Monday, November 28, 2022

Ucraina, Kosovo, Libia. Seguire l'esempio italiano



La soluzione per Crimea e Donbass, per il conflitto fra kosovari e serbi, e anche per quello fra Cirenaica e Tripolitania, divise ormai da dieci anni, è rinvenibile nella nostra storia recente

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 28 Novembre 2022 

L'Italia può insegnare molto a Ucraina, Kosovo e Libia. La soluzione per Crimea e Donbass, per il conflitto kosovari/serbi, e anche per quello fra Cirenaica e Tripolitania, divise ormai da dieci anni, è rinvenibile nella nostra storia recente.
Il Territorio Libero di Trieste, per esempio. Quando ci sono dispute di frontiera apparentemente insolubili, come l'attuale fra Kiev e Mosca, la via d'uscita più semplice non sempre è spartire i territori contesi fra i due avversari, ma creare ex novo una terza entità.
Nel maggio 1945, alla fine della Seconda guerra mondiale, la Jugoslavia di Tito s'impossessò di Trieste. Di fronte al fatto compiuto, non era scontato per l'Italia riuscire a recuperare il capoluogo giuliano con mezzi pacifici. Anche perché, dei quattro Alleati vincitori, l'Urss appoggiava il dittatore comunista, la Gran Bretagna lo aveva armato contro di noi, e la Francia di De Gaulle voleva vendicare la 'pugnalata' fascista del 1940.
Fu così che, con un guizzo creativo, la città e la costa nord dell'Istria furono inglobate nel Tlt (Territorio libero di Trieste). Il quale durò fino al 1954. Nel frattempo gli animi si erano calmati, anche perché Tito aveva rotto con Stalin. Cosicché non ebbe problemi ad abbandonare ogni rivendicazione sulla città e il Carso triestino, in cambio di Capodistria, Portorose e Pirano: era minacciato più da est che da ovest.

Il tempo lenisce gli ardori, i furori e i dolori. Oggi appare inaccettabile sia per gli ucraini che per Putin rinunciare a Crimea e Donbass. Ma un'amministrazione provvisoria, magari con mandato Onu, potrebbe svelenire gli animi. Intendiamoci, le 'città libere' non sono state sempre un successo. Quella di Danzica finì come finì, nel 1939. E anche l'altro lascito della Prima guerra mondiale, Fiume, provocò subito la spedizione di D'Annunzio contro la città autonoma fra Italia e Jugoslavia. Ma gli opposti nazionalismi non vanno fatti incancrenire.
È questo l'errore commesso da Onu e Ue in Kosovo. Mai avrei pensato, quando nel 1999 seguii a Pec le nostre truppe con bandiera Nato, che quasi un quarto di secolo dopo le avrei trovate ancora lì. Le missioni di peacekeeping non possono durare in eterno. E infatti ora la situazione è di nuovo esplosiva: serbi e albanesi si confrontano sul fiume Ibar, che taglia in due la città di Mitrovica. A nord sono maggioranza i primi, che però risultano una minoranza di centomila abitanti rispetto al milione di kosovari albanesi a sud.

Qui l'unica soluzione è una pulizia etnica nonviolenta e volontaria. Non spaventatevi per la parola: nella vita pubblica come in quella privata, se non si riesce a convivere è meglio separarsi. Repubblica ceca e Slovacchia hanno divorziato subito dopo il crollo del Muro di Berlino, nel 1990. La Jugoslavia invece ha patito un decennio di sanguinosa guerra civile.
È triste dirlo, ma in Bosnia e Kosovo la convivenza fra musulmani e cristiani ortodossi risulta ancor oggi impossibile. Il labirinto bosniaco, con le sue enclaves etniche e l'aggravante del terzo incomodo, i croati cattolici, appare difficile da districare. In Kosovo invece sarebbe facile tracciare una linea di demarcazione: la zona a maggioranza serba vada sotto Belgrado, in cambio di compensazioni territoriali (alcuni paesi albanesi in Serbia) e finanziarie.
Sono figlio di profughi istriani, so quanto costi abbandonare la propria terra. Ma non si può vivere eternamente nella tensione, nell'oppressione, nel terrore. E quindi l'esodo nel 1947 della mia famiglia con i 300mila istrodalmati fu tutto sommato la decisione più saggia. Anche perché ci ha risparmiato mezzo secolo di miseria economica e morale sotto una dittatura comunista.
Naturalmente i danni e le perdite subite dai kosovari che accetteranno di trasferirsi spontaneamente da una parte all'altra della nuova frontiera dovranno essere risarciti fino all'ultimo centesimo. Anzi, all'ultimo euro. Perché in cambio di questa complicata e dolorosa pacificazione è auspicabile che tutta la regione entri finalmente nell'Unione europea: Kosovo, Serbia, Albania. I confini diventano più accettabili quando svaniscono: qualcuno oggi si accorge se da Trieste a Gorizia entra in Slovenia? (E fra un mese anche la Croazia adotterà l'euro).

L'auspicabile opzione etnica in Kosovo (praticabile anche in Ucraina) ha un precedente in Alto Adige. Nel 1939 Mussolini e Hitler si accordarono per trasferire in Germania o Austria i sudtirolesi che lo avessero desiderato. Optarono per la heimat tedesca in 86 su cento: quasi 200mila (qualche germanofono anche in Trentino, nell'Ampezzano veneto e a Tarvisio in Friuli). Poi però, con la guerra, i trasferimenti procedettero a rilento: se ne andarono solo in 70mila. E tutto si bloccò dopo l'8 settembre, quando il Trentino-Alto Adige passò direttamente al Reich.
Come racconta Carlo von Guggenberg nel suo libro appena pubblicato 'L'Altro Adige. Optanti e Dableiber per la nascita della Stella Alpina' (Praxis Edizioni), a quel punto nacque un dramma. I sudtirolesi di lingua tedesca che avevano optato si ritrovarono in mezzo al guado: molti non volevano più partire, e dei già partiti 20mila tornarono. Ci fu tensione con accuse reciproche di tradimento. Nei paesini di montagna qualcuno aveva già adocchiato le fattorie e i campi lasciati dagli optanti. C'è chi finì nella vasca di qualche fontana durante i tafferugli.
Fu impresa non facile riappacificare i sudtirolesi fra loro, prima che con gli italiani. Ci riuscirono i fondatori della Svp (Südtitoler VolksPartei), fra i quali giganteggiarono Erich Amonn, Otto von Guggenberg (nonno dell'autore del libro) e poi Silvius Magnago. Anche grazie a loro, e nonostante i terroristi degli anni 60, quella della minoranza tedesca in Alto Adige è una storia di successo, studiata nel mondo intero. E speriamo presto anche in Ucraina.

La Libia, infine. Anche qui, come in Istria e Kosovo: meglio amputare che deteriorarsi in cancrena. Dopo la Primavera araba del 2011 che cacciò il dittatore Gheddafi, il Paese è irrimediabilmente diviso in due: Tripolitania e Cirenaica. Si susseguono patetici inviati Onu che continuano ad auspicare un'unità inesistente. Tripoli e Bengasi, peraltro, sono separate da sempre: non solo sotto l'impero ottomano, ma anche nei primi vent'anni da colonia italiana, dopo il 1911. 
Quindi, come in Irlanda del Nord e in Sud Sudan, meglio dividere chi non vuole vivere assieme. Senza tenere unite artificialmente realtà diverse: ci ammonisce la guerra civile in Yemen, se non ricordiamo il Biafra o il Bangladesh.
Petrolio e gas ci sono da una parte e dall'altra, nessun libico si impoverirebbe. L'Eni continua a pompare, nonostante i volumi ridotti. In più, a Tripoli riecco i soldati turchi tornati dopo un secolo, e a Bengasi i simpatici mercenari russi della Wagner. Pare che ora per farci dispetto ci mandino barconi di migranti pure da lì, anche se dalla Cirenaica la distanza è doppia. Urge intervenire con proposte realistiche e intelligenti, senza inseguire miraggi di ripristino unitario.

Tuesday, November 22, 2022

Giganti del rock dai piedi di argilla. Da Luigi Tenco a Kurt Cobain, quei 13 che non sopportavano la vita



Folgorante libro di Paolo Vites: "Rock'n'roll suicide. Il lato oscuro del rock". Il critico musicale racconta il fenomeno dei musicisti uccisi dalla depressione

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 22 novembre 2022

Dopo quarant'anni esatti, resta imbattuto il record di Michael Jackson: il suo disco 'Thriller', uscito nel novembre 1982, con cento milioni di copie è ancora il disco più venduto della storia (il doppio del secondo, 'Dark side of the moon' dei Pink Floyd). Allora Jackson aveva 24 anni. A soli 50, nel 2009, muore per intossicazione di farmaci: propofol, lorazepam, midazolam, diazepam, lidocaina, efedrina. Tecnicamente non fu suicidio. Ma si trattò comunque di una morte provocata dall'autodistruzione, come quella di altre rockstar (Elvis Presley, Prince, Tom Petty) raccontate nell'ultimo, folgorante libro del critico musicale Paolo Vites: 'Rock'n'roll suicide. Il lato oscuro del rock' (Caissa Italia editore).

Vites tralascia la stranota lista dei rocker morti all'esatto scoccare dei loro 27 anni per droga e alcol, da Brian Jones ad Amy Winehouse, passando per i tre J (Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison). Si concentra su tredici casi di musicisti che si sono suicidati in piena regola: impiccandosi, sparandosi o per overdose. Da Luigi Tenco a Kurt Cobain, da Whitney Houston alla cantante dei Cranberries, da quello degli Inxs ('in eccesso') a illustri sconosciuti come Neal Casal che solo Vites, superesperto di musica Usa, conosce. Tutti accomunati dalla depressione.

"Woodstock, 17 agosto 1969: salire sul palco, sedersi al proprio strumento di fronte a oltre mezzo milione di persone. Esibirsi. Quindici giorni dopo, quasi altrettanti spettatori all’Isola di Wight. Pochi anni dopo, il 28 luglio 1973, ancora sul palco per l’evento, come riportato nel Guinness dei primati, con «il pubblico più numeroso a un festival pop»: il Summer Jam al Watkins Glen, con oltre 600mila persone. Poi lo Stadio di Wembley, a Londra. E in mezzo gli stadi di tutta l’America, i teatri più lussuosi e ricchi di fama come la Royal Albert Hall di Londra, la Carnegie Hall di New York e l’Olympia di Parigi.  Il massimo a cui può aspirare un musicista rock, e non sono molti quelli che hanno toccato tali vette. Lui, Richard Manuel, insieme ai suoi compagni di The Band, è stato uno di quei giganti. Che purtroppo avevano dei piedi d’argilla, poiché vittime delle promesse e dei tradimenti del rock’n’roll".

Questo è l'inizio del capitolo sul pianista di The Band, il gruppo di Bob Dylan, che si è tolto la vita nel 1986. Lo si sente in The Weight, colonna sonora di Easy Rider; lo si vede nel film 'The Last Waltz' di Martin Scorsese. Si è appeso in bagno con il collo stretto nella sua cintura. Ma, attenti, quello di Vites non è un libro lugubre. Attraverso i suoi sapienti racconti si entra in un mondo che, come quello dello sport, è l'unico ad avere affascinato (e continua a farlo) miliardi di giovani in tutto il mondo negli ultimi 70 anni. E pazienza se in qualche caso non c'è il lieto fine.

Penso di essere l'unico oltre a Vites, in Italia, a ricordarsi di Phil Ochs. Ne ero un fan maniacale, avevo imparato a memoria la sua canzone più famosa ('I ain't marchin' anymore', Non marcio più) e la infliggevo cantandola con la chitarra ai miei compagni di liceo a Udine. I quali, con finezza friulana, si vendicarono soprannominandomi per scherzo 'Fin Occh'. Non ricordavo che questo autore di inni antimilitaristi preziosi quanto quelli di Dylan, colonna sonora delle marce contro la guerra in Vietnam (uno per tutti: 'There but for fortune', interpretato da Joan Baez) si fosse impiccato nel 1976. Questa mia mancanza di ricordi è forse uno dei motivi del suo gesto. 

Ma qualcuno si è sparato anche nel pieno della notorietà. Come Luigi Tenco, poche ore dopo essersi esibito a Sanremo di fronte a decine di milioni di telespettatori. Certo, Tenco era stato appena escluso dal festival 1967. E lo scrisse perfino sul biglietto d'addio: "Protesto contro un pubblico che manda 'Io, tu e le rose' in finale". Non risulta che l'incolpevole Orietta Berti abbia particolarmente sofferto per l'accusa contro la sua canzone, che arrivò quinta. Vinse Iva Zanicchi. E se le due brave e simpatiche cantanti ci fanno ancora compagnia dopo oltre mezzo secolo, forse Tenco ha portato loro fortuna. In ogni caso, ricorda Vites, l'ultima inchiesta sulla sua morte si è conclusa solo nel 2015. Evidentemente i complottisti, convinti per decenni che fu omicidio, non sono nati ora con vaccini e covid.

Il godibilissimo (nonostante l'argomento) libro di Vites scava a fondo, e inserisce il fenomeno dei musicisti che rinunciano alla vita in un quadro più ampio: quello della depressione, malattia che colpisce una quantità incredibile di persone.

"Nel 2030 la depressione diventerà la prima causa al mondo di giornate di lavoro perse per disabilità, superando le malattie cardiovascolari", scrive Vites. "L'Oms stima che sarà più diffusa di cancro, patologie cardiache e Alzheimer. In Italia 3,5 milioni di persone combattono contro la depressione, in Europa 35 milioni. In dieci anni la sua incidenza è aumentata del 18%. Nel mondo colpisce quasi cinque persone su cento: 322 milioni. Un male che non conosce confini: colpisce chiunque, anche se prevalentemente i redditi medi e bassi. Nel 2015 si sono suicidati in 788 mila: è la seconda causa di morte tra i 15 e i 29 anni".

Rock and roll will never die, ma ogni tanto qualche rockstar non sopporta la vita. 

Friday, November 18, 2022

Le ragazze dell'Iran. Dopo Gandhi nessuno come loro



Vogliamo fare qualcosa di concreto per la più grande rivoluzione nonviolenta da decenni? Andiamo a vedere “Gli orsi non esistono” (come per noi le loro proteste), il film di Panahi rinchiuso in carcere per aver chiesto notizie di un collega scomparso

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 18 novembre 2022 

Chi vuole fare qualcosa di piccolo ma concreto per l'Iran e la sua rivoluzione nonviolenta, la più grande dai tempi di Gandhi, corra a vedere il film "No Bears", Gli orsi non esistono. È uscito in Italia da cinque settimane, però è ancora reperibile nei cinema d'essai. 

Il suo regista persiano, Jafar Panahi, 62 anni, è stato arrestato il 22 luglio ed è incarcerato nella famigerata prigione di Evin a Teheran. La stessa dove fino al 1979 lo scià torturava i suoi oppositori (soprattutto comunisti), dove gli ayatollah continuano a gettare i propri oppositori, dov'è stata tenuta la nostra Alessia Piperno.

 Panahi c'è finito semplicemente perché aveva osato andare a chiedere informazioni su un suo collega scomparso in detenzione, senza notizie. E ora è finito anche lui nel buco nero della repressione, condannato a sei anni. 

Non è la prima volta. Ex assistente del famoso regista Abbas Kiarostami, amico del premio Oscar Asghar Farhadi, era già stato arrestato nel 2010 per aver partecipato alle periodiche proteste contro il regime. Condannato anche allora a sei anni, con il divieto di girare film per venti, farsi intervistare, viaggiare all'estero. Ma lui riesce a uscire, continua indomito a lavorare in clandestinità. E a collezionare premi nei festival, da Cannes a Berlino.

Anche 'Gli orsi non esistono' è un capolavoro, e infatti ha vinto il premio della Giuria a Venezia lo scorso settembre. È incredibile come Panahi abbia contemporaneamente scritto, diretto, prodotto e recitato questo film, di cui è il protagonista.

La storia è la sua: un regista che per lavorare deve nascondersi in un povero e polveroso villaggio iraniano al confine con la Turchia, da dove istruisce via computer i suoi attori che recitano un'altra storia-verità nella prima città turca dopo la frontiera.

Ma Panahi, con il suo tranquillo testone quadrato alla Prodi, rimane invischiato anche in una disputa medievale nel paesino dov'è rifugiato, con tanto di ragazza promessa in sposa dai suoi genitori che si ribella, perché vuole scappare col suo vero amore.

Insomma, c'è tutto l'attuale dramma dell'Iran in questo film, compresa la spiegazione del perché i pasdaran riescano a resistere all'ondata delle donne e dei giovani: il problema è che la polizia morale (e assassina) è ancora maggioritaria nell'immensa campagna persiana arretrata, dove basta un bacio per essere lapidati.

E anche il titolo del film è tragicamente adeguato: 'Gli orsi non esistono'. Così come non esistono per noi le notizie dall'Iran, occupati come siamo da Ucraina (e ci mancherebbe), Meloni e dalle nostre innumerevoli deputate desiderose di allattare in aula. 

Wednesday, November 09, 2022

Un terzo di secolo per passare dal comunismo al fasciocomunismo



di Mauro Suttora

A 33 anni dal crollo del muro di Berlino, il ritorno alla guerra. Calda in Ucraina, fredda nel resto del mondo: democrazie contro dittature, esattamente come prima

HuffPost, 9 novembre 2022 

Il 9 novembre fanno 33 anni dal crollo del muro di Berlino. Cifra tonda, un terzo di secolo. Per la prima volta senza Gorbaciov, artefice dell'eutanasia comunista (buona morte, mai nella storia un impero è scomparso con così poche vittime).

Che c'è di nuovo rispetto ai precedenti anniversari dei 30 anni, 25, 20? L'Ucraina. L'aggressione di Putin ha chiuso un'epoca: 1989-2022, la pace fra due guerre fredde. Nei libri di storia si ricorderanno questi 33 anni (con in mezzo l'attacco alle Torri gemelle e la reazione Usa) come un periodo di grandi speranze e delusioni. 

Negli anni '90 l'illusione, se non della fine della storia con l'avvento della pace universale, almeno del diritto internazionale che puniva i violatori di frontiere (Saddam, 1990), gli autori di stragi (Srebrenica, 1995) e quelli di tentato genocidio (Milosevic in Kosovo, 1999). A suggellare una nuova legalità, il diritto/dovere di intervento militare umanitario e la nascita del Tribunale penale internazionale dell'Aia con la firma del trattato di Roma nel 1998 (grazie Emma Bonino, Boutros Ghali e Soros).

Ora, invece, il ritorno alla guerra. Calda in Ucraina, fredda nel resto del mondo: democrazie contro dittature, esattamente come prima. È tornato il comunismo? Macché, quello è confinato a qualche nostalgico occidentale. Lo spiega bene una scena esilarante del film 'Triangle of Sadness', Palma d'oro a Cannes, appena uscito in Italia: il capitano americano di una nave che sta affondando si dichiara marxista, mentre un suo ricco passeggero russo si dichiara capitalista. E tuttavia nell'assai inquietante megasalone congressuale del partito unico cinese campeggiano ancora falce e martello. Xi Jinping si dichiara orgogliosamente comunista, come i suoi compagni tiranni di Cuba, Corea del Nord, Cuba, Vietnam, Laos.

Quanto a Putin, è lì a incarnare la continuità vivente del Kgb. Con tre letali aggiunte: il fanatismo religioso ortodosso, la mafia degli oligarchi e il nazionalismo (senza rimpianti per il fraterno internazionalismo sovietico di Budapest 1956, Praga 1968, Kabul 1979, Varsavia 1981).

Cosa c'è quindi oggi a Pechino e a Mosca? Come definire gli attuali avversari del mondo libero? La risposta più attendibile compie anch'essa un terzo di secolo: si chiama Slobodan Milosevic. Il presidente della Serbia che per primo al mondo traghettò un Paese dal comunismo al fasciocomunismo, infliggendo alla Jugoslavia un decennio di guerre civili, 100mila morti e la città martire di Sarajevo così simile a Mariupol.

La maggioranza dei politologi nel mondo concorda da tempo su questa definizione solo apparentemente contraddittoria per Russia e Cina, che assomma il peggio del '900: fasciocomunismo.

Esito triste ma forse inevitabile per due nazioni che, a pensarci bene, nella loro storia millenaria (Russia) e bimillenaria (Cina) hanno potuto assaporare solo dieci anni di libertà e democrazia: la presidenza etilica di Eltsin, e il primo confuso Kuomintang di Sun Yat-sen dopo la caduta dell'ultimo imperatore nel 1912.

In entrambi i casi sono succeduti loro i signori della guerra. Ben prima dell'Ucraina, infatti, i generali di Putin hanno invaso Cecenia, Georgia, Siria. E i suoi mercenari Wagner sono in Libia, Mali, Centrafrica, Sudan. Ma, anche qui, niente di nuovo: il militarismo è sempre stato uno dei tratti caratteristici del comunismo. E non è scomparso il 9 novembre 1989 assieme al muro di Berlino. 

Wednesday, November 02, 2022

Riccardo Lombardi, capo socialista

Cosa facevano gli antifascisti nel 1922? La storia di Riccardo Lombardi

di Mauro Suttora

Nel suo ultimo libro Antonio Alosco racconta il Lombardi ventunenne, figlio di un capitano dei carabinieri toscano, studente di ingegneria al Politecnico di Milano e attivista del partito popolare, negli anni della sua formazione politica attraverso posizioni che lo rendono un personaggio "amletico"

HuffPost, 2 Novembre 2022

La marcia su Roma, i fascisti, va bene. Ma cosa facevano gli antifascisti, nel 1922? Quelli che poi sarebbero diventati i capi partigiani, i padri della Repubblica?

Su uno di loro ferma l'attenzione Antonio Alosco, già docente di Storia contemporanea all'università di Napoli, col suo ultimo libro 'Riccardo Lombardi, un personaggio amletico' (ed. la Bussola).

Nelle famose foto della Liberazione a Milano, aprile 1945, Lombardi è lo spilungone che sovrasta gli altri leader antifascisti in parata: Pertini, Parri, Longo, Mattei, Solari, La Malfa. 

Aveva partecipato all'ultimo drammatico incontro con Mussolini in arcivescovado per conto del suo partito d'Azione, e poi divenne prefetto di Milano. 

Tutti lo ricordiamo come massimo dirigente del Psi fino alla morte, nel 1984 (soffriva ancora i postumi di un pestaggio fascista). 

Ma nel 1922 il ventunenne Lombardi, figlio di un capitano dei carabinieri toscano e della figlia del notaio di Regalbuto (Enna), era studente di ingegneria al Politecnico di Milano e attivista del partito popolare. Che gli andava stretto, contrariamente al fratello Ruggero diventato poi deputato dc fino al 1968 e sottosegretario al Turismo e spettacolo nei primi centrosinistra di Moro e Fanfani.

Riccardo invece, eterno dissenziente, già allora scalpitava. Tanto da meritarsi le attenzioni poco benevole di Giovanni Gronchi, futuro presidente e allora capo del sindacato cattolico, incline a espellerlo perché troppo vicino ai socialisti. 

In quella Milano ribollente Lombardi si trovò a difendere la redazione dell'Avanti! assaltata dagli squadristi dell'ex direttore Mussolini.

Non immaginava certo, il giovane Lombardi, che un giorno avrebbe diretto proprio lui il quotidiano del Psi, succedendo a un Nenni carico di livore personale dopo la sconfitta del fronte socialcomunista nel 1948 (anche per questo Alosco definisce Nenni "mediocre politico").

Lombardi difese il capo socialista Turati dai picchiatori fascisti in Galleria, e divenne un Ardito del popolo, corpo paramilitare di sinistra che sfidava le squadre di destra sul loro stesso terreno, la violenza. 

Lasciò i popolari troppo accomodanti con Mussolini per un partitino di cristiani di sinistra che non ebbe fortuna. 

Come dargli torto? Nel partito popolare l'unico ad accorgersi della pericolosità della legge elettorale Acerbo fu il fondatore don Sturzo, che perciò fu fatto fuori dai giovani moderati come Gronchi e, inopinatamente, De Gasperi.

Lombardi invece, dopo una sbandata per il Pci, si aggregò ai fratelli Rosselli in Giustizia e libertà. Incarcerato e torturato per un volantinaggio a Milano nel 1930, durante il ventennio mascherò la sua attività antifascista dietro a una rispettabile attività: ingegnere per una ditta tedesca di pompe idrauliche.

Ma perché Alosco lo definisce "amletico"? Perché Lombardi negli snodi fondamentali della sua vita politica esitò a scegliere. E quando scelse, ottenne a volte risultati opposti a quelli sperati. 

Sciolto il partito d'Azione, per esempio, non seguì La Malfa in quello repubblicano. Né confluì nell'approdo più naturale per un laico progressista come lui: la neonata socialdemocrazia di Saragat. 

Preferì il Psi allora stalinista quanto il Pci, forse influenzato dall'amatissima moglie, ex del dirigente comunista Li Causi. 

Battè Nenni al congresso socialista del 1948, ma poco dopo subì la rivincita dei frontisti di Morandi. Ancora nel 1959 criticò i socialisti tedeschi per la svolta moderata di Bad Godesberg. 

Si impegnò nel movimento per la pace, ma neppure lì scalfì l'egemonia Pci. 

Spinse per il centrosinistra, ma dopo un anno di governo con la Dc se ne dichiarò insoddisfatto. 

Appoggiò i radicali su divorzio e aborto, ma respinse l'iscrizione di Pannella al Psi.

Negli anni '60 e '70 si tenne lontano da incarichi ministeriali, facendo così conquistare alla sua corrente della sinistra Psi un'aura di estraneità al sottogoverno. 

Ma nel 1976 il suo contributo fu decisivo per l'ascesa di Craxi, il quale premiò i lombardiani De Michelis e Signorile. 

E quando negli anni '80 Lombardi sollevò la questione morale ("Abbiamo più socialisti in carcere ora che sotto il fascismo"), era troppo tardi. 

Amareggiato anche per l'iscrizione alla loggia P2 del suo allievo più brillante, Fabrizio Cicchitto, si spense pochi mesi dopo Berlinguer.

Mauro Suttora

Saturday, October 29, 2022

Il bipolarismo della Sapienza. Tutti hanno diritto di parola e i manifestanti hanno il diritto di non essere manganellati



La neopremier Giorgia Meloni e la neosenatrice Ilaria Cucchi, giudicando gli scontri all'università di Roma, non sono riuscite a mettersi d'accordo. La prima si è dimenticata della seconda regola e la seconda della prima

di Mauro Suttora

HuffPost, 28 ottobre 2022

Basterebbe una modica quantità di Sapienza per ribadire due regole elementari: tutti hanno diritto di parola (perfino Capezzone), e i manifestanti inermi hanno il diritto di non essere manganellati. Invece la neopremier Giorgia Meloni e la neosenatrice Ilaria Cucchi, giudicando gli scontri all'università di Roma, non sono riuscite a mettersi d'accordo. La prima si è dimenticata della seconda regola, e la seconda della prima.

Sprofonderemo così di nuovo nella secolare guerra fascisti/comunisti? E dobbiamo chiedercelo proprio oggi, 28 ottobre? 

A giudicare da certe reazioni a caldo, pare di sì. I riflessi condizionati di sinistra di Ginevra Bompiani e Concita De Gregorio, in tv poche ore dopo i fatti, le hanno fatte pencolare automaticamente dalla parte degli studenti intolleranti. E sull'opposta barricata si sono alzati solo flebili appelli al var: "Vedremo i video della carica, se qualche agente ha esagerato verranno presi provvedimenti". 

Per la verità, il vizietto di zittire i fascisti (o reputati tali: sullo striscione del collettivo della Sapienza c'era scritto 'Capitalismo=fascismo', e perfino a un papa impedirono di parlare) viene da lontano. Nel 1972, tredicenne, reputai giunto il momento di farmi un'idea personale della politica, cosicché decisi di andare ai comizi di tutti i partiti prima delle elezioni. Quello del Msi (Mirko Tremaglia sul Sentierone di Bergamo) durò poco: fu subito interrotto da lanci di bottiglie della sinistra extraparlamentare. 

Ma anche la prima volta che l'estrema destra si affacciò al governo, nel 1960 (appoggio esterno a Tambroni), ai missini fu impedito di fare il loro congresso a Genova. In nome di una costituzione antifascista che però, proprio in quanto tale, permetteva anche ai fascisti del Msi di esistere, e quindi di riunirsi in congresso. Sempre a Genova, 31 anni dopo, le parti si invertirono: furono i poliziotti a trasformarsi direttamente in fascisti, anzi in nazisti, con le spedizioni punitive di Bolzaneto e scuola Diaz. Oggi troppi a sinistra evocano quel precedente sinistro. Per esorcizzarlo, certo, nessuno auspica la resurrezione dei black block. Ma sotto sotto la spiegazione è: ecco quel che succede appena governa la destra, via libera a Pinochet nel 2001 come nel 2022.  

Facciamo fatica a scorgere tratti cileni nel ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, seppure omonimo di Salvini. Sulle 'cariche di alleggerimento' di scelbiana memoria ci sono interpretazioni infinite. Tuttavia se uno vuole entrare nell'aula di in convegno autorizzato per menare Capezzone che sta lodando il capitalismo, è possibile che rischi un ematoma a una gamba. Il fatto è che il 7 novembre alla Sapienza ci sono le elezioni studentesche. La temperatura è alta. La lista di destra Azione universitaria mostra nel suo simbolo una innocua feluca, il berretto della goliardia, che però stilizzata ricorda vagamente una runa neonazi. 

Provocazioni estetiche subliminali a parte, la povera rettrice Antonella Polimeni ha il dovere di assicurare ordine, pace, libertà, democrazia e perfino diritto allo studio nella sua Sapienza. Che non è uno spazio extraterritoriale come Chinatown a Milano: scusate la banalità, ma se si commettono reati anche lì arriva la polizia. La quale, si spera, non commetta a sua volta reati: i manganelli gratuiti lasciamoli ai fascisti del 1922.

Friday, October 21, 2022

Meloni ribattezza i ministeri con bei nomi sovranisti



Il nazionalismo inizia dalle targhe: "Sovranità alimentare", "Made in Italy", "Natalità", "Sicurezza energetica"

di Mauro Suttora 

Huffpost, 21 ottobre 2022


Apprendiamo con sollievo che il nuovo ministro dell'Agricoltura, Francesco Lollobrigida, aggiungerà al suo dicastero anche la dicitura ufficiale "per la sovranità alimentare". Non capiamo bene cosa essa sia, ma siamo felici che i sovranisti abbiano deciso di sfogare il loro temibile, annunciato nazionalismo soltanto sui campi da arare e sulle nostre tavole da apparecchiare, invece che in ambiti più pericolosi e dannosi. 

Vogliono valorizzare il Made in Italy? Macché: quello è entrato nel nuovo nome del ministero dello Sviluppo economico. C'eravamo abituati al suo acronimo Mise, che sostituiva il vecchio ministero dell'Industria, e ora ce lo cambiano in dicastero delle "Imprese e made in Italy". I puristi della Crusca sussultano per il debutto dell'inglese nell'onomastica ministeriale, comunque buon lavoro al neoministro Adolfo Urso. 

Chissà invece se i sovranisti noEuro/pa, una volta così numerosi tra fratelli d'Italia, leghisti e grillini, si accontenteranno del maquillage agricolo. Perché a pensarci bene oggi non c'è molto di italiano in ciò che mangiamo. I nostri campi e allevamenti sono pieni di lavoratori immigrati: trovate un giovane italiano in stalle o fattorie. I camionisti stranieri che trasportano le derrate ogni notte da Puglia e Sicilia fanno concorrenza a quelli italiani. Stessa prevalenza fra i facchini degli ortomercati al nord, e tante benemerite bancarelle arabe nei mercati ortofrutta rionali.

I supermercati Carrefour sono francesi, i Lidl tedeschi, e assumono cassieri/e di ogni nazionalità. I rider che ci portano il cibo a casa non sono quasi mai italiani, i cinesi fanno incetta di bar, i ristoranti cercano disperati personale almeno italofono. Per non parlare dei prodotti. E non quelli esotici: i pomodori a grappolo vengono da serre olandesi, i limoni dal Sudafrica, le noci dalla California. La farina della nostra pasta è ucraina o dell'Iowa, i prosciutti sono cosce di maiali olandesi, i filetti di vitelli slavi, il miele rumeno. 

Insomma, la globalizzazione stravince da vent'anni, in barba a tutti gli Eataly per clienti danarosi. Quindi che caspita vorrà mai dire "sovranità alimentare"? Almeno Mussolini aveva la scusa delle sanzioni per la guerra in Etiopia, quando ci proponeva orzo al posto del caffè e karkadè invece del the. 

Nel 1993 un referendum decise col 70% di abolire il ministero dell'Agricoltura, visto che quasi tutte le competenze sono passate alle regioni. Poi è resuscitato col nome di "coordinamento delle politiche agricole", perché non sapevamo chi mandare alle trattative Ue di Bruxelles. Nel 2018 il governo Conte1 diede all'Agricoltura anche il Turismo, dopo un anno il Conte2 glielo tolse. Ora il Mipaaf (Ministero politiche agricole, alimentari e forestali) diventerà Mipafsa? Contorcimenti della burocrazia. 

Poi ci sarebbe anche la "natalità" aggiunta al ministero della Famiglia e delle Pari opportunità, affidato all'ex femminista abortista radicale Eugenia Roccella. Forse in onore del suo nome: nata bene, Eu-genia. Altri motivi non riusciamo a trovarne, se non una riesumazione dell'invito fascista a procreare di più. Il che, in tempi di riduzione di emissioni e consumi per contrastare il riscaldamento globale, appare bizzarro. Ma la fantasia dei politici è tanta, sicuramente ci stupiranno anche con questi neologismi.

Wednesday, October 19, 2022

Berlusconi e Putin, amici machi



Si sono piaciuti subito, dal primo incontro al G8 di Genova. Da allora Berlusconi offriva Tony Renis, il Bagaglino o il famoso lettone di palazzo Grazioli, Putin ricambiava con tornei di judo e lotta con Van Damme, partite di hockey su ghiaccio, spettacoli di cosacchi, battute di caccia e pesca quasi artica e un cuore di cervo

di Mauro Suttora

Huffpost, 19 ottobre 2022 

Le venti bottiglie di lambrusco spedite da Silvio Berlusconi a Vladimir Putin per il suo 70esimo compleanno, il 7 ottobre, ricambiando le venti di vodka arrivate ad Arcore la settimana prima per l'86esimo dell'ex premier, non sono il regalo più originale della loro 'bromance' (brotherly romance, amore fraterno). 

Il massimo della stravaganza fu raggiunto nel 2017, quando Berlusconi gli portò a Sochi un copripiumino matrimoniale con la foto gigante di loro due che si stringono la mano, con sfondo di Colosseo e Cremlino. Lo confezionò Michele Cascavilla, proprietario del marchio Lenzuolissimi e autore del libro 'Le lenzuola del potere', prefazione di Silvio.

Soltanto il Covid è riuscito a interrompere la simpatica consuetudine annuale dei viaggi d'ottobre in Russia. Sono continuati anche dopo il 2011, quando Berlusconi perse palazzo Chigi, e dopo il 2013, quando l'ex premier fu estromesso anche dal Senato. 

Nel 2019, ultimo anno pre-virus, l'inossidabile coppia si è incontrata due volte: a giugno infatti Putin, invitato a Roma dal governo gialloverde di Conte, non rinunciò a vedere Silvio. Il quale, sostengono i maligni, chiese a Vladimir (Volodia) di non finanziare grillini e leghisti. Non per i soldi, ovviamente, che a Forza Italia non mancano. Era gelosia pura. 

Ma l'unico che può confermare questo veleno è Valentino Valentini, il Savoini forzista: da sempre pronube della coppia visto che mastica il russo, ma attualmente amareggiato dalla trombatura del 25 settembre dopo quattro legislature da deputato. 

I due amici machi si sono piaciuti subito. Il primo incontro avvenne al G8 di Genova del 2001. Si guardarono dritti negli occhi, e per una volta fu facile: Berlusconi ha solo quattro centimetri in meno del metro e 69 di Putin. Ma quel vertice fu rovinato dai no global, Silvio aveva ben altro cui pensare. La scintilla era comunque scoccata, e nel successivo anno e mezzo i due si videro per ben otto volte. Senza contare le vacanze estive delle due figlie di Putin a villa Certosa del 2002. 

Il 28 maggio di quell'anno rimane una data incisa nel cuore di Berlusconi. Lui la considera l'apice delle sue imprese politiche. Al vertice Nato di Pratica di Mare (fra Pomezia e Capocotta) riuscì quasi a far entrare la Russia nell'Alleanza atlantica. Erano i mesi dopo lo choc delle Torri Gemelle: la minaccia islamista fece chiudere gli occhi (non solo al nostro premier) sulle porcherie che andava combinando Putin in Cecenia. Tutto sommato l'idea di associare Mosca all'Occidente non era male. Ma come sempre Berlusconi ingigantisce tutto: "Quel giorno feci finire io cinquant'anni di guerra fredda". 

Freddo faceva sicuramente nel febbraio successivo: 30 gradi sotto zero a Zavidovo, parco dove il presidente russo regalò al nostro il famoso colbacco fuori misura, tipo cacciatore, con buffi paraorecchie di pelliccia. Poi gli propose di cenare fuori, nel bosco. Lo sventurato virilmente accettò.

Berlusconi ricambiò nella calda e favolosa estate 2003, quella della bandana. Ricevette Volodia a Porto Rotondo, celebrò l'occasione piantando un po' di cactus nuovi: "Ne ho quattrocento specie". Poi Bocelli cantò 'Tu ca' nun chiagne', e infine tutti in coro intonarono Oci Ciorne. Avevano mangiato e bevuto. Menu: antipasto di mare, tortelloni di ricotta, lasagne vegetariane, porceddu alla brace, dolci sardi. 

Putin si era portato in Costa Smeralda una scorta discreta: l'incrociatore lanciamissili Moskva (quello affondato dagli ucraini), il cacciatorpediniere Smetlivy e la nave appoggio Bubnov. Ma alla conferenza stampa la coppia si presentò come Stanlio e Ollio: su un traballante caddy car, la macchinina da golf guidata da Silvio. Poi una passeggiata a Porto Cervo, dove Berlusconi regalò a Putin piatti policromi e gioielli d'oro. Assieme guardarono Milan-Porto, finale Supercoppa. Pacche sulle spalle, fuochi d'artificio.

Più maschie le cene in Russia. Volodia infliggeva a Silvio storione in gelatina, insalata di urogallo, tagliolini in brodo di funghi, pesantissimi brasati misti. Conoscendo i suoi gusti, Berlusconi gli regalò un fucile Beretta con dedica incisa. Di tutti questi scambi restano irresistibili foto su google. 

Nel 2010 Silvio inaugurò quella che avrebbe dovuto essere la sua "università liberale" di villa Gernetto a Lesmo (Monza Brianza) con un vertice italo-russo. Allora Putin era 'solo' premier. Però regalò sette milioni per ricostruire un palazzo e una chiesa dopo il terremoto dell'Aquila. 

Ma i tempi stavano cambiando, negli Usa era arrivato Barack Obama "l'abbronzato" dopo otto anni dell'amico Bush. La Russia aveva attaccato la Georgia. Un wikileak di Julian Assange rivelò che il festoso rapporto Silvio-Volodia preoccupava gli americani: "Berlusconi sembra essere il portavoce di Putin in Europa". I contratti Eni-Gazprom si rivelavano un po' troppo redditizi. 

Ma che importava? Se nei loro privatissimi vertici Berlusconi offriva Tony Renis, il Bagaglino o il famoso lettone di palazzo Grazioli a Roma, l'altro ricambiava a colpi di tornei di judo e lotta con Jean-Claude Van Damme a Mosca, partite di hockey su ghiaccio, gare di slalom, spettacoli di cosacchi, voli su aerei antincendio e battute di caccia e pesca quasi artica. 

La prova d'amore definitiva arrivò una sera, in dacia. Neve dappertutto. "Andiamo Silvio, solo io e te. Niente accompagnatori". Avvertirono un'ombra, Volodia sparò. Aveva abbattuto un cervo. Prese un coltello, estrasse il cuore ancora caldo e lo porse all'ospite come gesto supremo. 

Nel 2013 Putin difende Silvio: "Lo attaccano per le donne? Se fosse gay nessuno lo toccherebbe. L'Europa si indebolisce con le nozze omosex". Berlusconi, ormai privato cittadino, ricambia avventurandosi in Crimea nel 2015, dopo l'invasione russa: "Andiamo in giro senza scorta, tutti gli vogliono bene". 

Adesso accusano Silvio di parlare fuori controllo, a ruota libera, senza freni? Ma per due decenni lui ha difeso Putin da qualsiasi accusa: diritti civili, omicidio Politkovskaya, affari Yukos: "Lo diffamano i comunisti, proprio come me". "È un dono del signore". "È il numero uno, come un fratello". Certo, ora la guerra d'Ucraina. Delusione. Ma la loro relazione resta dolcissima, innaffiata col lambrusco.

Tuesday, October 18, 2022

Togliere le foto di Mussolini è come nascondere il fascismo sotto il tappeto



Bersani si oppone al ritratto del duce per i novant’anni del Mise. Un po’ come Boldrini che voleva abbattere l’obelisco del Foro Italico. Toccherà chiedere consiglio agli islamisti di Palmira

di Mauro Suttora

HuffPost, 18 ottobre 2022  

Si chiamava Beneto Giraldon, il capo scalpellino incaricato da Napoleone di distruggere tutti i leoni alati di San Marco dopo la conquista di Venezia nel 1797. Così sparirono un migliaio di simboli della Serenissima che campeggiavano sulle porte e i palazzi pubblici di ogni città veneziana, da Bergamo a Zacinto. Fu uno scalpellamento metodico, da psicanalizzare: la neonata Repubblica francese si accaniva contro la millenaria Repubblica di San Marco, la più longeva, splendida e tollerante della storia. Quel che risparmiarono i francesi fu poi distrutto in Istria e Dalmazia da Tito, dopo la conquista jugoslava del 1945. 

Chi sarà ora il Giraldon che ci libererà da ogni ricordo mussoliniano? Perché dopo la rimozione della foto del duce dalla mostra per i 90 anni del palazzo del Ministero dello Sviluppo economico (fu anche lui ministro in quelle stanze), dopo la protesta di Pierluigi Bersani che non tollera di essere incorniciato e appeso sullo stesso muro, ci siamo improvvisamente accorti che il mascellone appare anche nella galleria dei ritratti degli ex presidenti del Consiglio a palazzo Chigi. Via.

E come mai sopravvive quell'obelisco all'entrata del Foro Italico con su scritto Dux? Vergogna.

Eppure con la fascioclastia del 1943-45 pensavamo di esserci totalmente purificati, cancellando da ogni marmo d'Italia scritte con le date in era fascista e fasci littori.

Lo aveva riscoperto solo Laura Boldrini nel 2015, l'obelisco ducesco sotto cui passano spensierati ogni domenica milioni di tifosi romanisti e laziali da tre quarti di secolo. Propose di abbatterlo subito, con l'ignara urgenza dei neofiti. La liquidò Walter Veltroni: "Mi sembra assurdo nascondere un ventennio che è parte tragica della nostra storia".

Parole profetiche.

Per incredibile coincidenza del destino, venerdì 28 ottobre rischia di essere votata la fiducia al governo Meloni. Cent'anni esatti dopo la marcia su Roma. Non vogliamo assolutamente addentrarci nella querelle su quanto sia fascista, post o neo il prossimo governo. Diciamo solo che comincia per M e finisce per i. Oppure che la fiamma arde ancora. 

In ogni caso, per fugare ogni sospetto la soluzione è semplice. Fra i suoi primi atti la nuova premier istituirà una commissione internazionale per la promozione della virtù antifascista e la prevenzione del vizio littorio. Inviteremo a farne parte i migliori iconoclasti del pianeta: i talebani dei Buddha di Bamiyan, gli islamisti dell'Isis di Palmira e gli statunitensi bonificatori di statue di Cristoforo Colombo. Essi dovranno individuare e distruggere ogni traccia di mussolinismo: quasi tutte le stazioni e i palazzi di giustizia, la Farnesina, il codice Rocco, la giornata del Risparmio, l'Inps, la Festa degli alberi.

Elimineremo da wikipedia qualsiasi riferimento al Ventennio, così Bersani non dovrà più sopportare Mussolini come ministro suo predecessore al Mise. E anche lo scalpellino leontoclasta Giraldon rischierà: quel suo nome Beneto meglio cambiarlo in Veneto. 

Monday, October 17, 2022

Sorpresa: un libico giudica la Libia fascista



Per i cent'anni della marcia su Roma è stato pubblicato un libro prezioso: "L'esilio dorato. Luci e ombre dell'operato di Italo Balbo in Libia" (ed. Franco Angeli), di Mustafa Rajab Younis. Sul fascista più famoso, in Italia e nel mondo, dopo il duce

di Mauro Suttora

HuffPost, 17 ottobre 2022  

Nel profluvio di rievocazioni per i cent'anni della marcia su Roma è stato pubblicato un libro prezioso: "L'esilio dorato. Luci e ombre dell'operato di Italo Balbo in Libia" (Franco Angeli). Prezioso per due ragioni. L'argomento: Balbo è il più famoso dei quadrumviri della marcia del 28 ottobre 1922. Alla quale, ricordiamolo, Mussolini non partecipò: si nascose nella casa di campagna della sua amante Margherita Sarfatti a Cavallasca (Como), pronto a scappare in Svizzera se le cose si fossero messe male. 

Balbo, appena 26enne ma già ras dell'Emilia-Romagna, fu quindi il vero capo della marcia. E intervenne con decisione negli scontri del quartiere romano di San Lorenzo, dove la colonna fascista di Giuseppe Bottai era stata attaccata. Fondatore dell'Aeronautica, ministro dell'Aviazione, all'inizio degli anni '30 Balbo divenne il fascista più famoso dopo il duce, in Italia e nel mondo, grazie alle sue trasvolate oceaniche. 

Anche per questo Mussolini, geloso, nel 1934 lo tolse da ministro e lo esiliò in Africa, come governatore della Libia. E qui inizia il libro, prezioso anche per il suo autore: Mustafa Rajab Younis, docente libico di storia contemporanea all'università di Tripoli. Il quale affronta con equilibrio un argomento controverso, senza lasciarsi trasportare da una condanna pregiudiziale della sciagurata avventura coloniale, che ha pervaso la storiografia italiana più recente (Rochat, Del Boca).

Il professor Younis descrive meticolosamente i sei anni e mezzo di 'regno' di Balbo in Libia, che quando arrivò era ancora divisa fra Tripolitania e Cirenaica, com'è tornata a essere di fatto oggi. Un'avventura che termina tragicamente il 28 giugno 1940, quando Balbo viene ucciso in volo per sbaglio dalla nostra contraerea nei primi giorni della Seconda guerra mondiale. Younis non crede ai sospetti di un abbattimento voluto: "Fu un incidente casuale".

Di nemici comunque in Italia Balbo ne aveva parecchi. Anche perché la sua fama era ulteriormente aumentata in Libia, dove si comportava da vicerè invitando giornalisti da tutto il mondo a feste da mille e una notte nelle sue sfarzose residenze. Il suo governo della Quarta sponda fu facilitato dalla fine delle ribellioni senussita e di Al Mukhtar, che avevano funestato i primi due decenni della colonia conquistata nel 1911 (guerra avversata dall'allora pacifista Mussolini, tanto da finire addirittura in carcere con Nenni). 

"Younis valuta con obiettività le realizzazioni dell'epoca di Balbo in Libia", scrive il professor Andrea Baravelli nell'introduzione al libro, che viene presentato il 18 ottobre alle 17.30 nella biblioteca Cabral di Bologna. "Abitazioni, strade, acquedotti, scuole, consultori medici: un insieme sbalorditivo di opere che avrebbe consentito la realizzazione del vecchio sogno di popolamento su larga scala della Libia, stravolgendo equilibri secolari e sancendo la definitiva dipendenza delle genti arabe".

Nonostante la sua strada litoranea Balbia di 1800 chilometri il gerarca di Ferrara non fu un illuminato difensore dei diritti civili, anche se si oppose alle leggi razziali e voleva dare la cittadinanza ai libici, secondo le usanze dell'impero romano: era semplicemente un bravo organizzatore e ottimo propagandista. 

Come scrive Younis, oltre a favorire l'insediamento di 20mila contadini italiani, Balbo sviluppò il turismo, costruendo grandiosi alberghi per i visitatori di Leptis Magna. Mancò di poco la scoperta del petrolio, e si sentiva in concorrenza con i colonizzatori francesi in Tunisia e gli inglesi in Egitto. Finite le tirate nazionaliste di Gheddafi, ora anche gli storici libici esaminano con equanimità luci e ombre dell'occupazione italiana della loro terra.


 

Friday, October 07, 2022

Nobel per la Pace: storia controversa del premio più controverso



Impeccabili i premi 2022. Tutto sommato, oltre al Dalai Lama (1989), finora il premiato più meritevole è stato forse Gorbaciov nel 1990: non capita tutti i giorni che un impero crolli facendo così pochi morti

di Mauro Suttora

Huffpost, 7 ottobre 2022
  
Impeccabili i tre Nobel della pace 2022: gli attivisti per i diritti umani di Russia, Bielorussia e Ucraina meritano tutta la nostra attenzione e riconoscenza. Anche l'anno scorso i giurati di Oslo avevano premiato un russo. Ma il giornalista Dimitri Muratov, direttore della Novaya Gazeta, ha avuto poco tempo per assaporare il Nobel: poche settimane dopo è piombato con tutti i compatrioti nell'incubo della guerra contro l'Ucraina. Il suo era anche un premio postumo, in memoria della redattrice del giornale Anna Politkovskaya eliminata da Putin nel 2006. Ma non è stato di buon auspicio.
 
Speriamo invece che adesso Ales Bialiatski, 60 anni, il dissidente bielorusso premiato, venga liberato: è in prigione da un anno dopo averne già scontati tre per false accuse di evasione fiscale.
Al dissidente cinese Liu Xiaobo il premio del 2010 non è servito per uscire dal carcere. Anzi, sette anni dopo è morto di cancro al fegato, sempre prigioniero. 
La birmana Aung San Suu Kyi è stata liberata solo 19 anni dopo il Nobel del 1991, nei cinque anni da ministro degli Esteri è stata accusata anche lei di maltrattare le minoranze etniche, e l'anno scorso i generali l'hanno arrestata di nuovo. A 77 anni la sventurata langue ancora in una prigione segreta. 

Ma l'assegnazione del Nobel per la pace si muove sempre in un terreno minato. Il presidente etiope Abiy Ahmed Ali dopo il premio del 2019 non gli ha fatto onore: ha scatenato un conflitto contro i guerriglieri del Tigray. 
Il rischio di scambiare guerrafondai per pacifisti viene da lontano: nel 1906 fu decorato Theodore Roosevelt, il presidente Usa passato alla storia per la sua vanteria: "Imbraccio sempre un bastone nodoso". 
Il 99enne Henry Kissinger ha ottenuto dal Nobel un elisir di lunga vita, però neanche lui è un apostolo della nonviolenza come Albert Schweitzer (premio 1952), madre Teresa di Calcutta (1979) o Nelson Mandela (1993). 
Più onesto di Kissinger fu nel 1973 il copremiato vietnamita Le Duc Tho, che declinò il riconoscimento: "In Vietnam c'è ancora la guerra". E seguendo questo stesso criterio, appare surreale il Nobel ad Arafat.
 
A volte sono premi di incoraggiamento. Come Obama nel 2009, per i bei discorsi che faceva. I giurati di Oslo li scambiarono per realtà, definendoli "sforzi straordinari volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli". Ma quando gli arabi lo presero sul serio, scatenando contro i propri dittatori le loro primavere di libertà nel 2011, Obama non seppe cosa fare. Una no fly zone contro Gheddafi, nulla contro le armi chimiche del siriano Assad e del suo alleato Putin.
 
Con il Nobel si rischia la vita. Martin Luther King è stato assassinato quattro anni dopo averlo ricevuto nel 1964, l'egiziano Sadat (1978) tre anni dopo, l'israeliano Rabin (1994) è sopravvissuto solo un anno. Gandhi, che forse lo avrebbe meritato più di tutti, fu ammazzato prima che a Oslo pensassero a lui.

Qualche buontempone nel 1939 candidò Hitler, con la motivazione che se il premier inglese Chamberlain era stato proposto per gli accordi di Monaco, allora meritavano anche gli altri firmatari.

Quando a Oslo non sanno che pesci pigliare non conferiscono il Nobel (è successo 19 volte), oppure premiano un'organizzazione (24 volte), un'agenzia Onu, la Croce Rossa (tre volte). Che va benissimo, però (ong a parte) si tratta di organismi che la pace la devono promuovere per statuto. È il loro mestiere, sono stipendiati per questo.
 
Tutto sommato, oltre al Dalai Lama (1989), il premiato più meritevole è stato forse Gorbaciov nel 1990: non capita tutti i giorni che un impero crolli facendo così pochi morti. E l'artefice della dolce morte per il blocco sovietico fu in gran parte lui. Per questo Putin non è andato al suo funerale.

Thursday, October 06, 2022

Memento Putin. L'ex presidente del Kosovo è in carcere da due anni all'Aja



Hashim Thaci nel novembre 2020 diventò il primo capo di stato nella storia a trasferirsi direttamente dal suo palazzo presidenziale a una prigione olandese. All'inizio era sembrata una buona idea, non aveva calcolato due rischi

di Mauro Suttora 

HuffPost, 6 ottobre 2022  


Al numero 47 di Raamweg, all'Aja, una cella aspetta Vladimir Putin. Sta in un palazzo di mattoni rossi che d'estate si colora col verde dei rampicanti. È la sede del Tribunale che in questi mesi sta giudicando un collega dell'autocrate russo: Hashim Thaci, per vent'anni leader del Kosovo. Prima capo militare dell'Uck (Esercito di liberazione kosovaro), poi premier (2000-2014), ministro degli Esteri, infine presidente. Fino a quel maledetto (per lui) 5 novembre 2020, giorno in cui si consegnò al Tribunale dell'Aja: fu il primo capo di stato nella storia a trasferirsi direttamente dal suo palazzo presidenziale a un carcere in Olanda. 

All'inizio era sembrata una buona idea. Thaci, i suoi avvocati e compagni di partito pensavano che qualche settimana di prigione fosse un accettabile prezzo da pagare per far entrare il Kosovo nell'Unione europea. Da anni, infatti, le accuse di crimini di guerra contro il partito degli ex guerriglieri anti-serbi bloccano il processo di adesione alla Ue. 

Così perfino il partito di governo aveva accettato di mettere sotto processo Thaci e qualche altro proprio dirigente, per rispondere di nefandezze perpetrate contro la minoranza serba durante il conflitto che liberò il Kosovo nel 1999-2000. Pare che all'ombra di Ibrahim Rugova, il Gandhi kosovaro morto nel 2006, anche l'Uck si sia lasciato andare a vendette sanguinose. 

Questo gesto apparentemente autolesionista di Thaci e del Kosovo doveva anche servire a bilanciare il processo contro il presidente Slobodan Milosevic e gli altri gerarchi serbi, che si era concluso con la condanna per crimini di guerra di molti di loro (ergastolo a Karadzic e Mladic), e il suicidio di Milosevic nella sua cella dell'Aja nel 2006 in prossimità della sentenza. 

Thaci però non aveva calcolato due rischi: le lungaggini della giustizia internazionale (le prime accuse della procuratrice svizzera Carla Del Ponte su un sospetto traffico d'organi prelevati da prigionieri serbi risale al 2008) e il puntiglio dei magistrati dell'Aja. I quali da due anni gli negano gli arresti domiciliari, o perlomeno il trasferimento in una prigione kosovara, vicina a casa. 

Qualche mese fa Thaci, furibondo anche perché il processo è ancora in istruzione e chissà quando inizierà il dibattimento in aula, ha cambiato avvocato. Si è affidato a un pezzo grosso statunitense specializzato in diritto penale internazionale. Niente da fare: anche la sua ultima richiesta di domiciliari è stata respinta dall'inflessibile corte. Né aiuta che nel frattempo in Kosovo il partito di Thaci abbia perso le elezioni, e che premier ora sia il 47enne Albin Kurti del partito 'Autodeterminazione'.

Così un capo di stato europeo, fino a due anni fa riverito in tutte le capitali del continente, langue in una cella dell'Aja. 

In realtà il Tribunale internazionale per il Kosovo è solo uno dei ben quattro in funzione all'Aja. A poche centinaia di metri c'è quello ad hoc per la ex Jugoslavia, che ha cessato di giudicare ma si occupa ancora di esecuzione della pena per decine di condannati che la stanno scontando in vari Paesi europei (uno anche in Italia).

La terza corte è quella dell'Onu, ma nel suo famoso palazzo della Pace di Carnegieplein non si occupa di reati individuali: dirime soltanto controversie fra stati. 

C'è infine la Corte penale di giustizia nata con lo statuto di Roma del 1998, che attualmente sta processando soprattutto ex capi africani (Sudan, Centrafrica, Congo, Uganda), e da poche settimane investiga anche tre presunti criminali filorussi della guerra che Putin fece alla Georgia nell'agosto 2008. 

Putin si è guardato bene (come peraltro anche gli Usa) dal far aderire la Russia a questa Corte penale di giustizia. Quindi pure lui, come il filoccidentale Thaci e il filorusso Milosevic, dovrebbe essere giudicato da un tribunale ad hoc. Ma se per Mad Vlad le cose dovessero mettersi male, una prigione olandese forse risulterebbe l'opzione più desiderabile, rispetto alla tragica fine di un Nicolae Ceausescu, un Saddam Hussein o un Muammar Gheddafi.

Wednesday, September 28, 2022

Referendum-farsa? Putin si metta in coda, qui in Italia siamo maestri

Siamo nati sul 99% dei plebisciti risorgimentali dal 1859 al 1870. Perché le consultazioni popolari che ratificano conquiste territoriali già avvenute sono sempre una truffa. E anche in Francia ne sanno qualcosa

di Mauro Suttora

HuffPost, 28 settembre 2022

Vladimir Putin esulta per il 97% del suo referendum farsa nell’Ucraina occupata? Poteva far meglio: l'Italia nacque sul 99% dei plebisciti risorgimentali dal 1859 al 1870. Perché le consultazioni popolari che ratificano conquiste territoriali già avvenute sono sempre una truffa. E spesso non occorrono neanche minacce plateali, come i mitra spianati da Putin per stanare in casa gli ucraini riluttanti a votare. 

Ne "Il Gattopardo" il sindaco di Donnafugata, interpretato nel film da Paolo Stoppa, annuncia il risultato del plebiscito sull'unione della Sicilia all'Italia nel 1860: "Iscritti 515, votanti 512. Sì 512, No zero". Eppure tal Ciccio Tumeo assicura: "Io avevo votato no. E quei porci in municipio s'inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro".

Con questi metodi noi italiani abbiamo preso, ma anche perso. Nell’800 si usava così. Nizza, regalata nel 1860 da Cavour a Napoleone III in cambio della Lombardia, nel referendum confermativo diede ai francesi 6.921 Sì, con solo undici No. Ma il vero voto i nizzardi lo espressero coi piedi negli anni seguenti, quando un quarto di loro si trasferì in Italia.

Pochi ricordano che nel 1871, aizzati dal loro concittadino Giuseppe Garibaldi dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan, scatenarono i Vespri nizzardi. La neonata Terza Repubblica francese aveva infatti indetto le prime libere elezioni dopo l'impero, stravinte in città col 90% dalle liste filoitaliane contro l'annessione. 

Ma, alla faccia di libertà e democrazia, a Parigi prevalse ancora il nazionalismo: mobilitazione di diecimila soldati, occupazione di Nizza, chiusura del giornale pro-italiano "Il Diritto", incarcerazione dei patrioti italiani. La popolazione reagì, assalì la prefettura e ne ruppe le finestre a sassate gridando "Viva l’Italia, viva Garibaldi!”. Su un cartello fu issata la scritta "Inri: I nizzardi ritorneranno italiani". Ma dopo tre giorni di scontri e molti feriti e arresti, le cariche di cavalleria francesi ebbero la meglio.

Il 13 febbraio 1871 al deputato Garibaldi, che si era fatto eleggere nella nuova Assemblea nazionale francese convocata a Bordeaux, fu addirittura impedito di parlare. E lui si dimise da deputato con queste amare parole: “Ho sempre saputo distinguere la Francia dei preti dalla Francia repubblicana, che sono venuto a difendere a Digione con la devozione di un figlio”. Ma l’unico a difenderlo fu Victor Hugo.

Dopo i Vespri furono allontanati da Nizza gli ultimi irredentisti reduci dal Risorgimento italiano (era nizzardo anche Augusto Anfossi, comandante nelle Cinque giornate di Milano, ucciso sulle barricate). Si rafforzò la francesizzazione nell’ex provincia di Nizza sabauda, furono chiusi tutti i giornali in lingua italiana, si completò la cancellazione degli antichi toponimi locali. Ne fecero le spese perfino i cognomi: tanti Bianchi divennero Leblanc, e i Del Ponte Dupont.

Replay dopo la Seconda guerra mondiale con Briga e Tenda. I tedeschi fuggono dall’alta val Roja il 24 aprile 1945, le due cittadine sopra Ventimiglia vengono liberate dai partigiani italiani. Ma due giorni dopo arrivano a Tenda cento soldati algerini (francesi) che li disarmano, dando loro sei ore di tempo per andarsene.

Si tiene un plebiscito con schede prestampate: appare solo il sì all’annessione. L’unico modo di opporsi è votare scheda bianca, altrimenti si perde il diritto alla preziosa tessera annonaria, indispensabile per mangiare. I risultati sono favorevoli alla Francia: a Briga 976 sì e 39 schede nulle; a Tenda 893 favorevoli e 37 astenuti.

Un mese dopo giungono a Tenda gli americani e ripristinano l’amministrazione italiana, che però viene subito rovesciata dai francesi. La tensione è alle stelle. Ci vuole un accordo apposito a Caserta tra Francia e alleati per risolvere la situazione. Il 10 luglio 1945 il reggimento tiratori algerini deve lasciare l’alta Roja. Il Governo italiano a quel punto commette l’errore di invitare i cittadini contrari alla Francia a lasciare le proprie case. Anche Briga e Tenda, quindi, sperimentano il loro piccolo esodo, come in Istria: sono 42 le famiglie che se ne vanno da Briga (su un migliaio di abitanti), 90 da Tenda (su duemila). Nei mesi successivi altre cento famiglie abbandonano il territorio conteso.

Nell’aprile 1946 una commissione di otto membri (due per ogni Paese vincitore: Usa, Urss, Gran Bretagna e Francia) descrive una maggioranza pro-francese a Briga, mentre a Tenda prevalgono gli italiani, fra i quali gli immigrati che lavorano nelle centrali idroelettriche. Ma ormai il destino dell’alta Roja è segnato: gli alleati accettano le richieste francesi, in cambio di forniture elettriche all’Italia per quindici anni. La cessione di Briga e Tenda è appoggiata soprattutto dal ministro degli Esteri sovietico Molotov.

Un nuovo referendum il 12 ottobre 1947 dà la quasi unanimità alla cessione: 2603 sì, 137 nulli, 218 no. Un migliaio di italiani sfollati che tornano per votare vengono però bloccati alla galleria di Tenda. Si ripete, insomma, la farsa vista a Nizza quasi un secolo prima: plebisciti pilotati, intimidazioni, propaganda sfrenata. Certo, l’Italia paga l’attacco vigliacco di Benito Mussolini alla Francia del giugno 1940, con l’annessione di Mentone. Ma in fatto di referendum truffaldini Putin non ha inventato nulla.

Saturday, September 24, 2022

Elogio dell'astensione. So già chi vince: io

Storia di un radicale che nella vita ha votato di tutto e stavolta non vuole votare niente, senza sensi di colpa e finalmente in maggioranza. E che propone di tagliare seggi in proporzione al numero di astensionisti 

di Mauro Suttora

Huffpost, 24 settembre 2022 

Per la prima volta dopo quasi mezzo secolo vincerò le elezioni. Il mio partito risulterà primo, supererà Meloni e Letta, si installerà ben oltre il 25%. Poi noi astenuti faremo approvare una legge per completare l'opera: il numero degli eletti si ridurrà in proporzione ai votanti. Astensione di un quarto degli elettori? Trecento deputati invece di quattrocento, 150 senatori al posto di 200. L'unico modo per contare qualcosa, per fare veramente male.

Byebye Bonino: ti ho sempre votata dal 1979, appena maggiorenne, e i radicali mi piacevano già da prima. Ora non più, inutili cespugli del pd abbonati al 2%. Beautiful losers, direbbe Leonard Cohen. Nelle amministrative, dove Pannella non si presentava, ho votato via via tutti i partiti di protesta: verdi e Dp negli anni '80, Lega e Di Pietro nei '90, anche Grillo alle comunali di Roma 2008 (preferenza Paola Taverna). Una volta ho scelto perfino An: Riccardo De Corato, il miglior vicesindaco di Milano, piantumò un sacco di alberi con la Moratti. Insomma, non ho pregiudizi. 

Inaffidabile? No, laico e pragmatico. Antipolitico? Macché, semmai anarchico, la politica mi appassiona. Qualunquista? No, come tutti ho ideali e idiosincrasie ben precise. Sceglierei Calenda, per esempio, se non fosse filonucleare e per l'aumento delle spese militari. Meloni se non fosse fascista (chissà se le tireranno lo scherzo di far nascere il suo governo il 28 ottobre, nel centenario della Marcia su Roma). Fratoianni e Rizzo se non fossero comunisti. Paragone se non avesse fatto carriera da giornalista leghista solo grazie alla politica, e da politico grillino solo grazie al giornalismo: ora è al terzo riciclo.

Novax e putiniani li escludo automaticamente, quindi niente Salvini e M5s (Conte con l'aggravante del reddito di divananza). Di Forza Italia mi dà noia soprattutto il familismo: perché candidare la Fascina, quasi moglie di Berlusconi, o la pur splendida Patrizia Marrocco, ex di suo fratello Paolo? Vado troppo sul personale? Sì, preferisco le singole persone ai partiti: voterei l'ex magistrato Nordio o l'ex ministro degli Esteri Giulio Terzi (l'unico severo con Cina e Iran) seppur proposti dai Fratelli d'Italia. 

Resta il Pd. Nel mio collegio milanese c'è Misiani, brava persona. Come Letta. Poi però vedo i pd in tv, e mi urtano i nervi: Casini catafratto di legislature, la moglie di Martelli, quella di Franceschini probabilmente responsabile della sua orrenda frangetta giovanilista. In più l'ottimo ministro della Cultura, emigrato a Napoli per farsi eleggere (nella sua Ferrara non ce la fa), era in prima fila alla liquefazione del sangue di San Gennaro, assieme ad altri miracolati come Di Maio. Una scena da terzo mondo.

Ho parlato poco di contenuti? Datemi un partito liberale e la mia crocetta sarà sua. Un La Malfa, un Ciampi, un Padoa Schioppa, un Draghi. Rigore di bilancio, legalità, garantismo, prestigio, serietà fino alla mestizia. 

Nella repubblica degli Escartons (1343-1713), a cavallo tra Francia e Piemonte, il console quando veniva eletto doveva depositare una cauzione personale di 200 scudi. Se dopo un anno il bilancio andava in rosso, li perdeva. Altrimenti li recuperava con gli interessi. Con una regola così, correrei subito in cabina elettorale. Se no, resto fra gli apoti: quelli che non se la bevono, come Prezzolini scrisse nel settembre 1922 sulla Rivoluzione liberale di Gobetti. 

Friday, September 23, 2022

Berlusconi, Putin e il formato Paperissima



Da Vespa pronuncia la più strabiliante e scassata difesa dello Zar. Poi qualcuno dei suoi andrà alla Farnesina… Come cantava il suo amato Aznavour, bisogna sapere quando è il momento di lasciare la tavola

di Mauro Suttora 

HuffPost, 23 settembre 2022  

Se fosse un vescovo, Berlusconi da undici anni sarebbe un felice pensionato. Da cardinale, sei anni fa lo avrebbero interdetto dall'entrare nella cappella Sistina per eleggere il Papa in conclave. Invece lui, convinto di valere assai più di un Papa, giovedì compie 86 anni, come Ratzinger quando si dimise. Ma continua a imperversare. Per la crudele gioia di Crozza e, lo confessiamo, anche nostra: ormai lo guardiamo in tv solo allo scopo di aspettare la sua prossima gag. 

Come in Paperissima, ieri sera ce ne ha regalata una lunghissima. Per due minuti da Vespa ha pronunciato la più strabiliante difesa di Putin mai udita in questi sette mesi di guerra. Poverino, Vlad è stato costretto da quei cattivoni di russi del Donbass ad attaccare, per difenderli dagli ucraini che li stavano sterminando. "Quindicimila morti" sarebbero le vittime filorusse in otto anni nel Donbass. Cifra totalmente campata in aria che ormai neppure i più scatenati propagandisti putiniani osano agitare, visto che nelle guerre metà dei morti stanno da una parte e metà dall'altra. Chi è il complessista che ha infilato questa fake nel briefing per l'intervento più importante di Berlusconi in tutta la campagna elettorale? 

Perché finché si scherza si scherza, ma seppur con un misero 6-8% Forza Italia si appresta a governare l'Italia, e alla Farnesina qualche sottosegretario berlusconiano approderà.

E poi via con le amenità, come le "persone perbene" con cui Putin avrebbe voluto sostituire Zelensky al governo ucraino. Oppure i soldati russi che inopinatamente si sono sparpagliati per tutta l'Ucraina, mentre io dottor Vespa li avrei concentrati su Kiev.

L'altra sera Berlusconi era invece scivolato durante un'intervista alla sua Rete4. Ha detto freudianamente "interessi di conflitto" invece di "conflitto di interessi", colpa trentennale per lui impronunciabile.

Di sicuro prima o poi i politicamente corretti introdurranno anche il reato di gerontofobia. Negli Usa esiste già, lo chiamano 'ageism': proibito scherzare sulle papere degli anziani. Per ora, tuttavia, noi birichini possiamo liberamente sghignazzare sugli svarioni dei nostri adorati nonni con dentiera.

Non che l'età conti granché: Kissinger a 99 anni sembra più lucido del 79enne Biden. E nel 1963 i democristiani tedeschi dovettero ricorrere a un piccolo golpe per rimuovere da cancelliere l'imperterrito 87enne Adenauer.

Questa settimana le due attrici più belle del mondo compiono 88 anni. Ma Sophia Loren e Brigitte Bardot intelligentemente non si mostrano più, altrimenti rischiano di lollobrigidizzarsi.

Allo splendido Silvio, cui ormai siamo affezionati proprio in virtù della sua veneranda età, ci permettiamo di consigliare un ripasso dell'Ecclesiaste, pregno di bimillenaria saggezza: "Per ogni cosa c'è una stagione". Se leggere lo annoia, chieda a Marta o a Licia di mettere sul giradischi (pardon, nella playlist) una delle più belle canzoni dei Byrds: 'Turn! Turn! Turn!'. È in inglese, purtroppo. Ma lo stesso concetto è espresso magistralmente in francese da Aznavour: "Il faut savoir". Quand'è il momento devi sapere lasciar la tavola, ritirarti senza tornare. 

Sunday, September 18, 2022

La fiaba del mago Conte e della Capitanata



Storia di un orto politico coltivato con soldi pubblici

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 18 Settembre 2022

“C’era una volta un bianco castello fatato, un grande mago l'aveva stregato per noi”, gorgheggiava il compianto Jimmy Fontana nel 1968. La canzone era ‘La nostra favola’, e oggi un’altra fiaba sta avvolgendo le contrade della provincia di Foggia. Il mago si chiama Giuseppe Conte: da premier ha beneficiato il suo collegio elettorale con 280 milioni di soldi pubblici. La pioggia d’oro si chiama Cis (Contratto istituzionale di sviluppo) Capitanata (nome borbonico del foggiano). 

Ah, bei tempi quelli dell'agosto 2019: negli stessi giorni in cui Salvini si suicidava al Papeete, il previdente Conte salì in auto col fidato Casalino e andò a Foggia per gettare le basi del suo futuro politico. Mitica la conferenza stampa con cui annunciò il cospicuo regalo ai compaesani. Al suo fianco due personaggi ormai scomparsi dalla scena pubblica: Barbara Lezzi, grillina pugliese, ministra per il Sud, e Domenico Arcuri, allora sconosciuto ma potente ad di Invitalia, munifico salvadanaio parastatale, che poi Conte premiò con la nomina a commissario Covid (cariche entrambe sottrattegli dal perfido Draghi). Già allora l'ex premier compì il primo miracolo, raddoppiando pani e pesci: "Sono 280 milioni, ma arriveranno a 560 grazie all'effetto moltiplicatore". Felici per il mezzo miliardo immaginario, tutti gli amministratori locali applaudirono bipartisan.

Il paese natale di Conte Volturara Appula, 416 abitanti, ha beneficiato di 45 milioni: più di centomila euro a testa. Per sistemare la statale Fortorina d'accesso, ma anche per una pista ciclabile fino al lago di Occhito. Questo è il progetto più poetico: "È un’area a forte vocazione turistica, grazie alle risorse culturali e ambientali proprie del lago. Il progetto sarà in grado di attuare e suggerire una serie di interventi che abbiano la capacità, nel loro insieme, di configurarsi come supporto infrastrutturale strategico del sistema socio-economico".

Inarrestabili, i cantori di Invitalia aggiungono: "L'utilizzo del lago di Occhito ha il vincolo di conservare e incrementare il grado di naturalità del territorio interessato, per permettere lo spostamento al loro interno delle popolazioni animali e vegetali [piante semoventi?, ndr], prevedendo, ove necessario, interventi di riqualificazione e ricostruttivi con metodi e tecniche dell’ingegneria naturalistica e dell’architettura del paesaggio. L’obiettivo è contrastare i processi di frammentazione del territorio e l’aumento del grado di funzionalità ecologica e dei livelli di biodiversità del mosaico paesistico regionale".

Benvenuti in paradiso, insomma. Ma la magia aumenta in un paesino confinante con Volturara: Celle di San Vito, 162 abitanti, il più piccino della Puglia. Qui, alla modica cifra di un quarto di milione per un 'Parco laboratorio dell'immaginario' più 175mila euro per 'L'isola che non c'è', ecco "tre percorsi tematici per i bambini, con l’intento di creare uno spazio ricreativo e aggregativo mai pensato prima sul territorio, fondato sulla Fiaba e sulle sue molteplici dimensioni: culturali, storiche, educative, psicopedagogiche, antropologiche. Il Parco, rivolto ai bambini e agli adolescenti con lo scopo di renderli consapevoli dell’esistenza di lingue diverse, si avvale di tour 'esperienziali', in modo da formare un gruppo di giovani locali per valorizzare le attività e sviluppare concrete possibilità di sviluppo turistico nel Comune stesso. Il primo percorso tematico è la Casa con Mago Merlino (fiaba bretone), adibita a laboratorio delle scienze con simpatici esperimenti da fare con i bambini; il secondo è la Casa Kirikù e la strega Karabà (fiaba africana), adibita a laboratorio multiculturale, delle relazioni e delle emozioni e contro ogni forma di violenza, bullismo. Infine la Casa-Laboratorio di lingua francoprovenzale a cura di esperti madrelingua, ovvero qualificati in lingua e cultura francoprovenzale". Celle San Vito infatti fu fondata secoli fa da soldati angioini, ed è tuttora isola francofona.

Ma scendiamo dall'Appennino dauno verso la costa foggiana. Ecco lo “Slow tourism fra le salicornie” (asparagi di mare, che crescono anche in zone salmastre): 62mila euro per conservare, ripristinare e migliorare alcune zone umide minori fra Manfredonia e Zapponeta, indimenticata patria di Nicola di Bari. Sempre a Manfredonia, un milione e 189mila euro per il parcheggio della basilica di Siponto, "cardine dell'architettura romanica pugliese". E al comune di Stornarella non vuoi concedere 383mila euro per la “viabilità rurale”, e all’isola di San Domino nelle Tremiti 863mila per ripavimentare le strade del villaggio Pescatori?

Quasi tre milioni di euro a Lucera per lo Stupor Mundi, fortezza sveva; a Foggia 875mila euro per restaurare il palazzo d'Avalos, più una ventina di inopinati milioni alla Masseria Giardino, rudere in mezzo al nulla; un milione e mezzo per gli scavi archeologici di Ordona.  

Fortunatamente ci sono finanziamenti più prosaici ma utili come le fogne di Carapelle (mezzo milione), il depuratore di Foggia (8,6 milioni), l'acquedotto del Gargano (sei milioni), il porto di Mattinata (dieci milioni) o il mercato ortofrutticolo di Foggia (due milioni).

In realtà la parte del leone dei 43 progetti del Cis Capitanata la fanno i 75 milioni per lo stabilimento foggiano di Leonardo (non dite ai grillini che è il nostro massimo produttore ed esportatore di armamenti), i 56 milioni per il turismo sanitario religioso della Fondazione Padre Pio a San Giovanni Rotondo, altro paese beneficiato dalla presenza giovanile di mago Conte, e decine di milioni per strade e svincoli. Ma vedremo il 25 settembre se ai foggiani è piaciuto anche l'aspetto fiabesco dell'orto politico coltivato dall'ex premier con denari nostri. 

Monday, September 12, 2022

La guerra lunga può diventare una trappola per Zelensky

Non è mai positivo quando i conflitti si trascinano a lungo. C'è una costante che li accomuna: la psicopatologia collettiva dei combattenti. Colpisce indiscriminatamente, si creano aspettative e frustrazioni difficilmente gestibili dopo il ritorno alla vita civile

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 12 Settembre 2022 

Nella primavera 2011 guardavo i ragazzi sul lungomare di Bengasi. Tornavano dai combattimenti contro i soldati di Gheddafi a Sirte, trasportati su pickup con mitragliatrice. Da qualche settimana i libici si erano ribellati al loro dittatore, e quei giovani con divise raffazzonate erano corsi volontari a sfidare la morte, coraggiosi. Al loro rientro in città erano giustamente accolti da eroi: esibivano orgogliosi i kalashnikov recuperati nelle caserme abbandonate dai militari regolari. Come capita a tutti i ventenni, piaceva loro far colpo soprattutto sulle ragazze. 

Sappiamo com'è andata a finire: da dieci anni la Libia è in preda all'anarchia. Molti di quei ragazzi sono rimasti arruolati nelle milizie che perpetuano la guerra civile. Affascinati dallo status garantito dalla divisa, esaltati dal machismo, riluttanti a tornare nel triste trantran della vita precedente: studio, lavoro? Che fatica, che noia.

Per questo non è mai positivo quando le guerre si trascinano a lungo. Neanche in Ucraina. C'è infatti una costante che le accomuna: la psicopatologia collettiva dei combattenti. La quale non cambia molto fra vincitori e vinti, aggrediti e aggressori. Perché le conseguenze negative di una guerra prolungata colpiscono entrambi i fronti. Col tempo, si creano aspettative e frustrazioni difficilmente gestibili dopo il ritorno alla vita civile.


Sono state scritte biblioteche sulle esiziali conseguenze della prima guerra mondiale nella psiche delle masse smobilitate nel 1919, dopo cinque lunghi anni. I reduci italiani furono fra le principali cause del fascismo, le insoddisfazioni tedesche ci regalarono Hitler. Le vittorie sono sempre mutilate, le sconfitte sempre umilianti. La via d'uscita è facilmente la mistica dell'uomo forte. Gli ex combattenti diventano disadattati, disabituati alla pace. 

I mujaheddin afghani plasmati dalla resistenza antisovietica negli anni 80 hanno prodotto Osama Bin Laden e i talebani. Quando la guerra s'incancrenisce, l'unica stabilizzazione che si ottiene è quella del nemico. I tre quarti di secolo dei campi profughi palestinesi, con quattro generazioni cresciute nel mito della violenza, oggi promettono solo ulteriori decenni di odio. Che ha contagiato anche la controparte israeliana.

Egualmente, il Kosovo liberato 23 anni fa ha ancora bisogno del peacekeeping Nato, e si scopre ai bordi della legge quasi quanto la Serbia di Milosevic. Dal 2020 il suo eroe nazionale Hashim Thaci, che l'ha governato prima come capo militare, poi da premier e presidente, langue in una cella dell'Aja a poche centinaia di metri da quella dove si suicidò Milosevic nel 2006: entrambi accusati di crimini di guerra. 

Ma anche le più avanzate Croazia e Slovenia, accolte nella Ue e nell'euro (Zagabria fra quattro mesi), conservano piccole incrostazioni nazionaliste che impediscono loro di sciogliere una comica disputa sulle reciproche acque territoriali davanti a Trieste.

Insomma, le scorie del militarismo sono sempre difficili da smaltire. Anche nelle nostre democrazie. Nel 1960 fu proprio un ex generale, il presidente Usa Eisenhower, ad ammonirci contro il pericolo del 'complesso militare industriale': la perversa alleanza fra industria bellica e alte gerarchie delle forze armate, che per forza d'inerzia spinge ad aumentare le spese per armamenti. 

Pochi anni dopo il dramma del Vietnam gli diede ragione. Ma allora la reazione dei giovani statunitensi spinse alla pace e all'abolizione della leva. Paradossalmente invece, tanto più una guerra è di popolo, popolare, percepita come giusta (e la resistenza ucraina lo è), tanto più alti sono i rischi di un'escalation delle rivendicazioni. 

Perciò Zelensky è sicuramente un eroe, ma gli auguriamo di smettere al più presto la sua maglietta mimetica. Altrimenti diventerà lui stesso prigioniero di un revanscismo illimitato che impedirà la pace. Se oserà dire l'ovvio, e cioè che la Crimea e quel quarto di Donbass invasi dalla Russia nell'ormai lontano 2014 sono trattabili, verrà accusato di tradimento dai militaristi ucraini. Rischierà la fine di Rabin o Gandhi: assassinati non da nemici, ma da fanatici della propria parte. Induriti e impazziti a causa di guerre troppo lunghe.