Saturday, December 18, 2021

Dietro il Colle/ La doppia incognita Draghi-Berlusconi tra M5s e “poteri forti”

intervista a Mauro Suttora di Federico Ferraù

www.ilsussidiario.net, 18 dicembre 2021

Salvini e Meloni potrebbero usare le prime tre votazioni per fare un sondaggio “esplorativo” su Berlusconi. Per eleggere lui o puntare su Draghi 

Berlusconi farà da cavia: se il suo pacchetto di voti avrà un discreto margine, “Salvini e Meloni potrebbero essere tentati di cercare il colpaccio del 51% dopo la terza votazione”, dice Mauro Suttora, giornalista, opinionista sull’HuffPost e scrittore. Ieri, a Palermo per il processo Open Arms, Salvini ha dato ragione all’Economist: Draghi resti a palazzo Chigi. Pretattica?

Suttora scommette su Draghi al Colle (“puntata secca”), ma a patto che qualcuno lo candidi e che l’ex capo della Bce abbia garanzie sul premier (europeista) per comandare ancora.

Per poter influenzare l’elezione del capo dello Stato occorre governare i gruppi di Camera e Senato. Nel M5s chi ha l’ambizione di farlo? 

Conte, in teoria capo dei grillini. I quali però hanno già perso un terzo degli oltre 300 parlamentari eletti tre anni fa. Finiti soprattutto nel gruppo misto. Ma finora i vari dissidenti come Morra o Lezzi non sono riusciti a organizzarsi come polo alternativo ai 5 Stelle. Non hanno neppure gruppi parlamentari autonomi. Una ulteriore secessione dal partito di Conte si verificherà proprio in occasione del voto per il Quirinale, fra un mese.

Quanto anime ci sono tra gli eletti M5s?

Le correnti principali sono tre. Quella di Conte e Taverna, quella di Di Maio, e infine i movimentisti che guardano ancora a Di Battista.

È ipotizzabile un’iniziativa di Grillo, tra fine anno e gennaio, per tirare le fila del Movimento?

Grillo è il massimo dell’imprevedibilità. Neanche quelli più vicini a lui sanno cosa farà il giorno dopo. È rimasto un uomo di spettacolo, gli piace spiazzare, creare colpi di scena. Ora però è abbacchiato dalle disavventure giudiziarie del figlio, e anche sue.

Vale a dire?

Ha appena perso una causa a Napoli contro il dissidente Angelo Ferrillo, eliminato ingiustamente dalle elezioni regionali campane nonostante avesse vinto le primarie online. E Ferrillo ora gli chiederà i danni.

Conte ha ipotizzato una consultazione sul web. Fedeltà al Dna grillino o idea bislacca fuori tempo massimo?

Può darsi che la facciano. Nel 2013 le cosiddette Quirinarie furono vinte dalla giornalista Gabanelli di Report. Ma lei non accettò la candidatura, cosicché i grillini ripiegarono su Rodotà. Questa volta non hanno un candidato, quindi probabilmente si accoderanno su Draghi.

Esiste il rischio che il voto sul Colle diventi un regolamento di conti interno al Movimento?

Non è un rischio, è una certezza. Di Maio ha definito il suo rapporto con Conte come “franco”. In politichese, “franco” significa che se ne dicono di ogni.

Fabrizio D’Esposito ci diceva la settimana scorsa che i 5 Stelle non voteranno mai Berlusconi, nonostante le sue manifestazioni di stima per Conte e il Movimento. Che ne pensi?

Ha ragione. Nonostante la voglia matta di Conte, Berlusconi non è digeribile dai grillini: “Mi dà proprio un fastidio fisico”, urlava la Taverna.

Pare però che Berlusconi stia facendo una campagna acquisti nel senso vero del termine. E il primo ambito in cui pescare, oltre al centro, è proprio il calderone di M5s. Chi potrebbero essere i più sensibili?

Attenzione: Berlusconi sta pescando fra il centinaio di ex grillini che ora stanno nel gruppo misto. Può promettere loro un futuro politico oppure uno sbocco lavorativo fuori dalla politica. In ogni caso, uno stipendio. Come alle olgettine.

Basterà a Conte il patto con Letta per salvarsi politicamente?

No. Una buona metà dei parlamentari grillini non vuole andare al traino del Pd di Enrico Letta.

Strana l’intervista di Di Maio al Corriere di ieri. Secondo te quali segnali contiene?

Mi sembra avviato anche lui a votare Draghi presidente della Repubblica. In cambio di un’unica garanzia: che come premier gli succeda per un anno un governo qualsiasi, capace di evitare le elezioni anticipate e quindi il massacro dei grillini.

Su una cosa forse Di Maio ha ragione: quando dice che Berlusconi “potrebbe essere affossato dallo stesso centrodestra”.

Il centrodestra voterà Berlusconi come candidato di bandiera nei primi turni. Non verrà eletto, perché il quorum è alto. Però i voti che raccoglierà verranno attentamente contati, e se veramente la campagna acquisti si rivelasse fruttuosa, rivelando un pacchetto di almeno una ventina di voti oltre il perimetro del centrodestra, Salvini e Meloni potrebbero essere tentati di cercare il colpaccio con i quorum successivi del 51%.

Prima l’FT, poi l’Economist: ci sono pressioni molto forti perché Draghi resti al governo per eseguire il Pnrr e dare “stabilità”. Poi però lo stesso pezzo dell’Economist dice che Draghi vorrebbe andare al Colle. A tuo avviso cosa ha in mente?

Ovvio che Draghi miri al Quirinale, anche perché tutti gli altri sono a distanza siderale da lui. Ma certo non si autocandiderà. Dopodiché, sarà sempre lui a comandare. O attraverso un premier di transizione come Franco o Cartabia, oppure, in caso di elezioni, incaricando un premier europeista di sua fiducia: Giorgetti se vince il centrodestra, o Letta, Gentiloni, Sassoli se prevalesse il centrosinistra.

Qual è il tuo scenario?

Draghi, puntata secca. E anche se a Berlusconi dovesse riuscire lo scherzetto di raccattare tanti profughi ex grillini, alla fine il centrodestra ripiegherà su un nome accettabile da tutti. Per esempio Casellati, già oggi numero due della Repubblica come presidente del Senato. E, soprattutto, donna.

Federico Ferraù 

Monday, December 13, 2021

Che nausea i patrioti che hanno bisogno di confini in cui rinchiudersi


 

Perché quando Giorgia Meloni parla di un patriota al Quirinale mi assale un lieve stato di malessere

di Mauro Suttora

13 dicembre 2021
 

La statua di Giuseppe Mazzini nel Central Park di New York sta a 300 metri da Strawberry Fields, il memorial di John Lennon. Ci passavo davanti ogni mattina, per andare al lavoro alla Rizzoli sulla 57esima Strada. Non mi sono mai sentito più patriota e orgoglioso di essere italiano, ammirandola. E anche di fronte alla statua di Dante, poco più in là verso Columbus Circle, e a quella di Garibaldi a Washington Square. Facevo lavare ogni anno la bandiera tricolore che sventolava davanti alla mia finestra alla Rizzoli.

Però resto un fan di Lennon e del suo inno, “Imagine there’s no countries”: immagina che non ci siano Paesi. Sono peggio che europeista: mondialista. Anzi cosmopolita, cittadino del cosmo.

Quindi Giorgia Meloni non mi voterebbe presidente della Repubblica. Vorrei chiederle: nel 1944 chi erano i suoi tanto amati ‘patrioti’? I repubblichini o i partigiani?

“Il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie”, disse Samuel Jackson nel ’700. “Quando gli stati si fanno chiamare patria, si preparano a uccidere”, ha ribadito lo svizzero Dürrenmatt, chiudendo la questione. Aggiungerei: quando i sovranisti parlano di patriottismo, si rivelano fascisti. Perché la patria ha bisogno di frontiere, e di soldati per difenderle. O espanderle, come ora minacciano di fare Putin in Ucraina dopo la Crimea, e la Cina con Taiwan.

Sono affascinato dall’argomento. Nel mio libro ‘Confini’ (ed. Neri Pozza) mi consolo: constato che fortunatamente gli attuali neonazionalisti hanno abbandonato l’insalubre tendenza a volerli spostare in avanti, provocando guerre per secoli. Si limitano a proclamare recuperi di sovranità e identità, ma all’interno degli stati esistenti. Isolazionismo, non aggressione. Frontiere con trincee e muri per proteggersi, non per attaccare.

Ma allora, perché quando la pittoresca Giorgia parla di patrioti mi assale un lieve senso di nausea? Forse perché noto ancora la fiamma fascista nel simbolo dei suoi Fratelli. E ricordo la libreria Orion, qui a Milano in via Plinio, dove negli anni ’80 i ‘camerati del terzo millennio’ avevano come loro principale avversario non più il comunismo o le democrazie giudoplutomassoniche, ma il mondialismo. E all’Onu, alla pace universale e a un mondo senza confini contrapponevano una loro buffa paccottiglia subculturale fatta di Hobbit, leggende medievali, Atreju, esoterismo.

Erano contemporaneamente in retroguardia e all’avanguardia, perché negli anni ’90 anche gli estremisti di sinistra, orbati del comunismo, li raggiunsero nella polemica contro la globalizzazione (Seattle, Genova). I no global dei centri sociali si irritavano quando li avvertivo di questa primogenitura fascista sulle loro idee, ma che ci posso fare se Marx invece era globalissimo, e i compagni lavoratori sono sempre stati internazionalisti?

Ora abito in una via dedicata ad Augusto Anfossi, patriota morto nelle 5 giornate. Qui attorno tante vie di patrioti morti giovanissimi: Emilio Morosini (a 19 anni), Enrico Dandolo (22), Goffredo Mameli (21). Eroi che ammiro. Ma il “siam pronti alla morte” dell’inno è una frase necrofila poco in sintonia con la generazione Erasmus che abbatte le frontiere grazie ai low cost, e anche alla mia che scorrazzava per tutta Europa in autostop e treni Transalpino.

“Morire per delle idee? Sì, ma di morte lenta”, cantavano beffardi Brassens e De Andrè. Alla faccia degli ottimi patrioti mazziniani e delle nostalgie ducesche di Giorgia. Che ieri, sventurata, ha detto pure “Siamo dalla parte giusta della Storia”. Aiuto.

Mauro Suttora

Saturday, December 11, 2021

Nicola Chiaromonte, integerrimo politico e quindi necessariamente ‘non politico’

L’intellettuale lucano morto nel 1972 a 67 anni fu iscritto una sola volta a un partito: i neonati radicali, nel 1956 

di Mauro Suttora

HuffPost, 11 dicembre 2021

Google definisce Nicola Chiaromonte “politico”. Niente di più falso. L’intellettuale lucano morto nel 1972 a 67 anni fu iscritto una sola volta a un partito: i neonati radicali, nel 1956. I quali già due anni dopo sparirono dalla scena nazionale, dopo il disastroso debutto elettorale: 1,4% assieme ai repubblicani di La Malfa (il partito radicale si reincarnò poi sotto la guida di Pannella).

Fu questo, nel lungo dopoguerra italiano, il destino di tutti i partiti laici: stritolati dalle due chiese contrapposte, democristiana e comunista. Sorte toccata anche a Chiaromonte e a tanti uomini di pensiero indipendente come lui. E infatti anche la sua memoria è stata cancellata: se si dice Chiaromonte, chi sa un po’ di politica pensa soltanto al suo omonimo Gerardo, senatore Pci scomparso nel 1993 (nessuna parentela).

Invece Nicola Chiaromonte è stato un importante uomo di pensiero, come dimostrano le 1800 pagine del Meridiano che gli ha dedicato Mondadori. Fu anche un integerrimo politico, in realtà, e quindi necessariamente ‘non politico’. Un po’ come il ‘non tessuto’ con cui proteggiamo le nostre piante d’inverno, o come l’unica intuizione degna di nota di Casaleggio, fondatore dei grillini: il quale li definì ‘non partito’ dotandoli di un ‘non statuto’, essendo gli statuti dei partiti perlopiù truffaldini.

Durante il fascismo Chiaromonte stette nell’unico posto dove un deciso antifascista poteva stare: all’estero. Ma anche quando tornò in Italia dall’esilio in Francia e Usa rimase straniero in patria. E infatti fu amico stretto di Camus: il loro carteggio è stato anch’esso appena pubblicato da Neri Pozza.

Diversamente dallo Straniero per eccellenza degli anni ’50, tuttavia, Chiaromonte scampò all’epiteto di ‘rinnegato’: non fu mai comunista. Socialista libertario, negli anni ’30 aderì a Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli, ma la lasciò quando si trasformò da movimento in partito e si avvicinò troppo ai comunisti (che stavano massacrando gli anarchici in Spagna).

Fu tuttavia marchiato dall’accusa di ‘venduto’. Purtroppo vera, perché la sua rivista Tempo presente, fondata nel 1956 con Ignazio Silone (lui sì traditore del Pci), risultò finanziata dagli Usa. Più precisamente dal Congress for cultural freedom, organizzazione che nel 1967 un’inchiesta giornalistica rivelò essere aiutata dalla Cia.

Peccato che oggi ci appare risibile, per due motivi: primo, perché quasi tutti erano ‘pagati’, i comunisti da Mosca, Dc e Psdi da Washington; secondo, perché in tempo di guerra, seppur fredda, è lecito essere aiutati dagli alleati, come lo furono i partigiani contro i nazisti.

Ma Chiaromonte, ignaro dei soldi occulti, soffrì molto quando vennero alla luce e s’imbufalì con l’amministratore del giornale che lo aveva tenuto all’oscuro. Lui personalmente non aveva bisogno di quell’aiuto, poiché sbarcava il lunario come critico teatrale del Mondo e dell’Espresso. E lo ferì essere associato alla Cia, proprio lui che negli anni a New York aveva combattuto con il suo maestro anarchico Caffi non solo il nazifascismo, ma anche l’establishment capitalista Usa. E che su Tempo Presente non aveva lesinato critiche al maccartismo ed elogi a sacerdoti come Balducci e Milani, fautori dell’obiezione di coscienza al servizio militare.

Insomma, in questi tempi di polemiche strampalate contro un supposto mainstream vaccinista, è interessante leggere le pagine scritte da Chiaromonte, che mainstream non lo fu mai perché rifiutò l’arruolamento non in una corrente principale, ma in due contemporaneamente: la maggioranza democristiana e l’opposizione comunista. Lui e pochissimi altri stettero all’opposizione dell’opposizione. E pagarono con la sparizione, in vita e in morte.

Mauro Suttora 

Monday, November 29, 2021

Mario Monti, la libertà di parola e le tentazioni cinesi
















Dice che "il Governo deve dosare le informazioni sulla pandemia. Con meno democrazia, rinunciando a un po’ di libertà". Ma sono pallottole per il nemico

di Mauro Suttora

HuffPost, 29 novembre 2021
 

“Stiamo combattendo una guerra contro il Covid? Allora, come in tutte le guerre, il Governo deve dosare le informazioni sulla pandemia. Con meno democrazia, rinunciando a un po’ di libertà”. Il professor Mario Monti è senatore a vita, non deve inseguire il consenso per essere rieletto. Può quindi permettersi di dire frasi simili. Senza accorgersi che proprio questa sua evocazione della censura offre pallottole al nemico: “Ecco, avevamo ragione noi, con la scusa del virus le élites instaurano la dittatura”, commentano felici i no vax.

Ero sobbalzato anch’io sul divano, la sera prima, quando Beppe Severgnini aveva espresso in tv lo stesso concetto di Monti in modo più morbido. Il professor Crisanti avanzava dubbi sulla vaccinazione dei bambini, invitando ad aspettare qualche settimana prima di iniziarla in Europa. “Gli esperti come lei dovrebbero discutere le loro differenti opinioni nei congressi e arrivare a conclusioni certe, prima di venire a seminare incertezza davanti a milioni di telespettatori. Basta con queste comunicazioni ondivaghe”, lo ha troncato Severgnini. 

Ci siamo. I nodi vengono al pettine. Di fronte al perdurare sega-nervi della pandemia, a qualcuno viene la comprensibile tentazione di imboccare la strada cinese: tutti uniti e compatti, come solo nei regimi forti si può.

Crisanti ha subito precisato: non sono contrario ai vaccini, dico solo di attendere i risultati dei test sui primi duemila bambini immunizzati in Israele. Perché gli israeliani hanno già cominciato a vaccinare i 5-12enni, così come gli statunitensi da quasi un mese. Ormai sono più di tre milioni i bambini immunizzati e non giungono notizie di problemi. Anche l’agenzia Ema europea ha detto sì.

Quindi forse all’ottimo Crisanti è scappata una sciocchezza, ma ancora più sciocco sarebbe impedirgli di esprimerla. Resiste per ora la libertà di vaccino (ed è di cattivo gusto che sia l’Austria la prima a infrangerla), perché non dovrebbe resistere la ben più importante libertà di parola? 

Fosse per le paranoie no vax, noi trent’anni fa avremmo rinunciato ai telefonini. Ricordate le proteste contro i ripetitori? Il principio di precauzione, invocato dai no-tutto di allora, oggi imporrebbe di aspettare i test sui vaccini per anni. Non le poche settimane di Crisanti. I cui dubbi, naturalmente, ora vengono sapientemente isolati dal contesto e sparati in rete (virale) dai complottisti. Pallottole per il nemico, certo. Ma qualche scritta mussoliniana “Taci, il nemico ti ascolta” resiste ancora, sbiadita, sui muri d’Italia. Vogliamo rischiare quel tipo di replay?

Mauro Suttora

Friday, November 26, 2021

Con le nuove tasse saremo considerati Paperoni guadagnando 50mila euro l'anno

di Mauro Suttora

HuffPost, 26 novembre 2021

Altro che “alleggerimento per i ceti medi”. Con la riforma fiscale saremo considerati Paperoni anche guadagnando solo 50mila euro all’anno. L’aliquota massima del 43% viene infatti abbassata a questa cifra dalla precedente soglia dei 75mila. 

L’Italia conquista così due record fra i Paesi G7: l’ultimo scaglione Irpef, quello dei ricchissimi, inizia più in basso di tutti; e l’aliquota più alta per i redditi da 50mila euro.

In Francia la soglia massima, del 45%, comincia solo dai 157mila euro. E a 50mila si paga appena il 30%, il 13% meno di noi. 

In Germania si è considerati ricchi (e tassati al 45%) oltre i 260mila euro. A 50mila l’aliquota è del 39%.

La Spagna non fa parte dei G7, ma è la più simile all’Italia: scaglione massimo con imposta anche qui del 45% a partire dai 60mila. Ma a 50mila si paga molto meno: 37%.

Gli altri Paesi G7 sono il vero paradiso dei ceti medi. Negli Usa con 50mila dollari si è tassati al 12% a livello federale, più qualche punto da ogni stato (zero in Florida, 6% a New York, 8% in California). L’aliquota massima federale, 37%, scatta a 622mila dollari.

Regno Unito, Giappone e Canada colpiscono i redditi da 50mila euro col 20%, meno della metà di noi. Le aliquote massime britannica e giapponese sono del 45%: a Londra oltre i 175mila euro (150mila sterline), a Tokyo ce ne vogliono 312mila (40 milioni di yen).

Il Canada è quello che tratta meglio i suoi Paperoni: lo scaglione massimo è solo del 33% e scatta a 150mila euro (216mila dollari canadesi).

Mauro Suttora

Wednesday, November 24, 2021

Ennio Doris, l'unico che ha abbattuto le due grandi idiosincrasie dell'amico Berlusconi

Ricordo dell'uomo che per quarant’anni ha gestito il futuro (i risparmi) di milioni di italiani 

di Mauro Suttora

HuffPost, 24 novembre 2021

Lui vedeva i tramonti, Berlusconi le albe. La villa di Ennio Doris a Porto Rotondo, appartenuta a Shirley Bassey, sta a punta Volpe e dà a ovest. La Certosa dell’ex premier, a punta Lada, guarda invece a est. E quando Silvio andava a trovare Ennio all’ora dell’aperitivo gli diceva sempre che per questo lo invidiava.

Doris è stato l’unico ad abbattere due grandi idiosincrasie di Berlusconi: quella contro le persone alte (era 1,90), e quella per il controllo totale delle sue società. Mediolanum, infatti, è l’unica joint venture in cui il Cavaliere ha accettato di stare in minoranza. È stato un bene per entrambi. A Doris, amicissimo ma a distanza di sicurezza, ha evitato i guai di Mani Pulite. E Berlusconi ha guadagnato miliardi senza impegno: un investimento d’oro. Oggi sia l’uno che l’altro sono fra i cinque uomini più ricchi d’Italia.

Si sono fatti da soli, ma Doris di più: mentre l’ex premier ha prosperato nel campo delle concessioni (edilizia, tv), e quindi ha sempre avuto bisogno di entrature politiche prima di mettersi in proprio con Forza Italia, il fondatore di Mediolanum negli anni ’60 vendeva polizze porta a porta girando in auto per il suo Veneto. Non è stato mai aiutato da nessuno, tranne una volta. 

Narra la leggenda che nel 1981 lesse le seguenti parole di Berlusconi in un’intervista: “Se qualcuno ha un’idea e vuole diventare imprenditore, mi venga a trovare. Non vada da Agnelli o De Benedetti, non lo riceveranno. Io sì, e se l’idea è buona la realizzeremo insieme”.

Doris va a trovarlo a Portofino, ed è fatta. Mediolanum ha un enorme successo, nel ’96 si quota in Borsa, e Doris ricambia il favore: fa entrare Berlusconi nel salotto buono di Mediobanca che lo snobbava.

Doris diventa famoso con lo spot in cui traccia per terra un cerchio con il bastone, pronunciando lo slogan “Una banca intorno a te”. Ma è l’unica eccezione fatta alla sua totale riservatezza, agli antipodi dall’esuberanza berlusconiana.

Una delle sue rare interviste me la diede nel luglio 2020, per i suoi 80 anni.
Era appena arrivato in Sardegna dopo il lockdown assieme ai nipotini nella montagna veneta. Aveva fatto installare una postazione per le riunioni con Zoom al primo piano della villa.

Nel salone solo la moglie Lina con un’amica. Nessuna corte glamour, come nell’altra villa. Una ventata di energia ottimista: “Grazie al virus abbiamo accelerato cambiamenti come lo smart working, che altrimenti avremmo messo anni per attuare”.

Cattolicissimo, per mezza intervista mi raccontò le gesta di Chiara Amirante e della sua comunità Nuovi Orizzonti, che beneficiava generosamente. Quest’estate gli ho proposto un replay dell’intervista, ma era già malato.
Il figlio 53enne Massimo, che guida Mediolanum da una decina d’anni, ha appena fatto realizzare dal regista Fernan Ozpetek un filmato aziendale: ‘L’uomo che inventò il futuro’. Per quarant’anni Ennio Doris ha gestito il futuro (i risparmi) di milioni di italiani.

Mauro Suttora 

Saturday, November 20, 2021

“Conte ha chiuso, i grillini esploderanno durante l’elezione del Colle”

CAOS M5S 

intervista a Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 20 novembre 2021

Conte non governa più M5s, le fronde interne parlano chiaro. Di Maio farà con lui come ha fatto con Di Battista. Il Pd cerca di attrezzarsi.

 

Renzi che dal palco della Leopolda esorta il presidente Rai Fuortes a dare a Conte almeno Rai Gulp; Spadafora (suo ex ministro) che dice di Conte “troppi errori, è un leader debole che silenzia il dissenso”. L’ex premier è in crisi e ha scoperto che guidare i 5 Stelle è più difficile che stare a palazzo Chigi.

Ma il vero buco nero dello scenario politico saranno i voti pentastellati quando si tratterà di eleggere il successore di Mattarella. Nel Pd lo hanno capito e stanno affondando il colpo: Conte ha fallito, forse Di Maio farà meglio di lui. Il commento a bruciapelo di Mauro Suttora, opinionista di HuffPost, già inviato di Europeo e Oggi.

Conte appare in difficoltà. Quanto durerà?

I grillini gli esploderanno in mano a gennaio, quando si voterà sul Quirinale. Già oggi più di cento eletti, sui 300 entrati in parlamento nel 2018, non lo seguono più. E fra due mesi quelli che obbediranno alle sue indicazioni per il successore di Mattarella saranno ancora meno.

Spadafora è stato durissimo con Conte: “Sulla Rai ha sbagliato tutto”, ha detto. Che errori ha fatto?

Non si può lottizzare per anni, incassare direttori – Carboni al Tg1, Di Mare a Rai3 – e poi lamentarsi se in una lottizzazione prendi meno posti. Soprattutto se sei un movimento nato proprio per eliminare la lottizzazione dei giornalisti Rai. È come se un rapinatore protestasse perché i complici gli danno meno della sua parte di refurtiva.

Sempre Spadafora lo ha accusato di silenziare il dissenso interno. Di chi parliamo?

Dei dimaiani e dei movimentisti, due delle tre correnti in cui sono divisi i grillini. I contiani decidono tutto da soli, anche l’annuncio del boicottaggio contro la Rai è stato dato senza discuterne prima con gli altri. Ma il vero dramma, per loro, è che stiamo commentando le parole di Spadafora: uno che fra i grillini non ha mai contato niente.

Si dice che Di Maio sulla Rai abbia fatto una trattativa personale. In ogni caso senza ottenere grandi risultati. Cosa puoi dirci in proposito?

Non lo so, ma visti i risultati il Pd ha messo nel sacco sia Conte che Di Maio.

Il ministro degli Esteri che obiettivo ha? Prendere la guida di M5s dopo avere logorato Conte?

Sì, come ha già fatto con Di Battista. Sì è creato la sua corrente, è bravo, giovane, lingua sciolta, cervello fino. Occupa da due anni la poltrona più prestigiosa del governo dopo quella del premier, ha fatto inversione a U rispetto al populismo e terzomondismo grillino. Quasi non si crede che ancora nel 2019 tifasse per i gilet gialli che mettevano a ferro e fuoco Parigi contro Macron. È stato lui a inventare Conte, proponendolo prima ministro e poi premier. Ma Conte se l’è dimenticato, non gli è riconoscente. Il potere gli ha dato alla testa.

A chi risponderanno i voti dei 5 Stelle quando si tratterà di eleggere il presidente della Repubblica?

Appunto: non rispondono a nessuno. Irresponsabili, nel vero senso della parola. Nel senso che non rischiano nulla, sanno che quasi nessuno di loro verrà rieletto. Mai, in 76 anni di Repubblica, c’era stata una massa così grossa di centinaia di peones incontrollabili.

Il Pd ha bastonato Conte sulla Rai, però i 5 Stelle a Letta servono. Non è chiaro quanto gli serva Conte, a questo punto. Meglio Di Maio?

Ormai siamo arrivati al capolinea. Letta ha sbagliato a umiliare i grillini nella spartizione Rai. Quelli si sono incattiviti, perché hanno capito che in politica nessuno regala niente a nessuno. E al Pd fa comodo ogni voto che riuscirà a strappare al M5s nelle prossime elezioni.

Anche Zanda ha apostrofato chi sta guidando i 5 Stelle. Cioè Conte.

Sì, ma per i democratici è indifferente chi guidi i grillini. Conte è ancora il politico più popolare dopo Draghi nei sondaggi, sta al 40%. Però non sarà lui il candidato premier del centrosinistra, ormai il suo momento è passato.

Nasce “Alternativa” di Pino Cabras: una sorta di ex M5s più stile gialloverde. Sono contro il governo. “Il primo passo sarà non far eleggere Draghi presidente Repubblica”, hanno dichiarato. Voteranno con il centrodestra?

Extra ecclesia nulla salus: fuori dalla chiesa M5s non c’è alcuna salvezza per i grillini. Soprattutto per i carneadi come questo Cabras. L’unico ex che può sperare di raccattare un 5% è Di Battista. Gli altri si venderanno al miglior offerente: destra, sinistra, centro, è indifferente. Uno di loro ha appena resuscitato la falce e martello comunista, un altro Potere al popolo, altri ancora si aggrappano al simbolo di Di Pietro. Spariranno tutti.

Una tua previsione sul Colle?

Draghi. O la Casellati, se riuscirà a continuare a non fare parlare di sé nelle prossime settimane. Chi si espone si brucia, come nelle volate ciclistiche.

E sulla legislatura?

Se i parlamentari non perdessero la pensione se non raggiungono i quattro anni e mezzo di mandato, non ci sarebbe alcun motivo per non votare a primavera. Questo Parlamento non è più rappresentativo, i grillini e tanti altri sono solo morti che camminano: zombies.

Federico Ferraù 

Wednesday, November 17, 2021

Nessun segnale di speranza per i diritti civili a Cuba

“Inutile girarci attorno: abbiamo perso" è lo sconsolato messaggio di un dissidente


di Mauro Suttora

HuffPost, 17 novembre 2021


“Inutile girarci attorno: abbiamo perso. Molti di noi non sono riusciti neanche a uscire di casa. Altri che manifestazione! Siamo demoralizzati. Ci vorranno mesi prima di riuscire a organizzare un’altra protesta. Forse anni”. Da Cuba arriva sconsolato il messaggio di un dissidente. I cortei pacifici che lunedì avrebbero dovuto replicare dopo quattro mesi il sollevamento spontaneo di luglio sono falliti.

Il nuovo presidente Miguel Diaz-Canel, che da aprile ha rimpiazzato Raul Castro, fratello di Fidel, ha per ora sgominato la resistenza nata dalla crisi economica e dall’assenza di libertà. Ormai manca il cibo, l’elettricità va e viene con blackout di ore, i turisti sono spariti e pochi torneranno questo inverno come tutti speravano, perché la quarta ondata del virus in Europa rallenta le prenotazioni.

Perfino la sanità è crollata davanti al covid: ora la curva si è abbassata, ma fino a metà settembre i morti rasentavano i cento al giorno. Che per un Paese di undici milioni di abitanti equivalgono a 600 in Italia.

La mobilitazione nazionale era stata annunciata pubblicamente dagli oppositori con largo anticipo, cosicché il regime ha avuto il tempo per prepararsi, dispiegando tutta la forza dell’apparato repressivo collaudato in 63 anni di dittatura. I dissidenti più noti come Saily Gonzalez Velazquez sono stati bloccati in casa già il giorno prima. Yunior Garcia non ha potuto neanche affacciarsi alla finestra: i vicini ‘patrioti’ del piano di sopra gliel’hanno oscurata srotolando una grande bandiera cubana. 

Soltanto una dozzina gli arrestati, fra cui Agustin Figueroa Galindo del blog Primavera Digital e Berta Soler Fernandez, leader delle Damas de Blanco, mogli e figlie di prigionieri politici. Di bianco avrebbero dovuto vestirsi i manifestanti lunedì, scendendo nelle strade. Che invece si sono riempite di agenti in borghese e militanti del partito comunista, che a Cuba conta un milione di iscritti. Così gli oppositori hanno mestamente ripiegato su un video online in cui mostrano lenzuola bianche, e su pentole con cui battere ogni sera alle nove.

“I delatori hanno fatto il loro mestiere, e hanno spifferato i nostri piani alla polizia”, si lamenta il dissidente. “Sapevano tutto di noi: orari, punti di incontro, indirizzi dei coordinatori all’Avana e nelle altre città. Non possiamo fidarci di nessuno, le spie sono dappertutto. Possono essere i nostri amici, parenti, vicini di casa. Ormai, per essere sicuri di non essere intercettati, dobbiamo mandare i bambini a consegnare messaggi. Siamo tornati indietro di un secolo, a prima del telefono. Altro che internet e chat. Perfino se ci parliamo di persona siamo ascoltati da microspie, in casa o nei bar, e dai radar dei poliziotti all’aria aperta”.

Quindi l’unica vostra arma resta la sorpresa. “Sì, come a luglio. Ma in quel caso perdiamo il controllo, c’è violenza, gruppi di vandali si scatenano e danno la scusa ai poliziotti di intervenire con durezza. Invece ci sono due cose su cui tutti i movimenti riuniti nella piattaforma Archipielago concordano: vogliamo manifestazioni pacifiche, e niente aiuti dall’estero. Cioè dai fuoriusciti cubani in Florida: fra loro ci sono troppi fascisti”.

Chi può, scappa. Un mese fa nove giocatori di baseball cubani hanno chiesto asilo politico in Messico durante la Coppa del Mondo under 23. Sono però ancora mezzo migliaio gli incarcerati dopo i disordini dell′11 luglio. Alcuni di loro sono stati processati e colpiti con sentenze devastanti: anche trent’anni di carcere per avere sfidato la quiete del regime.

Insomma, non c’è alcun segnale di speranza per i diritti civili a Cuba. Il governo riesce a censurare perfino la parola ‘libertad’ quando appare nei messaggi delle chat, in una continua lotta fra aperture e chiusure di gruppi WhatsApp, Telegram e Facebook. Ma tutti i provider hanno l’obbligo di segnalare ogni “attività controrivoluzionaria”.

Dal Venezuela alla Cina, dalla Corea del Nord alla Birmania, dal Vietnam all’Arabia Saudita, le dittature sembrano controllare la situazione in questi ultimi anni. Anche perché quando i dittatori cadono, come Saddam e Gheddafi, non sempre il risultato è positivo in termini di ordine pubblico e sicurezza. E Cuba non fa eccezione a questa tendenza mondiale.

Mauro Suttora 

Monday, November 15, 2021

Maria Grazia Cutuli, smettete di chiamarla giovane collega



Moriva vent'anni fa, ammazzata in Afghanistan. Fino a due anni prima era solo una precaria, fra sostituzioni di maternità e contratti a termine

di Mauro Suttora

HuffPost, 15 novembre 2021

Adesso Maria Grazia Cutuli è una via di Milano, fra Lambrate e l'Ortica. Fu ammazzata in Afghanistan vent'anni fa, il 19 novembre 2001. Due suoi assassini sono stati condannati nel 2018 in Italia a 24 anni. Erano in carcere a Kabul, chissà se quest'estate i talebani li hanno liberati. 

Speriamo che nel ventennale della sua morte i giornalisti italiani non la definiscano ancora «giovane collega»: non si è più giovani a 39 anni. Quanto alla «collega», anche lì ci andrei cauto: fino a due anni prima Maria Grazia era solo una precaria, fra sostituzioni di maternità e contratti a termine.

Proprio come tutti i «martiri» della corporazione che, ha notato sarcastico il Guardian inglese, ha bisogno di «eroi» per giustificare le proprie sudditanze e frustrazioni. Giancarlo Siani, ucciso nell’85 dai camorristi, era un abusivo del Mattino di Napoli; Ilaria Alpi non era assunta dal Tg3. 

E Antonio Russo, assassinato nel 2000 in Georgia? Dimenticato perché cronista di Radio radicale, denuncia il Guardian. Eppure Russo fu l’unico giornalista al mondo che nel 1999 rimase a Pristina sfidando le deportazioni e le stragi serbe in Kosovo, ricevette premi per questo. Poi però si era intestardito a occuparsi di argomenti «a perdere» come la Cecenia, massacrata dai russi.

Con la Cutuli fu ucciso Julio Fuentes. Lo conobbi quando era a Milano come corrispondente del quotidiano spagnolo El Mundo e stava con Maria Grazia. Lui sì che potè fare il suo mestiere da «giovane». Perché, come succede nei media di tutto il pianeta tranne l’Italia, in Spagna i reporter hanno 20-30 anni. Si comincia così, andando in giro con curiosità ed energia: è il primo gradino del cursus honorum, anche poco pagato. Poi, una volta quarantenni, messa su pancetta e famiglia, ci si fissa in redazione, si incassa l’aumento e si diventa writer, editors, capiredattori, «culi di pietra».

Da noi invece accade il contrario: la nomina a inviato speciale arriva verso i 40-50 anni, cioè proprio quando la disponibilità a «consumare la suola delle scarpe» diminuisce. È capitato a Ettore Mo, il migliore di tutti, e anche alla Cutuli nominata inviata «sul campo». Santo.

Risultato: ogni volta che sono andato per guerre ho incontrato due tipi di giornalisti. C’erano gli americani, inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, che partivano all’alba e tornavano in albergo impolverati solo verso sera, per trasmettere i loro servizi. Poi c’era il gruppetto degli italiani, distinti e simpatici cinquantenni che distillavano preziose analisi geopolitiche ai bordi piscina, sorseggiando cocktail e controllando ogni tanto le agenzie per vedere se era successo qualcosa.

Non li biasimavo: alla loro età sarebbe stato crudele spingerli fuori, nel fango, fra le pietre, non parliamo di sacchi a pelo, i reumatismi. Uno dei più brillanti di loro, stanziato per un mese nel 1990 all’Intercontinental di Amman durante la prima guerra del Golfo, aspettando inutilmente il visto per Bagdad, riuscì a farsi confezionare due completi su misura da un sarto giordano, a spese del giornale.

Un altro, al quale l’allora mio direttore Vittorio Feltri aveva chiesto una copia di un qualsiasi giornale iracheno, per tradurlo e allegarlo al settimanale Europeo, gli rispose che non si trovavano più. Appena atterrato ad Amman feci fermare il taxi al primo incrocio, comprai da uno strillone un quotidiano stampato a Bagdad e lo spedii a Milano. «Ma qui, nell’edicola interna dell’hotel, non li vendono più», mi spiegò il grande inviato speciale, «e fuori è pericoloso uscire, da quando gli arabi hanno picchiato Lilli Gruber».

Un’altra particolarità italiana sono i posti da corrispondente estero. Siamo gli unici al mondo a non farli ruotare ogni tre anni, come capitò anche a Fuentes. La loro principale funzione, da noi, è accogliere ex direttori o caporedattori trombati, possibilmente ignari della lingua locale.

Ecco, anche di queste buffe cose parlavamo con Maria Grazia. Dei giovani giornalisti italiani costretti a marcire per anni di fronte a un computer mentre i loro coetanei dei media esteri raccontano il mondo, magari in classe economica, in bus, in treno, in alberghi non a 5 stelle, magari senza autista privato, scorta militare e traduttore al seguito. Magari in bici, come Beppe Severgnini a Pechino nel 1989 prima della strage di piazza Tian an men. E i loro colleghi «anziani» intanto facevano colazione con ambasciatori e collezione di note spese, telefonavano a mogli, amanti, e scacciavano la noia con un bicchierino o due.

Ultimamente le cose sono migliorate: a turno, ogni tanto, con cautela, anche i giovani vengono spediti fuori dalle redazioni, a prendere un po’ d’aria. A scoprire com’è fatta la realtà. «Ma ormai c’è la rete», obiettano i direttori, molti dei quali non si sono mai spinti (professionalmente) oltre Milano e Roma. Fanno bene: si diventa direttori così in Italia, mica cercando notizie a Peshawar o a Cinisello Balsamo. Anche perché, scriveva il collega Benjamin Franklin, «le notizie sono solo quelle che dispiacciono a qualcuno. Tutto il resto è pubblicità». La Cutuli lo aveva capito, e per questo era considerata una rompicazzo tremenda. Altro che «giovane collega», valorosa postuma.

Mauro Suttora

Sunday, November 07, 2021

Adesso a Renzi infiliamogli anche una videocamera nel bagno






Il Fatto pubblica l'estratto conto del leader di Italia viva, precisando: nulla di illecito. E allora, dov’è la notizia? Ma soprattutto, dov’è lo scandalo? 

di Mauro Suttora

HuffPost, 6 novembre 2021


Adesso vogliamo vedere anche il fascicolo sanitario di Matteo Renzi. Come vanno le sue analisi? Ha pagato i ticket? O li ha addebitati alla sua fondazione Open, il mascalzone?

Benvenuti nell’era della trasparenza totale. Il partito che la propugnava, il grillino, è sparito, come sostiene Di Battista: la nuova gestione Conte ha smesso di urlare ‘onestà‘, i suoi parlamentari non ‘rendicontano’ più i loro stipendi. Ma il guardonismo resiste. Oggi Il Fatto ha pubblicato l’estratto conto dell’ex premier: tutte le entrate percepite dal giugno 2018 al marzo 2020 presso la filiale della sua banca al Senato.

A scanso di querele, il giornale precisa: nulla di illecito. Sono gli incassi di due anni per il nuovo (secondo) lavoro di Renzi, dopo la sua estromissione da palazzo Chigi nel 2017: conferenziere internazionale, da 20 a 50mila euro per ogni discorso. Più i 653mila di Lucio Presta per il famoso documentario su Firenze. Totale, sui due milioni.

Un bel prendere, come diciamo a Milano. Ma tutto dichiarato: il 730 di Renzi del 2020 infatti indica un reddito di un milione, quello precedente 800mila.

E allora, dov’è la notizia? Ma soprattutto, dov’è lo scandalo? Da nessuna parte. Lo precisano perfino gli inquirenti, che però depositando gli atti di una delle ben tre inchieste aperte su Renzi non hanno resistito ad allegare questa succulenta lista della spesa. O della serva, visto che “gli incassi dell’ex premier non sono oggetto di indagine”.

Insomma, eccoci servito un bel buco della serratura dentro cui gli odiatori di Renzi possono soddisfarsi guardando, spiando, sospettando. Bastano i soliti nomi a eccitarci: Arabia Saudita, Benetton, banche. Sì, al senatore piace la dittatura di Riad, un po’ come a Prodi e a tanti altri piace quella di Pechino. La famiglia “assassina del ponte Morandi” (cit. 5 stelle) ha versato 20mila a Renzi, probabilmente per l’ennesimo speech, ma chissà che non sia un altro “rapporto contrattuale fittizio” su cui aprire una quarta inchiesta, dopo quella sul documentario di Presta. 

E le banche, oh, le banche. Peggio: i 147mila euro dalla società di gestione del risparmio Algebris, sicuramente speculativa visti gli ottimi rendimenti sbandierati. Dai, Matteo, confessa: è una tangente, va bene che sei un chiacchierone, ma quanti discorsi avresti fatto per pigliare tutti ’sti soldi?

Non ricordiamo estratti di conti correnti privati pubblicati su Fanfani, Leone, Andreotti, Forlani, Craxi, Berlusconi. Eppure metà Italia detestava anche loro. 

Non vediamo inchieste sulle tante fondazioni che affollano il sottobosco politico, organizzando convegni e viaggi per quasi tutti i parlamentari di destra e sinistra. Possibile che solo quella di Renzi abbia violato la legge sui finanziamenti ai partiti?

Ma soprattutto: com’è che un politico valutato al 2-3% attira tanta strabiliante attenzione? Dicono che sia perché è stato lui a far cadere gli ultimi due governi, e a far installare Draghi. E allora cosa aspettiamo? Infiliamogli pure una videocamera nel bagno.

Mauro Suttora 

Friday, November 05, 2021

Da Zeno a Puzzer: quanto sei matta, cara Trieste

Piccolo campionario di strampalati triestini, dal 1874 a oggi. Magia della città di frontiera

di Mauro Suttora

HuffPost, 5 novembre 2021

Trieste si sta confermando serbatoio inesauribile di personaggi originali. Gli ultimi sono i portuali, che installati all’avanguardia del movimento nopass hanno regalato al Friuli-Venezia Giulia il record di contagi, ricoverati e rianimazioni covid.

Il loro capo Stefano Puzzer ha combinato casini, si era messo a trattare per conto dei novax senza autorizzazione, ha dovuto dimettersi, è andato a Roma, ma lo hanno cacciato anche da lì con un daspo.

Quanto al neofascista Fabio Tuiach, già consigliere comunale di Forza Nuova, il virus lo ha infettato. “Colpa degli idranti”, ha detto convinto. “Ho preso freddo durante lo sgombero, ho avuto 39 di febbre, ma era solo un’influenza. Il Covid esiste solo nella mente degli ipnotizzati”. L’anno scorso esprimeva un’altra teoria: “Il virus è una punizione divina per i froci”. Naturalmente tutti i talk show sono corsi a intervistarlo, ma lui non ha ‘spaccato’: solo qualche balbettio con un rosario in mano.

Fatto sta che Trieste ha attirato refrattari al vaccino da tutta la penisola. Un po’ come i legionari dannunziani nel 1919 per l’impresa di Fiume, o gli ultimi irredentisti nel 1954 quando il capoluogo giuliano tornò all’Italia dopo la guerra e il purgatorio del Territorio libero. Altra ribalta nazionale nel 1978: il Melone inaugurò l’era delle liste civiche, anticipando di un decennio il localismo della Lega.

Non è quindi la prima volta che questa stupenda città di frontiera ci regala ‘soggettoni’ da film. Il giornalista e scrittore Pietro Spirito ha appena pubblicato il libro ‘Gente di Trieste’ (ed. Laterza), in cui racconta una dozzina di incredibili vicende.

Quella di Carl Weyprecht, per esempio, che nel 1874 stava per diventare il primo esploratore a conquistare il polo Nord. Ma la sua nave si arenò nel ghiaccio, e dopo un blocco di due anni rimase incagliata sulla banchisa, inutilizzabile a otto metri di altezza. Weyprecht e i suoi marinai istriani dovettero abbandonarla e tornare mestamente indietro. Ma furono accolti con tutti gli onori perché avevano scoperto un grande arcipelago: la Terra di Francesco Giuseppe, che intitolarono appunto al loro imperatore austroungarico.

Altri eccentrici avventurieri partiti da Trieste furono nel 1948 Glauco Gaber e tre compagni su una scialuppa a vela e motore di sette metri che, dopo una traversata atlantica di un anno e mezzo, li fece approdare a Buenos Aires. Accolti dal presidente argentino Peron e da folle festanti, propagandarono l’italianità di Trieste, allora rivendicata dalla Jugoslavia.

Nel 1943 un prigioniero di guerra triestino, Felice Benuzzi, beffò le guardie inglesi che lo tenevano prigioniero in Africa dopo la caduta dell’Etiopia, e fuggì per scalare i 5mila metri del vicino monte Kenya. Poi ritornò imperturbabile nel campo d’internamento: un mese di cella di rigore, ma grande ammirazione in Gran Bretagna, dove nel dopoguerra il suo libro divenne un bestseller.
Sono tanti i triestini strampalati raccontati da Spirito. Forse il più incredibile è stato Rodolfo Maucci, costretto dai nazisti a dirigere il quotidiano locale Il Piccolo nel 1944-45, durante l’occupazione tedesca. Lui non voleva, era solo un critico musicale e notista politico, ma i nuovi padroni lo individuarono come il più adatto a guidare il giornale in quel periodo drammatico.

Maucci era disperato, sapeva che le sorti della guerra erano segnate, e che dopo la sconfitta dei nazifascisti avrebbe pagato il suo collaborazionismo. Allora escogitò una furbizia per scamparla: ogni giorno, metodicamente, nascondeva o attutiva le cronache e i titoli più sfacciatamente propagandistici, per confezionare un giornale per quanto possibile equilibrato.

Naturalmente questa sua fronda non sfuggì ai fascisti e nazisti più fanatici, che cercarono varie volte di cacciarlo. Ma un illuminato capo tedesco dell’Ufficio propaganda lo protesse per un anno e mezzo, impedendo l’arresto di Maucci e il suo probabile internamento in qualche lager nazista.

Nel maggio 1945 arrivarono i partigiani jugoslavi e chiusero Il Piccolo. Incarcerarono il protettore tedesco, che morì prigioniero a Lubiana. Non fecero in tempo ad arrestare Maucci, ma lui non fece in tempo ad assaporare la libertà: due giorni dopo la liberazione di Trieste da parte dei soldati neozelandesi e inglesi morì d’infarto a 55 anni.

Dallo Zeno di Svevo ai matti liberati da Basaglia negli anni ’70, sono tante le persone borderline che hanno affollato questa città di confine. Non per nulla confine in inglese si traduce ‘border’. Anche i personaggi dei romanzi di Tomizza appaiono divisi in due, con le loro vite a cavallo della frontiera istriana. Insomma, il destino sghembo di Trieste è segnato nella sua storia e geografia. Perciò i triestini ora osservano i pittoreschi novax accampati in piazza Unità con curiosità atavicamente tollerante.

Mauro Suttora

Monday, November 01, 2021

Clima: Greta, il frigo di Rita Pavone e un altro bla bla bla



Cinesi, russi e indiani cominciano a conoscere il benessere e non si adeguano. Che fare: dichiarargli guerra? 

Mauro Suttora



HuffPost, 1 novembre 2021

Successo o fallimento di Draghi? Il ‘suo’ vertice G20 di Roma ha deciso che per frenare il riscaldamento globale gli stati dovranno pareggiare le emissioni di anidride carbonica “entro o vicino alla metà del secolo”.

Cade la data del 2050, cui restano impegnate solo Europa e Usa. Cina e Russia promettono 2060, l’India non indica obiettivi.

Il solito “blablabla”, come accusa Greta Thunberg? “Speranze disattese”, ammette il segretario Onu Antonio Guterres. “Abbiamo fatto passi avanti”, si accontenta il presidente Usa Joe Biden.

Come sempre, la verità sta nel mezzo: “Dobbiamo capire le ragioni dei Paesi emergenti”, ha spiegato Draghi. Fornendo un esempio concreto: “La Cina produce metà dell’acciaio mondiale con centrali a carbone, la transizione ecologica non è facile”.

Soprattutto, non è facile convincere la Cina a ridurre le sue emissioni, che rappresentano il 30% del totale mondiale. L’intera Unione europea, per dire, è solo all′8%. Inutile, quindi, abbassare i nostri gas serra se nel resto del mondo si continua a inquinare. Usa, Russia e India sono responsabili per il 26%.

“Ci vuole equilibrio fra gli interessi dei fornitori e dei consumatori di risorse energetiche”, avverte la vecchia volpe Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo. Tradotto: Mosca basa il proprio benessere sull’export di petrolio e gas, le energie rinnovabili la danneggiano. Quindi solare ed eolico possono aspettare. Intanto, vi aumentiamo le bollette del gas.

Quanto all’India, il suo miliardo e 400 milioni di abitanti sono il triplo degli europei, ma consumano e inquinano meno di noi. Colpevoli o virtuosi?

Nella sua autobiografia scritta con Emilio Targia, Rita Pavone ricorda che il primo frigo in famiglia arrivò nel 1962. Anche Gianni Morandi ha appena raccontato a Maurizio Costanzo che fino a quella data a Monghidoro avevano solo la ghiacciaia.

Ecco, cari Greta e principe Carlo. Cosa diciamo ai miliardi di cinesi, indiani e africani che non hanno ancora il frigo in casa? Che per la salvezza del pianeta devono rinunciare a questo ‘lusso’? E anche all’auto, e all’aria condizionata?

Europa e Usa trent’anni fa hanno trovato conveniente far lavorare i cinesi al posto nostro. Abbiamo delocalizzato, quindi ora in Cina si produce per noi. E si inquina, proprio come a Sesto San Giovanni mezzo secolo fa. Il nostro pil, invece, si basa su attività ad alto valore aggiunto, ‘pulite’, leggere, sostenibili, a bassa impronta ecologica: finanza, turismo, arte, moda, enogastronomia.

Insomma, facciamo i ricchi con le emissioni degli altri. Che miracolo doveva quindi compiere Draghi, per “avere successo” al vertice? Minacciar guerra a Cina, Russia e India?

La verità è che siamo tutti sulla stessa barca. Anzi, sulle stesse gigantesche navi portacontainer in fila negli oceani e a Suez per portarci tutte le merci made in China (con emissioni incorporate) che allietano la nostra vita. Paghiamo un frullatore 30 euro invece dei 100 che ci costerebbe se fosse prodotto qui, a chilometro zero.

I cinesi sono i novax del cambiamento climatico: basta un 20% di refrattari al vaccino, o alla riduzione dei gas serra, per impedire al resto del mondo di raggiungere il risultato auspicato. Il nostro auspicio è quindi che Greta e il principe Carlo organizzino la prossima manifestazione verde non a Glasgow, ma a Pechino.

E magari ricominciamo tutti a parlare di sovrappopolazione, principale causa delle emissioni antropiche.

Mauro Suttora

Sunday, October 24, 2021

L'internazionale anti Soros da Erdogan a Meloni

Il caso Kavala riporta in auge il bersaglio preferito della destra planetaria. Complottisti, fascisti, no-euro e novax, tutti contro il finanziere di 91 anni

di Mauro Suttora

HuffPost, 24 ottobre 2021

Essere ancora così odiati a 91 anni è un record mondiale cui George Soros rinuncerebbe volentieri. Perfino Berlusconi a 85 anni comincia a far tenerezza. Invece il finanziere ungherese-americano rimane il punchball preferito della destra planetaria: dai complottisti ai fascisti, dai noeuro ai novax, non c’è personaggio più bersagliato nella subcultura social. Basta la parola: Soros, possibilmente scritto con le due esse in grafia SS.

“Feccia di Soros”: così ora il presidente turco Erdogan definisce il suo oppositore Osman Kavala, in carcere da quattro anni senza processo. Stesso epiteto per gli ambasciatori dei dieci Paesi (i più civili del mondo, tutti gli scandinavi) che hanno osato chiederne la liberazione, ottenendo così la propria espulsione da Istanbul. 

Quanta ingratitudine. Perché “feccia di Soros” Erdogan potrebbe chiamare anche sua figlia, che in un’associazione di Soros fu accolta per uno stage, e perfino se stesso. Nel 2003 infatti lo incontrò cordialmente a Davos, chiedendogli di aiutarlo a entrare nell’Unione europea. E due anni dopo lo ospitò con ogni onore in Turchia.

Il miliardario dal cognome palindromo contraccambiò. Arruolò vari pesi massimi della politica europea per perorare la causa di Istanbul a Bruxelles, fra i quali l’ex premier francese Rocard e la nostra Emma Bonino. Missione fallita, e forse anche per questo il ducetto del Bosforo gli si è rivoltato contro. Ora lo definisce sprezzante “ebreo ungherese”.

Ed è proprio qui il problema. Gigantesco. Perché fino a una dozzina di anni fa soltanto i neonazi osavano brandire la parola ‘ebreo’ come insulto. Poi a re-hitlerizzare il dibattito politico è arrivato un altro beneficiato da Soros: il premier ungherese Viktor Orban, mandato nel 1989 a studiare liberalismo a Oxford a spese dal magnate compaesano. Il quale poi, fiducioso e generoso, una volta caduto il comunismo finanziò il partito allora liberale Fidesz fondato da Orban, e addirittura impiantò proprio a Budapest la più grande università della sua Open Society. Cacciata dall’irriconoscente Orban, che imputò a Soros l’ondata migratoria dei profughi siriani nel 2015.

Open Society, società aperta. È questo il concetto che fa impazzire tutti i fasciocomunisti, da Trump a Putin, da Milosevic (fatto cadere da Soros) a Xi Jinping, da Salvini alla Meloni. Il giovane George lo apprese a Londra dal filosofo Karl Popper, quando approdò alla London School of Economics dopo essere sfuggito a nazisti e comunisti (i ‘liberatori’ che violentarono sua madre). La ‘società aperta’ di Popper rappresenta l’abc del liberalismo, ma anche di mondialismo, cosmopolitismo, umanitarismo: tutte bestie nere delle destre (e di qualche autoritario a sinistra).

Soros è uno speculatore? Certo, come tutti i finanzieri. Ma anche come ciascuno di noi, quando investiamo i nostri risparmi cercando il massimo rendimento. Soros ha affossato la lira nel 1992? Probabilmente. Ma solo uno venuto giù con la piena o un Di Battista possono accusarlo di averlo fatto da solo, e non assieme alle decine di fondi plurimiliardari da New York a Tokyo, da Londra a Shanghai. Perché nessun singolo finanziere possiede la massa critica per attaccare una valuta sovrana: al massimo quelli più bravi e perspicaci iniziano la valanga scommettendo a loro rischio.

Soros ha rischiato, ha vinto (tanto), e poi ha deciso di fare il filantropo. Così, essendo appassionato di politica, ha investito un decimo della propria fortuna finanziando prima i dissidenti antisovietici, poi gli antiproibizionisti sulla droga (ricordo nel 1988 un convegno a Bruxelles della Lia, la Lega italiana antiproibizionista del radicale Marco Taradash), poi i gruppi di base per la democrazia che liberarono Serbia, Georgia e Ucraina dai loro dittatori (le famose rivoluzioni pacifiche arancioni).

Tutte cause meritorie e alla luce del sole, nei bilanci rendicontati della Open Society Foundation, compreso il contributo a +Europa della Bonino. Differentemente dalle tentate tangenti sul petrolio di Putin di qualche faccendiere leghista, o come i finanziamenti di un magnate russo a Ecr, il partito europeo di estrema destra presieduto da Giorgia Meloni.

Chiunque può controllare online sul sito di Soros le sue elargizioni. Le più contestate sono quelle per l’integrazione dei migranti. Attenzione: non per il recupero dei clandestini, le ong specializzate nei salvataggi ricevono già abbondanti microdonazioni da un vasto pubblico. 

Ma una volta arrivati nei nostri Paesi, ogni euro di assistenza fornito da Soros per i richiedenti asilo è un euro risparmiato dall’erario. Quindi dovrebbe essere ben visto a destra.

Niente da fare: i sovranisti imputano a lui e a Kalergi una oscura manovra per ‘sostituire’ la popolazione bianca (ariana?) con genti di altri colori. Da qualche anno è Soros stesso a essere sostituito nelle paranoie cospirazioniste sul web da un altro personaggio, ricco quanto lui, ma appassionato più di vaccini che di democrazia: Bill Gates. Peccato che non sia ebreo.

Mauro Suttora 

Saturday, October 23, 2021

Caos M5S/ “Asse grillini-Berlusconi per il Colle: il Cav o la Casellati”

A sorpresa, Giuseppe Conte ha nominato come sua vice Paola Taverna, pentastellata della primissima ora, e “snobbato” Di Maio. Ecco cosa potrebbe succedere nel M5s 

intervista a Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 23 ottobre 2021

E’ nato il “nuovo” Movimento 5 Stelle, quello di Giuseppe Conte. Nelle scorse ore, infatti, l’ex premier ha scelto la sua squadra, nominando i suoi vice: Paola Taverna, la sola con il ruolo di vicaria, Mario Turco, Alessandra Todde, Riccardo Ricciardi, Michele Gubitosa. 
Diversi i delusi rimasti fuori, e secondo Mauro Suttora, giornalista e scrittore, blogger sull’Huffpost, già all’Europeo, Oggi, Newsweek e New York Observer, aumenta nel Movimento, soprattutto tra i più fedeli alle origini, il fastidio per Conte: “L’ex premier ha privilegiato i fedelissimi e annientato la corrente di Di Maio. Sono prevedibili nel prossimo futuro scontri e terremoti anche vistosi”. 
Quello tra Conte e M5s, ci ha detto ancora, “è solo un matrimonio di interesse, vista l’alta percentuale di popolarità di cui gode ancora Conte, ma il potere reale è ormai solo appannaggio di Grillo, dello stesso Conte e adesso anche di Paola Taverna”.
 
Conte ha scelto la sua squadra nominando i suoi vice: Paola Taverna, la sola con il ruolo di vicaria, Mario Turco, Alessandra Todde, Riccardo Ricciardi, Michele Gubitosa. Sono tutte personalità vicine all’ex premier, è così?

"La grande novità è l’ascesa solitaria di Paola Taverna a numero due del Movimento. È l’unica della vecchia guardia sopravvissuta al rinnovamento totale imposto da Conte. Taverna è grillina da 14 anni, ancor prima che nascesse il Movimento 5 Stelle nel 2009. Si candidò con gli Amici di Grillo alle comunali di Roma 2008, dove col 3% non ottennero eletti. Senatrice da otto anni, vicepresidente del Senato dal 2018, rappresenta l’anima movimentista del M5s. Molto popolare fra la base, ancor più di Di Maio, Fico e Di Battista, è stata la più votata alle ultime primarie online. Fedelissima di Grillo, ha subito legato con Conte, rinunciando alla propria leggendaria aggressività".

Molti parlamentari si dicono delusi. Cosa comporterà questa scelta nei rapporti già tesi con i vecchi Cinquestelle? Nuove scissioni? Un Movimento sempre più diviso?

Il matrimonio fra Conte e i grillini non è d’amore, ma d’interesse. Finché l’ex premier rimarrà al 40% nei sondaggi sulla popolarità individuale dei politici, i 5 Stelle si affideranno a lui. Gli altri quattro membri della presidenza sono sconosciuti, gli appetiti erano tanti, Conte ha privilegiato i fedelissimi e annientato la corrente di Di Maio. Quindi sono prevedibili grossi movimenti tellurici.

E’ stato fatto fuori Alfonso Bonafede. C’è un motivo particolare?
 
No, semplicemente c’erano solo due posti per i maschi, e Conte ha voluto valorizzare il suo Mario Turco. Bonafede non avrà problemi a essere rieletto, grazie alla fama conquistata da ministro.

Fuori anche Chiara Appendino, sembra per scelta personale. Ha chiuso con il M5s o è il M5s che ha chiuso con lei?
La Appendino ha avuto l’intelligenza di farsi da parte, invece di affrontare ciecamente il massacro come la Raggi a Roma. Non ha accettato il posto in presidenza solo perché è appena diventata mamma per la seconda volta, e quindi non può affrontare trasferte a Roma. La sua Torino è l’unica città del Nord dove i grillini hanno resistito al 9%, senza crollare all’umiliante 3% di Milano, Bologna e Trieste. 

Fuori anche Vito Crimi, che è sempre stato un super sostenitore di Conte, come mai?
Beh, la statura politica di Crimi non è paragonabile a quella di Taverna. Un fidato uomo di apparato, niente di più.

Chi comanda davvero lì dentro?
Conte, Grillo e, a questo punto, Taverna.

La Raggi che fine fa? Che ambizioni ha?
Arrivare quarta e ultima a Roma l’ha distrutta. Le sue ambizioni sono direttamente proporzionali all’incompetenza dimostrata nei cinque anni da sindaca di Roma.

Di Maio e Di Battista?
Di Maio è in realtà un democristiano moderato, come Conte. Ma questa vicinanza politica li rende ingombranti l’uno all’altro. Il fedelissimo di Di Maio, Spadafora, ha sparato a zero contro Conte all’ultima riunione con i parlamentari. Di Battista potrebbe essere recuperato da Conte in funzione anti-dimaiana. Ma il suo estremismo complottista lo avvicina più al fuoriuscito Paragone che al nuovo corso moderato di Conte.

Chi controlla chi in aula, alla Camera e al Senato?
Nessuno. È un caos totale. Dei 300 eletti nel 2018 sono rimasti solo in 200. Ma sanno che, col taglio dei parlamentari e il crollo nei sondaggi, pochi riusciranno a essere rieletti. Quindi siamo alla lotta di tutti contro tutti.

Elettoralmente i Cinquestelle sono in crisi nera, ma rappresentano ancora il 33% del Parlamento, tolti i transfughi. Quelli che restano sono più di destra o di sinistra?
Non sono né di destra né di sinistra. È l’unica promessa elettorale che hanno mantenuto, oltre al taglio dei parlamentari e al funesto reddito di cittadinanza. La loro linea politica è mantenere poltrona e stipendio il più a lungo possibile.

C’è ancora il rischio scissione? Che ne sarà della possibile alleanza con il Pd?
I fedeli a Conte non se ne andranno e accetteranno la posizione subalterna al Pd. Gli altri cercheranno ovunque un approdo che prometta loro una speranza di rielezione o di carriera nel sottobosco politico.

Come si comporteranno adesso con Draghi?

Saranno fedeli al governo e contrari all’elezione di Draghi al Quirinale, perché il cambio di premier scuoterebbe troppo il quadro politico, portando probabilmente al voto anticipato nel 2022. Non escludo che molti grillini possano essere reclutati, alias ‘comprati’, da Berlusconi per far eleggere presidente della Repubblica lui stesso o la Casellati, presidente del Senato. Sarebbe la prima donna al Quirinale, e sia il centrodestra che i grillini potrebbero gloriarsene.
Paolo Vites

Thursday, October 14, 2021

La lezione della Norvegia che non rivela i nomi delle vittime del terrorista arciere

Sarà così almeno evitato lo spettacolo davanti alle case delle vittime con le domande ai familiari, se hanno perdonato il killer

di Mauro Suttora

HuffPost, 14 ottobre 2021
 

La polizia norvegese non ha rivelato al momento il nome delle vittime del killer che mercoledì sera si è piazzato fuori da un supermercato nel paese di Kongsberg, 70 chilometri a sud di Oslo, ha imbracciato arco e frecce, ha preso la mira e trafitto a morte cinque persone, ferendone altre due. Di Espen Andersen Brathen, 37 anni, danese, sappiamo soltanto che si era convertito all’Islam - come annunciato in un video postato su Facebook - ed era stato segnalato come tale, ma non recentemente.

Privacy totale. Sarà così almeno evitato lo spettacolo dei giornalisti assiepati davanti alle case delle vittime per chiedere ai parenti se hanno perdonato l’assassino.

Altre latitudini. Colpisce anche che in Norvegia i poliziotti non siano armati. Perlomeno non quando pattugliano le strade. Imbracciano pistole e fucili soltanto se servono, cioè quando devono catturare criminali armati, come l’altra sera. Solo altri quattro Paesi nel mondo hanno poliziotti disarmati: Gran Bretagna, Nuova Zelanda, Irlanda e Islanda.

Questa regola probabilmente adesso in Norvegia verrà cambiata, perché c’è voluta mezz’ora ai due elicotteri delle squadre speciali per arrivare da Oslo dopo il primo allarme. E nel frattempo il terrorista solitario ha fatto altre vittime, compreso un agente fuori servizio.

Sono passati dieci anni dalla strage di Utoya, quando il suprematista bianco Anders Breivik ammazzò 77 ragazzi. È stato condannato alla pena massima prevista in Norvegia: 21 anni, estendibili solo se il carcerato non mostra di essere stato “rieducato”.

La Norvegia in questi giorni si trova in fase di transizione: sta per insediarsi il nuovo premier di centrosinistra, Jonas Gahr Store, dopo la sconfitta del centrodestra al voto di un mese fa. La conservatrice in uscita Erna Solberg ovviamente si è detta “sconvolta” per l’incredibile impresa dell’arciere danese islamista. 

Una vampata di follia che colpisce ogni decennio uno dei Paesi più ricchi e civili del mondo. Che non fa parte dell’Unione europea, anche perché i proventi dei suoi giacimenti di gas nel mare del Nord garantiscono alla Norvegia entrate astronomiche. Non per molto, tuttavia, perché la conversione verde nocarbon proibirà anche la meno inquinante delle fonti di energia fossile. Per questo i previdenti norvegesi accantonano buona parte dei profitti annuali, investendoli nel loro fondo sovrano che garantirà benessere ancora per decenni.

Il paradiso terrestre di Oslo può esibire anche una delle percentuali per abitante più basse al mondo di decessi per Covid: nove volte minore della vicina Svezia, e un tredicesimo rispetto all’Italia.

Mauro Suttora

 

Wednesday, October 13, 2021

“M5s tra Pd e caos, ne farà le spese il Quirinale”

intervista a Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 13 ottobre 2021

Grillo e Conte sono per l’alleanza con il Pd, la Raggi non avrà spazio. A meno di sorprese nei ballottaggi di Roma e Torino. Ma la bicicletta di M5s ha smesso di pedalare

Ha un bel dire Raggi che non voterà Gualtieri: la strada dei 5 Stelle appare segnata, anche se questo li condanna ad essere un piccolo partito al traino del Pd, dice al Sussidiario Mauro Suttora, giornalista e scrittore, blogger sull’Huffpost, già all’Europeo, Oggi, Newsweek e New York Observer. 

“Se il Pd vincerà i ballottaggi di Roma e Torino, l’alleanza con il M5s andrà avanti. Altrimenti si creerà spazio per gli orfani dell’alleanza con la Lega: la Raggi, Di Battista e Di Maio”.

In ogni caso la bicicletta del Movimento ha messo di pedalare, e per questo è destinata a cadere. E nel febbraio prossimo, quando si tratterà di eleggere il nuovo Capo dello Stato, i pentastellati arriveranno all’appuntamento in ordine sparso, alimentando il caos.

Non si può negare: è Virginia Raggi (con il suo 19%) l’ammiraglia di M5s nelle urne.

"Sì, la sua a Roma è stata la percentuale più alta d’Italia, rispetto ai disastrosi 3% di Milano, Bologna, Trieste e agli ugualmente deprimenti 9% di Torino e Napoli. Quest’ultima, in particolare, crolla dall’incredibile 52% di appena tre anni fa alle politiche". 

Eppure Conte e Di Maio sono corsi a festeggiare proprio a Napoli. 

"Non si sa perché. A Napoli e Bologna i grillini, che non hanno proposto candidati sindaci limitandosi a presentare liste in appoggio a quelli Pd, sono risultati irrilevanti: i nuovi sindaci Pd sarebbero stati eletti al primo turno con la maggioranza assoluta anche senza i loro voti. Quindi se i grillini insisteranno nell’alleanza coi democratici, come vorrebbe Conte, diventeranno un piccolo partito al traino del Pd".

Si dice che l’ex sindaca di Roma pensi alla leadership di M5s.

"Mi sembra un’ipotesi fantascientifica. L’incantevole Virginia ha avuto la sua occasione di governare e l’ha fallita. È crollata anche lei dal 35% del primo turno a Roma cinque anni fa all’attuale 19%. Quarta e ultima, superata perfino da Calenda. Fra gli iscritti grillini tanti sono più popolari di lei. Anche nel suo Lazio, due donne la superano: Roberta Lombardi, assessore in Regione, e Paola Taverna, vicepresidente del Senato".

Quindi Lombardi-Taverna vs. Raggi. Chi ha più spazio, più futuro?

Troppe primedonne per un solo pollaio, quello grillino di Roma. Non c’è posto per tutte e tre. Alle ultime primarie Taverna prese più voti di Di Maio, era la più popolare d’Italia, superata solo da Di Battista. Ora pensa di essere Nilde Jotti, è buffo vederla trasformata da pasionaria in personaggio istituzionale. 

E Lombardi?

Non so quanto Lombardi sia amata fuori dal suo Lazio. Mentre per la Raggi, rimasta legata alla destra dello studio Previti in cui lavorava, vedo un futuro in quell’area. Magari con l’ex leghista ed ex grillino Paragone, che a Milano è stato trombato, ma ha raccolto un non disprezzabile 2,9%.

Raggi a Roma vedrebbe volentieri perdere Gualtieri. Non sappiamo come andrà, ma è comunque una spina nel fianco per Conte, che voterà Pd. Sono due progetti politici alternativi. Quale dei due ha più chances?

Dipende da Grillo. E lui da due anni benedice l’alleanza col Pd. Se fra una settimana i ballottaggi a Roma e Torino saranno vinti dal Pd, l’alleanza con il M5s andrà avanti. Altrimenti si creerà spazio per gli orfani dell’alleanza con la Lega: la Raggi, ma anche Di Battista e Di Maio. I quali però non confesseranno mai la loro predilezione per la destra: si limiteranno a dire di essere contro il bipolarismo, come ha fatto Di Battista due sere fa su Rete4: “Non siamo né di destra, né di sinistra”.

Il Pd ha bisogno di M5s, ma di un M5s forte, vincente. Letta, per il suo “campo largo”, guarderà verso Conte o verso Renzi-Calenda?

Letta guarderà i sondaggi. E secondo l’ultimo disponibile, quello dell’altra sera su La7, i grillini sono sempre sul 16-17%. Cioè il triplo di Renzi più Calenda. Il Pd dovrà imbarcare tutti, impresa difficile. Ma non impossibile, perché senza un’alleanza i grillini, ma anche Calenda e Renzi, saranno ridotti ai minimi termini.

Qual è la tua lettura dell’astensione, in generale e riguardo a M5s?

Fenomeno gravissimo e sottovalutato. Letta a Siena è stato votato dal 60% del 37% che è andato alle urne. Quindi dal 22%. In altri termini, quasi otto elettori su dieci non lo hanno votato. Perciò anche lui, come Conte, ha poco di cui rallegrarsi. I grillini sono i principali colpevoli dell’astensionismo. 

Perché?

Erano l’ultima spiaggia per molti disillusi dalla politica. Ma hanno deluso anche loro, e quindi il disgusto verso i politici è aumentato.

A Roma chi vince?

Se fossi costretto a scommettere, punterei su Michetti del centrodestra. Il Pd ha passato cinque anni a insultare la Raggi, come può sperare adesso nel voto ex grillino?

Quindi cosa faranno gli elettori di Raggi? L’ex sindaca ha detto che non darà indicazioni.

Vediamo se Grillo si esprimerà nei prossimi sei giorni. Una cosa giusta Raggi l’ha detta: “I nostri elettori non sono pacchi che spostiamo di qua o di là”. Quindi non ascolteranno né lei, né Conte.

Qualcuno ha scritto che l’Elevato ha gli occhi su Raggi e la preferirebbe a Conte. Possibile?

Non lo so, ma non lo sa nessun grillino. Grillo è imprevedibile e inaffidabile. Ha insultato a sangue Conte, poi gli ha stretto la mano. Solo Conte lo supera quanto a trasformismo: è passato da premier di destra a premier di sinistra in pochi giorni. Record mondiale.

A proposito di Grillo, come giudichi la sua proposta di “pacificazione” sul green pass? Se chiedi tamponi gratis, sei con Salvini e Meloni.

Giusto. Ma alla fine uno si domanda: a che titolo parla Grillo? Ha fondato e guidato un movimento che però da tre anni e mezzo è fisso al governo. Senza scomodare la teoria dello stato nascente di Alberoni, lo dice la parola stessa: i movimenti per sopravvivere devono muoversi. Se stanno fermi muoiono, come la bici che cade se non è in moto. Il M5s è bloccato, e neanche Grillo riuscirà a scuoterlo.

Torino era un caposaldo. Dal 30% del primo turno di Appendino 2016 al 9% di Sganga 2021. Cosa non ha funzionato?

Tutto. E Appendino, che è intelligente e ben consigliata, non si è neanche ripresentata. La sua condanna per i tre morti di piazza San Carlo mi sembra ingiusta, non ha colpe. Ma Torino è una città moderna e concreta, e Appendino ha pagato per l’incompetenza generale dei grillini. Il reddito di cittadinanza, monumento al parassitismo, li ha fatti precipitare al 3% in tutto il Nord. A Torino è andata perfino bene rispetto a Milano, Bologna e Trieste.

Torniamo a Conte. I suoi guai si chiamano Di Donna. Una tua previsione?

Brutta storia. I 400mila euro incassati dall’Acqua Marcia di Caltagirone possono essere accettati in un altro partito, ma non in quello degli “onesti”. 

Conte non è indagato.

Non ha commesso reati, e infatti non è indagato, ma fa parte di un sottobosco romano parastatale di grosse consulenze per grossi avvocati d’affari. Ed è un mondo agli antipodi di quello grillino. Se n’è accorto anche Grillo, che ha usato la parola “antipodi” contro Conte prima di fare marcia indietro. In Austria il cancelliere Kurz si è dimesso per un nonnulla. I grillini volevano introdurre anche in Italia uno standard di moralità simile. Ma hanno fallito. 

Siamo al de profundis?

I grillini sono morti che camminano. Degli oltre 300 eletti nel 2018 ne sono rimasti 200, e tanto basta per essere ancora il primo partito. Ma rappresentano un moncherino, perché tutti i sondaggi da due anni li danno dimezzati dal 32 al 16%. E i loro riscontri elettorali sono anche peggio.

Quindi?

Il Parlamento non è più rappresentativo, ci vorrebbe un voto anticipato. Però i parlamentari ne usciranno decimati, quindi resisteranno il più possibile. Intanto, lunedì sono uscite le motivazioni della sentenza di Palermo con cui l’avvocato Borrè ha fatto annullare l’espulsione dell’ex capogruppo grillino Riccardo Nuti.

Cosa cambia?

Forse non dovrebbe essere l’unico. Tutte le epurazioni dal 2015 al 2018 dovrebbero essere annullate perché invalide. E pensare che il M5s diceva di voler ripristinare la legalità nelle istituzioni.

Il caso Di Donna sta anche aumentando lo scontento per Conte nelle file degli eletti. Difficile che sia l’ex premier a controllare i voti M5s durante la prossima elezione del capo dello Stato. Chi ha le carte per farlo?

Nessuno. Sarà un caos totale. Anche nel Pd peraltro, i cui parlamentari sono ancora in buona parte di nomina renziana.

Come vedi Di Maio eletto presidente del comitato di garanzia?

Irrilevante. Il suo peso specifico si misura con la poltrona di ministro del Esteri, che è importante. Ma soprattutto con le poltrone che riesce a distribuire agli amici, salvandoli dalla disoccupazione. E lì ormai deve subire la concorrenza di Conte, perché ora è il segretario a nominare i grillini nei consigli d’amministrazione degli enti pubblici.

Federico Ferraù

Saturday, October 09, 2021

Sarajevo e l'eterno tradimento dell'Europa




La Ue respinge ancora la città fatale della nostra storia


di Mauro Suttora


HuffPost, 9 ottobre 2021

L'Europa non vuole Sarajevo, neanche a partire dal 2030. Il vertice Ue in Slovenia di mercoledì non poteva essere più chiaro: i cinque Paesi ex jugoslavi e l'Albania, che da vent'anni bussano alla porta di Bruxelles, dovranno aspettare ancora parecchio. E più di tutti la Bosnia con la sua capitale Sarajevo, ultima della lista. Il presidente bosniaco non è riuscito neppure a ottenere una data indicativa per l'entrata nell'Unione.

Altro che "centro del mondo", "città martire", "Gerusalemme d'Europa": Sarajevo e il suo mezzo milione di abitanti, vittime dal 1992 al 1996 di un assedio di 1.452 giorni, più lungo di Stalingrado e Leningrado, non la vogliamo neanche in memoria e risarcimento per i 100mila morti della guerra, all'80% civili.

I capi serbi Mladic e Karadzic stanno scontando l'ergastolo per genocidio. Ma per quanto tempo gli abitanti di Sarajevo, paria d'Europa, dovranno scontare colpe non loro?

Neanche nel 1914 la capitale bosniaca c'entrava molto con Gavrilo Princip, il serbo che fece scoppiare la Prima guerra mondiale assassinando l'arciduca Francesco Ferdinando d'Austria lì in visita.

Il vero conflitto in realtà era fra Serbia e Croazia, che l'erede al trono asburgico voleva innalzare a terzo regno dell'impero, sullo stesso livello di Austria e Ungheria. E pochi ricordano che gli austriaci usavano la Croazia non solo contro Belgrado, ma anche contro di noi. Dopo la cessione nel 1866 di Veneto e Friuli, infatti, Vienna perseguitò gli italiani d'Istria e Dalmazia, temendo il loro irredentismo e favorendo i sudditi croati.

Nei secoli quindi Sarajevo si è trovata suo malgrado, solo per la sua centralità geografica, in mezzo a conflitti continentali che l'hanno danneggiata. Nel 1699 addirittura rasa al suolo, assieme agli eleganti minareti innalzati dai turchi suoi fondatori 200 anni prima. Autore del massacro, un italiano: il principe Eugenio di Savoia, condottiero al soldo degli austriaci, irritato perché gli ottomani in città gli avevano ucciso un ufficiale.

Poi l'impero turco tornò, e fino al 1878 la Bosnia sulle cartine rappresentò un cuneo oltre il Danubio: era circondata dalle kraine serbe, territori-bastione di cui si servivano veneziani e austriaci per difendere la cristianità.

Anche oggi la città di Sarajevo si trova su una faglia di confine. Da una parte i serbi ortodossi, dall'altra i croati cattolici. E in mezzo gli islamici, maggioritari in città come in tutta la Bosnia. Che è divisa in tre, con tre presidenti di diversa nazionalità che ruotano ogni otto mesi e frontiere interne frastagliate, piene di enclaves e piccole sacche di minoranze etniche e religiose sfuggite ai massacri della guerra.

È questo l'equilibrio fragile che impensierisce e allontana l'Europa. La varietà, diversità e cosmopolitismo di Sarajevo rappresentavano la sua ricchezza: vicino a moschee e chiese cattoliche e ortodosse sorgevano sinagoghe. Perfino il dittatore jugoslavo Tito amava la Bosnia perché sperava, nonostante il latente odio fratricida serbo-croato, che il suo uomo nuovo comunista scaturisse da quel melting pot. 

Invece sono stati due Pol Pot quelli che Sarajevo ha subìto in mezzo secolo: negli anni '40 Ante Pavelic con gli ustascia croati fascisti che sterminarono musulmani, ebrei e serbi; e negli anni '90 i boia serbi di Srebrenica, la strage di ottomila islamici maschi che provocò i bombardamenti aerei Usa su Belgrado e poi la pace di Dayton.

In mezzo, unico momento di gloria e felicità: le indimenticabili olimpiadi invernali di Sarajevo 1984.

Ieri, 7 ottobre, cadeva il 450esimo anniversario di Lepanto, la vittoria di veneziani e austriaci contro la flotta turca. Nessuno l'ha commemorata, tranne Camillo Langone sul Foglio e i 'lepantisti' di destra, nostalgici delle guerre sante. A combattere la jihad a Sarajevo nel 1992-96 vennero invece, con soldi sauditi, guerriglieri ceceni e hezbollah. 

Oggi arrivano interessati finanziamenti cinesi. Nella latitanza dell'Unione europea, che non arriva perché il suo ultimo allargamento nei Balcani (Romania e Bulgaria, 2007) è stato una delle cause della Brexit. Sarajevo è ancora vittima indiretta dei conflitti politici di un continente che la espelle.

Mauro Suttora

 

Monday, October 04, 2021

M5s: San Francesco ce li ha dati, San Francesco ce li ha tolti


di Mauro Suttora

HuffPost, 4 ottobre 2021

San Francesco ce li ha dati e San Francesco ce li ha tolti. I grillini nacquero il 4 ottobre 2009 al teatro Smeraldo di Milano, e nello stesso giorno dodici anni dopo crollano. Non solo nel capoluogo lombardo, dove negli exit poll racimolano un imbarazzante 3%, ma anche a Roma, dove la Raggi non arriva al ballottaggio, a Torino (10%), Trieste (3%) e perfino nella Napoli di Fico e Di Maio, dove il voto di lista grillino crolla rispetto all’incredibile 50% di appena tre anni fa.

Un po’ mi spiace. Se non avessero s/governato, se fossero rimasti al 3-5%, avrebbero svolto un’utile funzione di pungolo, come Pannella. Proprio il capo radicale, ricordo, era in piazza San Paolo nel 2008 a Roma a firmare i primi referendum grillini, non ancora Cinque stelle. Lì avvertì: “Attenti a non sbagliare le date della raccolta firme”. I Casaleggio non lo ascoltarono. Risultato: mezzo milione di firme al macero.

Mi ero iscritto al blog di Grillo nel settembre 2007, il giorno dopo il primo Vaffaday e un giorno prima di Paola Taverna. Scrissi per il mio settimanale Oggi articoli incuriositi e benevoli, frequentando le loro riunioni da embedded per conoscerli bene. Sembravano la naturale conseguenza del milione di copie vendute quell’anno dal libro di Rizzo e Stella, che denunciava gli eccessi della Casta politica.

Conobbi i pionieri dei meetup romano: la futura ‘faraona’ laziale Roberta Lombardi (che perse le primarie a candidata sindaca di Roma nel 2008), il dentista Dario Tamburrano poi eurodeputato. La più simpatica era l’esuberante Taverna, così diversa dai figli di papà Di Maio e Di Battista: al lavoro a 19 anni per mantenere sé e la famiglia (da senatrice ha recuperato e si è laureata).

Alle regionali 2010 risultati scarsissimi: Vito Crimi trombato in Lombardia, Fico 1,3% in Campania. Andai a Bologna a intervistare uno dei rari eletti, Giovanni Favia, brillante pupillo di Grillo. Poi, con i primi successi, prevalse la paranoia dei Casaleggio. Chi non seguiva la linea veniva subito espulso, in un tragicomico susseguirsi di purghe: da Grillo a Stalin. Favia fu la prima vittima, anche la Lombardi rischiò. 

Tutti avevano il terrore di parlare. Io, come giornalista ‘interno’, fui messo al bando: “Spia, infiltrato!”. La Gabanelli prima fu proposta come presidente della Repubblica, poi insultata perché osò chiedere i conti della società Casaleggio. Il candidato grillino a presidente del Senato, Orellana, fu cacciato solo per aver osato proporre di trattare col Pd (con cinque anni di anticipo).

Le macchine del fango non sono state inventate da Morisi con la sua Bestia leghista. Furono i Casaleggio nel 2012, e poi gli addetti stampa Messora (Byoblu) e Casalino a inaugurare le ‘shitstorm’ con cui si seppellivano dissidenti interni e avversari esterni. Ho visto decine di parlamentari ed ex fedelissimi militanti cadere in depressione dopo questi crudeli trattamenti. L’esatto contrario della ‘Rete liberatoria’ predicata da Grillo.

I trionfi elettorali del 2013 e 2018 hanno fatto ingoiare ai grillini questi metodi fascistoidi. Gli stipendi e i posti di sotto-governo tengono tuttora legati i parlamentari.

Ma ormai il giocattolo è rotto, il gioco scoperto. Spariti gli attivisti, rimangono gli arrivisti. Evaporata l’onestà, il fu Movimento 5 stelle ora è avvolto nel fumo della logorrea di Giuseppe Conte. Sopravviverà al massimo come cespuglio del Pd.

“Casaleggio? Mai fidarsi di chi si chiama come un formaggio”, mi prendeva in giro dieci anni fa il compianto filosofo Giulio Giorello. “Cinque stelle? Nome buono per gli hotel, indegno di un partito”, li liquidò Sgarbi. Avevano ragione loro.

In pochi anni sono passato da grillofilo a neutrale grillologo a grillofobo. Ora è il turno dei disillusi ex elettori grillini. Che hanno votato coi piedi: alle urne non ci vanno più. Il boom dell’astensione è l’unica eredità dell’era Grillo.

Mauro Suttora