Wednesday, June 09, 2021

Lo scandalo dei miliardari Usa esentasse

Non c’è bisogno di essere di sinistra per scandalizzarsi di fronte al clamoroso scoop del sito statunitense ProPublica

di Mauro Suttora

HuffPost, 9 giugno 2021

Non c’è bisogno di essere di sinistra per scandalizzarsi di fronte al clamoroso scoop del sito statunitense ProPublica.

I 25 uomini più ricchi d’America (e del mondo) pagano poche o nessuna tassa sul reddito: Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Facebook, Instagram, Whatsapp), Elon Musk (Tesla), Bill Gates (Microsoft), Michael Bloomberg, Rupert Murdoch, George Soros, Warren Buffett e gli altri hanno versato 13 miliardi di irpef federale nel 2014-2018 su un reddito complessivo di 400 miliardi. La loro aliquota, quindi, è poco più del 3%. 

Ma grazie a una sapiente e legale elusione fiscale, alcuni ricchissimi sono addirittura scesi a zero. Come Musk, la seconda persona più ricca del mondo, che nel 2018 non ha pagato neanche un cent. Buffett ha versato lo 0,1% sui 24 miliardi di crescita della propria ricchezza dei cinque anni esaminati: 23 milioni. L’aliquota di Bezos è stata dell′1%, quella di Bloomberg dell′1,3%, per tre anni Soros è riuscito a stare a zero.

Com’è possibile? L’aliquota massima dell’imposta sui redditi negli Usa è del 37%. La famiglia media americana paga il 14% di tasse federali su un reddito di 70mila dollari. Ma i miliardari dichiarano una minima frazione di reddito annuo rispetto al patrimonio (soprattutto azioni) che non può essere tassato finché non è liquidato. E, soprattutto, beneficiano di miliardi in deduzioni: scaricano praticamente tutte le spese, dagli aerei privati ai palazzi e ville, fino alle fondazioni di beneficienza e ai finanziamenti per i musei. Nel 2011, per esempio, la ricchezza di Bezos aumentò di 18 miliardi, ma lui dichiarò un bilancio in rosso, denunciando perdite sugli investimenti. Così riuscì a ottenere perfino 4mila dollari in assegni familiari per i figli.

È evidente che il sistema non può continuare così. Il presidente Biden annuncia una riforma delle leggi fiscali. Ma il sito ProPublica è pessimista: “Non serve aumentare le aliquote massime, se non si disbosca la giungla delle detrazioni e dei trust ai Caraibi”.

Da tempo si sapeva delle astronomiche diseguaglianze che piagano gli Stati Uniti degli ultimi decenni. In confronto ai miliardari di oggi, i Rockefeller, Carnegie e Vanderbilt un secolo fa erano dei poveracci. Nel 2011 Buffett chiese a Obama di pagare più tasse: “Ho guadagnato tre miliardi, mi avete chiesto solo sette milioni”.

Ma solo ora, con i documenti dell’Irs (Internal Revenue Service, la nostra Agenzia delle entrate) pubblicati da ProPublica in barba alla privacy dei ricchissimi, ci sono cifre sconvolgenti a sostanziare denunce generiche.

Particolarmente fastidiosa risulta la pretesa dei Paperoni di spacciarsi pure per filantropi. Il velo sollevato sulla fondazione Gates dal divorzio fra Bill e Melinda comincia a rivelare aspetti deplorevoli.

A New York e nelle altre metropoli americane si è sviluppata una vera e propria industria dei “charity gala”, le feste di fundraising per le buone cause più disparate con cui i ricchi si lavano la coscienza. E con cui aumentano le deduzioni fiscali per guadagnare ancora di più.

Secondo Forbes nei sedici mesi dell’epidemia Covid, mentre centinaia di migliaia di americani morivano e milioni perdevano il lavoro, i miliardari Usa hanno accumulato altri 1.200 miliardi di guadagni. Inconcepibile, per un impero nato 245 anni fa e cresciuto grazie a due parole: libertà, ma anche eguaglianza.

Mauro Suttora 

Saturday, June 05, 2021

I socialisti che diventarono fascisti





















La tesi, provocatoria solo per chi non ha letto Renzo De Felice, del libro di uno dei suoi principali collaboratori

di Mauro Suttora 

HuffPost, 4 giugno 2021

La maggioranza dei dirigenti socialisti italiani aderì al fascismo. È questa la tesi, provocatoria solo per chi non ha letto Renzo De Felice, del nuovo libro di uno dei suoi principali collaboratori: Antonio Alosco, già docente di storia contemporanea all’università di Napoli, autore di ‘I socialfascisti’ (D’Amico editore, 2021).

“Furono tanti i socialisti che aderirono al fascismo, o si ritirarono dalla politica, o scrissero a Mussolini facendo atto di sottomissione, collaborando e affiancando il regime”, scrive Alosco. “In confronto a loro i socialisti fuoriusciti all’estero o clandestini in Italia appaiono una minoranza trascurabile”.

Senza nulla togliere agli eroi dell’antifascismo come Pertini, Nenni, i fratelli Rosselli, Lelio Basso o Ernesto Rossi, insomma, nel decennio del consenso al regime (1928-38) fra i socialisti prevalsero rassegnazione e “indifferentismo” (la definizione sconsolata che i marxisti ‘scientifici’ davano da Parigi della situazione italiana).

Alosco esamina i casi più eclatanti di passaggio dalla sinistra al fascismo. Arturo Labriola, fondatore del partito socialista a Napoli, economista, deputato, ministro del Lavoro con Giolitti nel 1921, finì sull’Aventino e scappò in Francia. Ma nel 1935 tornò clamorosamente in Italia, lodando Mussolini per la guerra d’Etiopia. Il duce lo ricevette in nome del comune passato soreliano, e trovò lavoro a lui e al figlio. Più in là il collaborazionismo di Labriola non si spinse, ma tanto bastò perché il partito socialista gli negasse un seggio alla Consulta nel 1945. 

L’anno dopo si fece eleggere in una lista liberale, e fu senatore fino al 1953 tornando a sinistra, tanto che fu capolista Pci alle comunali di Napoli nel 1956.

Un altro caso scandaloso fu quello di Emilio Caldara, primo sindaco socialista in una grande città, a Milano dal 1914 al 1920. Grazie alla sua buona amministrazione divenne più popolare di Turati, e portò il Psi al trionfo elettorale del 1919: primo partito col 32% (allora i fascisti ebbero solo 4mila voti).

Dopo lo scioglimento dei partiti e l’inizio della dittatura Caldara tornò a fare l’avvocato, ma nel 1934 chiese un colloquio a Mussolini, che conosceva bene come collega consigliere comunale a Milano. Gli propose di collaborare al corporativismo, che riteneva vicino agli ideali socialisti. Fu il duce a declinare l’offerta del gruppo di Caldara, per evitare frizioni con i sindacalisti fascisti.

Ma forse l’episodio più pregnante fu quello dell’intero gruppo dirigente della Cgl, il sindacato di sinistra. I suoi due primi segretari, Rinaldo Rigola e Ludovico d’Aragona, si offrirono anch’essi a Mussolini nel 1927, entusiasti per la Carta del lavoro fascista. L’unico a opporsi, dall’esilio parigino, fu Bruno Buozzi.

Anche Alberto Beneduce, issato dal duce alla testa dell’Iri nel 1933, era di sinistra, tanto da chiamare col bizzarro nome di Idea Nuova Socialista la figlia, poi moglie di Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca.

Tragico il destino di Nicola Bombacci, l’ex segretario nazionale socialista passato prima al Pci e poi al fascismo (Mussolini gli finanziò il giornale ‘La Verità’), fucilato a Dongo e appeso in piazzale Loreto col duce, Claretta e i gerarchi.

Ma il professore Alosco presenta molti altri casi di dirigenti politici e sindacali socialisti i quali via via chinarono la testa di fronte al fascismo, che acquistava un consenso sempre maggiore.

Nel 1932, per il decennale del regime, Mussolini era così saldo al potere che potè permettersi magnanimità: amnistiò i due terzi dei 1056 condannati per reati politici, e liberò 595 confinati.

Il crescente consenso deprimeva gli antifascisti fuoriusciti a Parigi, che passavano molto tempo in dispute ideologiche fra loro. Tutto sommato, lo sprezzante epiteto di “socialfascisti”, con cui il comunista Togliatti equiparava i socialisti antibolscevichi ai fascisti, aveva un fondamento nei fatti.

Mauro Suttora

Thursday, June 03, 2021

Caos M5S/ Iscritti, nome, simbolo: duello Casaleggio-Conte

intervista a Mauro Suttora

ilsussidiario.net, 3 giugno 2021 

Conte si aggiudica il primo round nello scontro con Casaleggio per avere gli elenchi degli iscritti. Ma quante saranno le riprese non è dato sapere, dunque la partita rimane aperta. Senza accordo si andrà alla battaglia legale, osserva Mauro Suttora, giornalista e scrittore, osservatore dei 5 Stelle dai tempi del Vaffa. I dati dei 180mila registrati a Rousseau sono un pretesto, perché in palio ci sono il nome e il simbolo del Movimento, senza i quali la leadership di Conte è solo virtuale.

La crisi di M5s rimane profonda ed è difficile prevederne le sorti. Alcuni punti fermi – per ora – secondo Suttora: Di Maio più contiano, crollo di consensi alle comunali, niente Draghi al Colle “perché sarebbe difficile cambiare premier senza nuove elezioni. Nelle quali loro sparirebbero tutti”.

Il Garante della privacy nel suo provvedimento ha stabilito che l’Associazione Rousseau deve consegnare al Movimento i dati personali degli iscritti. Sei sorpreso?

No. Se la Casaleggio fosse una semplice società di servizi che gestisce l’elenco degli iscritti grillini, sarebbe ovvio che dovrebbe consegnare l’indirizzario al legittimo proprietario, il Movimento 5 Stelle (M5s). Ma formalmente ha ragione Davide Casaleggio quando chiede al Garante di indicargli a chi consegnare i dati.

Dunque: l’Associazione Rousseau, dice il Garante, è responsabile del trattamento e M5s è il titolare. Casaleggio non è d’accordo e ha risposto che non saprebbe a chi darli, perché non si sa chi sia il rappresentante legale di M5s. Che ne pensi?

Hanno ragione entrambi. Vito Crimi è scaduto, tanto che il tribunale di Cagliari ha nominato un rappresentante pro tempore in un’altra causa. Ma sostanzialmente ormai c’è una frattura, e quindi prima o poi il figlio di Casaleggio dovrà cedere il malloppo. Vedremo in cambio di quanti soldi: ci sono centinaia di migliaia di euro in ballo.

Tutto questo vuol dire una cosa: battaglia legale.

Certo. È risibile l’ultimatum di cinque giorni imposto dal Garante. Qualsiasi Tar lo annullerebbe. Se il M5s avesse versato a Casaleggio i 400mila euro richiesti, la questione sarebbe già risolta. Grillo spinge per un accordo. Ma Conte ha voluto attendere la pronuncia del Garante. Nominato da lui, come insinua Casaleggio.

Come andrà a finire non lo sappiamo. Tu cosa dici?

È una disputa ridicola, anche perché iscriversi al M5s non costa nulla, quindi non vale nulla. Conte potrebbe quindi lasciare i 180mila registrati a Casaleggio e ricostituirsi da zero una nuova base di iscritti in pochi giorni, tramite un appello sui social degli eletti: i grillini più popolari, come lui, Di Maio, Taverna o Fico, hanno centinaia di migliaia di seguaci che aderirebbero subito.

E perché non lo fa?

Ma perché così perderebbe simbolo e nome, che verrebbero sfruttati da Casaleggio junior con i movimentisti Di Battista, Lezzi, Morra e Paragone.

Dunque Conte, nel frattempo, si ritrova leader dimezzato. Brutta faccenda.

E Casaleggio nota giustamente che Conte non è neppure iscritto al M5s, quindi ineleggibile alla sua guida.

Veniamo al fattore Di Maio. La sua svolta garantista non è stata presa benissimo all’interno di M5s. L’ha fatta solo perché è al governo oppure ha altre ambizioni? E quali?

Di Maio, per rendersi presentabile, ora rinnega gli innumerevoli Vaffa contro gli altri politici lanciati dai grillini negli ultimi 14 anni. Ma i Vaffa sono l’unica ragione sociale del M5s, che ancor oggi si definisce MoVimento con quella V maiuscola che sta per Vaffa e Vendetta. Sarebbe come chiedere al Milan di rinunciare ai colori rosso e nero, o all’Italia di abolire il tricolore.

Con chi sta Di Maio tra Conte e Casaleggio?

Con il più forte, che in questo momento è Conte.

Conte è un raffinato professionista. È stato capo del governo. Però non ha la cazzimma e l’astuzia di Di Maio. Chi sarà il leader?

Sono entrambi democristiani, tecnicamente perfetti nella loquela scioltissima e nella gestione del potere. Ma Conte nei sondaggi ha ancora un gradimento del 50%, doppio rispetto al guaglione che tre anni fa lo scelse prima come ministro, e poi come premier. L’unico errore di Di Maio.

Grillo ha chiuso?

Direi di sì, dopo il video isterico sul figlio.

Insomma qual è la posta in gioco? Sopravvivere alle comunali? Controllare i gruppi parlamentari per condizionare la partita del Colle? Fare un nuovo partito? O cos’altro?

Distinguiamo. Per Conte l’obiettivo è sfruttare al massimo, e in qualsiasi modo, la notorietà ottenuta con due anni e mezzo di guida del governo. Per i parlamentari grillini invece è sopravvivere, conservare il più a lungo possibile i 12mila euro di stipendio mensile agguantati per miracolo. Alle comunali di ottobre sarà già tanto se almeno a Napoli o a Roma supereranno il 10%. Nelle altre città sarà un disastro.

E alle presidenziali di gennaio?

Non voteranno Draghi, perché sarebbe difficile cambiare premier senza nuove elezioni. Nelle quali loro sparirebbero tutti, tranne una trentina di big che si ricicleranno in qualche modo.

È vero che c’è una pattuglia di pentastellati che preme su Conte perché ritiri l’appoggio al governo Draghi?

C’è di tutto lì dentro, governisti, antigovernativi, dibattistiani, dimaiani, contiani…

Federico Ferraù

Saturday, May 22, 2021

Comunali e giustizia, le partite che decidono chi sale al Colle

Le elezioni comunali determineranno il peso dei partiti, che dopo avere eletto il successore di Mattarella (Draghi) non potranno evitare le urne

intervista a Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 22 maggio 2021

“Fino alle presidenziali di gennaio il governo Draghi può stare tranquillo. Poi mi sembra logico che venga eletto al Quirinale e si vada a nuove elezioni”. Batterà il candidato della sinistra, secondo Mauro Suttora, giornalista, libertario per autodefinizione, un passato all’Europeo, Oggi, Newsweek e New York Observer

Elezioni? Sì, “perché non sarà più possibile tenere in vita un parlamento non rappresentativo”. Dunque gli eventi potrebbero essere molto più lineari di quello che lasciano pensare i densissimi retroscena politici sul rinnovo della presidenza della Repubblica. Chissà se è vero. È un fatto, però, che tutti i tentativi di Letta di rafforzare il peso politico del Pd al governo non stanno riuscendo. E il primo momento di verità per i partiti –  le comunali di settembre-ottobre – è ormai dietro l’angolo.

Cosa ci dice la bocciatura della proposta Letta da parte di Draghi?

Oggi l’Italia sulle grandi eredità incassa solo 0,8 miliardi annui contro i 14 della Francia, gli 8 della Germania, i 6 del Regno Unito e i 3 della Spagna. Quindi un problema di tasse di successione esiste. Ma Draghi ha già detto più volte che non si possono aumentare le imposte.

E cosa ci dice del Pd?

L’uscita di Letta è incomprensibile. Un autogol pari a quello di Grillo su suo figlio indagato per stupro. Bastava proponesse che si spostino, a parità di gettito, un po’ delle tasse che colpiscono il lavoro (diminuendo le aliquote Irpef) a quelle sulle eredità dei ricchi. 

E invece?

Invece, Letta è caduto nel solito vizio della sinistra: aumentare imposte già altissime, senza contropartita.

Chi logora chi, nel governo di unità nazionale, tra centrodestra, centrosinistra e Draghi?

I sondaggi ci dicono che soffrono il Pd – destino comune dei socialisti europei, spariti in Francia e Grecia, e bastonati in Spagna, Gran Bretagna e Germania –, e la Lega sfidata dai Fratelli d’Italia. La prova del nove avverrà alle comunali di autunno. Draghi invece non sembra logorato.

C’è ancora qualcuno che in una fase delicata come questa vorrebbe incrinare il patto di unità nazionale, mettendo in discussione un governo senza alternative?

Fino alle presidenziali di gennaio il governo Draghi può stare tranquillo. Poi mi sembra logico che Draghi venga eletto al Quirinale e si vada a nuove elezioni.

Si sussurra che Di Maio lavori ad un nuovo governo. Ti risulta? Con quali prospettive?

Mi sembra comico che Di Maio possa lavorare ad alcunché. Ai grillini non resta che tentare di riciclarsi in qualche modo, con chiunque, come ha già fatto Conte.

La Corte dei conti ha stoppato il vaccino italiano Reithera per “l’assenza di un valido e sufficiente investimento produttivo” da parte di Invitalia. D’Alema e i suoi uomini tengono il punto o sono destinati ad arretrare?

Non so quanto si possa ancora collegare Arcuri a D’Alema. Il primo, se sopravviverà, lo dovrà a Conte. D’Alema è uscito distrutto dalle ultime elezioni, assieme a Bersani: vale il 2 per cento.

D’Alema, Letta, il Pd, M5s. E Prodi. Non ti sembra un’ottima squadra per salvare un’idea dell’Italia, garantendosi il Colle?

Prodi presidente della Repubblica? Troppo vecchio. Il suo tempo è finito.

Quando si gioca la partita? Nel 2022 o nel 2023?

Il centrosinistra è terrorizzato dalle elezioni, visti i sondaggi. Ma ormai il 2022 sarà il quarto anno della legislatura, non sarà più possibile tenere in vita un parlamento non rappresentativo. Il M5s, primo partito col 33%, non esiste più da due anni, dimezzato dai sondaggi. A Montecitorio ci sono solo zombies. L’unico pericolo è che questi residuati bellici vogliano sopravvivere fino al maturare delle loro pensioni, nell’autunno 2022.

Il centrodestra può spuntarla? Come?

Moderandosi per non spaventare l’Europa e i mercati.

E Mattarella invece? Intendo Mattarella come potere uscente, capace di sostenere un suo candidato – o una sua candidata, come la ministra Cartabia. Può farcela?

Lasciamolo pensionarsi. Quanto alla Cartabia, il suo garantismo è ammirevole, ma la Guardasigilli non esprime un consenso.

Il Csm nel caos non rende facile il lavoro di Cartabia. Cosa vedi su questo fronte? Un approfondirsi della crisi o spiragli di soluzione?

La giustizia italiana non esiste più. Ormai nel mondo reale, quello dell’economia internazionale, chi fa affari in Italia si cautela dalle controversie nominando preventivamente arbitri. Entrare in un palazzo di giustizia significa regredire di un secolo, fra timbri, notifiche fatte a mano, scartoffie e tempi intollerabili.

Come valuti i referendum che intendono proporre Radicali e Lega?

Mossa intelligente da parte di entrambi. In realtà la responsabilità civile dei magistrati è già stata introdotta da un referendum radicale ben 34 anni fa, dopo il caso Tortora. Ma la casta giudiziaria l’ha annullata, azzeccando i soliti garbugli. E quanto alla separazione delle carriere fra magistrati giudicanti e dell’accusa, ottima idea. Ma a sud di Roma, dove interi territori sono controllati dalle mafie, come garantire l’indipendenza – e la sicurezza – delle procure della repubblica?

Federico Ferraù

Wednesday, May 19, 2021

I due ultranovantenni del Mondo

Il racconto di Angiolo Bandinelli, le foto di Paolo Di Paolo

di Mauro Suttora

HuffPost, 19 maggio 2021


Angiolo Bandinelli ha 94 anni. Partigiano a Roma, iscritto al partito d’azione, poi fondatore di quello radicale con Marco Pannella. Segretario del partito ai tempi pioneristici, mezzo secolo fa, fra marce antimilitariste, caso Braibanti (l’omosessuale accusato di plagio), divorzio e obiezione di coscienza alla naja. 

Infine deputato nel 1986, ma soltanto per un anno e soltanto perché Spadaccia “ruotò” in suo favore (mica come i grillini che frignano perché devono abbandonare le poltrone dopo dieci anni: gli eletti radicali lasciavano il seggio a metà legislatura, dopo appena due anni e mezzo).

In realtà il suo gesto più memorabile, in politica, fu offrire uno spinello, lui consigliere comunale, al sindaco di Roma nel 1979: il popolarissimo comunista Petroselli, che lo amava anche fra gli insulti.

Ammiro Bandinelli da 40 anni, da quando lo vedevo tirare la volata al pupillo Rutelli nei congressi radicali, perché fu giornalista del leggendario settimanale Il Mondo di Mario Pannunzio. Scrisse una cinquantina di articoli su quella bibbia dei liberali di sinistra, che si spense con il suo fondatore nel 1968 (data non casuale).

Ora il ragazzo Bandinelli ha pubblicato una bellissimo racconto: La Perla (edizioni Galaad). Lui è un poligrafo voltairiano, gli piace il passo breve, quindi scrivere articoli sul Foglio e libretti Millelire per Stampa alternativa di Marcello Baraghini, altro nume della controcultura.

Sottotitolo di La Perla: “Favola senechiana”. Perché?, gli chiedo per e-mail (basta telefonate, è sordo). “Perché è piena di morti, come nelle tragedie di Seneca”, mi risponde dalla sua bella casa romana al parco Nemorense.

Ha litigato con tutti, sia i radicali di destra (il partito che ora raccoglie firme con i leghisti per separare i procuratori dell’accusa dai giudici) che quelli di sinistra (Bonino, +Europa). Tratta male anche me: “Non capisci un c. di politica, come tutti i milanesi”. Per questo lo amo.

Paolo Di Paolo ha 96 anni, due più di Bandinelli. È stato il fotografo storico del Mondo, paginate in bianco e nero che spiegavano tutto da sole. Chiuso il settimanale, nell’ultimo mezzo secolo non ha più voluto lavorare.  È venuto a Milano per inaugurare una mostra di sue foto organizzata dalla figlia alla galleria Sozzani di Corso Como 10 a Milano: La lunga strada di sabbia, aperta fino a fine agosto.

Sono le immagini che illustrarono un reportage di Pier Paolo Pasolini del 1959 sulla rivista Successo. Viaggio geniale sulle coste della penisola da Ventimiglia a Muggia (Trieste), nell’Italia del boom. Non so se sono più belle le foto o il testo, raccolto in libro da Guanda. Ma sicuramente le parole scritte di Pasolini guadagnarono dalle immagini di Di Paolo, e viceversa. 

Ho incrociato da poco l’inchiesta pasoliniana scrivendo il mio libro ‘Confini, storia e segreti delle nostre frontiere’. Folgorante la descrizione dell’unica turista che i due scovarono a prendere il sole sulla spiaggia a Ventimiglia: “Una giovincella olandese, bella come un cipressetto”. La foto di Di Paolo vidima il giudizio di Pasolini.

Mauro Suttora

 

Friday, May 14, 2021

Israele - Hamas: Onu, il gigante di superpagati che se la prende comoda















Lenta risposta alla crisi di Gaza: riunione domenica, con calma, dove si dirà di far la pace

di Mauro Suttora



HuffPost, 14 maggio 2021 

Con comodo. Per affrontare l’ennesima guerra Israele-palestinese, il consiglio di sicurezza dell’Onu si riunirà “d’urgenza”. Cioè domenica: quando la guerra magari sarà già finita, con centinaia o migliaia di morti.

A che servono le Nazioni Unite? A poco. Forse a nulla, anche se è bello che nel grattacielo di Le Corbusier e Niemeyer a New York si faccia finta che ci sia un ‘governo mondiale’. 

Nessuna delle crisi e guerre degli ultimi decenni è stata risolta dall’Onu: Birmania, Siria, Libia, Somalia. Per non parlare dei bubboni fissi: Iraq, Afghanistan, Kosovo, Bosnia, Palestina. 

Uno stato pirata e assassino, quello dell’Isis, ha potuto prosperare addirittura per quattro anni senza che le Nazioni Unite riuscissero a coordinare la reazione di Russia, Siria e dei poveri curdi, spazzati via dalla Turchia dopo averci liberati dal flagello islamista.

Ma cos’è l’Onu, in realtà? Un gigante gogoliano con 115mila dipendenti e un bilancio annuo astronomico di 17 miliardi, pieno di burocrati pigri, incompetenti e superpagati, posseduti dall’irresistibile tendenza a perpetuare i problemi invece di risolverli.

Intendiamoci, la sua inefficienza non è maggiore di quella di apparati pubblici a qualsiasi livello: statale, regionale, comunale. Solo che i nostri inutili consiglieri di zona ci costano appena qualche gettone di presenza, mentre i funzionari onusiani incassano stipendi anche da 200mila dollari nelle loro comode sedi di Manhattan, Ginevra o Vienna (diverso è il discorso degli inviati sul campo di agenzie come il Pam, Programma alimentare mondiale, fondamentale per alleviare le carestie).

A volte poi i dirigenti Onu non sono inutili, ma dannosi: come quello dell’Oms che ha censurato un rapporto sul covid perché poteva “rovinare i rapporti” col nostro governo.

Ecco, sono i governi nazionali la rovina delle Nazioni Unite (così come dell’Unione europea, peraltro). Quelli di dittature come la Cina che bloccano ogni risoluzione contro regimi loro alleati (Birmania, Corea del Nord). 

Ma anche quelli corrotti di Paesi in via di sviluppo, che mandano a New York ambasciatori inetti, spesso amici o parenti del dittatorello locale, per fare la bella vita con le loro mogli: quella poltrona in alcuni stati è più ambita perfino di quella di ministro degli Esteri o premier.

Sono stato quattro anni corrispondente a New York, giornalista accreditato al Palazzo di Vetro. Ne ho viste di tutti i colori, da Powell che giurava sull’atomica di Saddam ai diplomatici Onu che parcheggiano ovunque in divieto di sosta perché la loro immunità li esenta dalle multe

Ma è nel Terzo mondo che le Nazioni Unite combinano i guai peggiori. Tiziano Terzani si scagliò contro le tangenti della missione in Cambogia. E negli interventi di peacekeeping e nation building bisogna pregare che i caschi blu non rimangano coinvolti in traffici sessuali, o non si voltino dall’altra parte come nelle stragi di Srebrenica e Ruanda.

Perché in realtà la maggioranza del personale Onu lavora nelle numerose sedi in giro per il mondo: Ginevra (con i palazzi in stile anni Venti della sfortunata Società delle Nazioni), Vienna (Aiea, e l’Ufficio antidroga che vorrebbe comicamente estirpare i papaveri afghani), Roma (Fao), Parigi (Unesco), l’Aia (Corte internazionale di giustizia), Nairobi (Unep, United Nations Environmental program).

Ogni problema ha la sua bella agenzia Onu, cosicché a Santo Domingo c’è l’Instraw (Institute for training and advancement of women), a Berna l’Upu (Unione postale universale), a Londra l’Imo (International Maritime Organization) e a Montreal l’Icao (International Civil Aviation Organization).


Tutte queste simpatiche organizzazioni, prima della pandemia, passavano il tempo soprattutto apparecchiando conferenze leggendarie per spreco di risorse: si è sviluppata una vera e propria microeconomia dei congressi Onu, occasioni di svago e turismo per funzionari governativi di mezzo mondo.

E’ normale che i dirigenti pubblici, anche quelli internazionali, pensino soprattutto alla conservazione del proprio posto di lavoro. All’Unesco, dove i costi fissi di struttura per alcuni programmi raggiungevano l′80% del bilancio, i dipendenti si misero in sciopero della fame contro il nuovo segretario che voleva tagliare gli sprechi.


Ma i più abili, visto che stiamo parlando di Palestina, sono i dirigenti dell’Unrwa (United Nations Relief and Work Agency), l’Agenzia che da ben 72 anni assiste i profughi palestinesi. Erano poche centinaia di migliaia nel 1948, oggi sono oltre cinque milioni. 

Quasi contemporaneamente al loro esodo, nel 1947 anche 300 mila profughi istriani e dalmati (fra i quali mio padre) dovettero abbandonare le proprie terre alla Jugoslavia. Gli esuli italiani affollarono i campi dei rifugiati per qualche mese, al massimo pochissimi anni, e poi trovarono casa e lavoro, oppure emigrarono. Senza alcuna assistenza Onu. 

Quattro generazioni dopo, invece, i palestinesi sono sempre lì, moltiplicati e coccolati con l’assegno giornaliero delle Nazioni Unite. Tutta l’economia della striscia di Gaza è mantenuta in piedi dall’Agenzia per i profughi, che è diventata il maggior datore di lavoro per i palestinesi (ha 30mila dipendenti).

Cosicché domenica, quando con calma si riunirà il Consiglio di sicurezza, come sempre l’Onu farà finta che i suoi 50 eterni campi profughi non siano caduti in mano da decenni a Hamas ed Hezbollah, che predicano la distruzione di Israele, e inviterà entrambe le parti a deporre le armi. Salomonicamente. Anzi no: Salomone era ebreo, quindi innominabile come Israele sulle cartine geografiche arabe.

Mauro Suttora 

Thursday, May 06, 2021

Inutile illudersi, presto dovremo fare i conti con i No vax

Per i vaccini la libertà di scelta e gli incentivi appaiono più conformi alla Costituzione rispetto all'obbligo

di Mauro Suttora

HuffPost, 6 maggio 2021

Inutile illudersi. Fra qualche settimana, al massimo fra pochi mesi, dovremo fare i conti con i novax. Il ritmo delle vaccinazioni covid sta già rallentando in alcune regioni del Sud, anche per la diffidenza verso AstraZeneca. Stesso problema negli Usa: pure lì agli antivaccinisti si sommano le paure create dalla sospensione per dieci giorni in aprile del vaccino Johnson & Johnson. 

Riusciremo a raggiungere l’immunità di gregge, con il 70% di vaccinati? La Gran Bretagna è già arrivata al 60% di prime dosi nella popolazione adulta (33 milioni su 55), e i risultati si vedono: i contagi sono crollati a duemila al giorno, i decessi a meno di venti. Per non parlare di Israele e degli Emirati arabi, che hanno quasi azzerato i morti. 

L’Italia potrà tollerare un 20-30% di non vaccinati. Ma difficilmente si arriverà all'obbligo. Lo spiega Alessandro Negroni, professore associato abilitato in Filosofia del diritto, nel suo libro appena pubblicato: 'La libertà di (non) vaccinarsi' (ed. Vicolo del Pavone). "Da un punto di vista liberale", sostiene il professor Negroni, "varie considerazioni di carattere giuridico indicano l’opportunità, se non la necessità, di evitare l’obbligatorietà del vaccino contro il covid-19. L’articolo 32 della Costituzione, infatti, impone un limite invalicabile: 'Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana'". 

La Corte costituzionale però nel 2018 ha dichiarato legittimo l'obbligo vaccinale per i bambini. "Sì, ma il vaccino contro il covid rientra nel concetto di 'sperimentazione medica': ha ricevuto dalla European Medicines Agency, la Ema, una 'conditional marketing authorisation', autorizzazione all’immissione in commercio subordinata a condizioni, che viene concessa sulla base di dati clinici meno completi di quelli normalmente richiesti, e quindi in presenza di un rischio insito nel fatto che sono necessari dei dati aggiuntivi". 

Questo non significa che il vaccino contro il covid-19 sia dannoso per la salute (il modulo del consenso informato, rileva Negroni, indica comunque che "non è possibile al momento prevedere danni a lunga distanza"), o che non ci si debba vaccinare: semplicemente, secondo la nostra Costituzione, "il vaccino non deve essere reso obbligatorio perché nessuno può essere sottoposto a sperimentazione medica senza un consenso libero, consapevole e informato. Lo stabilisce il codice di Norimberga, varato dopo le criminali sperimentazioni naziste, e ribadito dalla dichiarazione di Helsinki, dal rapporto Belmont e dalla convenzione di Oviedo: un principio irrinunciabile per uno stato di diritto di matrice liberale". 

Insomma, in materia di politiche vaccinali la libertà di scelta è preferibile e più conforme alla Costituzione rispetto a un modello basato su obblighi giuridici rigorosi. Il libro di Negroni non è 'contro' vaccini, scienza o medicina, ma 'a favore' della libertà. Riguardo alle vaccinazioni in età pediatrica, di cui anche tratta il volume, all'estero si trovano obblighi vaccinali muniti di sanzione penale, come in Francia. Ma all’estremo opposto esistono programmi promozionali massimamente rispettosi dell’autonomia individuale, come in Gran Bretagna. 

A metà strada l'esperienza Usa, dove l'obbligo viene introdotto per determinati vaccini, ad esempio contro il morbillo, soltanto in determinati stati e per determinati periodi, quando la malattia supera un certo numero di contagi, e dove sono ampiamente diffuse esenzioni.

Quindi anche in Italia niente obblighi, ma misure per spingere i riluttanti a proteggersi: incentivi, disincentivi, raccomandazioni più o meno pressanti.

Mauro Suttora

Sunday, May 02, 2021

Una politica appesa a Fedez

Il rapper dice che la Rai è lottizzata, e improvvisamente se lo ricordano tutti. Sul merito, il ddl Zan, soprattutto il centrosinistra sconta vent'anni di smemoratezze

di Mauro Suttora

HuffPost, 2 maggio 2021

Ricordavo la deliziosa Ilaria Capitani portavoce di Walter Veltroni nel 2007, quando intervistai l'allora sindaco di Roma. Mai avrei immaginato si trasformasse in feroce belva della censura contro tal Federico Lucia da Buccinasco, tatuatissimo cantante con faccia e voce attraenti quanto quelle di Morgan.

C'eravamo liberati da appena una settimana di Grillo, suicidatosi col video sugli stupri, mo ecco Fedez. L'ennesimo famoso solo per essere famoso (trovate qualcuno che sappia canticchiare qualche sua canzone) che pretende di comiziare di politica coi miei soldi (via Rai). Anche Celentano sproloquiava, ma almeno lui aveva all'attivo decenni di inni ecologisti.

Dato il mio cognome, ogni tanto qualcuno mi ammonisce: "Sutor, ne ultra crepidam!" Ciabattino, non (andare) oltre la scarpa. E gli inglesi chiamano "ultracrepidarian" i saccenti che dispensano giudizi su questioni che oltrepassano la loro competenza.

Invece noi, tramontato il comico a 5 stelle, abbiamo il rapper "tanta roba" come nuovo maître-à-penser.

Il quale ci rivela, in ritardo di mezzo secolo su Pannella, che la Rai è lottizzata. E che, essendo servizio pubblico, magari non può concedere proprio a tutti di vomitare insulti in diretta tv contro un politico davanti a milioni senza contraddittorio.

Ovviamente, poi, il populismo abbisogna di vittimismo. Quindi il povero rapper che si chiama come un corriere espresso lamenta di avete subìto una tentata castrazione verbale da parte dell'incantevole Capitani. Ma lo fa in modo simpatico, stile 'Le vite degli altri': registrando e pubblicando la loro telefonata privata. E, come nella Ddr, tagliandone gli spezzoni che non gli convengono.

Tuttavia l'avvenimento più stupefacente di queste ore è che si è scatenato il 'dibattito'. Letta e Zingaretti, di sinistra, se la prendono con una dirigente Rai di sinistra. L'inevitabile Di Maio loda Fedex: "Una persona che in tutto quello che fa ci mette il cuore", col 'ci' rafforzativo molto millennial. E ci mancherebbe: Fedez si esibiva sui palchi grillini quando loro erano arroganti come lui adesso, prima della ripulita.

Gli addetti ai social di tutti i politici li hanno costretti a esprimersi sull'argomento del giorno. Resistono solo Draghi, Cartabia e Mattarella.

Quanto al contenuto del "messaggio" del nuovo EmilioFedez progressista, ricordo che la prima proposta di legge contro l'omofobia porta la firma di Franco Grillini (cui i grillini con la minuscola hanno tagliato il vitalizio nonostante abbia un tumore). È del 2001: sono passati vent'anni, il Pd ha governato per dieci, nel frattempo Salvini ha fatto pure in tempo a cambiare idea ("Allora era d'accordo con me", dice Grillini).

La legge Zan merita sicuramente una discussione seria e approfondita: come proteggere gli lgbt, per esempio, senza ledere le libertà di parola e opinione?

Dilemmi importanti, mettere d'accordo gli eterni Capuleti e Montecchi della scena pubblica italiana sarà difficile.

Per carità, anche Jean-Paul Sartre era fazioso. Ma più cauto di Fedez: la sua compagna Simone De Beauvoir non possedeva decine di milioni di follower.

Mauro Suttora

Saturday, May 01, 2021

Da Tarvisio a Gorizia, la storia raccontata attraverso i confini




















cartina © Raffaella Suttora

Suttora ricostruisce i cambiamenti nel corso delle epoche. Grande spazio alle vicende legate alle nostre frontiere

di Mauro Suttora

Messaggero Veneto, quotidiano di Udine e del Friuli, 1 maggio 2021 

Perché il confine fra Italia Slovenia sta proprio a Gorizia, e non cinque chilometri più a est o a ovest? E quello con la Francia di Ventimiglia? E da quanto tempo Chiasso separa Italia e Svizzera?

 

In tempo di nuovi sovranismi (fortunatamente non bellicosi) è utile conoscere meglio le nostre frontiere. Che non seguono sempre il crinale delle Alpi, come ci hanno insegnato a scuola.


Nel libro ‘Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere’ (ed. Neri Pozza), in libreria dal 29 aprile, spiego ad esempio che la pipì fatta a Tarvisio, così come a Livigno (Sondrio) o a San Candido (Bolzano) finisce nel mar Nero: sono tutti pezzi d’Italia che si trovano al di là dello spartiacque, e che quindi non fanno parte del bacino del Po, ma di quello del Danubio (la val Canale attraverso il torrente Slizza e poi la Drava).


La sventurata Gorizia detiene un record mondiale: ha cambiato padrone ben sette volte in soli trent’anni, dal 1916 al 1947, fra fiumi di sangue. 

E sapete che lingua parlavano gli abitanti di Tarvisio quando nel 1918 passò all’Italia? Il tedesco in 6.400, lo sloveno in 1.680, e l’italiano in dieci. 

Ciononostante, la frontiera fu fissata al Coccau.


Gli attuali confini orientali del Friuli (e dell’Italia) sono nati nel 1509, quando l’imperatore austriaco Massimiliano strappò Plezzo, Tolmino e Caporetto a Venezia. 

Fino ad allora l’alta valle dell’Isonzo era stata romana, gota, longobarda, franca, del patriarcato di Aquileia e della Serenissima. 

Gli sloveni la popolarono nel 600, e visto che erano bravi agricoltori tre secoli dopo furono invitati dai patriarchi a coltivare anche le valli del Natisone, desertificate da epidemie e invasioni degli ungari.


Ma anche qui gli spartiacque non sono rispettati. Il Natisone nasce in Italia, poi entra in Slovenia e dopo dieci chilometri torna in Italia. 

Il torrente Uccea, viceversa, nasce dal crinale della val Resia e scorre per nove chilometri in Friuli prima di diventare sloveno e sfociare nell’Isonzo. 

Quanto allo Judrio, è un caso unico al mondo: fa da frontiera per quasi tutto il suo corso, prima tra Italia e Slovenia, e poi fra le province di Udine e Gorizia, ricalcando il vecchio confine italo-austriaco dal 1866 al 1918.


Sono tante le curiosità delle nostre frontiere. Fino al 1797, per secoli, la bassa friulana era divisa fra Venezia e Austria a macchia di leopardo, con molte enclaves: Gonars, Porpetto, Cervignano e Aquileia erano asburgiche, mentre Palmanova, Strassoldo e Grado stavano sotto Venezia.


L’attuale confine Italia-Slovenia a Gorizia, per rispondere alla domanda iniziale, segue il tracciato dell’ex ferrovia Transalpina Trieste-Vienna: l’unica altra frontiera nel mondo decisa dai treni è quella martoriata fra Siria e Turchia, che corre parallela ai leggendari binari Berlino-Bagdad.


Quanto alla Venezia Giulia, è una definizione recente, coniata nel 1863 dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli, per distinguerla dalla Venezia Euganea (Veneto) e dalla Tridentina (Trentino). 

Ma dopo il 1945 ha dovuto cedere 112 dei suoi 127 comuni alla Jugoslavia di Tito: le intere province di Pola e Fiume, e quasi tutte quelle di Gorizia e Trieste.

Mauro Suttora

Thursday, April 29, 2021

'Confini': il senso di una linea quando nessuno rivendica più niente

Esce oggi “Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere” (Neri Pozza) di Mauro Suttora. Una mappa geografica e mentale che racconta chi siamo

di Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 29 aprile 2021

Perché il confine italo-svizzero sta proprio a Chiasso, e non dieci chilometri più a nord o a sud? E come mai le nostre frontiere con Francia e Slovenia sono situate a Ventimiglia e Gorizia, e non cinque chilometri più a est o a ovest?

In un’epoca di sovranismi, i confini tornano d’attualità. Erano spariti con l’Europa unita e il trattato di Schengen: dopo il Duemila niente più dogane, documenti, file d’auto ai valichi. Ma sono riapparsi con il coronavirus e i controlli sui migranti. Così abbiamo dovuto riscoprire i limiti terrestri della nostra penisola. Che coincidono con le Alpi, ci hanno insegnato. Ma non sempre.

Sono molti infatti gli spartiacque non rispettati: la pipì fatta dagli abitanti di Livigno (Sondrio), San Candido (Bolzano) o Tarvisio (Udine) finisce nel mar Nero, passando per il Danubio. E in Lombardia una valle (la val di Lei, dietro Madesimo) non appartiene al bacino del Po, ma a quello del Reno.

Anche le frontiere linguistiche, oltre a quelle geografiche, sono labili. I valdostani parlano francese, i sudtirolesi tedesco, inglobiamo centomila sloveni fra Cividale e Trieste. E oltre confine 350mila svizzeri ticinesi conservano la madrelingua italiana dopo la separazione del 1515.

Sapevate che l’attuale frontiera di Ventimiglia fu decisa da un prefetto napoleonico nel 1808? O che la sventurata Gorizia, record mondiale, ha cambiato padrone sette volte in trent’anni, dal 1916 al 1947?

Il mio libro ‘Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere’ (ed. Neri Pozza) traccia mappe geografiche, ma anche mentali. E svela qualche segreto: il generale francese Charles De Gaulle, per esempio, nel 1945 voleva annettere l’intera Val d’Aosta Contro di lui, incredibilmente, si allearono partigiani e fascisti italiani.

Insomma, innumerevoli sono le vicissitudini dei nostri confini: dal Frejus alla Val d’Ossola, dalla Valtellina al Brennero, da Cortina al Carso. Fra storia, geografia, cultura, politica. E perfino qualche suggerimento turistico ed enogastronomico.

Per questo ho scritto il libro. Perché in realtà non conosciamo affatto i nostri confini. Li attraversiamo senza accorgercene, e sappiamo poco o nulla di loro.

Ho scoperto, per esempio, che antichi e romani e longobardi non tracciavano mai i confini in cima ai valichi, ma molto più a valle. Dove le famose “chiuse” (Bard in Val d’Aosta, Klausen o Sabiona in Alto Adige, Chiusaforte in Friuli) permettevano di controllare il transito con poche decine di soldati. Nel 1800 Napoleone fu bloccato per mezzo mese dagli austropiemontesi a Bard.

Di frontiere oggi si parla soprattutto per i migranti. L’Austria ogni tanto ripristina i controlli al Brennero, la Francia è in allerta continua a Modane e Ventimiglia, Slovenia e Italia hanno istituito pattuglie miste per sorvegliare. Ma per un figlio di profughi come me (mio padre scappò nel 1944 dall’isola di Lussino, oggi in Croazia) i confini rappresentano soprattutto un incubo, fortunatamente sparito col crollo dei due totalitarismi opposti ma specularmente simili: fascismo e comunismo.

Oggi grazie a Dio nessuno sano di mente rivendica più niente. Sono spariti i nazionalisti che per secoli hanno minacciato di invadere territori oltre confine, e lo hanno fatto. Ma fino al 1989 sulla frontiera di Gorizia (fotografata sulla copertina del libro) passava la Cortina di ferro, e per quasi mezzo secolo abbiamo rischiato la guerra atomica in Europa.

È incredibile pensare come la guerra sia diventata inimmaginabile per noi nel giro di pochi decenni. Una rivoluzione culturale unica nella storia dell’umanità. Si va dal Friuli alla Croazia così come dalle Marche all’Abruzzo, sovrappensiero, senza ricordare le centinaia di migliaia di soldati morti inutilmente da quelle parti nel secolo scorso. Ma ancor oggi ucraini e russi si ammazzano per i loro confini. E sono passati solo vent’anni dalla guerra in Kosovo: i nostri soldati sono sempre lì, a guardia di frontiere contestate e famiglie minacciate.

È importante, quindi, conoscere i nostri confini. Attraverso di essi possiamo capire l’Italia, e quindi noi stessi.

Mauro Suttora


Le frontiere son tornate



Riecco i confini. Non li abbiamo resuscitati soltanto noi, ci avevano pensato i nostri vicini ben prima del virus

di Mauro Suttora

 HuffPost, 29 aprile 2021

Introduzione del libro “Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere” di Mauro Suttora (Neri Pozza) 

I confini sono tornati. Qui in Europa pensavamo di averli aboliti, dopo le due guerre mondiali. “Imagine there’s no countries, immagina che non ci siano più Paesi”: avevamo messo la canzone di John Lennon perfino nelle nostre segreterie telefoniche. Prima, nel 1957, ci affratellò la Comunità europea. Poi, nel 1989, il crollo del Muro di Berlino liberò i Paesi dell’Est. Infine, nel 1997, il trattato di Schengen: quella magica parolina che permette di non accorgersi più delle frontiere. Basta dogane, documenti, file di auto ai valichi. Viaggiavamo in autostrada dopo Bordighera o Vipiteno, e continuavamo a guidare a 130 all’ora. Eravamo già entrati in Francia e Austria, ma ai nostri occhi cambiavano solo i pedaggi e il colore delle strisce sull’asfalto.

Poi è arrivato il coronavirus. E le frontiere sono resuscitate in pochi giorni. In tutto il mondo. Miliardi di persone ‘confinate’ nei propri confini: delle case, dei paesi, delle città. E poi zone rosse, regioni proibite, stati off limits. Un’esperienza incredibile, inedita, improvvisa. Niente più viaggi in aereo, nave, treno, auto. Tutti bloccati come servi della gleba nei feudi medievali. “Nell’intera storia umana non è mai avvenuto nulla di così veloce e globale”, ha avvertito Henry Kissinger dall’alto dei suoi 97 anni, “ne sentiremo gli effetti per generazioni”.

A dire il vero, c’erano state avvisaglie. Prima il movimento no-global: le grandi manifestazioni a Seattle nel 1999 e a Genova nel 2001. Poi anche in Italia, come nell’Inghilterra del Brexit e negli Usa di Trump, a destra sono apparsi i ‘sovranisti’. I loro slogan: “Padroni in casa nostra”, “Prima gli italiani”, “No Euro/pa”.

Una volta si chiamavano nazionalisti, e hanno fatto danni per secoli. Consoliamoci: oggi, abbandonata l’insalubre tendenza a voler spostare in avanti i propri confini, i neonazionalisti si limitano a proclamare il recupero di sovranità e identità, ma all’interno degli stati esistenti. Isolazionismo, non aggressione. Frontiere con trincee e muri per proteggersi, non per attaccare. (...)

In ogni caso, riecco i confini. Non li abbiamo resuscitati soltanto noi, ci avevano pensato i nostri vicini ben prima del virus: i populisti austriaci ripristinando i controlli al Brennero contro i clandestini, i francesi cacciando i migranti a Modane e Mentone, gli inglesi abbandonando l’Unione europea. Nel 2019 al confine fra Slovenia e Friuli-Venezia Giulia sono apparse squadre miste di poliziotti per pattugliare l’ex cortina di ferro, che da quindici anni non esisteva più.

Ma, al di là delle polemiche politiche, quali sono le frontiere dell’Italia? Davvero le conosciamo? I nostri confini naturali sono le Alpi e il mare, ci hanno insegnato. E invece no. 

Perché, ad esempio, la frontiera con la Svizzera sta proprio a Chiasso, e non dieci chilometri più a nord o a sud? E come mai i confini con Francia e Slovenia sono situati a Ventimiglia e Gorizia, e non cinque chilometri più a est o a ovest? Nessuno immagina che il loro tracciato fu deciso da un giovanissimo duca Sforza puzzolente nel 1515 (Chiasso), o da un puntiglioso prefetto napoleonico nel 1808 (Ventimiglia). Né che la sventurata Gorizia ha cambiato padrone sette volte in trent’anni, dal 1916 al 1947: record mondiale.

Insomma, altro che ‘confini naturali’. Sono molti gli spartiacque non rispettati: sapete che la pipì fatta dagli abitanti di Livigno (Sondrio), San Candido (Bolzano) o Tarvisio (Udine) finisce nel mar Nero, passando per il Danubio? Decine di chilometri quadrati e intere vallate italiane, infatti, non fanno parte del bacino del Po, ma stanno al di là delle Alpi.

Questo per quanto riguarda le frontiere geografiche. Ma anche quelle linguistiche appaiono labili. I valdostani parlano francese, i sudtirolesi tedesco, e abbiamo anche centomila sloveni fra Cividale e Trieste. Un po’ si prende, un po’ si dà: oltre frontiera ben 350mila svizzeri del canton Ticino conservano come madrelingua l’italiano, fino al crinale del San Gottardo.

Per tracciare alcune frontiere c’è voluto il sangue di milioni di morti. Non occorre andare tanto indietro nel tempo: basti pensare alle carneficine nei conflitti del ’900. Per altre invece è bastato un semplice litigio sui limoni, come quello che separò Mentone dal principato di Monaco nel 1848.

Duemila anni fa i confini dell’Italia romana correvano su due fiumi: il Varo a occidente, subito dopo Nizza, e l’Arsa a oriente, nell’ascella dell’Istria. Da allora infinite guerre, invasioni, trattati, favori e dispetti hanno separato gli italiani da francesi, svizzeri, austriaci e sloveni. Ma pure italiani da italiani: Ventimiglia era frontiera fra Genova e Piemonte, Chiasso separava lombardi; mentre Tonale, Pontebba o Palmanova delimitavano la Serenissima repubblica di Venezia da zone anch’esse italianofone.

Questo libro cerca di soddisfare molte curiosità. Traccia mappe geografiche, ma anche mentali. E svela qualche segreto. Chi ricorda, infatti, che il generale Charles De Gaulle nel 1945 voleva annettere alla Francia l’intera Val d’Aosta e metà Piemonte? Contro di lui, incredibilmente, si allearono partigiani e fascisti italiani, smettendo di combattersi per qualche giorno.

Dopo l’unità d’Italia e il recupero di Trento e Trieste nel 1918, Benito Mussolini rivendicò Nizza e Savoia, Tunisia e canton Ticino, difese l’Alto Adige dalle mire naziste e occupò metà Slovenia e Dalmazia nel 1941. Nel 1942 arrivò fino al Rodano, prendendo per dieci mesi Grenoble e Chambéry, Aix-en-Provence e Tolone, oltre alla Corsica. Poi l’Italia perse tutto, e in più dovette cedere l’Istria, Fiume, Zara e metà Isonzo alla Jugoslavia, e Briga e Tenda alla Francia.

Insomma, innumerevoli sono le vicissitudini delle nostre frontiere. Andiamo a scoprirle: dalla val d’Ossola a Cortina d’Ampezzo, dal Monginevro alla Valtellina, dal passo Resia al Carso. Fra storia, geografia, cultura e politica. E perfino qualche suggerimento turistico ed enogastronomico.

Mauro Suttora 

Sunday, April 25, 2021

25 aprile, Draghi contro la dittatura dell'indifferenza

 

Il premier ricorda agli italiani che bisogna scegliere: non si sta con i regimi autoritari

di Mauro Suttora

HuffPost, 25 aprile 2021

“Non fummo tutti ‘Italiani brava gente’. Non scegliere è immorale”. Mario Draghi sferza gli indifferenti: quelli del 25 aprile 1945, ma anche quelli che oggi subiscono “il fascino perverso degli autocrati”.

Questa volta non sbaglia parola: aveva definito Erdogan “dittatore”, mentre tutto sommato il presidente turco è stato eletto. 

Ma, visitando questa mattina il museo della Liberazione di via Tasso a Roma, il premier ha superato di nuovo l’ecumenicità dei discorsi istituzionali, senza temere di tuffarsi nella polemica politica dei nostri giorni. “Assistiamo sgomenti a una perdita della memoria della Resistenza e a troppi revisionismi”, ha detto, nelle stanze dove i nazisti torturarono gli antifascisti. “Constatiamo l’appannarsi dei confini tra democrazie e regimi autoritari”.

Regimi che anche oggi sono tanti: dalla Cina alla Russia, dalla Turchia all’Iran, dalla Bielorussia al Venezuela. E tanti sono gli italiani “indifferenti”: “Insieme ai partigiani vi furono molti che si voltarono dall’altra parte, in cui, come dice Liliana Segre, è più facile far finta di niente”. E anche adesso “i persecutori delle libertà civili” vengono spesso fatti passare addirittura per “vendicatori di torti subiti”.

Insomma, fuori dai rituali il 25 aprile ha ancora molto da dire e noi molto da fare. Il dilemma è sempre lo stesso: il quieto vivere contro il rischio dell’impegno.

Quanti di noi - io per primo - avrebbero avuto il coraggio di salire in montagna a combattere contro l’invasore 78 anni fa? Ma quanti oggi sono disposti a rinunciare a lucrosi affari con gli stati autoritari, che anche senza ammazzare i giovani come in Birmania ci garantiscono prodotti a prezzi bassi conculcando le libertà dei loro sudditi? 

Ogni volta che i regimi vengono colpiti da sanzioni, salta fuori qualche nostro politico a protestare. Proprio come Mussolini protestava per le “inique sanzioni” contro il regime fascista.

Bravo Draghi, quindi. Contro il pericolo degli anniversari imbalsamati, gli ignavi meritano sempre la collocazione che inflisse loro Dante: fuori perfino dall’Inferno perché disprezzabili più dei ‘cattivi’, che almeno scelsero fra il bene e il male.

Mauro Suttora

 

Tuesday, April 20, 2021

Grillo scagiona il figlio

“E tutte le vittime tritate dal populismo a 5 Stelle?”

intervista a Mauro Suttora di Federico Ferraù

Ilsussidiario.net, 20 aprile 2021

“Grillo dovrebbe ricordarsi di tutti politici e personaggi tritati dal populismo a 5 Stelle negli ultimi 15 anni, da Bassolino a Bertolaso. Ora è la nemesi”

Arriva e si siede davanti alla webcam. Esplode, subito. “Mio figlio è su tutti i giornali come uno stupratore seriale”. Eccolo il motivo. È un crescendo. Grillo gesticola, urla. Se la prende con l’informazione. Ciro Grillo, il figlio del fondatore e garante del Movimento 5 Stelle, è indagato con tre amici dalla procura di Tempio Pausania con l’accusa di violenza sessuale di gruppo.

I fatti risalgono alla notte tra il 15 e il 16 luglio 2019, la vittima è una ragazza italo-svedese. “Gli stupratori vengono presi e interrogati in galera o ai domiciliari”, invece suo figlio e gli amici “sono lasciati liberi per due anni, perché?”, urla Grillo. “Perché vi siete resi conto che non è vero niente che c’è stato lo stupro. Perché una persona che viene stuprata la mattina, al pomeriggio va in kitesurf e dopo otto giorni fa la denuncia… vi è sembrato strano. Sì, è strano” grida come una furia il leader di M5s. E ancora: “C’è il video, si vede che lei è consenziente, che c’è il gruppo che ride, che sono ragazzi di 19 anni”. Lo show disperato di Grillo finisce poco dopo.

Un messaggio violento e sessista: le reazioni sono pressoché concordi nel condannare il nuovo abuso mediatico della vittima. La famiglia della ragazza, attraverso il legale Giulia Bongiorno, parla di “farsa ripugnante”. Qualcuno fa notare che dall’exploit di Grillo traspare un’ignoranza completa delle più elementari nozioni di giustizia penale, insieme ad un’immagine della giustizia come arma brutale, la stessa che il giustizialista Grillo ha sventolato per anni nelle piazze. “Io ci ho messo 6 mesi per denunciare la violenza”, dice Federica Daga, deputata M5s.

“Grillo dovrebbe ricordarsi di tutti politici e personaggi tritati dal populismo a 5 Stelle negli ultimi 15 anni, da Bassolino a Bertolaso. Ora è la nemesi” dice Mauro Suttora, giornalista, collaboratore dell’Huffington, giornalista e scrittore, da anni attento osservatore del fenomeno grillino. “In un Paese normale” commenta “il 19 aprile 2021 segnerebbe la fine del Grillo politico”.

Ciro Grillo è innocente fino al terzo grado di giudizio. Se ne parliamo è a motivo del padre, che ieri ha diffuso un messaggio immediatamente subissato di critiche. Perché è intervenuto?

Per una plateale crisi isterica, direi. Non so trovare altri motivi. Non si era mai visto un politico, un comico, un padre, o semplicemente un uomo, perdere la testa in modo così evidente e violento. E volersi mostrare in pubblico, filmandosi e offrendosi online. Se non fosse grottesco, sarebbe tragico: una specie di re Lear al pesto genovese.

Abbiamo visto lo sfogo di un Grillo iper-garantista. I conti tornano?

Guardandolo urlare mi è venuta in mente Federica Guidi, figlia di un potente industriale. Oggi probabilmente nessuno la ricorda, ma fu ministra dello Sviluppo economico dal 2014 al 2016, nel governo Renzi. Se passerà alla storia, sarà per essersi lamentata col fidanzato perché lui la trattava come una “sguattera guatemalteca”. Li intercettavano, e per la soddisfazione di Grillo quelle sue parole furono pubblicate, illegalmente perché erano umiliazioni private, senza alcun nesso con l’accusa di “traffico di influenze” per cui era indagato il fidanzato. Lei no, non era neppure indagata. Però i forcaioli grillini chiesero subito le sue dimissioni, e le ottennero. Un anno dopo il caso fu archiviato, ma alla Guidi non ridiedero la poltrona. Solo che lei ci risparmiò una sceneggiata alla Grillo, cui avrebbe avuto diritto.

Allora chi altri dovrebbe difendere, Grillo, oltre al proprio figlio?

Dovrebbe ricordarsi di tutti politici e personaggi tritati dal populismo a 5 Stelle negli ultimi 15 anni, da Bassolino a Bertolaso. Ora è la nemesi.

“Che Beppe Grillo usi il suo potere mediatico e politico per assolvere il figlio è vergognoso” ha detto la Boschi. Che cosa ci dice dal punto di vista mediatico l’iniziativa di Grillo?

Ci dice che in realtà i meno colpevoli per la disavventura del figlio siamo proprio noi giornalisti. Che abbiamo sempre trattato coi guanti i guai privati dei suoi figli. Tutti sapevamo di certe vicende di droga del passato – non di Ciro – ma nessuno le ha mai sfruttate, la privacy familiare è stata rispettata. E così in questi quasi due anni di inchiesta per il presunto stupro di Porto Cervo. Un’eternità. Quasi tutti i tg non avevano neanche dato la notizia dell’imminente incriminazione. Se il padre non avesse sbroccato, la maggioranza degli italiani l’avrebbe ignorata.

Come commenti le poche difese imbarazzate provenienti da M5s?

È questo il risvolto più grave, da un punto di vista politico. Perché i grillini sono ancora il partito più grosso in Parlamento, e accettano di essere guidati da un uomo con evidenti problemi di equilibrio. I più furbi si sono chiusi in un dignitoso silenzio, ma nessuno osa prenderne le distanze.

Lo sfogo mediatico di Grillo non dovrebbe imporre una svolta garantista?

Il garantismo non lo conoscono, i grillini. Sarebbe come pretendere che un felino diventi vegetariano. Per la legge del contrappasso, il povero Ciro è stato più danneggiato che difeso dalla piazzata paterna.

Come inciderà questa vicenda?

In un Paese normale il 19 aprile 2021 segnerebbe la fine del Grillo politico. Ma un Paese che tre anni fa gli ha dato un terzo dei voti non è normale. I grillini più accorti si sono già riciclati. Di Maio si è definito “liberale e moderato”. Di Battista almeno evita certi trasformismi alla Conte.

A proposito di Conte e non solo lui; in M5s è il caos.

Dopodomani scade l’ultimatum del rampollo Casaleggio, che pretende 450mila euro dai parlamentari grillini. Se non glieli danno, lui si terrà il prezioso indirizzario dei 190mila registrati al Movimento. Ne vedremo di tutti i colori.

Federico Ferraù

Thursday, April 15, 2021

Sui vitalizi ha vinto Del Turco. La legge del contrappasso punisce M5s

RIPRISTINATO DAL SENATO PER L'EX GOVERNATORE D'ABRUZZO OGGI GRAVEMENTE MALATO. GLI ERA STATO TOLTO SEI ANNI FA

di Mauro Suttora

HuffPost, 15 aprile 2021

Ha vinto Ottaviano Del Turco. O quel che resta di lui, visto che il 76enne ex vice di Luciano Lama nella Cgil e governatore d’Abruzzo ha Parkinson, Alzheimer, un tumore, e non riconosce più neanche i familiari. Oggi, dopo una furibonda battaglia di due ore da parte degli unici contrari, i grillini, il consiglio di presidenza del Senato ha ripristinato il suo vitalizio. Gli era stato tolto sei anni fa dall’ex presidente di palazzo Madama, Pietro Grasso, dopo la condanna di Del Turco per una tangente.

Proprio questa settimana il suo unico accusatore Vincenzo Angelini, già re delle cliniche private abruzzesi, ha avuto confermati in Cassazione gli otto anni di carcere per malversazioni col servizio sanitario regionale. Con sequestro di tutto il suo patrimonio.

Il colpo di scena per Del Turco è arrivato ieri, con la sentenza dell’organo interno del Senato che ha decretato l’incostituzionalità della delibera Grasso-Boldrini del 2015: non può esistere un ‘supplemento di pena’ in base soprattutto alla legge sul reddito di cittadinanza di due anni fa. Cioè il provvedimento simbolo dei 5 stelle. Per un’incredibile nemesi, insomma, sono stati proprio i grillini a ripristinare, senza volerlo, l’odiato vitalizio per il politico più da loro odiato: Roberto Formigoni.

Anche lui condannato come Del Turco, ma non per reati di terrorismo o mafia. E poiché non è né latitante né evaso, gli si applica lo stesso trattamento dei beneficiari del reddito di cittadinanza, che possono perderlo soltanto in questi casi.

È anche curioso che il relatore della sentenza sia stato il senatore leghista Pillon: si è così spezzato l’asse populista forcaiolo Lega-M5s.

Oggi, per quel principio giuridico sconosciuto ai grillini che si chiama equivalenza per analogia (trattare egualmente situazioni simili), dopo il ripristino dei 3.400 euro mensili di vitalizio a Formigoni, è stato ridata una somma simile anche a Del Turco. 

Il quale, tiene a precisare il figlio Guido, “non si è mai impossessato di un solo euro di denaro pubblico della sanità abruzzese. Mio padre è stato assolto da tutte le venticinque originarie imputazioni per le quali fu arrestato con molti esponenti della sua giunta, poi assolti anche essi, con l’accusa di aver preso sei milioni da Angelini. Sono rimaste in piedi solo quattro ipotizzate dazioni di denaro per 850mila euro. Ma la stessa condanna riconosce che quelle pretese ‘mazzette’ da parte di Angelini, mai provate oltre le sue parole, furono del tutto estranee alle risorse della sanità pubblica”.

Mauro Suttora

Sunday, April 11, 2021

Salvini e la lezione Gregoretti: separare morale e giustizia

Siamo diventati tanti piccoli gup, perennemente sentenziosi e buffi. E invece niente, calmatevi. Se il leghista è un eroe o un mascalzone non lo decide un giudice

di Mauro Suttora

HuffPost, 11 aprile 2021

Ce la possiamo fare. Se nel 1648 abbiamo cominciato a separare la politica dalla religione, con la pace di Vestfalia, prima o poi riusciremo anche a distinguere fra morale e legge.

La procura di Catania ha chiesto l’assoluzione di Matteo Salvini per la nave Gregoretti: il capo della Lega non commise i reati di sequestro di persona e abuso d’atti d’ufficio quando vietò per sei giorni lo sbarco a 131 migranti.


Applaude la curva nord dei tifosi di centrodestra, ammutoliti quelli di sinistra. Peccato che le aule di tribunale non siano stadi: paghiamo i giudici non per decidere se un politico abbia fatto la cosa ‘giusta’, o migliore, o più umana, ma solo per sapere se ha violato precisi articoli del codice penale.

Inutili quindi sia le feste che il lutto, di fronte a richieste di archiviazione o incriminazione. Certo, l’equivoco è facile: la parola ‘giustizia’ contiene in sé l’aggettivo ‘giusto’. Quindi viene spontaneo caricare ogni sentenza di valore moralistico. Soprattutto per noi educati alla bontà dal catechismo, e ora immersi in quell’Era della Suscettibilità (© Guia Soncini) che ci fa stazionare col ditino alzato sul divano: siamo diventati tanti piccoli gup, perennemente sentenziosi e buffi.

E invece, niente. Calmatevi. Salvini non è né un eroe che ci difende dall’invasione dei clandestini, né un mascalzone che tortura donne e bimbi africani. O meglio, ciascuno di noi potrà continuare a pensarlo, e a votare di conseguenza. Ma non lo decide certo il giudice di Catania Nunzio Sarpietro (lui meno di tutti, fan dichiarato dell’ex premier Conte), né quello di Palermo che sta per giudicare Salvini su un caso uguale, il blocco della nave Open Arms.

Le loro sentenze non stabiliranno la ‘bontà’ (della politica) del capo leghista, ma solo se un suo determinato atto in un determinato giorno e luogo ha “integrato una fattispecie di reato”. Come ci hanno insegnato alla facoltà di giurisprudenza. Dove, lo confesso, ero un fan di Kelsen: quel giurista tedesco che per aver osato affermare la neutralità della legge si beccò del paranazista dai comunisti. Ma erano tempi complicati.

Ora invece sono i tempi dei grillini, che assolsero (politicamente) Salvini per il blocco della nave Diciotti quand’era loro alleato, ma lo hanno crocifisso per le navi successive: peccato che il codice penale non abbia fatto anch’esso un salto della quaglia assieme a loro, da destra a sinistra.

In ogni caso, il capo leghista è fortunato: meno di due anni sotto processo. Ai magistrati di Bertolaso ce ne sono voluti dieci per assolverlo. Stessa agonia per il sindaco di Parma Vignali, che dovette dimettersi nel 2011: diede il via all’epopea grillina con la vittoria dell’ottimo Pizzarotti. Assolto pure lui un anno fa, con annesse scuse della pm. E il povero Bassolino? Ci conviene fare proprio come i bagni per maschi e femmine: tenere separata la morale (e la politica) dalla giustizia.

Mauro Suttora



Friday, April 09, 2021

Addio cashback: i contanti non sono male

  

Soltanto quattro mesi fa sembrava che i contanti fossero la rovina dell’economia italiana. Ora invece, dietrofront.

di Mauro Suttora

HuffPost9 aprile 2021


Addio cashback, quindi. Soltanto quattro mesi fa sembrava che i contanti fossero la rovina dell’economia italiana. Perciò, lotterie e premi di miliardi per chi li rimpiazza con carte di credito e bancomat. Ora invece, dietrofront. Uno dei tanti, rispetto all’immaginifica era Conte-Arcuri: nel cestino app immuni, monopattini, banchi a rotelle e primule.

Resta però il dilemma: è vero che per annientare gli evasori fiscali e, già che ci siamo, pure i mafiosi, bisogna scoraggiare il contante? Contro questa tesi si è espresso niente di meno che Carl-Ludwig Thiele, dirigente della Bundesbank, la banca centrale tedesca: “Non mi risulta che nei paesi con un limite massimo per i contanti ci sia meno criminalità”. E si è chiesto provocatoriamente: “Dovremmo proibire i telefoni cellulari? Anch’essi, come i contanti, rendono più facile ai delinquenti compiere i loro crimini”.

Nel suo nuovo libro Viva i contanti (Ponte alle Grazie) Beppe Scienza, docente di matematica all’università di Torino, nega che l’obiettivo della lotta alle banconote sia l’evasione fiscale: “Solo un loro divieto completo servirebbe, ma richiederebbe l’uscita dall’euro. Che non propone però nessuno dei pugnaci combattenti della guerra contro i contanti, la ‘War on cash’”.


E allora, perché tutta questa spinta per i pagamenti elettronici? “Perché sui contanti le banche non guadagnano niente. In compenso convengono a negozianti, ristoratori e artigiani, i quali evitano provvigioni e costi vari, che altrimenti ribaltano poi inevitabilmente sui prezzi”.


I contanti infatti funzionano sempre, senza bisogno di apparecchi o collegamento a Internet. Tengono riservate le abitudini di consumo e danno il senso della spesa: uno vede subito quanto gli avanza. Permettono di pagare anche a falliti, homeless, minori, privi di conto bancario o carta prepagata.


È anche falso che in Italia siano troppo diffusi: i tedeschi li usano altrettanto, per l’80% dei pagamenti. Le banconote difendono poi egregiamente in caso di imposte patrimoniali o di ritorno alla lira. Sono la miglior riserva di valore, perché non consistono in moneta bancaria: li emette la banca centrale, che non fallisce. Occorrono solo alcune avvertenze per i prelievi e le cassette di sicurezza, che il libro spiega.


Si può convenire o no sulla tesi di Scienza, l’elogio dei contanti, ma il suo lavoro è anche ricco di informazioni e curiosità. Per esempio: agli sconsiderati che vogliano nascondere i propri averi sotto il materasso, convengono più i lingotti o le banconote?


“Prendiamo un lingotto d’oro da un chilo e una mazzetta di biglietti di banca da 500 euro, che complessivamente valgano altrettanto. L’ingombro, cioè lo spazio che occupano, sono simili. Non nego che psicologicamente il lingotto infonda un senso di sicurezza maggiore, e non solo perché pesa di più. Però come riserva di valore le banconote funzionano meglio dei lingotti. Infatti i vantaggi dell’oro sono pochi, e molti gli svantaggi”.


Il libro ne elenca parecchi, in particolare i saliscendi del prezzo e gli alti costi per acquisto e rivendita.

Le banche si lamentano per gli alti costi di gestione dei contanti. 

“Ma è strutturale che li abbiano”, taglia corto Scienza. “Bella pretesa, volerli evitare. È come se uno stabilimento balneare pretendesse di impedire ai clienti di andare in acqua, per non dovere pagare i bagnini”.

Mauro Suttora

Monday, April 05, 2021

I grillini e la roba: quanto vale il loro database?

Dagli stipendi ai debiti con Rousseau, i soldi determinano molte decisioni politiche M5S: in gioco c'è il cuore del Movimento

di Mauro Suttora

HuffPost, 5 aprile 2021

“La Chiesa e la roba”, si intitolava un articolo pubblicato dal settimanale Il Mondo il 17 maggio 1960. L’autore, il radicale Ernesto Rossi, sosteneva che fosse la Roba, cioè i soldi, a orientare non poche scelte del Vaticano.

Oggi scopriamo che la Roba determina anche molte decisioni politiche dei grillini. È il cospicuo monte stipendi dei loro 240 parlamentari, infatti, a renderli assai riottosi rispetto alla promessa di lasciare il seggio dopo due mandati, per evitare il professionismo politico. 

E sono 450mila euro quelli in ballo con la società Casaleggio ereditata da Davide, il figlio del fondatore. Lui pretende il saldo di questa cifra non versata dai parlamentari (300 euro mensili ciascuno) per continuare a fornire i servizi di democrazia diretta, marchio di fabbrica del Movimento 5 stelle: primarie online, referendum, ratifiche di espulsioni, gestione del blog.

Loro non vogliono più dipendere dalla sua piattaforma Rousseau, la quale però contiene lo strumento più prezioso del M5S: l’elenco degli iscritti, la mailing list, il database. Che, in un partito senza sedi né dirigenti locali, organizzato solo su web, rappresenta il cuore del sistema. 
La società Casaleggio non ha mai aperto a nessuno questo scrigno. Incredibilmente, neanche i massimi dirigenti nazionali grillini, da Di Maio a Taverna, da Fico allo stesso Grillo, hanno accesso all’indirizzario dei circa 190mila aderenti.
 
Se un deputato vuole organizzare un evento nel suo collegio, non può invitare gli iscritti della sua città. Il povero Crimi, quando nel 2016 il candidato sindaco di Milano fu scelto con primarie vere, fisiche, dovette verificare una a una l’iscrizione di ogni votante su un computer al seggio del voto. La srl Casaleggio negò l’elenco perfino a lui, fidato proconsole lombardo.

Quanto può valere commercialmente, allora, questo mitico database M5s? 
“I database hanno un valore estremamente variabile, che dipende dal numero di soggetti contenuti, dalla quantità di dati e dalle condizioni che rendano possibile e lecita la cessione”, spiega uno dei massimi esperti italiani di diritto informatico e privacy, l’avvocato bresciano Federico Vincenzi. “Sono come una casa di valore enorme: se si scopre che è abusiva, il prezzo crolla. Egualmente, puoi avere migliaia di dati, ma senza un consenso valido per la loro cessione non si possono trasferire a nessuno”. 
E quindi? “Non so quali consensi ci siano nel database M5s. Dubito però che siano sufficienti a giustificare la cessione, o addirittura una vendita”.
Perchè? “Il Tribunale di Roma ha definito il rapporto tra utente e Facebook ‘contratto a rilevanza sociale’. Perciò alcune piattaforme, e Rousseau per definizione, non possono essere considerate semplici portali privati: incidono sul dibattito politico, sul futuro del Paese. Credo quindi che i dati delle persone, che si sono iscritte perché vorrebbero - ahimè, il condizionale è d’obbligo - partecipare direttamente al processo democratico, non possano essere oggetto di trattative o cessioni come se si trattasse di semplici dati da cedere per fini pubblicitari”.

Vede una via d’uscita? 
“Quella più naturale sarebbe chiedere un consenso specifico e consegnare solo i dati di chi dice sì. La situazione è inedita, non poteva esser prevista quando la piattaforma è stata creata. Vedo difficile riciclare vecchi consensi. Ne serve uno nuovo. Una seconda ipotesi potrebbe venire ‘dal basso’: gli utenti/elettori che desiderano essere trasferiti alla nuova dirigenza chiedono - come loro diritto - la portabilità: la Casaleggio non potrebbe opporsi”. 
E se non si raggiungesse un accordo? 
“I dati non sono delle parti, ma degli interessati. Non si può giocare con la democrazia. Debiti e crediti vanno regolati a parte. La soluzione non è fare il prezzo dei dati degli elettori”. 

Insomma, la società milanese non può tirare troppo sui soldi. Ora i grillini offrono 150mila per coprire i debiti, più un contratto di servizio per il futuro. Degradando però il rampollo Casaleggio al rango di un qualsiasi fornitore tecnico di assistenza telematica. Addio Rousseau e utopie palingenetiche.

“In ogni caso”, spiega Lorenzo Borrè, legale di molti grillini espulsi, “non ci si può sottrarre al passaggio del voto su Rousseau per approvare le modifiche statutarie che Conte proporrà, perché la piattaforma è attualmente l’unico strumento per votare un nuovo comitato direttivo, come previsto dagli Stati generali di novembre”. 
In realtà Conte è già stato acclamato Capo unico, e agisce come tale. 
“Ma legalmente, senza la ratifica di un voto online Conte non conta nulla”, avverte Borrè.

Insomma, bisogna rispettare lo statuto M5s: per fare inversione a U e tornare al Capo unico, i grillini devono passare per forza da Casaleggio. Senza accordo, il nuovo partito di Conte dovrebbe ricominciare da zero: costruirsi una nuova mailing list di iscritti e forse perfino rinunciare al simbolo. 
Quanto a Casaleggio, potrebbe continuare a usare il suo database solo accusando il nuovo movimento di aver violato lo statuto, per poi eleggere propri dirigenti scismatici.
Scenario fantascientifico. Ai grillini, tramontati gli ideali, non resta che spartirsi la Roba: “Dimmi quanti soldi vuoi”, cantava Zucchero.
Mauro Suttora