasso la normalità



Se bacchettiamo il generale bacchettone, trasformandolo in vittima ululante alla censura, in provocatore contro il "Mondo al contrario", rischiamo di regalargli il fascino di Franti

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 22 agosto 2023

Ho letto per curiosità il libro del generale Roberto Vannacci. Tutti criticano la sua frase "I gay non sono normali". Lui ci mette cinque pagine per arrivare a questa conclusione, consultando le stime sulla percentuale di gay nei vari Paesi, pare sotto il 5%. Certo, tutto dipende dal valore che si dà alla parola "normale". Se la "norma" fosse quella stabilita o praticata dal 95%, i gay sarebbero "anormali". Ma questo il generale non lo scrive, suonerebbe offensivo.

Nel 1974, quando cominciai a frequentare la sede del partito radicale a Udine, i ragazzi del Fuori (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano) erano invece orgogliosi di essere 'diversi', rivendicavano la loro 'non normalità'. Se qualcuno li avesse definiti normali, lo avrebbero insultato. "Diversi ma non perversi", era lo slogan del leader radicale Marco Pannella e del fondatore del Fuori Angelo Pezzana. Era mezzo secolo fa. Il mio nonno liberale (anzi, da laico illuminato votava più a sinistra: per il repubblicano Ugo La Malfa) definiva i gay "pederasti, invertiti, degenerati". 

Nel mio liceo ero l'unico radicale. Questo bastava perché alcuni compagni buontemponi mi prendessero in giro mettendosi spalle al muro quando mi incrociavano, dicendo "Occhio al culo, arriva il 'fenulli' (finocchio in friulano, ndr)". I radicali non hanno mai fatto campagna per il matrimonio gay. Una volta chiesi a Pannella perché. "Il matrimonio etero non ci interessa, perché dovremmo batterci per estenderlo agli omosessuali?".

Insomma, forse perché i gay radicali (cioè quasi tutto il movimento gay prima dell'Arcigay) si consideravano anche rivoluzionari, le nozze erano fuori dal loro orizzonte. Non avevano ansia di accettazione, anzi detestavano ogni "omologazione", concetto pasoliniano che era la loro (e nostra) stella polare. 

È morto da poco Francesco Alberoni. Per comprendere la parabola dei gay ci soccorre la sua descrizione del passaggio inevitabile dei movimenti dalla fase di stato nascente a quella di istituzione. Tutti i movimenti di liberazione, dagli omosessuali alle femministe, dai neri d'America agli antimilitaristi, hanno seguito lo stesso percorso. Dopo il riconoscimento hanno voluto posti in parlamento, cattedre universitarie, finanziamenti pubblici, spazi politici. Il potere, insomma. Perché va bene la controcultura degli anni 60-70 e i figli dei fiori, ma "flowers have no power", come ammonì Herbert Marcuse. Così, per esempio, perfino Martin Luther King fu contestato da Malcolm X e accusato di 'ziotommismo' dalle Pantere Nere che ne contestavano il cauto riformismo con sponda nei presidenti John Kennedy e Lyndon Johnson. 

Oppure, si parva licet componere magnis, ricordo personalmente la degenerazione del movimento antimilitarista in Italia dopo la conquista del diritto all'obiezione di coscienza contro il servizio militare nel 1972. Nacque la Loc (Lega obiettori di coscienza), che fatalmente smise di contestare le spese militari, cioè di "fare politica", riducendosi a sindacato degli obiettori. Normalizzata. 

Questo a sinistra. Ma anche a destra si ripetono a cent'anni di distanza le stesse dinamiche, ogni volta che i rivoluzionari entrano nelle istituzioni, e ancor più quando conquistano il potere. Le ghette che Benito Mussolini per la prima volta indossò per ricevere dal re l'incarico di primo ministro equivalgono alla soggezione di Giorgia Meloni nei confronti di Joe Biden e Ursula von der Leyen. 

Nel 1923 i sansepolcristi protestarono inutilmente per l'imborghesimento del fascismo; oggi, sempre si parva..., non sarà un Gianni Alemanno a rinfocolare la fiamma nel cuore di Giorgia. E allora, figurarsi Guido Crosetto, che fascista non è mai stato: ci ha messo tre secondi a far liquidare il generale della Folgore e il suo linguaggio, appunto, da caserma.

Il povero Vannacci tutto sommato nelle sue 350 pagine autopubblicate (un po' da pezzente: neanche un editore ha trovato?) si è limitato a mettere insieme la paccottiglia che i giornali di centrodestra e i talk di Rete4 ci ammanniscono ogni giorno. Ma viene impiccato per due o tre scivolate semantiche. E quella sui gay, paradossalmente, è massimamente rivelatrice. Perché dice di più sulla normalizzazione degli omosessuali che non su quella dei fascisti.  

Mezzo secolo fa i perbenisti stavano a destra e gli scostumati (altra parola desueta) che li scandalizzavano si collocavano a sinistra. L'odioso 'Signor Censore' della canzone di Edoardo Bennato era un democristiano clericale. Oggi è il contrario: nell'era della suscettibilità (copyright Guia Soncini) a offendersi per la parola "anormale" reclamando sanzioni è la sinistra. 

Il problema è che se bacchettiamo il generale bacchettone, trasformandolo in vittima ululante alla censura, in provocatore contro il 'Mondo al contrario' (titolo del suo libro), rischiamo di regalargli il fascino di Franti. La stessa aura da ribelle che avvolgeva Pannella e che mi attrasse quindicenne, curioso allora come oggi, in quella sede radicale piena di 'diversi' a Udine. Anche se io, a dire il vero, cercavo più che altro belle ragazze femministe. Poco importa se normali o anormali.

Monday, April 24, 2023

Il '68 di Belafonte



Fu il primo afroamericano a ottenere uno spazio tutto suo nel prime time Usa, e soprattutto carta bianca nella scelta degli ospiti

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 25 aprile 2023

È difficile oggi rendersi conto dell'impatto che ebbe Harry Belafonte nel febbraio 1968, quando condusse per una settimana il Tonight Show sul network statunitense Nbc. Ogni sera, davanti a oltre dieci milioni di esterrefatti benpensanti, il leggendario cantante appena scomparso offrì il massimo podio televisivo ai principali esponenti del movimento per i diritti civili e della controcultura.


La sua stessa presenza era storica: fu il primo afroamericano a ottenere uno spazio tutto suo nel prime time Usa, e soprattutto carta bianca nella scelta degli ospiti. Gli aveva lasciato temporaneamente la poltrona Johnny Carson, monumento catodico, che condusse il Tonight Show per trent'anni (1962-92) facendone uno dei programmi anche politici più ambiti: una specie di Maurizio Costanzo più Lilli Gruber più Fabio Fazio, poi lasciato in eredità a Jay Leno, oggi a Jimmy Fallon, e soprattutto al concorrente David Letterman.

Nel 1968 gli Stati Uniti erano una polveriera. Per tre motivi: la rivolta studentesca iniziata quattro anni prima a Berkeley col Free Speech Movement; i ghetti neri in fiamme, non placati dalla legge sui diritti civili che il presidente Lyndon Johnson aveva concesso a Martin Luther King; la guerra del Vietnam, che proprio in quei mesi raggiunse il suo apice con l'offensiva del Tet, massacrando decine di migliaia di giovani americani che tornavano a casa in bara o mutilati.

Quando Belafonte sottopose la lista dei suoi invitati ai dirigenti Nbc, loro barcollarono. Metà erano di colore, e fra i bianchi il più moderato era il giovane Paul Newman, che però quando arrivò in trasmissione si trasformò in un estremista radical. Purtroppo allora non tutte le trasmissioni tv Usa venivano registrate, cosicché oggi ce ne rimane solo qualche spezzone. Memorabile quello con M.L.King: l'ultima intervista del Nobel per la pace, che verrà assassinato il 4 aprile. Robert Kennedy annunciò la sua candidatura a presidente subito dopo la partecipazione, sfruttando l'onda di consenso e interesse che aveva provocato. Anch'egli ucciso. 

Notevoli anche Aretha Franklin e Sidney Poitier: il premio Oscar di Indovina chi viene a cena, come lo stesso Belafonte, in quel periodo era accusato di 'ziotommismo' dai neri più estremisti come Malcolm X, Stokely Carmichael, le nascenti Pantere nere. E invece entrambi non sembrarono affatto sottomessi alla maggioranza silenziosa di destra che di lì a poco mandò alla Casa Bianca Richard Nixon.

Il cantante di Matilda e Banana Boat colpì nel segno, e niente fu come prima. Tre anni fa Sky ha trasmesso un documentario su questa impresa di Belafonte, e sicuramente ora la riproporrà. Non perdetela. 

Wednesday, January 07, 2015

Usa: agenti contro neri

PERCHÈ LA POLIZIA DI NEW YORK CONTESTA IL SINDACO DE BLASIO?
Ai funerali degli agenti uccisi al culmine delle tensioni razziali, i colleghi hanno voltato le spalle al primo cittadino

Oggi, 31 dicembre 2014

di Mauro Suttora

È incredibile che 50 anni dopo il discorso «I have a dream» di Martin Luther King gli Stati Uniti siano ancora alle prese con violenze razziali. Che questo succeda proprio sotto la presidenza di Barack Obama, primo nero alla Casa Bianca. E che venga criticato il sindaco di New York Bill de Blasio, simbolo dell’integrazione: nipote di italiani sposato a una donna di colore.

Ai funerali di due poliziotti newyorkesi (uno di origine spagnola, l’altro cinese) uccisi da un giovane di colore, i loro colleghi hanno contestato il sindaco voltandogli la schiena mentre parlava. Lo accusano di parteggiare per i neri i quali, pur essendo soltanto il 6% degli statunitensi maschi, rappresentano il 40% dei due milioni di incarcerati. 

La polizia di New York è un feudo irlandese, come l’attuale assessore e il precedente. Ma la seconda nazionalità più rappresentata fra gli agenti è l’italiana. Il che non ha impedito la protesta contro De Blasio.

Gli agenti Usa hanno il grilletto facile contro i giovani neri? Sì. Ma bisogna considerare che questi ultimi commettono la metà degli omicidi negli Usa. Anche se il 93% delle loro vittime sono pure loro di colore. Non esiste, quindi, una guerra razziale bianchi/neri. 

I poliziotti americani sono più duri di quelli europei. Sparano appena qualcuno punta contro di loro un’arma. Il problema è nato perché in agosto hanno ucciso un 18enne afroamericano a Ferguson (Missouri), rapinatore ma disarmato, e non sono stati neppure processati: colpa dei giudici, semmai.

Sunday, April 28, 2013

Bonino ministro Esteri


di MAURO SUTTORA

Libero, 28 aprile 2013

Nel 1994 il neopremier Berlusconi aveva deciso: i suoi due commissari italiani alla Ue sarebbero stati Giorgio Napolitano e Mario Monti. A quel punto, però, Marco Pannella piombò a palazzo Chigi, litigò con Giuliano Ferrara ministro dei Rapporti col Parlamento e sponsor di Napolitano, e impose la nomina a Bruxelles di Emma Bonino al posto del presidente uscente pds della Camera.

Risale a quell’episodio, paradossalmente, l’amicizia politica fra Napolitano e la Bonino. Che si concretizza oggi con la nomina di quest’ultima a ministro degli Esteri, caldeggiata dal presidente. Napolitano infatti, per nulla offeso dallo scippo radicale, frequentò Bruxelles negli anni seguenti come membro dell’assemblea parlamentare Nato. E apprezzò molto la Bonino commissario Ue. La stima è cresciuta nel biennio 2006-8: lui presidente, lei ministra del Commercio estero e Politiche europee che riuscì a trascinarlo alla marcia radicale per l’amnistia, e a fargli appoggiare la campagna di Pannella contro il sovraffollamento delle carceri.

Il biennio nel governo Prodi è alla base anche del buon rapporto fra la Bonino ed Enrico Letta. Proprio mentre i radicali si scontravano con i segretari Pd Veltroni e Franceschini, il pragmatismo governativo ha unito Emma al sottosegretario alla Presidenza.

Ma il vero, grande sponsor della Bonino sono i sondaggi popolari. Nonostante il suo partito sia all’1-2% (nessun eletto il 25 febbraio), lei risulta regolarmente in testa da anni. Ha vinto tutti quelli indetti online dai giornali prima delle presidenziali. E si è piazzata sesta alle ‘quirinalie’ di Grillo, davanti a Prodi, il magistrato Caselli e Dario Fo.

La Bonino mette d’accordo la sinistra (Bersani è un altro suo sponsor, ultimamente perfino il Manifesto tifa per lei), la destra (Berlusconi da vent’anni cerca inutilmente di separarla di Pannella) e il centro: Monti la apprezza come bocconiana (anche se laureata non in economia: tesi su Martin Luther King nel ‘72 in lettere straniere, corso poi abolito perché gli studenti erano troppo di sinistra), ottimi rapporti con l’ex radicale Benedetto Della Vedova oggi montiano (unico senatore ex finiano sopravvissuto), e battaglia comune contro la pena di morte con Sant’Egidio del ministro uscente Andrea Riccardi.

Papa Francesco e l’impegno sulle carceri hanno avvicinato i radicali alla Chiesa: la loro radio dedica al Vaticano un programma domenicale condotto da Giuseppe Di Leo dai toni quasi edificanti. Sono lontani gli scontri su aborto e fecondazione assistita.

È rimasto solo qualche complottista di estrema sinistra o grillino a contestare sia alla poliglotta Bonino (inglese, francese, spagnolo, arabo) che a Letta la partecipazione a due riunioni del club Bilderberg: lei nel ’98, invitata da commissaria Ue, lui l’anno scorso a Chantilly (Usa) come vicesegretario Pd. Ma quanto sia pericoloso questo raduno accusato di «massoneria» lo dice il nome di uno degli altri 5 partecipanti italiani del 2012 (oltre a John Elkann, Bernabè di Telecom e Conti dell’Enel): Lilli Gruber.
Mauro Suttora  

     

Wednesday, November 19, 2008

Leggenda Obama

LA VITA DEL NUOVO PRESIDENTE USA

Oggi, 6 novembre 2008

New York (Stati Uniti)
Non capita tutti i giorni che il figlio di un pastore di capre kenyota e di una signorina del Kansas incontrata per caso a Honolulu diventi l’uomo più potente del mondo.

Eppure proprio questo è successo nella notte del 4 novembre: la trionfale elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, al di là delle idee politiche sue e dell’avversario sconfitto, John McCain, rappresenta un avvenimento storico.

L’unico voto paragonabile a questo nella storia moderna degli Stati Uniti è stato quello per John Kennedy nel 1960. Ma i Kennedy, seppure cattolici, erano dei miliardari bene incistati nella nomenklatura americana. Obama, invece, è un totale «homo novus». Conviene quindi conoscere bene il suo passato per prevedere che cosa farà in futuro.

«Non ero abbastanza nero per i neri, e abbastanza bianco per i bianchi»: così lo stesso Barack descrive con amarezza la propria gioventù nell’autobiografia I sogni di mio padre (ed. Nutrimenti). Il libro è in vendita in Italia da un anno, ma fu scritto da Obama già nel 1995. E che un politico senta non solo il bisogno di scrivere la storia della propria vita ad appena 34 anni, ma che la compili prima ancora di essere stato eletto a qualsiasi carica (Barack è diventato senatore statale dell’Illinois - paragonabile a un nostro consigliere regionale - solo nel ‘97), e soprattutto che la tiri così per le lunghe da trarne un tomo monumentale con più di 400 pagine, dice tutto sull’ambizione del nostro. Ambizione giustificata, comunque: secondo Joe Klein, che l’ha recensita sul settimanale Time, «si tratta forse della migliore autobiografia mai scritta da un politico americano».

«Era ambizioso anche il padre», raccontano i parenti e i compagni d’università di Barack Obama senior. Il papà di Obama nasce nel 1936 nel profondo Kenya, sulle rive del lago Vittoria: dalla parte opposta rispetto alle spiagge cosmopolite di Malindi. Appartiene alla tribù dei Luo, che fino agli anni Trenta scorrazzava felice nuda per la savana. I maschi indossavano solo un perizoma di cuoio. Leggenda vuole che proprio il nonno di Obama, Hussein Onyango, sia stato fra i primi «eccentrici» a coprirsi di vestiti occidentali, cuciti con stoffe colorate.

Obama senior è descritto dal figlio come «pastore di capre», ma forse è solo civetteria: in realtà pare che la sua fosse una famiglia benestante di allevatori. Il ragazzino comunque camminava dodici chilometri al giorno per andare a scuola. A vent’anni va a Nairobi e scopre che si possono ottenere borse di studio universitarie per gli Stati Uniti. Nel frattempo sposa la prima delle sue quattro mogli e ha due figli (particolare nascosto alla mamma di Obama).
Il programma di 81 borse di studio è finanziato dalla fondazione Kennedy: un altro anello che collega i due presidenti.

Obama senior finisce all’università delle Hawaii, dove con la sua personalità brillante e forte (alcuni dicono prepotente) ammalia la studentessa del primo anno Stanley Ann Dunham, figlia unica di un commesso viaggiatore del Kansas e della moglie Madelyn (la famosa nonna di Obama, morta a 86 anni proprio alla vigilia del voto).

Nel ’61 nasce Barack (in arabo «benedetto», in ebraico «fulmine»), ma poco dopo suo padre lo molla assieme a Ann, se ne va ad Harvard e, da buon poligamo, si mette con un’altra americana. Poi tornerà in Kenya, farà altri due figli con la prima moglie (in totale Obama ha sette fratellastri), e morirà alcolizzato in un incidente d’auto nell’82. Va a trovare il figlio alle Hawaii solo una volta in vita sua, quando Obama ha dieci anni.

Mamma Ann, però, non fa la parte della ragazza madre abbandonata e inacidita. «Papà è dovuto tornare nel suo Paese a lottare per la libertà»: questa è l’immagine da eroe che inculca nel piccolo Obama, per giustificare l’assenza. Poi, sempre ottimista e piena di curiosità ed energia (doti ereditate dal figlio), si risposa con uno studente indonesiano e si trasferisce a Jakarta. Lì Obama frequenta le elementari, ma per le medie la mamma preferisce farlo tornare a Honolulu dai nonni. Che riescono a iscriverlo nella scuola media e liceo più prestigioso delle Hawaii, quello dove vanno i ricchi.

Obama racconta del disagio che provava con i compagni, unico nero, e della loro sorpresa quando videro sua madre: «Ma è bianca!» Ottimo studente, determinatissimo anche nello sport, sogna di diventare campione di basket. Nel ’79, dopo la maturità, emigra in continente: prima a Los Angeles, dove frequenta due anni l’Occidental College, e poi a New York, dove si laurea in relazioni internazionali nella prestigiosa Columbia university. Vive sulla 94esima strada, al confine fra East Harlem e la Manhattan dei ricchi: una scelta carica di significato.

Poi il primo impiego nella scintillante New York reaganiana degli anni ’80, soldi facili e cocaina. Lui ammette di avere sniffato e fumato spinelli (meno ipocrita del «Però non ho inalato» clintoniano), ma quell’ambiente non fa per lui. Ha sogni di grandezza, vorrebbe diventare scrittore, cerca dal mondo l’attenzione che non ha avuto da piccolo. Scopre la politica «di base», si offre come volontario e nell’85 emigra a Chicago.

È la sua fortuna: occuparsi dei problemi degli altri è la sua vocazione. Poi, sulle orme del padre, va ad Harvard a specializzarsi in diritto, e lì il suo talento e il suo carisma esplodono: primo presidente nero della prestigiosa Rivista di legge. Il secondo regalo il destino glielo riserva al ritorno a Chicago: appena assunto in un studio legale specializzato in diritti civili, gli mettono accanto la futura moglie Michelle per «tirarlo su».

Anche in politica è fortunatissimo: eletto la prima volta nel ’97 perché gli altri candidati vengono squalificati. Batosta nel 2000, alle primarie per deputato a Washington. Ma lui, testardo, prova e riprova. E nel 2004 diventa l’unico senatore di colore degli Usa (altro che «integrazione») perché il suo avversario è accusato dalla ex moglie: «Mi voleva portare in un club porno!»

In quale altro stato del mondo un politico può essere eletto presidente dopo soli quattro anni di esperienza parlamentare nazionale? Solo in America, baby. La «Terra delle opportunità», come la chiama sempre Obama, grato, nei suoi trascinanti discorsi. Soltanto quattro persone sono riusciti a infiammare come lui gli Stati Uniti con la parola, nell’ultimo mezzo secolo: i due Kennedy, Martin Luther King e Ronald Reagan.

Anche qui, particolare incredibile: il suo speechwriter, quello che gli scrive i discorsi, ha solo 27 anni. Il suo motto «Yes we can» è già diventato leggenda, come la «Nuova frontiera» di Kennedy o la «Grande società» di Lyndon Johnson.

Adesso siamo alla selezione di ministri e funzionari per la Casa Bianca (che fu costruita da schiavi neri nel 1800). Il più potente sarà il capo di gabinetto Rahm Emanuel (detto Rahmbo), 49 anni, figlio di un israeliano, e questo rassicura gli ebrei. Obama non ha fatto il servizio militare (la leva fu abolita nel ’75), in cambio Emanuel è stato volontario dell’esercito d’Israele nella prima guerra del Golfo. La «voce» di Barack invece sarà il fido 37enne Robert Gibbs, suo addetto stampa al Senato.

Gli unici a trattarlo male dopo la vittoria sono stati la Borsa (crollata del dieci per cento nelle 48 ore successive, ma ormai non fa più notizia) e il capo della Russia Vladimir Putin, che da vero maleducato lo ha accolto annunciando l’installazione di nuovi missili a Kaliningrad, 400 chilometri da Berlino.

I problemi stanno per arrivare. Ce ne saranno tantissimi, con la crisi economica e le due guerre (Iraq, Afghanistan) in cui gli Usa sono infognati da troppi anni. I fans di Barack si accorgeranno che non è Superman. Ma, in ogni caso, è iniziata l’Era di Obama.

Mauro Suttora


RIQUADRO: Concepito la notte della vittoria di John Kennedy

Un'incredibile coincidenza lega Barack Obama a John Kennedy. Il nuovo presidente degli Stati Uniti è stato probabilmente concepito la notte in cui Kennedy vinse la sua elezione, l'8 novembre 1960. Esattamente nove mesi dopo, il 4 agosto 1961, a Honolulu la giovanissima Stanley Ann Dunham, 18 anni, dà alla luce Barack Hussein: figlio dello studente 24enne Obama arrivato dal Kenya due anni prima con una borsa di studio per l'università delle isole Hawaii.

Questione di ore, al massimo di giorni. Ma basta per legare le due elezioni che hanno creato più speranze nell'era moderna: quella del 43enne Kennedy, il primo presidente cattolico e il più giovane nella storia degli Stati Uniti (morì che era più giovane di Obama adesso), e quella del primo presidente di colore.


RIQUADRO 2: L'inventore di «Yes we can» ha 27 anni

L’inventore dello slogan di Obama «Yes we can» è un timido 27enne del Massachusetts, laureato dai gesuiti: Jon Favreau. Nel 2004 era volontario per la sfortunata campagna presidenziale del democratico John Kerry. Prima dello storico discorso alla Convention con cui Obama si fece conoscere al mondo lui si accorse di un piccolo errore sul «gobbo», segnalandoglielo.

Da allora è stato imbarcato nel suo staff, e nel gennaio di quest’anno ha inserito il motto «Sì, possiamo (farcela)» nel discorso con cui il candidato ringraziava per l’insperata vittoria nella primaria dell'Iowa contro Hillary Clinton. Lo segue in tutti i suoi spostamenti, tenendo in mano il Blackberry per aggiungere, togliere e limare le dichiarazioni ufficiali in ogni momento. Com’è successo anche nel discorso di Chicago dopo la vittoria, quando ha inserito al volo un grazie a McCain dopo i nobili auguri dell’avversario sconfitto. Obama comunque è un bravissimo scrittore, sia di libri sia di discorsi. Potrebbe anche farcela da solo ma, come ha detto a Favreau, «le mie giornate hanno solo 24 ore».

Mauro Suttora

Wednesday, September 10, 2008

Michelle Obama e Hillary

LA CONVENTION DEMOCRATICA DI DENVER

di Mauro Suttora

Oggi, 30 agosto 2008

Denver (Stati Uniti)
La più ambiziosa delle First ladies ha dovuto lasciare il posto alla più riluttante. Povera Hillary Clinton, per otto anni moglie del presidente americano Bill, da altri otto potentissima senatrice dello stato di New York, e negli ultimi otto mesi avversaria sconfitta del candidato presidente Barack Obama: ora le tocca sorridere a Michelle, moglie di Barack.

Che sorriso forzato e amaro, il suo. Ha raccolto 18 milioni di voti nelle primarie, a gennaio era sicura di vincere. Ora invece deve simulare felicità per il trionfo di Obama alla convention democratica di Denver. E per di più, a 60 anni, vede ascendere la stella di Michelle, che a 44 anni è adulata dal mensile Usa Vanity Fair come «donna più elegante del pianeta».

E pensare che ancora pochi mesi fa Michelle non ne voleva sapere di mettersi in prima fila accanto al marito. «Le campagne elettorali sono tremende, con tutte quelle mani da stringere e quei fondi da raccogliere», aveva confessato nel 2000, quando Obama fallì il primo tentativo di farsi eleggere a Washington (c’è riuscito solo nel 2004, ed è incredibile come negli Usa possa diventare presidente una persona con appena quattro anni di esperienza parlamentare).

«Non c’è proprio nulla che ti piace, della carriera politica di Barack?», le chiese il suo capo all’università di Chicago. E lei, scherzando ma non troppo: «Beh, dopo gli inviti in così tanti salotti mi è venuta qualche idea in più per arredare la casa…»

E invece alla convention è stata lei a pronunciare il discorso d’apertura. Preceduto addirittura da un documentario sulla sua vita, onore finora riservato solo ai candidati presidenti. E così l’America ha potuto ammirare la deliziosa bimba con le treccine del quartiere South Side, il ghetto nero di Chicago, figlia di un impiegato comunale colpito da sclerosi multipla, che via via diventa sorella, moglie e madre.

«Mostrare le radici di Michelle serve a bilanciare l’eccessivo “internazionalismo” di Obama», spiegano gli esperti di campagne presidenziali, «perché Barack è figlio di un keniota, è nato a Honolulu, è cresciuto in Indonesia, si è laureato ad Harvard… Troppo “fighetto” per l’elettorato popolare e patriottico, che gli preferisce l’ex soldato John McCain».

Così Michelle è stata costretta a lanciarsi nella mischia. Ora tutta l’America sa che i suoi vestiti Gap costano 79 dollari, perché siamo in tempi di crisi e quindi basta con i tailleur firmati di Hillary. Le femministe l’hanno criticata dopo che si è dimessa dall’ospedale in cui era funzionaria per dedicarsi a tempo pieno alla campagna. Ma la posta in gioco è troppo alta: «Ora o mai più», dicono sia i neri d’America, che con il 12 per cento della popolazione hanno un solo senatore su cento (Obama, appunto), sia i supporter del partito democratico che perdono da 40 anni (tranne le parentesi Carter e Clinton).

Il problema è che, mentre a giugno i sondaggi davano Obama davanti a McCain con un distacco di otto punti, adesso i due candidati al voto del 4 novembre sono appaiati. Il presidente George Bush, con le sue interminabili guerre d’Afghanistan e Iraq, resta impopolare. Ma Obama è considerato troppo inesperto per affrontare le crisi internazionali, come la recente invasione russa della Georgia.

La quale si è trasformata in un giallo dopo l’accusa del premier russo Vladimir Putin: «Gli Stati Uniti hanno spinto la Georgia ad attaccare l’Ossezia per favorire un candidato alla presidenza». Inaudito: Bush avrebbe provocato apposta il conflitto perché in tempi di tensione il repubblicano McCain, ex prigioniero di guerra in Vietnam, verrebbe visto dall’elettore medio come un migliore «comandante in capo» delle forze armate Usa.

Così Obama si è scelto come candidato vicepresidente l’esperto Joe Biden, senatore da 36 anni e presidente della Commissione esteri. Gliel’ha consigliato Caroline Kennedy, la figlia di John e Jackie anche lei sul palco a Denver. Il momento più commovente della convention è stato il discorso d’addio di suo zio, il vecchio senatore Ted colpito da tumore al cervello. Ted, lungimirante, aveva preferito Obama a Hillary già all’inizio delle primarie. Così la fiaccola della famiglia politica democratica più famosa d’America ha saltato una generazione, quella dei sessantenni Clinton, ed è finita nelle mani dei quarantenni Obama.

Non è un mistero che Barack sia affascinato dal mito di John e Bob Kennedy, e intenda proseguirne l’opera interrotta dagli spari di Dallas (1963) e Los Angeles (1968). Ma c’è un altro grande statunitense che Obama ha voluto onorare, scegliendo proprio l’anniversario del suo discorso più famoso (28 agosto 1963) per pronunciare la propria accettazione della candidatura: Martin Luther King. «I have a dream», ho un sogno, aveva proclamato il premio Nobel della pace prima di essere anche lui ucciso.

Il sogno rimane lo stesso, quarant’anni dopo: che neri e bianchi possano raggiungere una parità effettiva, e non solo formale. Ora si sono aggiunte altre minoranze, in quell’inimitabile crogiolo che restano gli Stati Uniti: ispanici, asiatici, arabi. Il primo presidente di colore nella storia d’America rappresenterebbe un simbolo potentissimo di uguaglianza. Anche per il resto del mondo.

Mauro Suttora

Friday, July 11, 2008

I 90 anni di Nelson Mandela

Oggi 9/07/2008

La terza vita di Mandela

i 90 anni del premio nobel per la pace sudafricano

I potenti del mondo applaudono Nelson, eroe della lotta contro il razzismo. Prima guerrigliero, poi in carcere per 27 anni, infine padre della patria saggio e non violento. Un esempio per l' Africa

di Mauro Suttora

Londra.
Di premi Nobel per la pace viventi ce ne sono parecchi: dagli ex presidenti Jimmy Carter e Mikhail Gorbaciov a Lech Walesa e Al Gore, dal Dalai Lama alla birmana Aung San Suu Kyi. Ma lui è l' unico che mette d' accordo tutti, da destra a sinistra, dal Nord al Sud del mondo: Nelson Mandela, leggenda planetaria. E così, fra tante brutte notizie, eccone una bellissima: il "nonno del Pianeta" compie 90 anni.

La data esatta del compleanno è il 18 luglio: pensate che quando lui nacque nel 1918 non era ancora finita la Prima guerra mondiale, e Hitler e Stalin erano degli sconosciuti. Il mondo gli si è stretto attorno la scorsa settimana con il concerto di Hyde Park a Londra, cui hanno assistito 46.664 spettatori. Lo stesso numero di matricola che per 27 lunghissimi anni Mandela ha portato cucito sulla propria uniforme di carcerato.

Sulle orme di Gandhi

Ripercorrere la storia della sua vita dà i brividi. Perché, come Gandhi in India, Nelson è riuscito a dare a 42 milioni di sudafricani di colore la libertà senza spargere una goccia di sangue. Certo, nella lunga lotta contro l' apartheid ci sono stati tanti massacri. Famigerato rimane quello di Soweto nel 1976: centinaia di morti fra i manifestanti neri del ghetto colpiti dai poliziotti bianchi. Ma dopo la sua liberazione, nel febbraio 1990, Mandela riuscì a condurre il proprio popolo in una lotta non violenta esemplare, che, nonostante altri scontri nel ' 92, portò alle prime elezioni libere due anni dopo. E Mandela venne eletto presidente.

La sua parola d' ordine, dopo l' uscita dal carcere, è sempre stata una sola: "Riconciliazione". Gli ex nemici, la stragrande maggioranza nera e indiana e la minoranza bianca dei cinque milioni (12 per cento) di boeri e inglesi, dovevano guardarsi negli occhi, parlarsi e perdonarsi reciprocamente. "Non c' è spazio per le vendette", ha ripetuto Mandela in questi 18 anni.

Purtroppo gli avvenimenti di questi giorni nel vicino Zimbabwe, l'ex Rhodesia del Sud dove un altro patriarca di colore, l' ottuagenario Robert Mugabe, si è trasformato da liberatore in despota, dimostrano che la lezione di Mandela non è scontata.

Anzi, quasi mai nella martoriata Africa i padri della patria hanno il coraggio di Mandela. Il coraggio di abbandonare il potere dopo averlo conquistato, così come Nelson ha fatto nel 1999. Si è ritirato lasciando spazio al nuovo presidente, Thabo Mbeki, e il Sudafrica continua a essere un' isola felice in un continente devastato da dittatori, guerre, povertà, fame e stragi.

Tutto è relativo, naturalmente. Anche il Sudafrica si trascina i suoi problemi, con la miseria perdurante nei ghetti neri, l' Aids che colpisce il venti per cento della popolazione, le stragi etniche contro gli immigrati di colore. Ma in confronto a quasi tutti gli Stati vicini (Zimbabwe, Mozambico, Angola, Congo) oggi in Sudafrica si sta bene.

Non era detto che finisse così. All' inizio, e per molti decenni, la lotta per l' uguaglianza dei neri sudafricani fu non violenta. La iniziò nel 1907 con il primo "satyagraha" ("forza della verità", un misto di digiuni e disobbedienza civile) proprio un giovane avvocato indiano emigrato nella città sudafricana di Durban: Gandhi. E lo stesso Mandela quando venne arrestato per la prima volta nel ' 56 assieme a 150 attivisti dell' African National Congress stava organizzando un boicottaggio uguale a quelli che proprio in quei mesi stava portando avanti Martin Luther King nel Sud degli Stati Uniti.

Poi però, per frustrazione e mancanza di risultati, la nuova generazione dei leader neri (Mandela, Luthuli, Tambo e Sisulu) si diede alla lotta armata. L' esempio era l' Algeria. Nel ' 61, dopo il massacro di Sharpeville (80 vittime di colore), cominciò la guerriglia con i primi attentati, e proprio Mandela era il capo dell' ala militare del movimento di liberazione. Ma fu quasi subito arrestato, e condannato all' ergastolo.

Per 18 anni questo possente erede di una famiglia reale del Transkei subì i lavori forzati in miniera a Robben Island. Poteva ricevere una sola visita e una sola lettera ogni sei mesi. Ma spesso le lettere venivano in gran parte cancellate dai censori. Ciononostante, Mandela riuscì a laurearsi in Legge per corrispondenza all' università di Londra. Nell' 81 fu perfino candidato a cancelliere dell' università, perdendo il voto contro la principessa Anna d' Inghilterra.

Intanto in tutto il mondo le campagne contro la segregazione in Sudafrica si rafforzavano. Il regime dell' apartheid subiva il boicottaggio economico decretato dall' Onu, e la parte più avveduta della minoranza bianca premeva per un' apertura.

Nell' 82 Mandela fu trasferito in un' altra prigione, e tre anni dopo il presidente razzista Botha gli offrì la libertà in cambio della rinuncia alla lotta armata. Mandela rifiutò, ma ormai la trattativa era aperta. E nel ' 90, scomparsa la minaccia comunista, il nuovo presidente bianco De Klerk lo liberò: un gesto coraggioso, che valse anche a lui il premio Nobel con Mandela nel ' 93, nove anni dopo quello al vescovo sudafricano Desmond Tutu.

Winnie, moglie arraffona

La terza vita di Mandela, quella da statista e padre della patria, non è stata esente da scandali e ombre. Innanzitutto quelli provocati dalla seconda moglie Winnie, arraffona e arrivista, da cui Nelson dovette divorziare nel ' 96. Due anni dopo, proprio nel giorno dell' 80° compleanno, si è risposato con l' attuale moglie, Graça Machel, vedova dell' ex presidente mozambicano suo amico.

Poi c' è stata la disputa sull' Aids, che per troppo tempo il governo sudafricano ha sottovalutato, ritenendolo quasi un' invenzione dell' Occidente. Infine, non si può dire che dopo la parità dei diritti politici i neri sudafricani abbiano ottenuto anche la parità economica con i bianchi. Le periferie di Città del Capo, Durban e Johannesburg sono ancora ghetti poveri e violenti. Ma ormai Mandela fa parte della storia.

riquadro:

Il figlio morto di Aids

PURTROPPO C' È VOLUTA LA MORTE DEL FIGLIO DI 54 ANNI, MAKGATHO, NEL 2005 PER FAR CAPIRE A MANDELA E A TUTTO IL SUDAFRICA LA TRAGEDIA DELL' AIDS. FINO AD ALLORA, INCREDIBILMENTE, I GOVERNANTI DI UN PAESE IN CUI UN ABITANTE SU CINQUE È SIEROPOSITIVO, E I MORTI PER LA MALATTIA SONO 600 AL GIORNO, LA MINIMIZZAVANO E CONSIGLIAVANO DI CURARLA CON LE ERBE DELLA SAVANA. MA IL TABÙ È STATO INFRANTO DA MANDELA, CHE COLPITO COSÌ INTIMAMENTE HA AMMESSO L' ERRORE. IN AFRICA 30 MILIONI DI PERSONE HANNO CONTRATTO IL VIRUS DELL' AIDS. IL 60 PER CENTO SONO DONNE.

Mauro Suttora

Wednesday, June 18, 2008

Obama vince le primarie

Elezioni usa. Cosa significa la vittoria di Obama

A 40 anni dalla morte di Bob Kennedy, gli Stati Uniti hanno un nuovo mito: Barack. Ora un nero può diventare presidente. Una rivoluzione

di Mauro Suttora

New York (Stati Uniti), 6 giugno 2008

Una coincidenza da fare accapponare la pelle: il 5 giugno Barack Obama ha conquistato la candidatura del partito democratico per le presidenziali americane di novembre. In quello stesso giorno, 40 anni prima a Los Angeles, veniva assassinato Robert Kennedy, dopo avere ottenuto anche lui quella candidatura. Due miti che si stringono la mano, due leggende che si saldano a distanza di quattro decenni: quella del primo possibile presidente di colore degli Stati Uniti, e quella del secondo dei fratelli Kennedy che tentò la scalata alla stessa poltrona, pagando anch' egli con la vita come il fratello John cinque anni prima a Dallas.

"Mi sono accorto che stiamo vivendo un momento storico solo ieri mattina, quando in autobus un passeggero sconosciuto ha commentato la vittoria di Obama con il conducente", dice Hector Garcia, un nero che gestisce una bisteccheria ad Harlem, il quartiere dei neri di New York. "Anche i miei clienti hanno cominciato a parlare di Obama, e perfino i miei vicini di negozio, un barbiere e un ottico, mi hanno fermato sul marciapiede elettrizzati dall' accaduto".

Negli Stati Uniti il 12 per cento della popolazione è di colore. Ma è dai tempi dei Kennedy, dagli anni Sessanta appunto, che per loro l' orologio sembrava essersi fermato. Infatti, dopo l' abolizione dell' apartheid negli Stati del Sud e la parità dei diritti civili ottenuta da Martin Luther King (assassinato due mesi prima di Robert Kennedy in quell' orrendo 1968), la minoranza di colore non ha fatto grandi progressi sociali.

Certo, si è formata una media borghesia di colore che in molte città conduce una vita paragonabile a quella della middle class bianca. Certo, in molte professioni l' accesso dei neri è ormai garantito: lo stesso Obama e sua moglie Michelle sono entrambi avvocati. Certo, dopo l' ambasciatore Andrew Young nominato dal presidente Jimmy Carter nel ' 76, e dopo i segretari di Stato Colin Powell e Condoleezza Rice nominati da George Bush nel 2000, anche in politica quasi tutte le porte sono state aperte. E perfino nel big business qualche nero si è fatto strada, come Richard Parsons che dal ' 95 guida il gigante dei media Cnn Time Warner. Ma in generale le statistiche sono incresciose. Nei ghetti neri la criminalità è altissima, così come gli stupri e le ragazze madri. Una normale famiglia con padre e madre che non divorziano dopo qualche anno è quasi una rarità. E i neri perdono la gara anche con le nuove minoranze: surclassati da asiatici e ispanici.

"Smettiamola di lamentarci e di dare la colpa alla società dei bianchi per le nostre condizioni d' inferiorità", ha ammonito il personaggio televisivo Bill Cosby nel 2005, "la responsabilità è nostra: rimbocchiamoci le maniche e smettiamola di pensare che la nostra cultura è quella dei ragazzotti ignoranti della musica rap". Parole dure, ma che che hanno colto nel segno. Perfino Obama, oggi, non vuole più che l' emancipazione dei neri sia affidata solo alle "quote" obbligatorie delle cosiddette affirmative action, cioè i posti garantiti ai neri nelle migliori università e in molti posti di lavoro pubblici.

La storia della sua vita, d' altronde, è lì a garantire per lui: figlio di uno dei tanti neri che non si sono assunti la responsabilità di fare il padre, e che quindi spariscono dopo avere messo incinte le madri dei loro figli, si è fatto strada studiando. Laureato alla Columbia di New York, specializzato ad Harvard, quando fu preso per una sostituzione estiva in uno studio legale di Chicago venne affidato alla supervisione dell' unica altra avvocata di colore dello studio, anche lei con un curriculum brillante (Princeton e Harvard): Michelle Robinson. "L' ho invitata a pranzo e poi a vedere il film Fai la cosa giusta di Spike Lee. Ora è mia moglie", ha raccontato lui. Barack, che aveva sette anni quando Robert Kennedy morì, ha fatto la cosa giusta anche in questi ultimi mesi, quando ha sbaragliato poco a poco Hillary Clinton. "Lei era troppo aggressiva e piena di sé all' inizio delle primarie", spiegano gli analisti, "si è addolcita troppo tardi".

Per le prossime settimane l' interrogativo è: Obama prenderà Hillary come vicepresidente ? Lo sognano molti democratici, anche se alcuni come l' ex presidente Carter avvertono: "Metterebbero assieme soltanto le loro debolezze". Vinta, ma ancora orgogliosa, nel discorso in cui ha dovuto ammettere la sconfitta, Hillary ha promesso un pieno appoggio a Barack contro il candidato repubblicano John McCain. Però sa che non pochi dei 18 milioni di statunitensi che hanno votato per lei alle primarie potrebbero scegliere alla fine McCain. Quindi sta trattando con gli uomini di Obama, e il prezzo del suo impegno sarà alto. Innanzitutto l' ex avversario vittorioso dovrà aiutarla a pagare i 30 milioni di dollari di debiti della sua campagna. Finora Obama si è impegnato per 12, ma non è abbastanza. E poi, se non la vicepresidenza, qualcosa spunterà. Per esempio la carica che adesso è della Rice: quella di Segretario di Stato.

La verità di cui nessuno può apertamente parlare negli Stati Uniti, perché le questioni razziali sono tabù, è che molti ispanici e asiatici democratici che hanno votato per la Clinton sceglierebbero McCain piuttosto che votare per un nero come Obama. Oppure si asterranno. Questo il furbo McCain l' ha capito, e ora si è messo incredibilmente a corteggiare gli elettori di Hillary amareggiati per la sconfitta. Loda la Clinton, sottolinea che sul ritiro dei soldati dall' Iraq lei è meno decisa di Obama. E non parliamo dell' assistenza sanitaria, che Hillary vorrebbe gratuita per tutti come in Europa, mentre Obama è più cauto.

Insomma, i giochi sono ancora aperti. E non è per niente sicuro che Obama vinca l' elezione a presidente. Per questo Barack sta pensando ad altre mosse a sorpresa. Come la vicepresidenza a Caroline Kennedy, figlia di John. Per riunirsi al mito della grande famiglia.


Didascalia
Obama. famiglia da leggenda Barack Obama, 47 anni, con la moglie Michelle, 44, e le figlie Malia Ann, 10, (a sinistra) e Natasha, 7.

Mauro Suttora

Wednesday, May 14, 2008

Carmen Lasorella

Libro-intervista ad Aung San Suu Kyi

Roma, 14 maggio

L’immagine che le ritrae assieme risale ormai a dieci anni fa. Ma il tempo sembra essersi fermato per la povera Aung San Suu Kyi, premio Nobel della Pace, che è ancora prigioniera dei generali birmani. Come nel 1998, quando Carmen Lasorella andò a intervistarla a Rangoon. In quel periodo la leader dell’opposizione birmana (e presidente della Birmania, se la giunta avesse rispettato il risultato delle elezioni del 1990) si trovava in uno dei suoi rari momenti di semilibertà. I dittatori infatti per qualche tempo le permisero di uscire una volta al mese dalla sua casa, anche se sotto un costante e soffocante controllo. Così Lasorella potè così incontrarla nella sede di un’ambasciata occidentale, della quale però ancora oggi non vuole rivelare il nome: «Promisi discrezione allora, e la mantengo adesso».

Il testo di quella lunga e bella intervista è stato pubblicato adesso da Bompiani, nel libro Verde e zafferano. A voce alta per la Birmania (euro 16,50). Lasorella lo ha scritto sull’onda dell’emozione che ha percorso il mondo intero lo scorso settembre, quando migliaia di monaci buddisti sono scesi in piazza reclamando libertà. E sono stati massacrati dai militari. Così com’è capitato questo inverno ad altri monaci, quelli tibetani, anch’essi picchiati, incarcerati e torturati dai militari cinesi.

Cos’è che non va, in quelle parti del pianeta? Perché i dittatori e le soldataglie cinesi e birmane, in mancanza di nemici armati, se la prendono con le persone più pacifiche della Terra? La signora Aung San e il Dalai Lama sono i simboli viventi della nonviolenza, eppure vengono trattati crudelmente dai loro avversari. Sembra quasi che i gerarchi comunisti di Pechino (senza l’appoggio dei quali anche quelli di Rangoon cadrebbero) vogliano spingere il Tibet e la Birmania alla rivolta violenta e armata, magari terrorista, visti i risultati nulli di decenni di lotte gandhiane.

Per discuterne siamo andati in via Teulada, nella sede della Rai dove anche Lasorella sta subendo nel suo piccolo, da quattro anni, i suoi «arresti domiciliari» personali, un po’ come Aung San Suu Kyi. «Non scherziamo», si schermisce lei, «paragonare la mia situazione alla sua sarebbe insultante per tutti». Fatto sta che il mobbing patito dall’ex corrispondente dei Tg Rai da Berlino (fino al 2003) e poi conduttrice del programma 'Visite a domicilio' le ha lasciato tutto il tempo necessario per scrivere il libro.

La «pena» che i vertici Rai infliggono ai propri giornalisti in disgrazia per mancanza di padrini politici, infatti, è quella di non farli lavorare. Pena dolcissima, perché lo stipendio viene percepito egualmente (tanto è a carico dei contribuenti), ma allo stesso tempo crudele per una come Lasorella abituata a girare il mondo come inviata di guerra. Tutti ricordano l’imboscata che patì nel ‘95 in Somalia, e che costò la vita all’operatore che l’accompagnava, Marcello Palmisano.

Scalpita impaziente, quindi, la signora 53enne nella sua stanza-prigione dorata della Rai, proprio sopra gli studi dove ogni giorno arrivano gli ospiti per registrare il Porta a porta di Bruno Vespa. E s’immalinconiva ancor di più lo scorso settembre, quando di fronte alle notizie che arrivavano di ora in ora sul suo computer dalla rivolta birmana, lei non poteva prendere e partire.

«Ma partire per dove, poi?», ragiona adesso a voce alta. Perché quando i dittatori massacrano, chiudono immediatamente le frontiere. Nessun giornalista può testimoniare le stragi. Tuttora quella cinese di piazza Tian an men, a quasi vent’anni di distanza, non ha un numero preciso di morti: centinaia? Migliaia? Decine di migliaia? Nessuna immagine, nessun resoconto.

E allora ben venga questa testimonianza della signora più dolce della Terra, quella Aung San Suu Kyi ormai 62enne che vent’anni fa tornò da Londra nella sua Birmania, e da allora si batte eroicamente per la libertà. Il 10 maggio i generali birmani hanno organizzato un referendum su una nuova costituzione, ma sembra solo l’ennesimo trucco di una giunta sanguinaria per mantenere il potere.

«La solidarietà dei popoli per la Birmania è diventata una ciclopica onda anomala», commenta Lasorella nel libro, «ha attraversato tutti i continenti. Ma la reazione politica rimane arenata nelle secche della retorica. Nei palazzi di vetro, a Washington come a Bruxelles, il cinismo degli interessi costruisce gli alibi all’impotenza. Anche di fronte ai bagni di sangue». E fa notare come tutti gli embarghi economici decretati dall’Onu contro la Birmania non riguardino gas e petrolio. Infatti la francese Total in Birmania è di casa. Ma la vera chiave per la liberazione della Birmania è la Cina: finché a Pechino comanderanno i dittatori, i militari di Rangoon saranno protetti.

«Li rivedo, i generali impettiti nelle parate che a Rangoon la tv trasmetteva con sussiego», racconta Lasorella. «Vietato filmare le loro caserme e i loro palazzi perfino dall’esterno, perfino i tassisti sono terrorizzati quando vedono la cinepresa di una turista, come io avevo finto di essere per potere entrare in Birmania».

La giornalista italiana e il suo operatore arrivano a Rangoon su due aerei diversi e in due giorni diversi. Durante l’intervista Aung San si dimostra ispirata, carismatica, convincente, paziente, ma anche pragmatica e a volte perfino sbrigativa. Ha studiato e insegnato nelle università inglesi, quindi inorridisce davanti alla retorica. Lasorella ha avuto il permesso di parlarle un’ora, ma poi pranza con lei, conversa in privato a telecamere spente, e va via dopo un intero pomeriggio dall’ambasciata.

«Com’è giovane!», la descrive la giornalista: «Magra e minuta, vestita con studiata semplicità: un corpetto grigio stile coreano a quadretti, gonna lunga color zafferano, una fascia ricamata larga sui fianchi, i sandali scuri, come la borsa di panno a sacchetto».

La Rai ha trasmesso solo parte dell’intervista, nel programma Prima donna dieci anni fa. Nel libro c’è invece il testo completo, emozionante. Anche perché da anni ormai intervistare la Signora della Birmania è impossibile, e questa rimane una delle rare interviste concesse ai giornalisti del mondo intero. Un documento quasi storico, quindi.

La domanda forse più importante che Lasorella rivolge ad Aung San Suu Kyi è: «Lei, come Gandhi e Martin Luther King, ha scelto la via della nonviolenza. Ma ha di fronte un regime dittatoriale, feroce. Come pensa di rovesciarlo?»
E la signora, pacata: «Come ho detto più volte, da sola non posso ottenere alcun risultato. È necessario l’aiuto di tutti. Abbiamo scelto la nonviolenza perché riteniamo che, diversamente, non renderemmo un buon servizio al nostro Paese. Non vogliamo cambiare regime con la violenza».

Tempi lunghi, quindi. Come Nelson Mandela, altro Nobel per la pace, rimasto in carcere per 28 anni prima di essere liberato nel 1990 (in curiosa staffetta con Aung San, che quell’anno venne arrestata), e di diventare infine presidente di un Sud Africa libero dall’apartheid.
Non resta che sperare che la Birmania non debba aspettare così tanto.

Mauro Suttora

Friday, June 09, 1989

Tien an men, gli studenti

Europeo, 2 giugno 1989

Mal di Cina

55 giorni a Pechino: perche' gli studenti vogliono restare in piazza

Democrazia e diritti umani e' il ritornello di tutti a Tien an men. Ma dietro slogan e cartelli si cela l'amara realta' di un paese povero e di una partitocrazia corrotta. Che i giovani vorrebbero cambiare con la non violenza per credere ad un futuro

dal nostro inviato Mauro Suttora

La signorina Wu Mei Li ha 18 anni e ne dimostra 13. Porta un vestitino rosa, ha un fioccone sui capelli, e per venire a Pechino si e' messa le scarpe di vernice nere col tacco. Frequenta il primo anno di universita' a Xian, l'antica capitale dell'impero cinese a 900 chilometri da Pechino. Facolta': lingue straniere. Da grande fara' la traduttrice, studia l'inglese da un anno e lo parla gia' piuttosto bene. Sa anche il giapponese.

Adesso Wu si aggira in piazza Tienanmen con gli occhi sgranati per la felicita', la stanchezza e la meraviglia, tenendo per mano la sua compagna di classe Chen Hong Moi. Ci hanno messo due giorni per arrivare in treno , lei e altri trenta universitari della sua facolta' . Ma ne valeva la pena : l' ultimo week end di questo " maggio rivoluzionario " cinese rimarra' a lungo per la piccola Wu quello piu' eccitante della sua vita . E la prima volta che viene a Pechino . " Siamo scappate giovedi' , senza dire niente ne' alle nostre famiglie , ne' al preside di facolta' . Se no , non ci avrebbero permesso di venire " . Sono arrivate venerdi' sera e hanno dormito in piazza , per terra.

La notte e' tiepida a Pechino , non fa freddo , non c' e' umido . Sacchi a pelo e stuoie le distribuisce Chai Lin , studentessa ventenne che in questo mese di lotte si e' conquistata sul campo il pomposo titolo ufficiale di " Presidente della protezione della Tienanmen " . E lei a organizzare i 10 mila ragazzi che continuano imperterriti a occupare l' immensa piazza sacra della capitale cinese . Cibo , soldi , acqua , tende , pulizia , megafoni , gabinetti , servizio d' ordine : Chai Lin si occupa di tutto , e per questo adesso e' ricercata dalla polizia , che arresterebbe volentieri i leader per decapitare il movimento.

Il regime ha gia' bloccato i conti bancari su cui finivano i soldi per la solidarieta' agli studenti , assegni provenienti da tutto il mondo . Non e' mai echeggiata finora , pero' , l' accusa di ricevere soldi dall' estero . Quella di Chai Lin e' , comunque , una clandestinita' relativa . La sera di sabato 27 maggio e' riapparsa al comizio sotto il monumento agli eroi della Rivoluzione (quella comunista di 40 anni fa) e , dall' alto del suo metro e mezzo di statura , ha arringato gli studenti con un discorso calmo e ragionato , del tutto privo di retorica .

C' erano anche gli altri due leader piu' in vista della rivolta studentesca : i pallidissimi e glabri Wan Dan (con i suoi occhialoni panorama alla Spike Lee e i capelli alla Beatles) e Wuercaixi (diventato famoso quando ha osato rimproverare al premier Li Peng di essersi presentato in ritardo a uno dei pochi incontri che l'establishment ha concesso agli studenti) . Lo slogan degli studenti di Berkeley, un quarto di secolo fa , era : " Non fidatevi di nessuno oltre i trent' anni". I contestatori cinesi di oggi sono molto piu' giovani : quasi tutti sulla carta d' identita' esibiscono il ' 68 e dintorni come data di nascita.

La rivoluzione di Wu Mei Li e' durata poco . E dovuta tornare a Xian gia' domenica sera, " e speriamo che il preside non si accorga della nostra assenza " . Altre venti ore di treno filate , con i controllori ferroviari ufficialmente redarguiti dal governo perche' non fanno pagare il biglietto ai ragazzi che accorrono a Pechino . Wu ha fatto in tempo , comunque , a visitare un po' dei viali della metropoli , sfilando con il corteo di domenica 28 .

Ti piace Pechino , Wu ? " Si' , perche' e' la capitale del mio paese " . Perche' hai voluto anche tu venire fin qui a protestare , patriottica Wu ? " Perche' voglio democrazia , diritti umani e giustizia " . Cos' e' la democrazia ? " Riformare il governo " . E i diritti umani ? " Poter andare dove si vuole . Io , per esempio , vorrei venire a lavorare come guida turistica a Pechino , ma so gia ' che non potro' farlo . Troppi raccomandati , da padri potenti , dal partito . . . Ma tu piuttosto , e' vero che vieni dall' Italia ? Ah , e' il paese della moda , tutti quei bei vestiti . . . Me lo fai un autografo , mi dai il tuo indirizzo ? " .

Tutti chiedono autografi a tutti , in piazza Tienanmen . Ragazzi e ragazze fanno amicizia offrendosi a vicenda quaderni aperti e penne per firmare . Poi , quando cala il fresco della sera , da qualche tenda si leva il suono della chitarra ; canzoni pop cinesi , ma con melodie che sembrano estratte di peso dai successi di Al bano e Romina.

Forse questa e' la rivoluzione piu' dolce della storia . In un mese e mezzo di manifestazioni , con la terza superpotenza della Terra sbeffeggiata da ragazzi digiuni di politica , solo qualche contuso in una lite periferica con un gruppetto di soldati . Dove hanno imparato la nonviolenza i ragazzi della Tienanmen ? " Gandhi ? Ah , si' , il padre dell' indipendenza dell' India " , borbotta Liu Dong , 21 anni , secondo anno di ingegneria tessile all' universita' di Pechino , vicino alla bandiera rossa con su scritto il nome della sua facolta' . " Martin Luther King ? L' abbiamo studiato anche lui al liceo . Grandi uomini entrambi , hanno lottato per la democrazia e i diritti umani . . . Ammiro tutti quelli che lottano per la giustizia " , sentenzia definitivo .

Inutile cercare di parlare troppo di politica con i giovani cinesi dell' 89 : idee poche , semplici e senza fronzoli . Il ritornello " democrazia e diritti umani " . Un " no al comunismo " dato quasi per scontato ma mai gridato apertamente : tanto quello economico si va sgretolando da dieci anni . E poi perche' pestare inutilmente i calli a ideologi ottantenni ? Questi studenti sono pragmatici e astuti . " Che facciamo se l' esercito viene a sgomberarci ? Ce ne andiamo noi via per primi " , ride Liu , " e poi torniamo in piazza quando se ne vanno i soldati " . Non opporrete resistenza ? " No " , e ridiventa serio , " per la democrazia si puo' lottare solo pacificamente . Anche i soldati devono capire quello che vogliamo " .

Forse aveva ragione Gandhi : la nonviolenza e' antica come le montagne . Ma insomma , il maggio cinese dell' 89 ( " Le 1789 de la Chine " , in francese su un cartello al corteo del 28 maggio) ha vinto o ha perso ? Il detestato premier Li Peng e' sempre li' nella cittadella segreta dove i gerarchi comunisti vivono e lavorano , senza uscirne mai . Anzi , si e' rafforzato . Pero' sono sempre li' anche gli studenti , dopo ben dieci giorni di legge marziale inapplicata . In teoria , l' esercito dovrebbe controllare la citta' . In pratica , Pechino in questi giorni e' una delle citta' piu' smilitarizzate del mondo : non si vede in giro ne' un poliziotto ne' un soldato .

Le uniche dieci divise in piazza Tienanmen sono quelle delle guardie al mausoleo di Mao , alla bandiera e al Palazzo del popolo . I 150 mila soldati chiamati dal dittatore Deng Xiaoping per " fermare il caos " non sono ancora riusciti a entrare in citta' . E in citta' il caos non c' e' : a parte Tienanmen , la vita scorre tranquilla , la gente lavora e riempie come sempre di bici le strade .

Ecco un comico resoconto apparso sul quotidiano dell' esercito : " I soldati e gli ufficiali trasferiti a Pechino per imporre la legge marziale dicono che prima o poi riusciranno a convincere i residenti . . . Tutte le truppe hanno aggiunto capitoli gloriosi agli annali dell' esercito popolare " . Ora , se e' certamente glorioso per un esercito il non sparare sui propri concittadini , e' vero anche che esso e' stato bloccato da una marea umana . Esattamente come capito ' ai militari pro Marcos nell' 86 a Manila .

Il Tg del 29 maggio ha informato che i soldati , dopo essere stati costretti a dormire sui camion per diversi giorni , si sono anche loro sistemati in tenda . Ma molto lontano dalle tende degli studenti in Tienanmen . Il Tg non ha detto , pero' , che il comandante del 38 corpo d' armata , proveniente da Baoding , si e' rifiutato di muoversi perche' tra i manifestanti c' e' sua figlia . E pare che anche il ministro della Difesa stia con gli studenti.

Che strano esercito , che simpatica legge marziale , che buffo dittatore ! L' unica carica attuale di Deng e' , ufficialmente , quella di presidente della commissione forze armate . Ma e' lui il solo , vero padrone della Cina . " Possiamo soltanto aspettare che muoia " , commenta fatalista Bao Gang , 22 anni , studente di relazioni internazionali assoldato in questi giorni come interprete da una Tv americana . Altri sono piu' cattivi : " Deng , ti si e' atrofizzato il cervello , vattene in pensione a giocare a bridge ", intima un poster sulla piazza .

Minuscolo , malfatto e macerato dai suoi 84 anni , il grande vecchio non vuole ritirarsi . Gorbaciov e Raissa , nel loro storico incontro di due settimane fa , lo hanno quasi preso in braccio , stringendolo affettuosamente come un bambolotto . Ma il vecchietto ha ancora una tempra d' acciaio . Il suo passatempo preferito e' mangiarsi i propri attempati delfini ogni volta che questi simpatizzano con gli studenti : Hu Yaoban due anni fa , Zhao Zyang adesso .

Zhao , 70 anni , segretario del partito comunista , lo ha liquidato cosi' : " Ho tre milioni di soldati dietro di me " . L' incauto Zhao gli ha risposto : " Io ho tutto il popolo cinese " . E lui gli ha spiegato : " Allora non hai nulla " . E invece il " nulla " durante questo maggio ha dimostrato di poter contare qualcosa , in Cina .

Gli studenti sulla Tienanmen sono uno schiaffo permanente in faccia a Deng . La loro primavera sembra adesso avere come avversario piu' temibile l' estate , che a Pechino e' gia' arrivata : con il suo caldo , i suoi 35 gradi , la tortura di stare seduti per terra sotto tende di cellophane tenute in piedi da canne di bambu' , o al riparo di qualche ombrellone .

Nell' afa , nelle lunghe ore di attesa , le notizie , vere e false , arrivano e si diffondono come cerchi di pietre buttate in uno stagno . Lunedi' 29 si e' alzata altezzosa l' ennesima sfida al regime : una statua della Liberta' di ben 20 metri , costruita in una sola notte dagli studenti con un' impalcatura di tubi . Naturalmente , l' hanno dedicata " alla democrazia , ai diritti umani e alla legalita " .

Martedi' 30 un improvviso thriller . C' e' chi giura che il governo sta per mandare i soldati all' assalto della statua . Immediatamente torna l' atmosfera di mobilitazione . Le fonti divergono , però c' e' chi valuta in un milione i pechinesi tornati sulla Tienanmen per difendere la Liberta' . Ma i soldati non si fanno vivi e la statua resta li' . Come Mitterrand con la sua piramide del cinese Pei al Louvre , piazzata sulla verticale dell' Etoile , anche gli studenti di Pechino hanno intaccato una storica prospettiva : quella fra il ritratto del presidente Mao e il mausoleo che lo fronteggia , un chilometro piu' in la' .

Adesso la maggioranza degli studenti (o forse una minoranza di arrabbiati , comunque la maggioranza di quelli che occupano Tienanmen) ha deciso di prolungare il sit in fino al 20 giugno . La proposta dei loro capi Wuercaixi e Wan Dan , di levare le tende alla fine del mese e di limitarsi a occupare la piazza ogni domenica , non e' passata . " Staremo qui fino alla vittoria " , annuncia Liu , fiero e inesausto . Quale vittoria , Liu ? Volete le dimissioni di Li Peng e Deng ? " No , ci basta la convocazione del Congresso nazionale del popolo " . Che e' quanto di piu' simile esista in Cina ai nostri Parlamenti : naturalmente non e' eletto , ma non e' neanche controllato totalmente dal partito . Si dovrebbe riunire nel palazzo in cui Gorbaciov e' dovuto entrare dalla porta di servizio , per non inciampare negli studenti . Il suo segretario e' convocato per il 20 giugno , e per questo i ragazzi della Tienanmen hanno scelto quella data come nuovo obiettivo .

Adesso pero' , giorno dopo giorno , aumentano le probabilita' di un intervento dell' esercito . Deng finora ha intelligentemente evitato la prova di forza , e ha usato i militari solo per purgare i liberali di Zhao . Ma se gli studenti in piazza diminuiranno , sara ' piu' facile sgomberarli . I segni di stanchezza ci sono . Non e' uno scherzo tenere occupata la piazza piu' grande del mondo . Dopotutto , gli studenti del maggio ' 68 a Parigi non si sognarono certo di occupare per un mese place de la Concorde , ne' gli italiani piazza del Popolo o gli americani Times square .

Nel " camping " studentesco rifiuti e cartacce svolazzano dappertutto e fermentano sotto il sole di mezzogiorno . Negli ultimi giorni sono arrivati nella piazza migliaia di studenti dalle altre citta' cinesi , accampandosi in permanenza . Gli universitari che abitano a Pechino , invece , in famiglia o nei college , possono andare a turno a dormire e a darsi una lavata a casa .

Liu ci mette un quarto d' ora in bici per raggiungere il suo appartamento : sono 40 metri quadrati dove si affollano in cinque . Oltre al fratello e ai genitori c' e' la nonna . " Mio padre e' d' accordo con me . Anche lui , dal ' 47 al ' 49 , fece parte di un movimento : quello di Mao contro il Kuomintang . E combatte' la guerra civile . Ma non e' iscritto al partito : allora i comunisti stavano dalla parte del popolo , adesso non piu' . Molti leader del Pc sono ricchi e corrotti . E anche i loro figli " .

Fra due anni , quando comincera ' a lavorare come ingegnere , Liu prendera' 55 yuan (15 mila lire) al mese , come tutti i giovani al primo impiego . Unico vantaggio : la leva non e' obbligatoria , e gli universitari sono troppo preziosi per non lavorare . Suo padre , pensionato , guadagna 200 yuan (60 mila lire) , che e' lo stipendio medio di professori e impiegati . E vero che un chilo di riso costa solo cento lire , e il biglietto del bus dieci . Ma e' comunque miseria nera , Terzo mondo , anche se nessuno muore di fame . Perfino la bici e' un lusso . L' auto , neanche parlarne : 20 mila yuan . Solo una famiglia su cinque ha il frigo .

Le ragioni della rivolta sono gia' tutte qui . Forza Wu , coraggio Liu ! Avrete trent' anni nel Duemila : il prossimo secolo sara' tutto vostro . E forse , con un po' di fortuna , riuscirete a farlo cominciare con qualche anno d' anticipo. Senza ammazzare nessuno, questa volta.

Mauro Suttora

Saturday, March 02, 1985

Se sei verde ti tirano la Petra

Germania Ovest/La leader degli ecologisti contesta il suo movimento

Opportunisti. Bugiardi. Noiosi. Petra Kelly descrive in questa intervista esclusiva i difetti dei verdi tedeschi. E rivela sorprendenti progetti

dal nostro inviato a Bonn (Germania Ovest) Mauro Suttora

Europeo, 2 marzo 1985


“Cincinnato? No, veramente non ricordo chi sia…” Petra Kelly sorride, minuta e pallida, nel suo ufficio al settimo piano nel palazzo del parlamento a Bonn. È l’unica, fra i 27 deputati verdi eletti due anni fa, che in marzo non si dimetterà a metà mandato per far posto ai primi dei non eletti, in omaggio al principio di rotazione delle cariche in uso fra gli ecologisti tedeschi.

Tale privilegio, secondo i maligni, le è stato concesso anche perché se abbandonasse i Grünen, come ha minacciato, imitando il generale antiatomico Gert Bastian che lo già fatto un anno fa, essi non raggiungerebbero più il numero minimo necessario per formare un gruppo parlamentare, con relativa perdita di finanziamenti e guarentigie varie.


Signora Kelly, Cincinnato è quell’antico capo romano che lasciò il potere per il suo podere in campagna senza pretendere ricompense: il simbolo del disinteresse. Non dite anche voi verdi di essere il partito dei cittadini normali, contro i politici di professione?


“Ma io sono favorevole alla rotazione. Però ogni quattro anni, a fine legislatura. Dopo soli due anni è un disastro: c’è troppo poco tempo per imparare le cose”.


Funzionaria Cee a Bruxelles, 37 anni, studi nelle migliori università statunitensi, collaboratrice di Martin Luther King e Bob Kennedy, Kelly è da sempre (cioè dal 1979, anno della loro fondazione) la leader carismatica dei verdi tedeschi. Assieme all’avvocato Otto Schily, il Saint-Just che ha provato la corruzione dell’ex presidente della Repubblica democristiano Rainer Barzel, e allo ‘spontaneista’ Joschka Fischer, autore secondo il Nobel Heinrich Böll dei migliori discorsi pronunciati ultimamente al Bundestag (nonché espulso dallo stesso per aver gridato “buco di culo” al presidente), è lei la testa pensante del partito ecopacifista che sta mettendo a soqquadro la politica tedesca.

Le prossime elezioni a Berlino Ovest e nella Saar nel marzo 1985 vedranno con tutta probabilità un altro loro successo. Per quelle di maggio in Renania-Vestfalia i verdi non avranno neanche bisogno di fare campagna elettorale: quale miglior propaganda per loro del recente allarme smog che ha sconvolto tutta la Ruhr?

A Tubinga i Grünen hanno già il 21%, a Heidelberg il 18%, in alcune città hanno scalzato i socialdemocratici come secondo partito, in altre hanno il vicesindaco. A Wuppertal, 350mila abitanti, il sindaco.

Migliaia di studenti, pensionati, casalinghe e altri dilettanti della politica sono entrati nei consigli comunali, condizionando l’azione del governo in ogni campo: dall’inquinamento (il dc di destra Friedrich Zimmermann, ministro dell’Interno nel governo Kohl, è costretto a litigare con i partner europei per imporre la benzina senza piombo) al censimento (per bloccare il quale, e siamo in Germania perbacco, ai verdi è bastata una semplice minaccia di boicottaggio condotta con le loro tipiche armi ‘straccione’: spille, adesivi, volantini), fino alla politica estera. Secondo il settimanale Usa Newsweek la sofferta installazione de missili atomici Pershing in Germania Ovest è stata per la Nato una ‘vittoria di Pirro’, visto che molti tedeschi scivolano sempre più verso il neutralismo.

Niente di più facile quindi che alle prossime elezioni politiche del 1987, scomparsi i liberali, i Grünen diventino l’ago della bilancia fra Spd (socialdemocratici) e Cdu (democristiani). Ma già adesso il loro 6% ha un peso specifico sproporzionatamente maggiore.

Eccola qua Petra Kelly, in una delle rare interviste che concede. Non perché faccia le bizze, ma perché nel firmamento dei verdi alle stelle è vietato brillare: gli ecologisti vedono con diffidenza i mass media, e accusano di esibizionismo chiunque di loro diventi troppo famoso. “Nell’ultimo anno non sono mai apparsa in tv, eppure molti continuano a criticarmi perché mi metterei in mostra. E questo capita anche a Schily. È una sindrome verde, una malattia infantile: punire le persone che sono state elette come rappresentanti”.


Non rimarrà nessuno con lei, degli attuali deputati?


“Sì, a Schily è stata concessa una proroga, ma solo fino alla fine dei lavori della commissione d’inchiesta sulle tangenti Flick. E Milan Horacek, esule cecoslovacco, resterà a Bonn fino a settembre perché ha sostituito Hecker

[Klaus Hecker è il deputato verde che palpava le segretarie. Allontanato, è stato ridotto a neologismo: le ragazze ‘alternative’ indossano magliette con la scritta ‘Don’t hecker me’ sul seno, ndr]. Questa della rotazione in realtà è una questione importante. Però noi la vendiamo al mondo come una nuova cultura politica, mentre la realtà che vedo al nostro interno è un po’ diversa, piena di bugie e ipocrisie”.


Perché è così dura con i suoi compagni di partito?


“Alcuni di loro vorrebbero letteralmente rispedirmi subito al mio lavoro alla Cee di Bruxelles. Ma pretendono che continui, contemporaneamente, a occuparmi di politica. Il che è semplicemente ridicolo: l’ho fatto per cinque anni, è impossibile. Me ne andrò fra due anni, al termine del mio mandato. Mentre tanti altri si dimettono adesso, ma solo per farsi rieleggere nell’87: sono degli opportunisti, mi disgustano. Io voglio finire il mio lavoro qui al Parlamento di Bonn, in particolare nel campo dei tumori infantili [la sorella di Kelly morì di cancro da piccola, ndr], del disarmo e dei diritti umani”.


Dopo cosa farà?


“Mi piacerebbe trasferirmi e andare a vivere per un po’ a Mosca o in Germania Est. Voglio lavorare con gruppi femministi e di difesa nonviolenta. Ma prima devo terminare il mio impegno con la Cee: ancora un anno e mezzo a Bruxelles”.


Lei appartiene alla corrente ‘fondamentalista’ dei verdi. Cosa significa?


“Significa che vogliamo operare una rivoluzione nonviolenta. Ma per far questo, e spesso i verdi lo dimenticano, ci vuole forza spirituale, e non lotta per il potere. La nostra regola principale dev’essere: non obbligare mai qualcuno a fare qualcosa che non vuole, di cui non è convinto. Sono delusa, perché invece i verdi ex marxisti hanno un atteggiamento ancora molto cinico nei confronti del potere, della manipolazione, e ridono quando si parla di spiritualità”.


Ma uno dei vostri filosofi, Rudolf Bahro, sembra addirittura pervaso da un furore religioso: grida al tracollo della civiltà industriale, con i verdi nuovi monaci che salvano il salvabile.


“Ho parlato di spiritualità, non di religione. Dico che bisogna essere onesti, non predicare una cosa e farne un’altra, come capita anche ad alcuni ‘fondamentalisti’ di Francoforte che si dicono per la rotazione a tutti i costi, ma poi si scopre che loro siedono in consiglio comunale da cinque anni filati. ‘Fondamentalismo’ significa fedeltà ai nostri principi fondamentali, senza pensare ad andare al potere o ad allearci con la Spd. Un ministro verde sarebbe la nostra morte”.


Il suo non è l’odio degli ex?


“Sono stata socialista negli anni ’70, come molti altri verdi. Ma vedo con dispiacere, giorno dopo giorno, nelle decisioni concrete prese in Parlamento, che la Spd è ancora molto indietro. Loro sono a favore della Nato, vogliono un’Europa terza superpotenza… Faccio un esempio: l’altro ieri in commissione rimanevano alcuni fondi per il Costa Rica. Benissimo, dico io, finanziamo gli ospedali. E invece no, i socialisti li hanno dati alla polizia del Costa Rica, capisce, alla polizia!”


Tutti i movimenti nonviolenti della storia hanno avuto un grande leader: Gandhi, Luther King, Walesa in Polonia…


“Sempre uomini, naturalmente”.


… i verdi tedeschi invece hanno quasi la mania di eliminare chiunque assomigli a un capo.


“È vero, in Germania c’è paura dei leader, paura dei führer. Per questo cerchiamo sempre di avere coordinatori, di non dare mai troppo potere a una sola persona per troppo tempo. Nonviolenza vuol dire prendere su di sé la sofferenza di un’eventuale punizione. Per esempio, anche in un gruppo di poche persone ci sarà sempre qualcuno che dovrà assumersi la responsabilità di coordinare, ma senza dominare. Quando protestammo in piazza Rossa a Mosca l’anno scorso, all’ultimo momento qualcuno aveva un po’ paura: c’era la polizia, la delegazione sovietica diventava nervosa. Ho dovuto prendere in mano tutto io, altrimenti non si faceva niente”.


Una leader donna.


“Le donne subiscono violenza per tutta la loro vita, pensiamo che sia quasi naturale per loro essere nonviolente, passive. Mentre se un uomo soffre, allora diventa un eroe. Molte donne, come Barbara Demming negli Stati Uniti, o Dorothy Day, avevano grandi qualità, ma non sono diventate famose. Gandhi scrisse cose molto belle sull’emancipazione femminile, ma la sua posizione personale verso le donne giovani era maschilista. Questo però è vietato dirlo, fra i nonviolenti”.


Avete tre donne alla presidenza del gruppo parlamentare.


“Ma anche noi abbiamo ancora molti problemi. Per esempio, alle nostre assemblee spesso non c’è un servizio di baby-sitting per i bambini. Dobbiamo fare una fatica tremenda per trovare donne che parlino in pubblico. Non posso parlare sempre io!”


Vi accusano di essere più rossi che verdi. Un’organizzazione comunista tedesca, la Kb, si è sciolta per confluire tra voi.


“Sì, c’è ancora qualcuno che sogna il gruppuscolo sessantottino. Mi preoccupano alcune tendenze collettiviste che deresponsabilizzano l’individuo. Per esempio, noi deputati dobbiamo versare gran parte del nostro stipendio - troppo, secondo me, io ho problemi ad arrivare a fine mese - in un fondo comune. Invece sarebbe meglio che ciascuno desse i propri soldi per un progetto che lo interessa personalmente, in modo da sentirsi motivato. C’è troppa centralizzazione. Un’altra cosa che mi preoccupa è che in alcune nostre riunioni locali poche persone abili manipolano la gente non politicizzata, che dopo un po’ si stufa e se ne va a casa. Così alla fine decide solo chi resta. Devo dire che tutte le riunioni dei verdi sono lunghe e noiose. Dopo sei anni, sono stufa marcia”.


Come mai in Germania, anche fra i giovani, c’è un grande complesso di colpa nei confronti dell’Urss? Dopotutto, fino a cinque minuti prima di essere attaccato, Stalin era alleato di Hitler.


“È vero. Ogni volta che incontriamo una delegazione sovietica, questi cominciano subito: ‘Voi avete ucciso venti milioni di russi…’ È imbarazzante. Io sono nata nel 1947, non mi sento personalmente colpevole”.


Anche in Italia si stanno formando i verdi. Come li giudica?


“Quand’ero a Bruxelles, degli ecologisti italiani ho conosciuto personalmente solo Marco Pannella ed Emma Bonino. Ma Pannella vuole sempre fare il capo assoluto e questo, specie alle donne, non piace”.


Qual è il suo obiettivo principale in questo momento?


“Fare in modo che lo stato tedesco usi il 20 per cento del suo bilancio militare per preparare una difesa non armata, nonviolenta”.



DOVE VOLA LA PASIONARIA

Tutte le provocazioni dei verdi nel mondo


La cosa che gli ambasciatori della Germania Ovest in giro per il mondo temono di più, è che un giorno arrivi Petra Kelly nella loro città in visita ufficiale. Com’è successo a Belgrado, dove la deputata ha rischiato l’espulsione pochi mesi fa assieme all’ex generale verde Gert Bastian per essersi intromessa negli affari interni jugoslavi criticando il processo agli intellettuali dissidenti da parte del regime comunista.

Come in Australia, dove nel maggio 1984 la pasionaria è volata a dar man forte agli oppositori dell’estrazione di uranio i quali, galvanizzati, hanno formato a loro volta un partito antinucleare che ha preso l’8% alle elezioni in dicembre.

E come a Berlino Est, Mosca e Praga, dove i verdi hanno inscenato incredibili manifestazioni con fiori e cartelli nei luoghi più sacri alle dittature orientali.

Quando non è impegnata al Parlamento, Kelly è sempre in viaggio. I pacifisti statunitensi la invitano regolarmente alle loro riunioni, e così le femministe irlandesi o ‘Los Verdes’ di recente formazione a Madrid, dove l’indomabile Petra è andata a presentare il suo libro tradotto in spagnolo. In Belgio, Olanda e Austria invece non c’è bisogno dell’aiuto dei Grünen tedeschi: gli ecologisti locali sono autosufficienti e in crescita.

La Francia è l’unico Paese impermeabile al fascino di Kelly: in un dibattito con lei il filosofo André Glucksmann l’ha accusata nientemeno che di pensare troppo a Hiroshima e poco ad Auschwitz.