Friday, November 27, 2020

I soldi (Usa) alla Casaleggio spingono i grillini nel partito di Conte

Un’altra tegola si abbatte su M5s, rendendo ormai impresentabile l’ex partito degli onesti. Il resto lo stanno facendo la Calabria, Berlusconi e il Pd

intervista a Mauro Suttora

di Federico Ferraù

ilsussidiario.net, 27 novembre 2020 

Un’altra tegola si abbatte su M5s. “Casaleggio a libro paga della Philip Morris”: il Riformista svela che la società che controlla il Movimento 5 Stelle “ha incassato da Philip Morris Italia la maxi somma di 1.950.166 euro e 74 centesimi, al netto dell’Iva”. Il giornale diretto da Piero Sansonetti ha visionato bonifici e fatture, dimostrando che la multinazionale Usa ha ricevuto da M5s in cambio una cospicua riduzione delle accise sul tabacco che le ha garantito introiti enormi. Si tratti o no di illecito, il partito dell’onestà riceve un altro duro colpo, che potrebbe accelerare la crisi del governo Conte 2 e la formazione del partito contiano.

“È notevole che a 24 ore di distanza lo scoop sui due milioni di euro della multinazionale Usa delle sigarette alla ditta Casaleggio, che controlla il primo partito italiano, non sia stato ripreso da nessuno, tranne che dal Sussidiario e dall’AdnKronos” commenta Mauro Suttora, giornalista, collaboratore di Huffington Post, già corrispondente dagli Usa per varie testate.

Perché notevole?

Quando capita qualcosa a Renzi, dopo dieci minuti tutti i siti d’informazione sono pieni di notizie, reazioni, commenti. Sui grillini, invece, silenzio. Non c’è neanche la scusa di non fare pubblicità alla concorrenza, perché il Riformista è un piccolo quotidiano neanche distribuito in tutte le edicole, che non rappresenta certo una minaccia per i grandi giornali.

È per il rapporto con Philip Morris che Casaleggio si è sfilato per tempo dalla conduzione di M5s?

Non penso che Casaleggio junior si sia sfilato per questo conflitto d’interessi, anche perché lui non lo considera tale. Ha infatti definito “fantasiosa” la notizia: non perché ne contesti la verità, ma perché prosegue nella commedia di non ritenere la sua Casaleggio Associati il cuore pulsante dei grillini. E naturalmente, come tutti i potenti colti in castagna, ha annunciato querela. Intimidire non fa mai male.

Il Riformista ha analizzato il periodo di fatturazione. O c’è un’inchiesta aperta, e le fatture escono dal fascicolo del pm; o c’è una talpa in Casaleggio; o – più intrigante – per Philip Morris M5s è diventato scomodo. È una multinazionale americana, e negli Usa è cambiato il presidente.

Per la verità la notizia che la Casaleggio fosse a libro paga del colosso del tabacco è uscita in parte già un anno fa sul Fatto Quotidiano prima che Travaglio si appiattisse a sogliola su Conte e i grillini. Ma si parlava solo di qualche consulenza mensile da 50mila euro. Ora invece si scopre che questi versamenti proseguono da due anni, fino a raggiungere la cifra – enorme per una piccola società come la Casaleggio – di 2,3 milioni.

E sulla fonte?

Sulla fonte non so nulla. Potrebbe essere una talpa grillina, della corrente governista di Di Maio ormai in rotta con i movimentisti del rampollo Casaleggio e di Di Battista.

In un modo o nell’altro, l’onestà era già perduta. Restano gli oscuri legami esteri, prima con il Venezuela, poi con una multinazionale Usa. Cosa dobbiamo pensare?

Diceva Montanelli: “Ho incontrato tanti mascalzoni che non sono moralisti, ma nessun moralista che non sia anche un mascalzone”. I grillini fanno la morale a tutti gli altri partiti da ben 13 anni, il primo Vaffa-day è del 2007. Ma ci hanno messo poco ad adeguarsi agli “incassi” dei politici.

A chi pensi?

L’eurodeputato 5 Stelle Giarrusso, ex Iena tv, è stato beccato a incassare dalla stessa Philip Morris 14mila euro per le sue spese elettorali. Fino a poco tempo fa un grillino che avesse osato farsi propaganda personale sarebbe stato espulso sui due piedi. Ricordo che l’ex eurodeputato Tamburrano e la Taverna declinarono mie offerte di intervista perché, dicevano, “poi i nostri colleghi ci massacrano accusandoci di esibizionismo”.

Forse i soldi a Giarrusso e a Casaleggio fanno parte di un unico “pacchetto” della lobby del tabacco.

Può darsi. Ottimo investimento, peraltro: il governo grillino ha abbassato le tasse alla Philip Morris per decine di milioni. Povero Di Battista, che per anni ha tuonato contro lobbies e multinazionali del tabacco. Da notare che la Casaleggio prende soldi anche da Lottomatica, in barba alle crociate grilline contro i giochi d’azzardo e la ludopatia, e da un oligopolista come Onorato, che controlla sia Moby che Tirrenia. Avete provato a prendere un traghetto per la Sardegna in agosto? Prezzi modici?

Il Sussidiario ha dedicato diversi articoli alla crisi della sanità in Calabria, una casamatta dei 5 Stelle. È un fronte pericoloso solo per M5s o anche per Conte e il governo?

Il Sud è stato il granaio dei grillini, e sarà la loro tomba. Alle regionali due mesi fa in Campania e Puglia sono crollati dal 40 al 12 per cento. Ma già alle precedenti elezioni in Calabria, vinte dalla povera Jole Santelli insultata dal ras grillino calabro Morra, il M5s si era liquefatto. Il governo Conte si regge su 300 parlamentari grillini che perderebbero quasi tutti il seggio, se si votasse. 

Forse per questo Conte sta tessendo la trama di un suo partito, di cui si parla da tempo. Ha un futuro?

Certo. Il partito neodemocristiano di Conte è accreditato del 10% dai sondaggi. Il commissario Arcuri, attraverso la sua Invitalia, sta innaffiando con 280 milioni di finanziamenti pubblici il collegio elettorale pugliese del premier. E non è un caso che un ministro grillino come Spadafora sia un ex Udeur. Non per nulla l’insulto più sanguinoso rivolto da Di Battista ai governisti è: “State diventando come l’Udeur”.

Confermi quello che ci avevi detto, pronosticando l’avvicinamento a Conte dei parlamentari grillini più capaci?

Sì. Anche Crimi, che da dieci anni era il proconsole della Casaleggio in Lombardia, l’ha mollata per mettersi con Di Maio. E pensare che Casaleggio padre lo aveva salvato, nonostante fosse stato trombato alle regionali del 2010.

Il partito contiano sarebbe un contenitore centrista. Ha o avrebbe ancora, come si diceva qualche tempo fa, il placet di Oltretevere?

Certamente. Non dobbiamo mai dimenticare che Conte è uno dei prodotti meglio riusciti del convitto romano Villa Nazareth del potentissimo cardinale di sinistra Silvestrini, guidato dall’attuale segretario di Stato vaticano Parolin.

Il Corriere scrive che a qualcuno nel Pd non dispiacerebbe votare a maggio. Lo credi possibile?

Finché il Pd nei sondaggi resta inchiodato al 20% e Renzi al 3%, difficile che lo auspichino.

L’altra ipotesi sarebbe l’agognato rimpasto di governo. È uno scenario più realistico? Attenzione però: in un rimpasto si sa come si entra, ma non come si esce.

Infatti. In teoria, se si cambiasse solo qualche ministro, Conte verrebbe rafforzato: inutile far cadere un governo appena rinnovato. Ma ormai molti nel Pd dicono “rimpasto” per dire “via Conte”, considerato troppo logoro e anche invadente: pare faccia di tutto per accumulare potere nei gangli del sottopotere e parastato, piazzando fedelissimi e avocando competenze alla presidenza del Consiglio.

Federico Ferraù

Monday, November 23, 2020

Covid: in Italia 50mila morti. Ridotti a una statistica

ORMAI CI SIAMO ASSUEFATTI: TUTTI ASSIEME IMPAURISCONO, INVECE CENTELLINATI GIORNO PER GIORNO SPARISCONO

di Mauro Suttora
HuffPost, 23 novembre 2020




“Una morte è una tragedia, un milione di morti soltanto una statistica”, disse Stalin. E 50mila? Oggi i decessi per virus in Italia raggiungono questa tremenda cifra. Ma noi sembriamo assuefatti. Anzi, a volte diciamo quasi con soddisfazione: “Oggi ‘solo’ 600 vittime, meglio delle 700 di ieri”.

Invece, 50mila bare messe una dopo l’altra sono un numero immenso: un capoluogo di provincia, un terzo di tutte le vittime civili della Seconda guerra mondiale (ma concentrati in nove mesi, non in cinque anni), i morti dell’atomica di Nagasaki.

Ci consoliamo: “Erano quasi tutti 80-90enni, anche l’influenza ne ammazza 50mila all’anno, quando fa troppo freddo d’inverno o troppo caldo d’estate ne muoiono anche di più”. E poi le famose patologie pregresse, è così in tutto il mondo, ora ci sono più asintomatici, negli Usa è peggio.

Balle. Nell’orrenda classifica vera, quella dei decessi in proporzione agli abitanti, i nostri 830 per milione troneggiano al quarto posto. Nell’intero pianeta ci superano solo Belgio, Peru e Spagna.

Chi la butta in politica e se la prendeva con i populisti Trump, Bolsonaro o Boris Johnson ora tace: Stati Uniti, Brasile e Regno Unito se la cavano meglio di noi.

E allora, come mai ci siamo abituati? Non ci accorgiamo che i nostri nonnini crepano da soli, inghiottiti dopo quel loro ultimo sguardo disperato mentre salgono in ambulanza, o quando cacciano noi parenti dal pronto soccorso?

Ci siamo commossi una sola volta, vedendo in tv la fila dei camion militari a Bergamo. Perché tutti assieme impauriscono, invece centellinati spariscono. I tremila morti delle Torri gemelle hanno fatto impressione, ma non c’è alcun 11 settembre ad accomunare i nostri 50mila. Nessun cimitero di Redipuglia a riunirli nella tragedia, ricordandoli per sempre.

Perciò ormai sono ridotti a statistica. “Dobbiamo imparare a convivere col virus”: questa è la frase più inquietante.

Oggi un esperto dell’Oms ha detto: “Dovevamo usare l’estate per attrezzare meglio le nostre strutture”. Non ha detto che forse bastava continuare a distanziarci per non impestare i nostri anziani. La curva è data per scontata, può alzarsi o abbassarsi, siamo sul picco, no sul plateau, aspettiamo la terza ondata, tranquilli ora arriva il vaccino. Si sta come d’autunno sulle statistiche le foglie. Cinquantamila.
Mauro Suttora

Friday, November 20, 2020

Il nuovo Sassoli paragrillino


HuffPost, 20 novembre 2020

David Sassoli era un ottimo giornalista. Lo ricordo, lui al Giorno e io all'Europeo, mentre indagavamo più di trent' anni fa a Reggio Calabria sull'assassinio del presidente delle Ferrovie Ligato.

Da un po' di tempo però Sassoli (bravo anche come politico) si è messo a dire sciocchezze paragrilline. 

L'ultima: "Cancellare i debiti pubblici dovuti al virus".

Gli ha risposto seccamente ieri la governatrice Bce Lagarde: "Illegale, bisognerebbe cambiare i trattati Ue". 

Grave che il presidente dell'Europarlamento finga di ignorare l'abc del diritto europeo. Sassoli è improvvisamente impazzito? Assolutamente no. Si è soltanto messo in testa di candidarsi per il Quirinale fra un anno (il potere dà alla testa, la monta come la panna, d'altra parte se ce l'hanno fatta Mogherini o Di Maio, perché lui no? Cos'ha in meno di Veltroni, un altro che freme?) 

Perciò Sassoli ha bisogno dei voti grillini. Quindi li corteggia e segue nei loro deliri.

Questo dimostra la perniciosità di tenere in parlamento 300 cascami di un ex movimento che, nonostante quasi non esista più (3% alle regionali in Veneto due mesi fa, 7% a livello nazionale), condiziona ancora chi abbisogna dei loro favori.

Poiché, contrariamente all'adorabile poliglotta Von Der Leyen, Sassoli ha grosse difficoltà a parlare inglese e francese, quindi è inadatto alla sua attuale carica (l'ennesimo politico italiano che ci fa fare figuracce all'estero), sarebbe meglio, se vuole tornare a Roma, che si candidi sindaco. Quella sì che sarebbe una carica alla sua portata. E utile per il Pd.

Mauro Suttora 

Monday, November 16, 2020

Grillini: la base sta con Di Battista

Conte farà un partito con Di Maio


intervista a Mauro Suttora


ilsussidiario.net, 16 novembre 2020


Si sono conclusi gli Stati generali di M5s. La crisi resta e si acuisce: nel partito prevalgono i furbi alla Di Maio, la base sta con Di Battista


Come sono lontani i tempi di Casaleggio. Non quelli di Davide, ma del padre Gianroberto. Una visione avveniristica, la sua; seducente, furba, per molti versi pericolosa. È a lui che pensano probabilmente i pochi militanti rimasti, quando contemplano l’esito degli “Stati generali”, assemblea – virtuale, è d’obbligo – di un Movimento 5 Stelle che cerca di non ridursi a gioco di poltrone.


La due giorni del Movimento si è conclusa fissando tre risultati: guida collegiale, alleanze programmatiche ma non strutturali con gli altri partiti, vincolo del doppio mandato. Ma gli Stati generali restituiscono un partito in crisi profonda, tutto meno che trasparente, spaccato tra movimentisti e governisti, “arrivisti e banderuole”, dice Mauro Suttora, giornalista, osservatore clinico dei 5 Stelle fin dagli esordi. “Sopravvivono solo grazie al virus, come il governo Conte. Ma la base sta con Di Battista”.


Il risultato di questo congresso politico anomalo rafforza o indebolisce Conte, presidente del Consiglio indicato dai 5 Stelle?


Questa parodia di congresso lo indebolisce, perché i grillini sono spaccati. Ma ormai Conte è riuscito a separare il suo destino dal loro. Anzi, se nel M5s prevarranno Di Battista e Casaleggio jr, lui potrà diventare, con una sua lista, il rifugio di molti grillini “democristiani” come Di Maio o Spadafora.


Le tue osservazioni sui meccanismi di designazione dei 30 “delegati” nazionali?


Sono riusciti a inventare le elezioni con risultato segreto. Su un migliaio di candidati, hanno pubblicato solo i nomi dei primi 30, senza specificare quanti voti hanno avuto ciascuno di loro, e quanti i non eletti. Mi sembra un delirio, e fanno bene Casaleggio e Di Battista a pretendere di conoscere i risultati. Soprattutto in un partito che era nato in nome della trasparenza.


Sarà “guida collegiale”. O dobbiamo aspettarci che questa formula serva ad avallare la leadership di qualcuno?


Ormai nei grillini ci sono due poli: i governisti filo-Pd per convinzione (Fico) o convenienza (Di Maio) e i movimentisti: anche qui per convinzione (Di Battista) o convenienza (Casaleggio). Altri big come Paola Taverna cercano di barcamenarsi, ma il solco è quello. La maggioranza del nuovo direttivo con sette posti verrà decisa dal metodo elettorale che sceglieranno. Ma la base sta con Di Battista.


Di Maio esce rafforzato dagli Stati generali?


Direi di no. Nelle votazioni delle assemblee regionali e dei 30 “oratori” nazionali ha prevalso Di Battista. Soprattutto sul divieto di secondo mandato.


È arrivato da più voci un no ad alleanze strutturali. È realmente possibile per M5s oggi stare da soli?


È un finto problema. Grillini e Pd possono correre separati e coalizzarsi dopo il voto, come succederà alle comunali in primavera.


Come valuti la parabola recente di Davide Casaleggio, da dominus dietro le quinte fino alla sua non partecipazione?


In un movimento è difficile che la leadership si trasmetta ereditariamente, i grillini non sono la Corea del Nord. Bisogna vedere se il rampollo Casaleggio andrà d’accordo con Grillo, più che con Di Maio.


Tu hai detto più volte che la scissione è nelle cose. Cosa farà di Battista?


Di Battista cercherà di non farsi fregare da Di Maio e Spadafora che sono dei politici vecchio stile, tecnicamente perfetti, furbissimi. Probabilmente non ci riuscirà, perché è troppo egocentrico ed esibizionista per far carriera in politica. Lo vedo volteggiare a “Ballando con le stelle” in tv.


Che cos’è oggi M5s? Un fu movimento, un partito mancato, qualcosa di nuovo?


Il M5s non esiste più dalle europee del 2019, quando dimezzò i suoi voti al 17%. Alle regionali di due mesi fa è ulteriormente crollato al 7%, e al 3% in Veneto. Sopravvive solo grazie al virus, come il governo Conte. La pandemia ha mummificato entrambi, prolungandone l’agonia. Ormai è accanimento terapeutico.


Chi deciderà davvero? Di Maio? Grillo, apparentemente assente? O Conte?


Quando Grillo uscirà dalla sua depressione, vedremo cosa dirà. Ma lo capisco: vedere la sua creatura ridotta così, in mano ad arrivisti e banderuole che passano indifferentemente dalla destra di Salvini alla sinistra, è sconfortante. Lo hanno detto molti attivisti alle assemblee locali: “Rischiamo di cambiar nome in Movimento 5 Poltrone”. Ma sono stati gentili con i loro capi: non è un rischio, è una certezza.

Federico Ferraù 

Sunday, November 15, 2020

Casaleggio jr: chi di segreto ferisce, di segreto perisce

di Mauro Suttora

Huffington Post,15 novembre 2020


Davide Casaleggio attacca i vertici grillini che nascondono i voti ottenuti dai trenta oratori ammessi a parlare nei loro ‘stati generali’.

Si tratta dell’unica occasione da anni in cui i ‘registrati’ al Movimento 5 stelle hanno potuto esprimere una preferenza fra i loro capi, e le diverse tendenze che rappresentano: Di Maio, Di Battista, Taverna, Fico. Importantissima, quindi.

È naturale allora volerne conoscerne i risultati, come peraltro avviene da 2.400 anni in democrazia: dopo le elezioni i voti si contano e il risultato viene annunciato.

Ma i grillini no. Loro sono diversi. Si ritengono più democratici degli altri. Quindi hanno inventato le votazioni con risultato segreto. Unico caso al mondo, conclavi a parte.

I fautori della non trasparenza così si giustificano: questa consultazione è servita solo per decidere a chi concedere il diritto di parola, fra i mille che si sono candidati. Non ha un significato politico, non vuole creare divisioni, non deve influenzare le vere elezioni del direttivo, che si terranno dopo gli stati generali. Un po’ gli stessi motivi per cui i sondaggi vengono vietati negli ultimi 15 giorni prima delle elezioni.

Non si capisce tuttavia in che modo sapere che l’uno ha preso x voti e l’altro y pregiudicherebbe il risultato finale. Si sussurra infatti che Di Battista (il preferito di Casaleggio) abbia ricevuto molti più voti di Di Maio. Ma questo potrebbe spingere gli iscritti sia a salire sul carro del vincitore, sia al contrario a contrastarlo, mobilitando gli avversari. 

I politologi li chiamano effetti ‘bandwagon’ e ‘diga’. I democristiani hanno governato per mezzo secolo l’Italia non tanto grazie a meriti propri, quanto per la paura che incutevano gli avversari comunisti.

Ma non pretendiamo che i grillini apprezzino tali finezze metodologiche. Quel che è sicuro, è che Casaleggio junior è l’ultimo titolato a protestare contro questa censura. Perché l’ha sempre praticata.

Anche nel 2014, infatti, le primarie grilline per le elezioni europee nascosero le preferenze ottenute dai candidati. Furono rivelati solo i nomi dei vincitori, per deciderne il posto in lista. E chi protestò venne espulso.

Chi di segreto ferisce, insomma, di segreto perisce. E la società Casaleggio ha sempre gestito il M5s con metodo proprietario, sospettoso fino alla paranoia. Chi dissente è subito dissidente.

Alle primarie per il sindaco di Milano nel 2016, per esempio, fra le pochissime a essere effettuate con voto fisico e non online, i Casaleggio padre e figlio rifiutarono perfino di consegnare gli elenchi degli iscritti. Cosicché ricordo che per sapere chi aveva diritto a votare, al povero Vito Crimi (allora, diversamente da oggi, fedele ai Casaleggio e anzi loro proconsole in Lombardia) toccò installare vicino all’urna dei computer in cui i votanti dovevano digitare la propria password per dimostrare che potevano accedere al blog di Grillo.

Tuttora, incredibilmente, il principale partito di governo italiano tiene segreti gli elenchi degli aderenti perfino ai suoi eletti più importanti. Neanche a Di Maio o Taverna, quando organizzano un evento a Pomigliano o a Roma, è permesso invitare tramite mail gli iscritti locali. I loro nomi sono custoditi gelosamente da Davide Casaleggio.

Ecco la battaglia che divamperà fra i grillini nelle prossime settimane e mesi: quella per il possesso della mailing list nazionale, con 180mila registrati. Preziosissima, in un movimento organizzato esclusivamente online. Difficilmente la società Casaleggio vi rinuncerà: nel marketing questi indirizzari valgono milioni. 

Il grottesco voto segreto di oggi, quasi nordcoreano, è solo l’antipasto delle contraddizioni che lacereranno i grillini: promettevano di essere i più democratici e trasparenti, ma oggi somigliano a Scientology. 

Friday, November 13, 2020

Prima di Conte la letterina di Natale arrivò a Kennedy

I potenti hanno sempre ricevuto centinaia di missive dai bambini. Anche Stalin

Huffington Post, 13 novembre 2020

Non è la prima volta che un bambino, preoccupato per Babbo Natale, si rivolge a un politico. Sessant’anni prima di Tommaso Z., 5 anni, di Cesano Maderno (Monza Brianza), che ha chiesto a Giuseppe Conte di garantire al vecchio Santa Claus “un’autocertificazione speciale per consegnare i doni a tutti i bambini del mondo”, Michelle Rochon, 8 anni, scrisse una lettera dal suo Michigan a John Kennedy: “Ferma i russi, per favore. Se bombardano il polo Nord uccideranno Babbo Natale”.

“Non preoccuparti, ieri ho parlato con lui e sta bene. Farà di nuovo il suo giro questo Natale”, le rispose il presidente Usa, più sintetico del nostro premier. Era il 28 ottobre 1961. Due giorni dopo i sovietici sganciarono la bomba Zar, il più potente ordigno all’idrogeno mai sperimentato, sull’isola Nuova Zemlja, oltre il circolo polare artico. Era sei volte più devastante di quella di Hiroshima, il fungo atomico raggiunse l’altezza di 64 chilometri e il lampo fu visto a mille chilometri di distanza. L’onda d’urto rase al suolo le case di legno di paesi lontani centinaia di chilometri e danneggiò finestre anche in Finlandia.

Le circostanze oggi sono serie (virus), ma non così drammatiche. E Conte non ha rinunciato a farsi un po’ di propaganda pubblicando su Facebook la sua lunga risposta a Tommaso, prodigio già alfabetizzato: “Voglio rassicurarti, Babbo Natale mi ha garantito che già possiede un’autocertificazione internazionale: può viaggiare dappertutto e distribuire regali a tutti i bambini del mondo. Senza nessuna limitazione. Mi ha poi confermato che usa sempre la mascherina e mantiene la giusta distanza per proteggere se stesso e tutte le persone che incontra. L’idea di fargli trovare sotto l’albero, oltre al latte caldo e ai biscotti, anche del liquido igienizzante mi sembra ottima. Una buona strofinata gli permetterà di disinfettare ben bene le mani e di ripartire in piena sicurezza».

A questo punto il povero Tommaso già dorme, tramortito dalla logorrea del premier. Che però va avanti: “Sono contento di sapere che tu e i tuoi compagni rispettate con scrupolo tutte le regole, in modo da proteggere anche mamma e papà, i nonni, e le persone più care. Per questo motivo ti annuncio che non sarà necessario precisare nella letterina a Babbo Natale che sei stato bravo: gliel’ho detto io. Gli ho raccontato che quest’anno in Italia è stato un anno molto difficile e tu e tutti i bambini siete stati adorabili. Ho saputo anche che vuoi chiedere a Babbo Natale di mandare via il coronavirus. Non sprecare l’occasione di chiedere un regalo in più. A cacciare via il coronavirus ci riusciremo noi adulti, tutti insieme. Così tu e i tuoi compagni potrete tornare presto a giocare liberi e felici e ad abbracciarvi tutti. Spensierati come sempre».

Sui social naturalmente si è scatenata l’ironia. Anche perché i bambini sembrano essere diventati grafomani in tempi recenti: un certo Manuel da Settimo Torinese avrebbe inviato la sua personale solidarietà a Matteo Salvini per il processo di Catania sulla nave Gregoretti.

Così Luca Bizzarri ha scritto una parodia di lettera: «Caro Luca, sono Adelmo, un bambino di 6 mesi, e ho una domanda da farti. Secondo te il nostro presidente del Consiglio pensa davvero che siamo tutti così coglioni? Perché già ci aveva provato quell’altro signore, ti ricordi, quello che diceva che un bambino gli aveva scritto una lettera perché lo vogliono processare. E io ho pensato va be’ dai, è un po’ un pirlone, ci sta. Ora ci prova anche questo signore, ma commette un errore banalissimo: un bambino di 5 anni non scrive così. Per vedere come scrive un bambino di 5 anni deve leggere i post su Instagram del suo ministro degli Esteri. Ciao, salutami Babbo Natale, che magari non esiste, ma non esiste neanche il ciondolo anti Covid, il senso dello Stato, il rispetto della carica istituzionale, un’opposizione decente, il senso del ridicolo». 

Bizzarri ha pubblicato anche la propria risposta: «Caro Adelmo, come darti torto. Ma se puoi scrivere a qualcun altro che io i bambini finti non li sopporto. Sopporto a malapena quelli veri”.

In realtà presidenti democratici e dittatori hanno sempre ricevuto lettere dai ragazzini, più o meno imboccate dai loro genitori. Claretta Petacci scrisse al suo idolo Benito Mussolini già a 14 anni, nel 1926, dopo l’attentato di Violet Gibson al duce che l’aveva impressionata. Ne sarebbe diventata l’amante solo dieci anni dopo.

Innumerevoli furono anche le richieste d’intercessione, come questa inviata il 5 gennaio 1942 da tre ragazze ad Anna Maria, figlia di Mussolini, per farsi autografare tre cartoline col suo ritratto: “Ci troviamo per poco a Roma per poi ritornare nella nostra amata Sicilia. Siamo fiere di essere in prima linea a fronteggiare le offese nemiche, e volentieri sopportiamo qualche sacrificio perché presto arrida la vittoria alia Patria nostra diletta. Ci permettiamo inviarti tre foto del tuo grande Papà perché Egli voglia compiacersi di apporvi la sua firma che noi terremo come carissimo ricordo”.

Più tragica la vicenda di Engelsina Markizova, fotografata nel 1936 a sei anni con uno Stalin bonario e sorridente. Lei era figlia di un dirigente comunista dell’estremo oriente sovietico. La foto ebbe un tale successo che venne pubblicata dai giornali del regime con la scritta ‘Grazie, compagno Stalin, per la nostra infanzia felice’. Dalla foto venne addirittura tratta una statua, eretta a Mosca e intitolata a ‘Stalin, l’amico dei bambini’.

Engelsina ha potuto raccontare la vera storia della sua vita soltanto a 60 anni, nel 1990, dopo il crollo del comunismo. Un anno dopo quella foto suo padre, Sergei Markizov, venne arrestato come presunto agente dei giapponesi e fucilato. Sua madre, che non sapeva dell’esecuzione, fece scrivere alla bambina una patetica lettera a Stalin, per ricordargli la foto e chiedere clemenza verso un vero comunista. 

Il dittatore rispose facendo arrestare anche la madre di Engelsina, che venne esiliata in Kazakistan come nemica del popolo e morì a 32 anni, probabilmente sgozzata dalla polizia segreta. Engelsina fu affidata a una zia. La sua identità nella famosa foto venne cambiata con quella di un’altra bambina, Tagiki Mamlakat Nakhangova.

Ma i principali destinatari delle lettere dei bambini sono i loro idoli di musica e cinema. Gigliola Cinquetti ha depositato al museo Storico di Trento il suo archivio con ben 150mila lettere di ammiratori e ammiratrici. Ecco una delle più divertenti, spedita dalla tredicenne R.S. l’8 dicembre 1966: “lo ti ho scritto questa lettera per dirti si mi vuoi aiutarmi a farmi venire con te dove stai tu, perché io vorrei scrivermi a farmi cantanta, e io sono sicura che tu l’accetterai”.

Mauro Suttora

Monday, November 09, 2020

Quello che il virus ci sta insegnando

Costretti dalla necessità, molti si rimboccano le maniche e inventano soluzioni che rimarranno utili anche dopo

di Mauro Suttora

Huffington Post, 9 novembre 2020


“Il virus ci ha costretti a fare in tre settimane quello che avremmo dovuto comunque fare in tre anni”, ha dichiarato ad HuffPost in luglio Ennio Doris, presidente di Banca Mediolanum. “L’80 per cento dei nostri dipendenti è andato in smart working, ma anche quando la pandemia finirà, il 60 per cento continuerà a lavorare da casa. Eliminati gli sprechi di tempo per spostarsi in auto. Molti di noi hanno scoperto programmi e app per le conversazioni video che neanche sapevamo di avere, sui nostri cellulari. Siamo tutti collegati meglio di prima, distanze annullate”.

Una ventata di ottimismo che ora è messa a dura prova dal secondo lockdown. Perché certo, molti lavori si possono fare da remoto. Ma la maggioranza no. Ci vuole la presenza fisica: esattamente quella che ci tocca di nuovo evitare per abbassare la maledetta curva del contagio, che si nutre di prossimità e assembramenti. Eppure, non tutto il male viene per nuocere. Perché anche nei campi in cui soffriamo di più (scuole, bar, ristoranti, spettacoli, trasporti, città spettrali, socialità azzerata) molti stanno inventando soluzioni che rimarranno utili anche dopo il virus.

DAD: SERVIRÀ ANCHE DOPO IL VIRUS

La famigerata Dad, la didattica a distanza. Che opportunità offre? “La Dad non è un professore che apre Zoom e si mette a parlare su un argomento. Significa utilizzare la tecnologia per coinvolgere gli studenti, farli partecipare, spingerli a creare loro qualcosa”: parola di Marco De Rossi, fondatore di WeSchool, unica piattaforma italiana tra le tre consigliate dal ministero dell’Istruzione per la Dad, e usata ogni giorno da più di un milione di studenti e insegnanti. Basta col prof che parla da remoto e che bisogna star solo ad ascoltare. Bisogna appassionare le classi, ed esistono migliaia di strumenti per riuscirci. 

I docenti ora possono portare i loro studenti online da web o app attraverso Google Drive, YouTube o Dropbox, condividendo materiali, discutendo, collaborando ed effettuando verifiche e test. Ecco le vere lezioni interattive con video, pdf, documenti Word, Excel, slide, pagine web, gallerie di immagini: su un’unica piattaforma, senza dover passare da un sito all’altro né scaricare file. Agli esercizi vero/falso e a scelta multipla si aggiungono cruciverba, videoquiz, abbinamenti di domande. E non si studia solo la rivoluzione francese o Manzoni: “Gli studenti imparano soft skills utilissimi facendo ricerche online”,  dice De Rossi,  “distinguono i siti affidabili dai fake, si esercitano a comunicare in maniera efficace, leggono i giornali”. Il lavoro in squadra sviluppa capacità di leadership, costruzione di progetti e perfino di siti web.

In Italia venti prof su cento erano ‘digitali’ già prima del virus, e non hanno avuto problemi con la Dad. Il 40% sapeva usare abbastanza il computer, mentre il restante 40% era convinto addirittura che il digitale facesse male alla didattica. Oggi 233mila professori della secondaria, più della metà del totale, sono registrati su WeSchool. “Il professore è il regista che utilizza il digitale per interagire con lo studente, il quale non può stare sei ore davanti al pc ad ascoltare le lezioni”, spiega De Rossi. “Dopo una lezione di due ore lavora a un progetto, poi agisce in team con i compagni di classe. Sempre con il prof come guida”. La Dad sarà solo una parentesi? “Non si può tornare indietro”, conclude De Rossi. “Come lo smart working rivoluzionerà il mondo del lavoro, la didattica a distanza segnerà il mondo della scuola. Naturalmente non tutta la didattica deve essere online. Ci vuole integrazione, unendo la presenza fisica al digitale, come accade già sul lavoro”. 

L’ISOLAMENTO NON DISPIACE AI GIOVANI

Ma la pandemia che effetto sta avendo sui giovani? Il 26 per cento dei 16-19enni sostiene di avere riscoperto l’importanza della libertà, e il 35% apprezza il tempo da gestire autonomamente, secondo uno studio dell’Osservatorio permanente della Link Campus University. Insomma, non la subiscono soltanto. “Altro che generazione con il cellulare sul divano, i teenager si sono reinventati”, spiega Nicola Ferrigni, direttore dell’Osservatorio, “percependo l’assenza di amici e della scuola in presenza, ma apprezzando altre cose che che prima non c’erano”.

Il 36% valuta positivamente la Dad perché serve alla preparazione scolastica (20%), ma anche perché fa capire l’importanza delle tecnologie (15%). Quasi un quarto degli intervistati dice di guardare Rai Scuola e Rai Cultura. Niente concerti, mostre, teatri,  ma uno studente su tre vede in streaming tv o web concerti e session, un altro terzo legge romanzi o poesie, e il 21% assiste a mostre, esposizioni o tour virtuali. “Insomma, i giovani utilizzano ampiamente i media per arricchire il proprio bagaglio culturale e le proprie competenze”, dice Ferrigni. “Non mi fermo, ma mi formo e mi informo: ecco quello che fanno. Dimostrano di saper utilizzare più degli adulti i social e la rete in maniera consapevole, separandola dalla sfera ludica. Usano la parte buona di Internet”.

Liberi dalla routine e da bisogni materiali, i giovani hanno fatto un uso diverso del loro tempo: “Si sono dedicati a loro stessi, ma non in senso egoistico - spiega il sociologo -. Hanno anteposto la dimensione affettiva, emozionale e relazionale a quella che è la solita dimensione materiale. Hanno riscoperto il piacere di stare con genitori, fratelli e anche con se stessi”. Già abituati a essere connessi virtualmente, per molti giovani il lockdown ha un effetto relativo. Anzi, l’isolamento risulta addirittura più confortevole, ad esempio per gli adolescenti timidi, perché le conversazioni si svolgono in maniera più controllabile. La distinzione fra offline e online, fra virtuale e reale, non è applicabile a generazioni che non conoscono altro modo di essere. La comunicazione può non avere luogo di persona, faccia a faccia, ma è pur sempre uno scambio significativo, che produce sorrisi e incrementare il benessere personale. Lo constatiamo ogni giorno, guardando i volti di giovani - e meno giovani - persi negli schermi dei loro smartphone.

RISTORANTI E BAR: MEGLIO IN PERIFERIA

E il disastro dei ristoranti? C’è chi lo dribblato, addirittura aumentando il fatturato. “Il mio l’ho convertito in delivery-friendly e con il lockdown ho incassato tra il 40 e il 50 per cento in più”, dice Gianni Catani del ristorante Dumpling bar di Roma, specializzato in cucina cinese e ravioli. “Durante il confinamento ho messo in atto una strategia a cui lavoravo da tempo: consegnare a casa piatti cotti al 95 per cento, dando la possibilità ai nostri clienti di ultimare la cottura nelle loro cucine”, ha spiega Catani ad HuffPost. “Arrivata la consegna, bastano trenta secondi in acqua bollente o al vapore per rimettere in piedi un pasto da ristorante. Vendiamo anche il cestino di cottura”. Oggi il Dumpling bar consegna tremila ravioli al giorno in tutta Roma, con una squadra interna di fattorini. “Per noi credo che questo sia il futuro in ogni caso, perché permette di tagliare le spese di un ristorante. Ma naturalmente dubito che vada bene per le trattorie tradizionali”.

Sempre a Roma, il ristorante status symbol della movida di Ponte Milvio, ‘Da Brando’, vede scendere in campo Brando Serra, il titolare, che fa un delivery molto particolare: “La cena la porto io di persona a molti miei clienti, ora che non possono più venire da me”. ‘Asporto’ è la parola magica, ma inutile nasconderselo: pochi bar e ristoranti riescono a pareggiare i conti. Il ristorante storico Camillo, in piazza Navona dal 1890, soffre l’azzeramento dei turisti internazionali che volevano ‘spaghetti meatball’ e ‘fettuccine Alfredo’. E allora Filippo e Tommaso De Sanctis hanno cercato una nuova clientela: “Siamo partiti con l’asporto, ai giovani del quartiere abbiamo proposto i primi aperitivi da portar via, il “drinketto”, e stiamo crescendo”. Il drinketto è lo spritz fatto sul momento e imbottigliato per portarlo via o berlo strada facendo. Per molti romani è la prima volta in piazza Navona, considerata finora soltanto una ‘trappola per turisti’, off limits per i ricercatori di qualità. “Ci stiamo impegnando per offrire la nostra idea di prodotto di buon livello su Piazza Navona, anche e soprattutto per i romani”. Tommaso e Filippo vogliono mantenere i nuovi clienti conosciuti durante la primavera del lockdown, e “anche quando tornerà il turismo di massa cercheremo di intercettare quelli che ora ci leggono sul Gambero Rosso”. Il nuovo menù è innovativo e “world food”: coniuga i classici della cucina romana (carbonara e cacio e pepe) a ramen e tortelli alla piastra giapponesi, e hamburger con pane e salse homemade.

A Milano piangono ristoranti e bar del centro, privi non solo di turisti ma anche degli impiegati che scendevano in pausa pranzo. Però in compenso con lo smart working si sono ripopolati i quartieri dormitorio, anche in periferia. Dove gli affitti per gli esercenti sono molto più bassi, quindi la scommessa più abbordabile. E chi lavora in casa ogni tanto ha voglia di scendere a prendere un po’ d’aria. Così il trentenne Alan dopo il primo lockdown ha aperto il bar 23 in piazzale Martini. Suo padre possiede una rinomata pasticceria a Baggio, ma lui ogni mattina attraversa la città per andare a proporre caffè e brioches dietro porta Vittoria. “Certo, la chiusura alle 18 adesso ci ha dato una mazzata quasi definitiva, cancellandoci gli aperitivi. Però io non mi arrendo, e vado avanti di asporto”. Ha piazzato un tavolino fuori dalla vetrina, e ora i passanti si fermano a prelevare i caffè nei bicchierini di cartone, e i cornetti dentro ai sacchetti di carta. “Fino a ottobre avevo installato sotto gli alberi quattro tavolini e due ombrelloni, naturalmente sono passati i vigili e mi hanno multato perché non avevo rispettato per tredici centimetri lo spazio concesso”.

CASE: BOOM DELL’EDILIZIA

E le città, sopravviveranno al covid? O lo smart working le svuoterà, facendo crollare i prezzi delle case? Secondo Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari, il virus le ringiovanirà. Perché gli over 50, quelli che se lo possono permettere, si trasferiranno in piccoli centri di campagna, mare o montagna. Mentre i giovani le ripopoleranno, a cominciare dagli studenti universitari.

Le ricerche di case di campagna, rustici e casali sono aumentate del 29 per cento in primavera ed estate. Sono persone in uscita da Milano, Torino e Roma. Infatti le richieste sono più che triplicate in provincia di Brescia e Alessandria, e i prezzi delle case sono aumentati del 25% nei paesi in provincia di Roma. Il virus sta cambiando anche le caratteristiche delle abitazioni cercate sul mercato. “C’è grande domanda di immobili adeguati all’epoca di convivenza con il virus”, avverte Breglia, “quindi soprattutto case nuove, con più spazi esterni e più funzionali, visto che si vive di più la casa. A Milano a giugno e luglio sono raddoppiate le vendite di immobili di fresca costruzione. L’usato invece soffre e i prezzi scendono. Anche perché spesso bisogna ristrutturarlo”. Ci sarà, quindi, un boom dell’edilizia.

Il secondo lockdown ha provocato una fuga verso le seconde case più ordinata di quella convulsa a marzo. Passare il novembre con vista mare o lago, per chi se lo può permettere grazie allo smart working, è sembrata un’alternativa ragionevole. Ma anche molti non proprietari hanno lasciato le città. “Gli italiani questa volta non si sono fatti trovare impreparati”, dice Marco Celani, presidente di Aigab (Associazione italiana gestori affitti brevi) e ad dell’agenzia Italianway. “Le persone si chiedono: ‘Dove me lo faccio l’isolamento? A Roma, Milano, Torino, dove abito, oppure lontano dal caos cittadino?’. C’è chi si trasferisce nel paesino della nonna dove ha una seconda casa, chi torna al sud, c’è il milanese che decide di affittare un casale in Umbria o in Toscana per tre settimane (‘e se prolungano il lockdown poi vediamo’), c’è chi preferisce non allontanarsi troppo, ma vuole comunque cambiare scenario, memore della clausura di marzo e aprile”.

Italianway stima che sulle 87mila notti vendute da inizio anno, il 20% è all’insegna dell’holiday working: ciò significa che ben 17.400 prenotazioni sono state effettuate da persone che intendevano unire lavoro da remoto e soggiorno in un luogo piacevole. Un fenomeno che mitiga la crisi di agriturismi e b&b. Anche perché i prezzi sono bassi, e vivere fuori dalle grandi città costa meno: “Abbiamo registrato un boom di mete secondarie, dove le tariffe sono convenienti: Abruzzo, Marche, il paesino montano dove nessuno prima d’ora pensava di andare. E ci si organizza insieme ad altre persone: così i costi possono essere divisi”.

SMART WORKING PER SEMPRE?

Ma davvero lo smart working svuoterà per sempre del 60% i nostri uffici, come alla banca Mediolanum? “Conviene a tutti, al datore di lavoro e al dipendente. C’è un risparmio da entrambe le parti. Gli unici che ci perdono sono bar e ristoranti, tutto l’indotto intorno ai luoghi di lavoro”, dice ad HuffPost il manager Pier Luigi Celli, ex presidente Luiss e Rai, consigliere d’amministrazione Illy e Unipol. Il lavoro da remoto taglia gli affitti degli uffici e le spese di servizio mensa, pulizie, illuminazione, riscaldamento e telefoni. Il dipendente risparmia su trasporto, pranzo, e non è costretto a vestirsi ogni giorno in giacca e cravatta, dunque risparmia anche sul turnover del vestiario. 

Celli ha collaborato al libro “Il lavoro da remoto - Per una riforma dello smart working oltre l’emergenza” a cura dell’ex ministro del Lavoro Michel Martone: “Siamo di fronte a una rivoluzione, che però necessita di essere governata con intelligenza. C’è bisogno di capi illuminati, che smettano di controllare ossessivamente il lavoratore e si fidino finalmente di lui. Solo così il dipendente sarà più sereno, meno stressato, renderà di più anche lontano dall’occhio vigile del capo, e l’azienda ne guadagnerà. Sono sempre le persone che fanno la differenza”. 

L’anno scorso in Italia lavoravano da casa in 570mila. Nel 2021 saranno quasi otto volte di più: quattro milioni, secondo l’osservatorio “The World After Lockdown” di Nomisma e Crif.

Mauro Suttora


Friday, November 06, 2020

Caos lockdown e Conte: soluzione 'alla Moro'

Serve una soluzione “alla Moro” prima del dramma

Mattarella sta già supplendo a Conte, debolissimo e in balia dei suoi errori. Un cambio politico è nelle cose, il più è che non sia tardi

intervista a Mauro Suttora

di Federico Ferraù

Il Sussidiario, 6 novembre 2020 

Entra in vigore il nuovo Dpcm Conte, le regioni “rosse” non ci stanno. Non c’entra il colore politico, ma quello epidemiologico, deciso sulla base di criteri ritenuti arbitrari dalle regioni confinate in fascia rossa: Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta e Calabria. Qui vigono le restrizioni adottate a livello nazionale (colore giallo) con l’aggiunta di misure più drastiche. Il risultato è un lockdown molto simile a quello di marzo-aprile.

I governatori colpiti criticano i criteri del Cts. “Informazioni vecchie di dieci giorni che non tengono conto dell’attuale situazione epidemiologica”, accusa Fontana (Lombardia); “il governo spieghi la logica di misure diverse per situazioni simili”, ha ribadito Cirio (Piemonte). Ieri la Calabria ha annunciato un ricorso. Intanto i nuovi contagi sono 34.505, i decessi in un giorno 445 (139 in Lombardia), +1.140 (5,2%) i ricoverati con sintomi, +4.961 (1,6%) i dimessi/guariti, +99 (4,3%) le terapie intensive per un totale di 2.391 posti occupati.

Per Mauro Suttora, giornalista, già corrispondente all’estero per varie testate, è Mattarella ad avere salvato Conte e il governo. 

Il presidente del Consiglio è politicamente in terapia intensiva, con il Pd – che manca di coraggio – a controllare il rubinetto dell’ossigeno. Un cambio politico è nelle cose, occorre solo sperare che non sia troppo tardi.

Come mai il governo ha deciso un lockdown basandosi su dati vecchi, risalenti al 25 ottobre? Le regioni protestano.

Si tratta di una montagna di dati che vengono ricondotti a 21 indicatori, dei quali la maggioranza sono stati tenuti segreti fino a due giorni fa. Questa è la prima vera anomalia. Ricolfi chiede da mesi sul Messaggero che siano resi pubblici, non è l’unico, ma il governo ha sempre fatto orecchie da mercante.

Perché?

Non lo sappiamo. Disaggregati, darebbero indicazioni utili, a livello comunale e anche a livello di quartiere per le grandi aree metropolitane.

Ma nessuno protesta.

È una querelle rimasta confinata a livello specialistico. Resta il fatto che in questo modo non sono possibili analisi indipendenti.

I dati, ha detto Conte, sono in possesso delle regioni, che li trasmettono al Cts. Ieri lo ha ripetuto anche Brusaferro in conferenza stampa.

È una presa in giro, perché ogni regione conosce sì i suoi dati, ma non quelli delle altre regioni. Io, lombardo, voglio conoscere tutti i dati che confluiscono nei 21 indicatori ma non posso. Perché? Nessuno finora è riuscito a spiegare sui giornali come si calcola l’Rt. 

Qual è l’Rt ce lo dice il Cts.

Appunto. Dopodiché, sulla base di quei dati, qualcuno chiude l’economia e rovina la vita alla gente.

Oltre alla mancanza di trasparenza, ci sono altri fattori a motivare il ritardo?

Probabilmente sì e sono tutti motivi politici. Se i dati per decidere le zone rosse fossero quelli di oggi, al governo dovrebbero ricominciare il balletto dei tavoli e delle liti, con la Bellanova che vuole tutto aperto e Speranza che invece vuole tutto chiuso.

Come può essere gialla una regione come la Campania?

Dal governo ti risponderebbero che lo è perché De Luca ha già chiuso le scuole, come ha fatto Emiliano in Puglia. Ma allora vuol dire che De Luca, domani, avrebbe, se volesse, la facoltà di riaprirle?

C’è un criterio politico nell’individuazione delle zone rosse?

È evidente che la disparità tra Lombardia e Campania è sconcertante, non tanto nel numero delle infezioni, che sono pur sempre in relazione al numero dei tamponi; ragioniamo piuttosto in termini di ricoveri, terapie intensive e decessi, che sono dati oggettivi.

La tua morale qual è?

Che se dichiari rossa la Lombardia non puoi non dichiarare rossa anche la Campania, che è da un mese in condizioni gravi.

Secondo te nella classificazione possono aver pesato anche le proteste di piazza?

Io credo di sì. Forse è uno dei fattori che non ci dicono… il 22esimo potrebbe essere il fattore C come “camorra”. Il dato politico è che Conte ha fatto il suo tempo. Sta governando Mattarella. È stato lui a fare la riunione con i presidenti delle regioni. 

Come va letto questo passaggio, rimasto per ovvie ragioni ai margini della cronaca politica?

Mattarella è intervenuto a sostenere Conte quando ha capito che da solo non ce l’avrebbe fatta. È stato lui a parlare con Bonaccini e Toti. Oggi (ieri, ndr) ci sono stati 445 morti; dopo l’inchiesta sulla mancata zona rossa di Bergamo, Conte potrebbe dover tornare in procura anche per il secondo lockdown mancato.

Palazzo Chigi è apparso in stato confusionale. Quanto può durare questa situazione?

Conte è in terapia intensiva, ma la manopola dell’ossigeno è nelle mani del Pd. Non hanno il coraggio di trovare l’accordo con Mattarella su un altro nome Pd da mettere come premier.

Chi blocca tutto?

Goffredo Bettini, attraverso Zingaretti. Gli piace sentirsi Richelieu, ha deciso che Conte è un specie di Churchill e che i 5 Stelle sono la nuova anima della sinistra, come fino a qualche mese fa lo erano le sardine. Chi se le ricorda più? Dopo le prossime elezioni diremo: chi si ricorda più del M5s? Per adesso sono ancora il non plus ultra, per Bettini.

Si arriverà ad un governo di unità nazionale?

Forse. È da mesi che ci stupiamo di come il Conte 2 sia ancora in piedi. Più prevediamo scenari alternativi, più rimane al suo posto. L’occasione, strettamente parlando, potrebbe essere accidentale, un incidente d’aula.

Non è anche e soprattutto Mattarella a sostenere Conte?

Certo. È ovvio che non si può andare al voto adesso. La strada maestra sarebbe coinvolgere l’opposizione: Mattarella lo ha invitato più volte a farlo. Conte, però, non lo ha preso sul serio.

Sarà la pandemia a imporre un cambio politico?

Dobbiamo augurarci che non ci si arrivi quando i numeri saranno ancora più drammatici, o quando il disastro economico si abbatterà sul paese.

Il come non è un dettaglio.

Una strada, volendo, si trova sempre. Nel 1978, durante il sequestro Moro, il governo venne esautorato. Ogni sera si riunivano Andreotti, presidente del Consiglio, Galloni per la Dc, Pecchioli per il Pci e pochi altri a decidere tutto quello che c’era da decidere.

Federico Ferraù

Wednesday, November 04, 2020

Gli istinti primordiali dell'America di Trump

La pancia degli Usa stanotte ha di nuovo premiato The Donald, che vinca o perda per un pelo. New York e la California sono ancora un altro mondo

di Mauro Suttora

Huffington Post, 4 novembre 2020


La moglie del miliardario di Manhattan, per dimostrare che anche lei è alla mano, per una volta lascia tranquillo lo chauffeur della sua limousine personale e sale su un ‘crosstown’ bus, quelli che che attraverso Central Park collegano l’Upper East all’Upper West Side. Entra dalla porta anteriore, versa le monetine del biglietto sotto gli occhi dell’autista sudamericano e gli cinguetta democratica: “How are you today?”. Non paga, all’uscita gli sorride di nuovo augurandogli “Have a nice day”.

Ho assistito a questa scena agghiacciante nel 2002, all’inizio dei miei quattro anni di lavoro a New York, e ho capito due cose: l’ipocrisia del politicamente corretto, e la presidenza Trump. Allora c’era Bush junior, ma è lo stesso: la riccona aveva votato a sinistra, e l’autista del bus per il fascistone.

Può darsi che l’azienda di trasporti newyorkese paghi un’indennità ai conducenti per le molestie verbali finto-cordiali che subiscono, però poi quelli si vendicano nel segreto dell’urna. E lo hanno fatto anche ieri premiando di nuovo Trump, che o vince o perde per un pelo.

Ormai lo abbiamo stracapito. Esiste un confine invalicabile fra gli Stati Uniti dei soldi e dei cervelli, della California e di New York, di Silicon Valley, Hollywood e Wall Street, e tutto il resto: contadini dell’Iowa, simpatici burini texani, anticastristi in Florida, operai licenziati a Detroit, patrioti del New Jersey che esibiscono la bandiera a stelle e strisce sulla porta di casa.

Ma non solo. Ho conosciuto bene una trumpiana: la mia ex fidanzata americana. Colta (laurea su Derrida all’università Vanderbilt), cosmopolita (vacanze fra lago di Como e campi di golf inglesi), elegante (villa accanto a quella della famiglia di Grace Kelly, nei quartieri residenziali di Filadelfia).

Se Trump si è impossessato di nuovo della progredita Pennsylvania, deve ringraziare anche lei.

Nonostante il fisico etereo e l’aspetto angelico, era favorevole alla pena di morte: “You get what you give, ricevi quel che dai”, sentenziava biblica. Contraria alla sanità gratis: “Lavori e ti paghi l’assicurazione”. Pro guerra in Iraq: “Vendichiamo le torri gemelle”. Sussidi di disoccupazione? “Solo per qualche mese, poi muovi il culo”. Reddito di cittadinanza: “Are you kidding me, stai scherzando?”. I cinesi? “Bastardi, ci rubano il lavoro”.

L’amore rende ciechi, ma confesso che in fondo ero un po’ affascinato da questi sentimenti primordiali. Gli stessi che hanno conquistato di nuovo metà America stanotte.

Mauro Suttora

Friday, October 30, 2020

La frontiera di Lampedusa è europea, non italiana

Brahim è sbarcato lì prima di colpire a Nizza. Ma Salvini dovrebbe chiedere le dimissioni del direttore di Frontex, non di Lamorgese

di Mauro Suttora


HuffPost, 30 ottobre 2020
 

La Samsung tower di Varsavia è bellissima. Dal sesto al tredicesimo piano ospita Frontex, l’Agenzia europea delle frontiere: mille dipendenti, diecimila previsti fra pochi anni. È nata nel 2005, ora ci costa 420 milioni annui. Coordina, o dovrebbe farlo, tutte le guardie di frontiera e costiere dello spazio Schengen.

Aboliti i confini interni, l’unica frontiera da sorvegliare rimane quella esterna, comune all’intera Europa. Marittima e terrestre: da Lampedusa a Gibilterra, dall’isola di Lesbo al polo nord. Brahim Aoussaoui, l’assassino tunisino di Nizza, avrebbe quindi dovuto essere bloccato dall’Europa, non dall’Italia. Matteo Salvini dovrebbe chiedere le dimissioni di Fabrice Leggeri, direttore di Frontex, e non della nostra ministra degli Interni Luciana Lamorgese.

Se. Se l’Unione europea esistesse. Se gli stati membri non conservassero gelosamente gran parte dei loro poteri, delle loro leggi e delle loro burocrazie. In tanti campi, e anche sulle frontiere.

È assurdo che la Francia sorvegli i propri confini a Modane o Ventimiglia, probabili punti di passaggio di Brahim verso Nizza. Sarebbe come se California e Texas avessero leggi differenti per l’immigrazione dal Messico, e che poi ciascun altro stato Usa cercasse di bloccare i clandestini alle proprie frontiere.

Ma i principali avversari di Frontex e di una gestione unica dei confini europei sono proprio i neonazionalisti che ora protestano contro l’Italia per aver lasciato passare Brahim: i lepenisti francesi, e anche i nostri leghisti e fratelli d’Italia. Tutti gli antieuropeisti che non vogliono delegare a Bruxelles la gestione dei problemi comuni. Compresi i polacchi, che fecero fuoco e fiamme per ospitare l’agenzia Frontex.

La prossima felpa che Salvini indosserà non dovrà quindi essere quella della Guardia costiera italiana, ma quella di Frontex. Perché se si invoca giustamente il superamento del regolamento di Dublino sui migranti, per non addossare tutta la responsabilità sui Paesi mediterranei, occorre anche affidarsi alla Ue per la sorveglianza dei confini. Non si può essere europeisti nei giorni pari e sovranisti in quelli dispari.

Dopodiché, il dibattito fra ‘aperturisti’ e ‘inflessibili’ sull’immigrazione continuerà, ma a livello europeo. È chiara l’assurdità di aver espulso Brahim senza metterlo sul primo traghetto Trapani-Tunisi, ma chiedendogli di tornarsene a casa da solo. Tuttavia, le leggi devono essere uguali ovunque. Altrimenti ogni angolo d’Europa sarà sempre in balia delle politiche cangianti dei governi dei singoli Paesi di frontiera, buoniste o cattiviste a seconda delle convenienze elettorali. E butteremo il mezzo miliardo che spendiamo ogni anno per Frontex, inutile duplicato delle nostre guardie costiere e di confine.

Mauro Suttora

 

Monday, October 26, 2020

Anche stavolta Milano e Venezia restano senza cardinale

NEL SUO SESTO CONCISTORO PAPA FRANCESCO NON DÀ LA PORPORA ALL'ARCIVESCOVO DI MILANO E AL PATRIARCA DI VENEZIA 

di Mauro Suttora

 Huffington Post, 26 ottobre 2020



Non ce l’hanno fatta neanche questa volta. Fra i tredici nuovi cardinali nominati da papa Francesco nel suo sesto concistoro annuale mancano l’arcivescovo di Milano e il patriarca di Venezia.

Da anni ormai Milano, la diocesi più grande del mondo, e Venezia non hanno un cardinale, com’era tradizione da secoli. Eppure tutti gli ultimi papi italiani tranne il romano Pacelli sono venuti da Milano e Venezia: Roncalli, Montini, Luciani, Ratti, Sarto (San Pio X), nonché Martini, papabilissimo se non si fosse ammalato.

È un piccolo sgarbo alla chiesa italiana, che si somma all’assenza di cardinali in altre sedi normalmente cardinalizie, come Torino o Palermo.

L’unica ragione plausibile è che Bergoglio attenda gli 80 anni del cardinale Scola, ex di Milano e Venezia, che ancora per un anno è nel collegio degli elettori in caso di conclave.

Papa Francesco ha effettuato scelte singolari nei suoi sette anni di pontificato: ha dato la porpora a figure di secondo piano, o addirittura imbarazzanti come Becciu nel 2018. Sono così diventati cardinali vescovi di Tonga (15mila cattolici su centomila abitanti), Mauritius, Papua Nuova Guinea, Laos.

Il Brasile invece, con 41 milioni di fedeli su 164 milioni di abitanti, può contare su soli quattro cardinali: gli altri cinque sono ultraottantenni, quindi in pensione. Anche il Venezuela ha un solo porporato. Per non parlare di interi Paesi senza cardinali, nonostante abbiano milioni di fedeli: 12 in Ecuador, 11 in Uganda, 8 in Angola.

Naturalmente il Collegio cardinalizio non funziona come un Parlamento mondiale della Chiesa cattolica. Oltre ai criteri di rappresentanza numerica, il papa tiene conto di altri fattori. Per esempio la valorizzazione delle periferie, o singoli vescovi premiati per la loro opera pastorale, o apporto intellettuale e di devozione.

Papa Francesco sembra avere un debole per l’Asia. Possono contare su un cardinale la Birmania, nonostante abbia solo mezzo milione di cattolici su 50 milioni di abitanti (l’1 per cento), la Thailandia, con 300mila fedeli su 60 milioni, e il Vietnam, con otto milioni di cattolici su 80. Invece l’arcidiocesi di Milano, nonostante i suoi quasi sei milioni di pecorelle, può aspettare.

Mauro Suttora

Sunday, October 25, 2020

La Francia vuole il monte Bianco? De Gaulle rivendicava tutta la val d'Aosta

PARTIGIANI E FASCISTI ALLEATI NEL 1945 CONTRO I FRANCESI

di Mauro Suttora 

HuffPost, 24 ottobre 2020

I francesi vogliono prendersi il monte Bianco? In realtà se ne impossessò già nel 1796 il 26enne Napoleone, dopo aver sconfitto i piemontesi. Impose loro di cedere Nizza e Savoia alla Francia repubblicana, e si tenne la vetta più alta del massiccio. Al regno di Sardegna rimase la cresta minore del monte Bianco di Courmayeur, trecento metri a sudest, più bassa di 45 metri. La restaurazione del 1815 restaurò anche il confine geografico naturale dello spartiacque: il confine interno che separava da sempre i ducati di Savoia e d’Aosta.

La seconda cessione della Savoia alla Francia, questa volta volontaria, è com’è noto quella del 1860. E le cartine parlavano chiaro: la frontiera passava sulla vetta più alta. Ma adesso i francesi, un po’ comicamente, affermano di non essere più in possesso di quella cartografia, che sarebbe stata loro sottratta addirittura dai nazisti durante l’occupazione di Parigi.

Quel che pochi oggi ricordano, è che il generale De Gaulle avrebbe volentieri ingoiato l’intera Val d’Aosta. Con il consenso di molti valdostani, che avevano subìto l’italianizzazione forzata del ventennio fascista: lingua francese proibita, toponimi stravolti, La Thuile che diventa Porta Littoria. Giustamente offeso per la ‘pugnalata alle spalle’ mussoliniana del 10 giugno 1940, con l’attacco alla Francia moribonda, De Gaulle voleva vendicarsi. Così il 25 aprile 1945 ordina ai suoi soldati di “liberare” Aosta. Gli alleati angloamericani danno ai francesi il permesso di sconfinare in Italia per non più di venti chilometri. Invece loro scendono dal Piccolo San Bernardo e dilagano nella val di Rhêmes.

A quel punto, però, l’invasione francese provoca una reazione incredibile: l’unico caso al mondo di alleanza fra partigiani e fascisti. Il comandante della resistenza valdostana Augusto Adam ordina ai suoi di opporsi ai francesi, e contemporaneamente di non sparare più agli alpini di Salò contro i quali fino al giorno prima hanno combattuto fino alla morte, ma che continuano a difendere il confine. Una volta bloccato il nuovo comune nemico, chiede ai repubblichini di ritirarsi “il più lentamente possibile” verso Aosta, per dare tempo agli angloamericani di intervenire posizionandosi a Pré Saint Didier.

Durante il mese e mezzo di occupazione, fino al 10 giugno 1945, i francesi commettono un grave errore. Nelle zone che amministrano si comportano come i fascisti: lingua italiana vietata, angherie, ostacoli al rientro a casa degli ex combattenti. Così gli annessionisti filofrancesi valdostani, pur avendo raccolto ventimila firme per un referendum, perdono forza. E prevalgono i partigiani filoitaliani guidati dall’illustre storico Federico Chabod: la Val d’Aosta rimane italiana in cambio di bilinguismo e forte autonomia, innaffiata da generosi finanziamenti come in Trentino-Alto Adige.

Sulla costa ligure i soldati francesi occupano Ventimiglia, Camporosso e Vallecrosia, arrivando fino a Bordighera. Un plotone di coloniali senegalesi si spinge fino a Imperia per qualche giorno. Ma i francesi si ritirano dopo quasi tre mesi, il 18 luglio 1945, in seguito a un ultimatum del presidente Usa Truman verso il troppo esuberante De Gaulle. Il quale aveva anche vagheggiato di rivendicare in Piemonte metà val Susa, val Chisone e val Varaita, francesi fino al trattato di Utrecht del 1713. Ma alla fine si deve accontentare di Briga, Tenda, e dei passi Monginevro e Moncenisio.

Mauro Suttora 

Conad socia di Mincione (Vaticanogate)

COSA CI FA IL FINANZIERE D'ASSALTO NELLA SOCIETA' CHE HA RILEVATO I SUPERMERCATI AUCHAN?

di Mauro Suttora

23 ottobre 2020

"Conad, la comunità. Un supermercato non è un’isola. Persone oltre le cose”. Questi sono i rassicuranti slogan con cui la più grande catena italiana di supermercati si presenta ai suoi clienti. 

Ma dopo l'arresto di Cecilia Marogna, la cosiddetta "dama del cardinale Becciu" accusata di aver speso anche in negozi di lusso mezzo milione dal fondo per la carità del Vaticano, cresce l'imbarazzo fra i soci della cooperativa della grande distribuzione. Da un anno infatti Raffaele Mincione, finanziere di Pomezia, è diventato socio della Conad al 49% nella società che ha rilevato gli ex supermercati Auchan. E anche Mincione è indagato per corruzione nel Vaticano-gate. Nel 2012 acquistò con 25 milioni di fondi di terzi un lussuoso palazzo di Sloane Avenue a Londra, rivenduto due anni dopo alla Santa Sede al triplo del prezzo. Nel 2013 il vicepresidente Enasarco (l'ente previdenziale degli agenti di commercio) si dimise denunciando la gestione dei fondi affidati dall'ente a Mincione. Che si lanciava in operazioni spericolate che pare siano costate una ventina di milioni sulla banca Montepaschi, e poi fallendo scalate da centinaia di milioni a Bpm (Banca popolare di Milano) e Carige (Cassa di risparmio Genova).

In luglio a Mincione la procura antimafia di Roma ha sequestrato telefonino e ipad. Peggio è andata al faccendiere molisano Gianluigi Torzi, arrestato per estorsione: nel 2018 era riuscito a farsi dare dalla segreteria di stato vaticana di cui il cardinale Becciu era sostituto (vice del segretario Parolin) altri 15 milioni per farla uscire dalla sfortunata speculazione londinese.

Ma come si sono incrociate le strade di Conad e Mincione? Nel 2019 la famiglia miliardaria Mulliez, la terza più ricca di Francia, si disfa della sua catena italiana Auchan (78 iper, 168 super, i negozi Simply), in perdita da anni per 700 milioni dopo averla rilevata da Sma. E Conad, in nome dell'italianità, è fiera di subentrare. Anche perché, a conti fatti, pur di andarsene i Mulliez quasi regalano i supermercati Auchan a Conad.

C'è però il problema dei 18mila dipendenti: troppi, da ridurre drasticamente. Almeno tremila esuberi. E i Mulliez non vogliono accollarsi il lavoro sporco. Hanno un'immagine da difendere, perché in Italia controllano ancora le catene Decathlon, Leroy Merlin, Castorama, Brico.

Neanche Conad intende intaccare la propria reputazione di 'responsabilità sociale', e allora crea una società apposita con Mincione al 49%: al finanziere d'assalto interessano gli immobili che ospitano gli ex iper e supermercati Auchan, valutabili in circa 700 milioni. 

Con l'aiuto di virus, cassa integrazione e incentivi, l'operazione viene conclusa in pochi mesi: vengono fatti fuori centinaia di lavoratori, spesso donne con famiglia a carico. Convinti alle dimissioni con buonuscite misere, anche di sole tre mensilità. In particolare fra i 900 dipendenti degli uffici centrali Auchan di Rozzano (Milano) è una strage.

Ma com'è possibile che manager accorti e sperimentati come quelli Conad si siano portati in casa un personaggio chiacchierato come Mincione? 

"L'amministratore delegato Pugliese ha compiuto un ottimo lavoro in questi anni, dando a Conad un'immagine unitaria", dice a HuffPost Luigi Rubinelli, direttore del sito specializzato Retailwatch. "Probabilmente non ha verificato bene le credenziali di Mincione". Il quale, peraltro, prima dello scandalo vantava proprio le sue entrature in Vaticano come biglietto da visita per farsi strada.


Ora, superato lo scoglio antitrust con la vendita di vari supermercati ad altri marchi, Conad ha superato le Coop ed è diventata la prima catena in Italia, con una quota del 18% e ben 17 miliardi di fatturato. Sperando di superare anche lo scoglio Mincione.

Mauro Suttora