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20/06/2020

Che fare del monumento di Togliatti?

Huffington Post
Non si può mai stare tranquilli, con i miti. Dopo Via col vento, il riso Uncle Ben’s e Montanelli, ora perfino Togliatti. Spinto dalla recensione di Adriano Sofri sul Foglio, stavo leggendo l’avvincente biografia di Ferenc Ungar, 83enne console ungherese a Firenze, scritta da Riccardo Catola: ‘Chiamatemi Ungar. Da Budapest all’Italia: guerre, amori e rivoluzioni dell’esimio profugo professor Ferenc’, ed. Polistampa. Sono saltato sulla poltrona: Togliatti nel 1956 non solo approvò la repressione sovietica in Ungheria (2.650 ungheresi e 720 militari sovietici uccisi), ma addirittura la sollecitò, temendo di essere sostituito da Giuseppe Di Vittorio alla guida del Pci.
Ungar aveva vent’anni quando scoppiò la rivoluzione di Budapest. Vi partecipò, e quando i democratici persero fu uno dei 250mila ungheresi che si rifugiarono in Occidente. Accolto a Roma, studiò medicina all’università, si laureò col professor Valdoni, sposò una ragazza italiana e infine divenne primario di ortopedia a Firenze. Dopo il crollo del comunismo il suo Paese lo ha nominato console onorario.
Scrive Catola sul 1956 ungherese: “Lo sdegno che si sollevò fu profondo. Ma Palmiro Togliatti, segretario del Pci, espresse giudizi trancianti e definitivi sui controrivoluzionari al soldo dell’imperialismo, mercenari, fascisti da schiacciare senza pietà. Alla notizia dell’invasione brindò al comunismo e ai suoi trionfi. Della stessa opinione furono anche due futuri presidenti della Repubblica, il socialista Sandro Pertini e il comunista Giorgio Napolitano, per quanto a loro onore vadano ricordate le successive pubbliche ammende”.
Il 24 ottobre 1956 l’Unità, diretta da Pietro Ingrao, dettò la linea: “Scontri nelle vie di Budapest provocati da gruppi armati di controrivoluzionari”. Il giorno successivo un editoriale rincarò la dose. Al titolo “Da una parte della barricata a difesa del socialismo” seguivano queste considerazioni: bisogna condannare la sommossa che è stata “un attacco armato meditato chiaramente rivolto a rovesciare con la violenza il regime di democrazia popolare. Forze ostili al regime socialista si sono inserite nel Paese per mutare con la rivolta armata il processo di rinnovamento e di democratizzazione in una restaurazione violenta. I ribelli hanno fatto ricorso alle armi. La rivoluzione socialista ha difeso con le armi le sue conquiste e il potere popolare, come è suo diritto e dovere sacrosanto”.
Vari leader comunisti si allinearono. Giancarlo Pajetta: “Bisognava agire, bisognava difendere […] quelle basi senza le quali non c’è altra alternativa che il ritorno alla oppressione e alle miserie del capitalismo, al fascismo che ha insanguinato e sfruttato per decenni l’Ungheria”. 
Giorgio Amendola: “Quando si attacca con le armi il potere popolare, gli operai e i comunisti non possono che essere da una parte”. 
E Napolitano: “La reazione sovietica ha evitato che nel cuore dell’Europa si creasse un focolaio di provocazioni” e che “l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione”.
Gli studenti comunisti dell’università di Roma, guidati da Mario Tronti e Alberto Asor Rosa, recapitarono invece all’ambasciata d’Ungheria un messaggio di sostegno: “Salutiamo la vostra responsabile azione per il progresso della democrazia, della verità, della libertà nell’Ungheria socialista. Gli studenti progressivi italiani si batteranno sempre per gli stessi obiettivi, nel segno del vero internazionalismo e per una via italiana al socialismo”.
Il più esplicito ad appoggiare la rivolta fu il segretario della Cgil Di Vittorio: “Tutti i proclami e le rivendicazioni dei ribelli sono di carattere sociale e rivendicano libertà e indipendenza; sbaglierebbero coloro i quali pensassero che le cose possano continuare ad andare come prima nel mondo socialista”.
Il 29 ottobre un gruppo di dissidenti diffuse il cosiddetto Manifesto dei 101.Chiesero al Pci una svolta decisiva: denuncia aperta dello stalinismo, riconoscimento della natura progressista della rivolta ungherese, condanna dell’intervento sovietico, critica del dogmatismo del Partito, distacco formale dall’Urss e rinnovo del gruppo dirigente. Insomma, un attacco personale alla segreteria di Togliatti e, implicitamente, un sostegno alla candidatura Di Vittorio in vista del congresso del Pci in programma quel dicembre.
Il documento portava le firme di molti noti intellettuali: gli storici Luciano Cafagna, Renzo De Felice, Paolo Spriano, Piero Melograni e Alberto Caracciolo, i letterati Natalino Sapegno e Gaetano Trombatore, il filosofo Lucio Colletti, gli scrittori Enzo Siciliano e Mario Socrate, i costituzionalisti Vezio Crisafulli e Antonio Maccanico, il regista Elio Petri, l’architetto Carlo Aymonino.
Mai nel Pci si era verificata una simile pubblica spaccatura. I vertici del Partito erano furibondi. Alcuni firmatari ritrattarono, ma non pochi restituirono la tessera. Antonio Giolitti, nipote dello statista Giovanni, e Colletti confluirono poi nel Partito Socialista. 
Togliatti replicò il 30 ottobre: “La sommossa è cosa ben diversa da qualsiasi dibattito e da qualsiasi confusione, e soprattutto una sommossa organizzata, che ha una sua ben elaborata tattica, obiettivi precisi, e non finisce quando, nell’ambito del regime esistente, sono attuate misure tali che garantiscono nel modo più ampio un indirizzo politico del tutto nuovo”.
Quello stesso giorno il segretario comunista inviò a Mosca un telegramma cifrato di cui si sarebbe saputo solo nel ’92, quando il presidente russo Boris Eltsin consegnò al governo ungherese documenti sulla rivolta. Togliatti faceva presente il rischio di una frattura all’interno del Pci, temendo in particolare di essere sostituito da Di Vittorio. Spiegava che l’insurrezione stava danneggiando il partito e che, dunque, doveva essere fermata. 
Togliatti era il leader comunista occidentale più autorevole, e spinse i sovietici all’invasione. Quel telegramma influenzò il Presidium del Pcus, che il 31 decise di far intervenire l’Armata Rossa. L’Unità esultò titolando “Sbarrata la strada alla controrivoluzione e alle minacce di provocazioni internazionali. Le truppe sovietiche intervengono in Ungheria per porre fine all’anarchia e al terrore bianco”.
“Nel giugno ’58”, conclude Ungar, “l’ex presidente ungherese Imre Nagy e il ministro della Difesa Pál Maléter furono giustiziati per tradimento dopo un processo farsa. Molti anni dopo si è saputo che Togliatti aveva detto sì all’esecuzione, chiedendo però ai compagni sovietici di rimandarla a dopo le elezioni politiche italiane del maggio ’58”.
Mauro Suttora