Monday, May 23, 2016

Perché Pannella non lo votava nessuno?

ALLE ULTIME ELEZIONI DEL 2013 I RADICALI HANNO PRESO LO 0,3%

di Mauro Suttora

Oggi, 25 maggio 2016

Ma chi era veramente Marco Pannella? Come mai abbiamo santificato un uomo politico al quale nelle ultime elezioni, tre anni fa, abbiamo dato appena lo 0,3% dei nostri voti?

Nel 2013 i radicali non sono riusciti neppure a raccogliere le firme per presentarsi in metà delle regioni. Perciò oggi, quando la sua compagna Emma Bonino dice che «alcuni omaggi sanno di ipocrisia», si riferisce a tutti gli italiani, e non solo ai politici: «Amateci di meno e votateci di più», ha invitato, da concreta piemontese.

Il problema è che i radicali sono sempre stati un disastro, nelle urne. Il partito fondato  60 anni fa da Pannella ed Eugenio Scalfari (fra gli altri) alle prime politiche nel 1958 racimolò appena l’1,4%. Ed era alleato con i repubblicani, che da soli al voto precedente avevano preso l’1,1. Quindi, anche allora valevano lo 0,3%.
Alle comunali del ’60 riuscirono a eleggere l’attore Arnoldo Foà a Roma e Scalfari con lo scrittore Elio Vittorini a Milano (a Torino candidavano Norberto Bobbio). 

Un risultato che sperano di replicare il prossimo 5 giugno, sull’onda del ricordo di Pannella: Marco Cappato corre a Milano e il segretario di Radicali Italiani Riccardo Magi a Roma, in una lista di appoggio al pd Roberto Giachetti (ex radicale). 
Ma dovranno superare il 3%. E questo è successo solo tre volte nella storia: nel 1979 con Leonardo Sciascia, nell’84 grazie a Enzo Tortora, e nel ’99 con la lista Bonino che toccò l’8%.

Come mai Pannella non lo ha mai votato quasi nessuno? La risposta, curiosamente, arriva dal cantante Enrico Ruggeri. Che radicale non è, ma nel 2003 presentò a Sanremo la canzone Nessuno tocchi Caino contro la pena di morte (una delle innumerevoli campagne radicali): «A Pannella non interessava il consenso. Tutti i politici parlano con lo scopo di essere votati, lui no. Lui voleva solo ottenere risultati per le sue iniziative».

Lo spiegava Pannella stesso: «Io non “faccio” politica. Non “prendo posizioni”. Io lotto». Eppure non era un antipolitico come Beppe Grillo. Al contrario: prese la sua prima tessera di partito (liberale) a 15 anni, nel 1945. E per tutta la sua vita è stato un politico a tempo pieno, tranne qualche anno come giornalista (per Il Giorno nel 1959-62 e per l’Espresso nel 1973, quando seguì Mitterrand in Francia).

Ma ha sempre combattuto i politici se degenerano in Casta. Trent’anni prima del fortunato libro di Rizzo e Stella lottava contro la «partitocrazia» e il finanziamento pubblico ai partiti (quasi vinto il primo referendum del ’78). Per questo è riuscito a mantenere la fama di politico atipico e onesto.

Lo stesso è successo per un’altra battaglia di Pannella: l’anticlericalismo. Come mai è diventato amico di papa Francesco, lui legalizzatore di aborto e divorzio, superlaico, fautore dell’eutanasia, che ancora pochi anni fa sventolava cartelli “No Vatican no Taleban” contro il cardinale Ruini che lo aveva sconfitto nel referendum sulla fecondazione assistita del 2005? «Perché il clericalismo è solo una degenerazione del vero sentimento religioso. E noi radicali siamo sempre stati credenti. In altro che nella “roba”».
Mauro Suttora


Friday, May 20, 2016

Pannella/Bonino: un amore finito male

DOPO LA MORTE DI MARCO, EMMA FA PACE. TROPPO TARDI

di Mauro Suttora

Libero, 20 maggio 2016

Lui ha fatto politica per 70 anni: prima tessera da quindicenne (liberale) nel 1945. Lei esordì 40 anni fa, con un aborto e un arresto. Lui si portava appresso 120 chili (se non digiunava) per 190 cm. di altezza. Lei ne pesa 50 per un metro e 60. Agli antipodi anche la parlantina: barocco e fluviale lui, concreta e concisa lei.

Apostoli della democrazia diretta, dal 1974 hanno raccolto 67 milioni di firme per 122 referendum. Ne hanno vinti 35: divorzio, aborto, finanziamento pubblico ai partiti, obiezione di coscienza alla naja, voto ai 18enni, caccia, chiusura manicomi e centrali nucleari…

Marco Pannella ed Emma Bonino: dall’alto del proprio due per cento hanno cambiato la storia d’Italia dal 1970 a oggi. Sono il contrario di Beppe Grillo, loro imitatore: senza voti (e dal 2013 senza deputati) contano molto, mentre i grillini hanno tanti voti ma contano poco.

Formavano una coppia inossidabile. In tanti avevano cercato di separarli. Nel 1999, dopo il successo della lista Bonino alle europee (secondo partito col 12% al nord), Silvio Berlusconi definì Emma «protesi di Pannella».

Ma lei fino all'estate scorsa era rimasta fedele all’uomo che la fece entrare in Parlamento a 28 anni, con gli zoccoli da femminista. Uniti perfino dai tumori: entrambi ai polmoni, più una metastasi al fegato per Marco.

Fegatoso era stato l’attacco di lui a lei: «Non viene più alle riunioni di partito, non sappiamo che faccia». In realtà la Bonino è di nuovo attiva, superato il cancro con la chemio. Solo che, andando per i 70, si è stufata delle mattane del suo mentore.

Pannella negli ultimi 15 anni ha «adottato» un giovane radicale, Matteo Angioli, con cui ha convissuto in un rapporto socratico-platonico. Lo ha promosso all’interno del partito, fra mugugni vari. E ha rivelato che Bonino si è opposta alla pubblicazione di un loro epistolario.

Gelosia? Pannella è bisessuale: «Ho amato molto quattro uomini, ho avuto figli da due donne», ha confessato. Fra Marco ed Emma non c’è mai stato nulla di sentimentale. Quindi non è stato l’amore ad allontanarli, ma la politica.

Negli ultimi due anni Pannella si era fissato con «il diritto alla conoscenza e la transizione dei Paesi occidentali verso lo stato di diritto». Ha fatto organizzare al suo Matteo e all'ex ministro finiamo degli Esteri Giulio Terzi (predecessore della Bonino alla Farnesina) convegni sull’astruso tema, invitando a Bruxelles, a Roma e a Ginevra (la scorsa settimana) politici e ambasciatori stranieri.

«Emma non si era mai sottratta alle iniziative più strampalate di Marco», commenta Roberto Cicciomessere, già suo compagno e segretario radicale. Ma da un anno non collaborava più. Per lei ormai Pannella era zavorra. Da vent’anni vola nei sondaggi è stata due volte ministro, commissaria Ue (Pannella nel '94 la impose a Berlusconi che stava per mandare a Bruxelles Napolitano). Prima del tumore era perfino fra i favoriti per il Quirinale, al posto di Mattarella (apprezzata anche dai grillini).

Da piemontese leale e disciplinata, non ha mai polemizzato pubblicamente con Pannella. Versa ancora al partito radicale 2.500 euro al mese. «Ma se ne sta coi suoi amici del jet set», brontolava Marco: dalle sorelle Fendi a George Soros, che appoggiano la decennale battaglia della Bonino contro le mutilazioni genitali femminili.

A rimanere mutilati nell'ultimo anno sono stati i radicali: «Per noi Emma era la mamma e Marco il papà», geme l’ex deputato Marcello Crivellini. 

Ultimo strappo: le liste radicali alle comunali del 5 giugno. I boniniani Marco Cappato e Riccardo Magi si presentano a Milano e a Roma. I pannelliani Maurizio Turco e Sergio D'Elia non sono d'accordo. Ormai le due correnti litigano.

Emma non ha mai voluto vedere Marco durante gli ultimi mesi, nella mansarda in via Panetteria dove tutta Italia è andata in pellegrinaggio, da Renzi a Berlusconi. Ieri ha commentato commossa a Radio radicale la sua scomparsa: «Pannella ci ha insegnato molto, mancherà anche ai suoi avversari. È stato amato, ma non ha mai avuto riconoscimenti adeguati». 

Insomma, anche i monumenti divorziano. E figurarsi se non poteva farlo la strana coppia che ha regalato la legge sul divorzio all'Italia.
Mauro Suttora

Wednesday, May 18, 2016

Cos'è Casa Pound?

ECCO I FASCISTI DEL TERZO MILLENNIO A Bolzano hanno superato il 6%, con tre eletti. Orasi presentano a Roma, Torino, Milano e Napoli. Un anno fa stavano con Salvini. Adesso l’estrema destra è tornata sola. Ma l’ha sdoganata perfino la Boschi

Oggi, 18 maggio 2016

di Mauro Suttora

Difficile far somigliare una tartaruga a una svastica. Ci provano, con un simbolo nero su sfondo rosso, come nelle inquietanti bandiere naziste, i «fascisti del terzo millennio» (autodefinizione) di CasaPound.

Il movimento ha ottenuto un clamoroso 6% al voto di Bolzano, eleggendo tre consiglieri comunali. E ora guarda con speranza al 5 giugno, quando presenterà proprie liste a Roma, Torino, Latina e Lanciano (Chieti). A Milano c’è un’alleanza con il candidato sindaco Nicolò Mardegan (ex An, Pdl e Ncd), a Napoli con Marcello Taglialatela (deputato Fdi), a Sulmona (L’Aquila) con la lista Sovranità.

A dare una mano alla notorietà dei neofascisti si è aggiunta Maria Elena Boschi: ha accusato i propri colleghi Pd di «votare come CasaPound» se diranno no alla riforma costituzionale nel referendum di ottobre. «Ringrazio per lo spot, le manderò un mazzo di rose rosse», ha replicato alla ministra Simone Di Stefano, vicepresidente dei casapoundini.

Ma cos’è CasaPound? E perché si chiama così? Tutto è iniziato nel 1994, quando il Msi (Movimento sociale italiano) andò al governo con Silvio Berlusconi e si trasformò in An (Alleanza nazionale).

I missini più estremisti rifiutarono la svolta, e si frantumarono in partitini come Fiamma Tricolore, La Destra, Forza Nuova. I movimentisti si diedero a lotte sociali, e nel 2003 occuparono un palazzo a Roma, in via Napoleone III, fra la stazione Termini e Santa Maria Maggiore: casa Pound, appunto, in ricordo del poeta fascista statunitense Ezra (riquadro nella pagina seguente).

Perché proprio Pound? 
«Per le sue teorie economiche», spiega a Oggi Di Stefano, «perché era contro l’usura delle banche e voleva che il popolo si riappropriasse della moneta nazionale». Teoria propagandata negli anni 90 dal professor Giacinto Auriti e fatta propria anche da Beppe Grillo.

Nel 2008 Gianluca Iannone, musicista e presidente di CasaPound, si candida con La Destra di Daniela Santanché e Francesco Storace. Alle politiche 2013 ottengono 47mila voti (0,14%), un po’ più della Fiamma di Luca Romagnoli e la metà di Forza Nuova di Roberto Fiore, entrambi detestati.

Con Mario Borghezio

Due anni fa alle europee fanno eleggere il leghista Mario Borghezio e inizia la collaborazione con Matteo Salvini, culminata con il comizio comune a piazza del Popolo nel febbraio 2015. Poi però la Lega preferisce tornare all’alleanza con il Pdl, vittoriosa alle regionali in Veneto e Liguria.

La nuova spaccatura nel centrodestra per le comunali di Roma, con Berlusconi e Marchini da una parte e Salvini e Giorgia Meloni dall’altra, non ha fatto rientrare nei giochi CasaPound, che nella capitale spera di ottenere almeno un seggio con il 3,5%: «In realtà Salvini ha messo la Meloni a friggere», maligna Di Stefano, «e lei c’è cascata con tutte le scarpe».

A Milano invece il centrodestra si presenta unito con Stefano Parisi. Il quale rifiuta qualsiasi contatto con l’estrema destra, e ha protestato per la presenza nelle liste della Lega del neofascista 25enne Stefano Pavesi.

Così, i candidati di CasaPound hanno trovato ospitalità nella lista Noi x Milano dell’avvocato Mardegan. Seconda capolista è Angela De Rosa: «Priorità alla lotta contro l’immigrazione e i rom, e per la sicurezza».
Ma questo lo dicono anche Lega e Fratelli d’Italia.
«Sì, ma cosa potranno fare, alleati con i moderati di Forza Italia?»
E allora voi mettetevi con Forza Nuova.
«No, loro sono confessionali».
In che senso?
«Cattolici. Sono contro le unioni gay».
Ah, voi siete a favore?
«Sì, siamo laici. Ci opponiamo solo alle adozioni».
Ma in lista con voi a Milano c’è il Popolo della famiglia dell’integralista Mario Adinolfi.
«È solo un’alleanza tecnica».

CasaPound in Italia ha duemila tesserati (15 euro l’anno), sedi in ogni regione, 15 librerie, venti pub, otto associazioni sportive (pallanuoto, hockey, immersione, moto, ma anche le più marziali paracadutismo e pugilato del “circolo combattenti”), web radio e tv.

Contro i centri sociali

Senta, Di Stefano, anche quest’anno, come ogni 29 aprile, alla commemorazione per il vostro martire Sergio Ramelli a Milano c’erano cortei contrapposti, tensione, traffico bloccato, elicotteri della polizia.
«Lo dica ai centri sociali, che vengono sempre a disturbarci».
Ma sono passati 40 anni ormai.
«E ne sono passati 70 dalla fine della guerra civile, anche noi vorremmo andare oltre».

«Oltre», per CasaPound, significa chiudere le frontiere agli immigrati, cacciare i rom di nazionalità non italiana, mutuo sociale (senza interessi), e soprattutto «sovranità». Ovvero: no euro. In questo siete uguali ai grillini. «No, siamo l’esatto contrario: crediamo nella politica, non siamo antipolitici e qualunquisti».
Mauro Suttora

EZRA POUND: 12 ANNI DI MANICOMIO CRIMINALE AL POETA USA MUSSOLINIANO

È stato uno dei maggiori poeti del Novecento, e solo le sue idee politiche gli hanno impedito di vincere il Nobel. Ezra Pound, nato nell’Idaho, visse dal 1925 al ’45
a Rapallo (Genova).

Era contro il marxismo e il capitalismo. Incontrò una sola volta Mussolini, nel ’33, ma ne rimase affascinato e lo paragonò a Jefferson, terzo presidente Usa. Durante la guerra tenne 600 discorsi di propaganda per il regime alla radio italiana, attaccando «gli ebrei, banchieri usurai». Aderì alla Repubblica di Salò, nel ’45 fu arrestato e consegnato agli americani.

Subì un tracollo mentale, gli fu diagnosticata una schizofrenia e passò 12 anni in un manicomio criminale a Washington. Nel 1957 i suoi amici Hemingway e Robert Frost riuscirono a farlo liberare, e Pound tornò in Italia. Morì a Venezia nel ’72, dov’è sepolto, circondato dall’affetto di poeti come Ferlinghetti e Pasolini.

Nel 2011, dopo due omicidi razzisti avvenuti a Firenze, la figlia di Ezra Pound ha dichiarato di procedere per vie legali contro CasaPound perché riteneva infangato il nome di suo padre: «Un’organizzazione politica compromessa come questa non ha nulla a che fare con lui».
Mauro Suttora

Friday, May 06, 2016

Terremoto in Friuli 40 anni dopo

IL SISMA DEL 6 MAGGIO 1976 NELLE PAROLE DEGLI STESSI SOPRAVVISSUTI, ALLORA E OGGI

di Mauro Suttora

Oggi, 6 maggio 2016



«La casa, vecchia, era mia. Proprio al numero 24 di via Properzia, a Gemona. L’avevo sistemata di recente e da pochi mesi mi ero comperato la sala da pranzo nuova. Adesso non c’è più casa, né mobili, né via, né contrada, né amici. Tutto distrutto, cancellato. Non abbiamo nemmeno lacrime da piangere perché bisogna preoccuparsi del futuro.

«È andata così. Verso le 9 di sera di giovedì 6 maggio, conclusa la cena, ero andato dabbasso a chiudere la porta. E qui ho avvertito la prima scossa del terremoto. Ho gridato: “È il preannuncio, verrà subito la seconda scossa, scappiamo!”.

«Sono salito e ridisceso a balzi, spingendo avanti mia moglie Luigia, tirandomi dietro i nostri due figlioletti, Stefano di 12 anni e Gabriele di 10. Mia madre Rosa, meno pronta a muoversi per l’età avanzata, 73 anni,
era rimasta indietro. Sono tornato a prendere pure lei. Incredibile. Il tutto in una ventina di secondi. 
Varco la soglia: si scatena il finimondo. La mia e le case vicine si sbriciolano con una serie di schianti tremendi, una grossa pietra sfiora tutta la mia famiglia mentre un’altra, più piccola, mi cade sulla testa.

«PER UN’ORA SI SENTE GRIDARE “MAMMA, MAMMA!”»

«Mia madre, sofferente di cuore, viene ferita alla testa e alle gambe. S’innalza un polverone che acceca, divampa un coro di urla, invocazioni, gemiti. Per un’ora non si sente che gridare “Mamma, mamma!”. 
Buio e orrore. Incontro sul cancello della sua casa mio fratello, mezzo morto. Ma purtroppo non ho il tempo di occuparmi di lui. Il mio bambino più piccolo è bagnato di sangue: per fortuna è il mio, che esce dalla ferita.

«Con la prima auto, all’ospedale di Udine: medicano me, suturando la ferita con vari punti, ma non possono accogliere la mamma perché sono già al completo. Altra corsa, al policlinico di Palmanova, lascio la mamma in buone mani per tornare in paese. Contiamo 13 morti dalla nostra parte della strada e 23 accanto».

Così raccontava Luigi Londero, 44 anni, dipendente della Solari di Udine, agli inviati di Oggi in Friuli nel maggio 1976. Il terremoto aveva fatto quasi mille morti. Londero è scomparso nel 2007.

Il suo figlio minore Gabriele, che fotografammo con lui, oggi maresciallo dei Carabinieri a Udine dopo aver girato l’Italia (Milano, Bolzano, Roma, Vicenza, Modena, Paularo in Carnia), ricorda adesso quei drammatici giorni:

«Nostro padre ebbe quasi un presentimento e ci spinse subito fuori. Oltre la soglia della porta c’era l’inferno. Noi ragazzini eravamo già in pigiama, a piedi nudi. Andammo al centro del cortile, lontano dai muri che potevano ancora crollare. Nel buio sentivamo solo preghiere e pianti.

«TENDE DI NYLON, POI FUGGIMMO IN CANADA»
«Quella notte raggiungemmo scalzi un fienile in campagna e dormimmo lì. Poi ci sistemammo in tende di nylon vicino a casa. Dopo qualche giorno mio fratello ed io andammo in Canada da mio zio, che era emigrato lì vent’anni prima con mio padre. Tornammo il 10 settembre, e proprio l’11 ci fu la replica del terremoto.

«Il boato e la paura furono peggio della prima volta. Ci evacuarono a Lignano, e lì abitammo per tutto l’inverno. Io facevo la prima media. Poi ci misero in prefabbricati donati dalla Slovenia, fino al 1981.

«In questi 40 anni ho assistito alla rinascita e al miracolo economico del Friuli. Ricostruimmo prima le fabbriche, e poi le case. Sono sposato e ho due figli, di 17 e 7 anni. Nel 2002 sono andato come volontario della Croce Rossa a soccorrere le vittime del terremoto in Molise. Momenti che non si dimenticano, purtroppo».

«SIAMO VOLATI DALL’ATTICO GIÙ NELL’ORTO»

Da Gemona a Majano, pochi chilometri a sud: «La sera del 6 maggio ero nel nostro appartamento, un semiattico del condominio Astor, al quinto piano», raccontava a Oggi 40 anni fa Marcella Cozzutti.

«Mio marito, che ha l’ufficio quasi di fronte, sul lato opposto della strada, mi aveva telefonato che avrebbe fatto tardi. Lo aspettavo per cenare. Erano con me nella sala da pranzo i miei figli Alessandra di 12 anni, Marco di 11
e Ilaria di 4. Giusi, 8 anni, leggeva il giornalino nella camera vicina.

«Arriva la prima scossa, noi quattro usciamo sul terrazzo cercando di parlare con i vicini: non ero sicura che fosse il terremoto. Grido verso Giusi: “Vieni, scappiamo!” E lei: “No, non è il terremoto, sono tuoni”. Ed ecco che
mi sento spintonata di qua e di là da una forza immane, tutto scricchiola e crolla mentre piomba il buio.

Ho pensato soltanto: “Stiamo morendo”. Finisco distesa. Marco mi afferra per le gambe gridando: “Mamma, resta qui”. Ritorno in piedi. Fra tanto terrore e caos avevo la sensazione di essere ancora in cima al palazzo. Invece Marco mi avverte: “Mamma, siamo finiti nell’orto”. Era vero. Con un piccolo salto, come scendere uno scalino, mi sono ritrovata sull’erba.

«Comincio a toccare e a contare i figli. Finché Giusi, che non era con noi, ma tra ciò che restava della stanza di fianco, mi dice con voce nemmeno spaventata: “Mamma, mamma, sbrigati a tirarmi fuori di qui, sono piena di calcinacci”. Insomma, 18 appartamenti afflosciati, spariti di colpo, e 25 morti. Noi, i bambini e io, incolumi.

«Mio marito, sceso dall’ufficio, tra il buio e la polvere non riusciva più a orizzontarsi. È andato avanti e indietro per qualche minuto prima di accorgersi che il condominio non esisteva più. Ha scorto Agostino, un vicino di casa che ha perduto la moglie sotto le macerie.

Dice lui: “Coraggio, Dino, sono morti tutti. Dobbiamo rassegnarci”. Ribatte mio marito: “No, io cerco. Ho speranza”. Mi chiama, lo sento e gli rispondo. L’appartamento era nostro, l’abbiamo perduto con i mobili. Poi i ladri mi hanno rubato i gioielli: ho ritrovato le scatolette, vuote».

«ABBIAMO PAGATO IL MUTUO PER ALTRI 30 ANNI»

«Il nostro condominio, costruito solo pochi anni prima, è crollato perché sotto c’era una faglia d’acqua», ci spiega adesso Alessandra Cozzutti, figlia di Marcella. Sposata, due figli grandi, abita nel paese accanto
a Majano, San Daniele, ma lavora sempre col padre commercialista.

«Andammo a vivere prima in roulotte, poi in una baracca fino al 1984. Abbiamo finito di pagare il mutuo per la casa crollata solo dieci anni fa, non abbiamo avuto risarcimenti. E ne abbiamo dovuto fare un altro per la casa nuova. Ma non ci lamentiamo. 
Mia madre è originaria di Trapani, ai terremoti era abituata.
Ma quello del settembre 1976 ci fece ancor più paura del primo, anche se non ci furono morti. E oggi ricordiamo quei giorni allo stesso tempo con dolore, ma anche con nostalgia. Perché eravamo giovani, con tanta energia per ricostruire».

Un benemerito della ricostruzione fu Giuseppe Zamberletti, il politico democristiano di Varese (oggi 82enne) che la coordinò come commissario.

Il terremoto del Friuli, contrariamente ad altri prima e dopo (Belice, 1968, e Irpinia, 1980) non provocò polemiche. Dopo pochi anni i paesi sono rinati, senza sprechi o tangenti. E negli Anni 80 il boom della produzione di mobili e vino ha reso ricco il Friuli.

Mauro Suttora

Wednesday, May 04, 2016

Roma ci costa mezzo miliardo all'anno

Il buco finanziario della Capitale è pagato da tutti gli italiani, oltre che dai romani tassati con l’addizionale Irpef più alta d’Italia

Oggi, 4 maggio 2016

di Mauro Suttora

«Roma ha 2700 anni di storia e da 145 è la capitale del paese. È la città con il patrimonio culturale più ricco del mondo, e tra le più visitate. Ma l’ex Caput Mundi è in una situazione drammatica, con una classe politica dimezzata dagli scandali e una macchina amministrativa devastata da clientele, inefficienza (assenteismo con punte del 30 per cento) e dalle inchieste che ne hanno messo a nudo la corruzione sistematica».

Così Daniele Frongia (consigliere comunale 5 stelle) e la giornalista Laura Maragnani iniziano il loro libro E io pago (ed. Chiarelettere), in cui fanno tutti nomi e le cifre del disastro Roma.

Tassa di 7 euro in hotel

«Un disastro che non riguarda più solo i romani, che ormai pagano le tasse locali più alte d’Italia (l’addizionale Irpef arriva al 9 per mille!) in cambio di servizi indegni di una città civile. Roma è un danno per l’Italia intera, di cui è l’indecente biglietto da visita, e una sciagura economica per tutti i contribuenti, che dal 2008 sono costretti ogni anno ad accollarsi il finanziamento salva-Roma.

È una gabella che ammonta a 300 milioni di euro, più un euro di sovrattassa su tutti coloro che transitano dagli aeroporti di Ciampino e Fiumicino, e dai 3 ai 7 euro a notte per i turisti negli alberghi della città. E sono altri 200 milioni», scrivono Frongia e Maragnani.

Insomma, Roma costa all’Italia oltre mezzo miliardo solo per ripianare il buco che si è lasciata alle spalle. Francesco Rutelli (sindaco dal 1993 al 2001) trovò 3,6 miliardi di debiti. Con Walter Veltroni (2001-8) sono saliti a sette, e dopo Gianni Alemanno (2008-13) e Ignazio Marino, ora ammontano a 13,6 miliardi.

Ogni sindaco ha qualcosa sulla coscienza. Cattedrali nel deserto come la “Città dello sport” dell’archistar Calatrava, voluta da Veltroni, “grande opera” gestita da Guido Bertolaso: doveva essere pronta per i mondiali di nuoto 2009, ora provano a resuscitarla per le olimpiadi 2024, ma sta già cadendo a pezzi a Tor Vergata. È costata 600 milioni, il preventivo era 60.

La Nuvola di Massimiliano Fuksas all’Eur: 300 milioni di scostamento tra previsione e consuntivo. La nuova Fiera di Roma: 360 milioni. La metro C ha già sfondato i preventivi per 800 milioni, e chissà se verrà mai terminata: rischia di non arrivare a San Pietro.

E poi: i 400 milioni che il Comune avrebbe potuto incassare dai vari condoni, e che nessuno ha mai visto. I milioni per Imu, Ici più altri «tributi non pagati dal Vaticano» e i «servizi non dovuti (non previsti dai Patti Lateranensi) che vengono offerti gratuitamente alla Chiesa» sono 400.

Morosi 8 inquilini su 10

Basterebbe far pagare gli affitti degli immobili comunali per riportare il bilancio in attivo, senza saccheggiare ulteriormente le tasche degli italiani. L’80 per cento degli inquilini è moroso. Su 55mila beni di proprietà comunale, c’è un danno economico di 150 milioni l’anno solo a causa degli affitti troppo bassi di ville, case e negozi. Ben 15 milioni il Campidoglio potrebbe incassarli adeguando l’importo di concessioni balneari e parcheggi privati, altri 10 rivedendo all’insù i canoni dei grandi impianti sportivi.

Il buco nero dell’Atac

Ogni anno un centinaio di milioni vengono buttati in municipalizzate (soprattutto Atac, trasporti) e partecipate. Solo un esempio: ogni anno «Ama (spazzatura) raccoglie materiale che vale 39 milioni e lo rivende a 8», scrivono Frongia e Maragnani. 

Roma non è la prima città italiana a rischiare la bancarotta: successe a Taranto nel 2005 con 500 milioni di buco, a Catania nel 2008 (un miliardo), ad Alessandria nel 2012.
Ma Roma è la Capitale, non può fallire. Così, capita che Franco Panzironi, nominato da Alemanno capo dell’Ama con stipendio da 545mila euro, assuma clientelarmente 41 persone all’Atac, fra cui il futuro genero (Armando di nome e Appetito di cognome) e la propria bellissima segretaria personale Gloria Rojo. 

Risultato: tutti licenziati e Panzironi condannato a 5 anni e 3 mesi.
Perfino l’immacolata Virginia Raggi, candidata sindaca 5 stelle favorita al voto del 5 giugno, è rimasta sporcata da Parentopoli: ora si scopre, dopo il suo lavoro nascosto nello studio di Cesare Previti, che è stata presidente di una società della Rojo.

Che fare, allora? «Per voltar pagina basterebbe che il Comune di Roma la smettesse di schifare i soldi», sostengono Frongia e Maragnani. Se solo facesse pagare affitti ragionevoli, incasserebbe 200 milioni in più all’anno. 
Se per esempio affittasse il suolo pubblico a bar e ristoranti in centro ai prezzi di Londra (2 euro al mq ogni giorno), di Parigi (1,5), o di Milano e Firenze, invece di regalarlo a 80 centesimi.

Al resto pensano i magistrati. Ma i traffici di Mafia Capitale, fra coop, rom e immigrati, valevano poche decine di milioni. I veri affari sono ben altri: «La metro C alla fine ci costerà sei miliardi», avverte Riccardo Magi, consigliere comunale radicale.

Mauro Suttora

Wednesday, April 27, 2016

Brennero, falso allarme

MA DOV'È IL MURO? IL CONFINE CON L'AUSTRIA È APERTO

dall'inviato Mauro Suttora

confine Italia/Austria, 15 aprile 2016



Papa Francesco è andato a Lesbo per confortare i profughi siriani bloccati in Grecia. Ma un altro papa era passato per il Brennero, dove ora gli austriaci vorrebbero, se non bloccare, almeno filtrare i migranti previsti per i prossimi mesi. Pio VI nel 1782 fece tappa a Matrei, terzo paese dopo il passo. E venne ritratto con il padrone dell’albergo Krone, dove le carrozze cambiavano i cavalli.

La famiglia Stadler continua a gestire da secoli il Krone, e l’attuale proprietario Hannes ci dice: «L’Austria l’anno scorso ha accolto 80mila rifugiati, la quota decisa quest’anno è 35mila. Noi austriaci siamo solo otto milioni, in proporzione agli abitanti sarebbe come se l’Italia ne ospitasse 270mila. Quindi la nostra parte la facciamo, non capisco le polemiche».

Le polemiche, in realtà, sono sul nulla. Il tanto temuto «Muro del Brennero», che avrebbe resuscitato la frontiera Italia/Austria abolita vent’anni fa, sono solo 15 metri di asfalto. Serviranno per incanalare dall’autostrada su una corsia d’emergenza auto e camion sospetti. Normali controlli di confine. 

E allora, perché tanto clamore quando gli operai hanno cominciato a lavorare? Semplice: il 24 aprile in Austria si vota, e nei sondaggi è in testa il candidato di destra, Norbert Hofer. Seguono un verde e un civico. Democristiani e socialisti sono ultimi. Quindi la ministra dc degli Interni di Vienna ha voluto far vedere che sugli immigrati è severa, per recuperar voti.

Ma davvero gli austriaci sono razzisti ed egoisti? Andiamo a vedere dove li mettono, i profughi. Il primo paese che incontriamo, otto chilometri dopo il confine, è Gries, mille abitanti. Trenta “asylanten” stanno in uno chalet moderno di quattro piani. 

Muhanad Asgar, 54 anni, è un prof d’inglese irakeno. Fuma una sigaretta da solo davanti all’entrata, in tuta, ciabatte e piedi nudi nonostante i 5 gradi: «Ho insegnato per 17 anni a Bengasi, in Libia. Sono cristiano, dopo che l’Isis ha ucciso mio figlio sono scappato in Italia con moglie e figlia. Abbiamo pagato il viaggio per l’Italia 7mila dollari, dopo quattro giorni eravamo a Savona. Ma la nostra meta è Linz in Austria, dove ci sono parenti di mia moglie. Stiamo aspettando qui da un anno e mezzo: solo due settimane fa, dopo interviste ed esami, mi hanno regolarizzato. Ora posso lavorare e andare a Linz. Ci danno 240 euro mensili a testa: per noi tre sono 700, ci bastano per comprare da mangiare e le altre spese. L’appartamento è gratis».

Compresa la carta igienica: mentre parliamo si ferma davanti al palazzo un camion dell’assistenza che ne lascia un pallet, più detersivi per la casa. Niente sussidi indiretti a coop e onlus, quindi, come da noi. Niente pericolo di tangenti e speculazioni. Su ogni porta degli appartamenti c’è il nome di tutti i membri delle famiglie, e la provenienza.
Al piano terra Kosovo, al primo piano gli armeni Mamadov, all’ultimo il siriano Maam al Baroudi con moglie e tre figli: «A Damasco avevo una fabbrica di mobili, i macchinari erano italiani, ma il nostro quartiere si è trovato in mezzo fra l’Isis e i soldati di Assad. Ho già il certificato dell’Agenzia rifugiati Onu, aspetto da un anno la regolarizzazione. Non posso lavorare come falegname, impazzisco a far nulla. I miei figli vanno a scuola, noi adulti abbiamo solo i corsi di tedesco. Con la pace, torneremo in Siria».

È l’estrema organizzazione a far fare agli austriaci la figura degli xenofobi. Non sopportano l’idea di un’invasione incontrollata come quella di settembre dai Balcani. Vogliono pianificare l’accoglienza, per carattere detestano emergenze e improvvisazione.



Al paese italiano del Brennero, intanto, i controlli e gli arresti continuano. Ma pochi: «Una decina al giorno, in media», ci dice Giovanni Pederzini, 67 anni, assessore delegato (in pratica sindaco) del comune che comprende la più grande Valle Isarco. Su mille abitanti, 300 sono extracomunitari. 

Imran Mohammad, 24 anni, è pakistano. Ha appena ottenuto la cittadinanza italiana dopo 14 anni di residenza. Fa il meccanico, ma ha lavorato due mesi al museo Plessi, aperto dal 2013 nell’ultima piazzola di sosta italiana sull’autostrada: «Simbolo di connessione tra il mondo mediterraneo e quello mitteleuropeo», spiega un cartello ai camionisti che guardano stralunati un’enorme scultura in ferro.

«Gli austriaci vogliono ripristinare la frontiera? A noi in paese converrebbe», scherza Pederzini, «e se rinasce pure la lira torniamo agli anni d’oro dei cambiavalute».
Strada statale, ferrovia e autostrada si stringono una accanto all’altra. Andiamo in stazione. Pattuglie di polizia, carabinieri ed esercito controllano ogni arrivo e partenza. 
Arrestano sette africani, li portano in commissariato. Li ha rimandati indietro la Germania perchè sono migranti “economici” e non hanno diritto all’asilo politico. Ma il grosso dei passeggeri, sui treni locali, sono gli universitari che da Vipiteno e Bressanone vanno a studiare a Innsbruck, capitale del Tirolo austriaco.

Per ora qui è tutto tranquillo. Ma se dalla frontiera sud Italia/Libia arriveranno decine di migliaia di disperati, tedeschi e austriaci non li faranno passare in massa, come nelle scene bibliche dello scorso autunno.
Mauro Suttora

Wednesday, April 20, 2016

Casaleggio: parla Massimo Fini

Oggi, 20 aprile 2016

di Mauro Suttora

«Il Movimento 5 stelle non si scioglierà come neve al sole. Ho parlato con Di Battista, Di Maio, il figlio di Casaleggio e gli altri. In realtà, dietro i proclami sono molto scossi dalla scomparsa di Gianroberto. Ma si attrezzano per farcela senza di lui».

Massimo Fini è stato l’unico giornalista ammesso al funerale del capo dei grillini, oltre a Marco Travaglio. È amico personale di Beppe Grillo da un quarto di secolo: «Sua moglie Parvin gli segnalò il mio libro La ragione aveva torto, e lui lo usò per i suoi primi spettacoli politici. Da allora ci frequentiamo, ma parliamo poco di politica. Lo scorso ottobre è venuto a Fucecchio quando mi hanno dato un premio. Nella sua villa di Genova c’è una tribù di sei figli: due del suo primo matrimonio, due del primo matrimonio di lei, e due assieme. Parvin è una donna fantastica. Sperava che la politica non gli prendesse molto tempo. Le è andata male».

E Casaleggio?
«Anche lui ha voluto conoscermi perché ha letto i miei libri. Mi ha ospitato una dozzina di volte sul blog di Grillo. Aveva la fissa della democrazia diretta, che però funziona solo nelle piccole comunità. A me, poi, la democrazia non piace, neanche indiretta: sono un libertario anarchico. Dovevamo scrivere un libro assieme negli ultimi mesi, ma dopo qualche incontro non se n’è fatto nulla. Mi disse che voleva ritirarsi nella sua casa di campagna».
Mauro Suttora

Tuesday, April 12, 2016

Elogio del liberismo selvaggio

Dalla prima Design week al Salone del mobile, il liberismo fa bella Milano

Manifestazioni nate e cresciute spontaneamente, senza contributi statali né pianificazione, e cresciute di anno in anno al di fuori di ogni programmazione. Niente politici che beneficiano clienti, niente assessori che “valorizzano” amici e amanti con soldi pubblici

Link all'articolo sul Foglio

di Mauro Suttora

12 aprile 2016

Milano. Il liberismo selvaggio celebra i suoi trionfi a Milano in questi giorni. Prima i tre giorni di MiArt, la fiera dell’arte moderna e contemporanea che in soli vent’anni è arrivata in cima alle rassegne italiane, misurandosi con Artissima di Torino e occhieggiando Art Basel.
Poi il Salone del mobile e il Fuorisalone, iniziati martedì, che ogni primavera trasformano per dieci giorni la città nella capitale mondiale di design, arredamento, architettura d'interni e arte. Quest’anno, inoltre, c’è la rinata Triennale. 
Per centinaia di migliaia di creativi di tutto il mondo, soprattutto giovani, arrivare a Milano in aprile è diventato un appuntamento fisso. E glamour. Alberghi pieni fino a Como e Brescia, bed & breakfast introvabili, case di studenti che scoppiano di amici. Strade invase ogni sera, eventi e performance ad ogni angolo, vernici, cocktail, feste in tutti gli angoli della città. 
Manifestazioni nate e cresciute spontaneamente, senza contributi statali né pianificazione, e cresciute di anno in anno al di fuori di ogni programmazione. Niente politici che beneficiano clienti, niente assessori che “valorizzano” amici e amanti con soldi pubblici. 
Così, mentre anche in queste settimane i candidati sindaci della metropoli lombarda promettono come sempre “decentramento” e “rivitalizzazione delle periferie”, il libero mercato ha già realizzato da solo il nuovo miracolo a Milano: quartieri una volta orrendi come Lambrate e Porta Genova, Bicocca e Bovisa, sono diventati di tendenza proprio grazie alle industrie dismesse e ai magazzini che li deturpavano.
La nuova vita ha iniziato a portarla dal Duemila la Design Week, con le scelte bizzarre degli artisti d’avanguardia che si sono installati in loft a buon mercato, ristrutturandoli. Dopo le “temporary galleries”, sono restati tutto l’anno.
Come a New York con Soho (South of Houston street) o Nolita (North of Little Italy), ora Milano esibisce ironicamente Nolo (North of Loreto), e pittori che esibiscono da Londra a Pechino frequentano i ristoranti di Crescenzago. 
Dall’altra parte della città, oltre piazzale Lodi, il gioiello della Fondazione Prada. Un po’ troppo autoreferenziale e autocelebrativo, invece, il Silos Armani di via Bergognone. Dopo zona Tortona, Fabbrica del Vapore accanto al Cimitero monumentale, il Porta Romana Design District, Porta Venezia e le immarcescibili Brera e Corso Como, ecco spuntare risorgimenti di aree centrali ma abbandonate dopo le sei di sera come le Cinque Vie dietro via Torino, con il palazzo della Siam (Società di Incoraggiamento Arti e Mestieri, nome di fragranza deamicisiana) in via Santa Marta che, nata nel 1838, rifiorisce grazie a computer artists e installazioni concept. Ti volti nella calca dei visitatori, e senti ventenni parlare coreano, ebraico, russo, arabo, cinese.
La maggior parte di loro arrivano a Milano atterrando con i low cost all’aeroporto di Bergamo Orio al Serio: altro esempio di spontaneità lombarda, sviluppatosi al di fuori di ogni piano e autofinanziato, contrariamente a Malpensa grande divoratrice di soldi statali con risultati scarsi. 
Così, mentre i burocrati spendono miliardi per Expo e ne sciupano altrettanti per vuote autostrade verso Brescia, la vera vita e gli affari fluiscono a Milano fra hangar e gasometri, con i contributi di sponsor privati e dei milioni guadagnati e reinvestiti dalle industrie brianzole dell'arredamento.
Gli stessi cumenda ex artigiani che nel 1961 fondarono il Salone del Mobile, mai immaginando che mezzo secolo dopo, stracciata la fiera concorrente di Colonia, sarebbero diventati l’epicentro dello stile planetario.
“Siamo una miniera, l’Italia in questo momento è sotto i riflettori. La situazione è ottima, la sinergia fra MiArt, Salone del Mobile e Triennale è fondamentale, l’arte vale oro”, commenta soddisfatta la gallerista Lia Rumma. Lei è una pioniera delle periferie: galleria a Napoli dal 1974, nel 1999 sbarcò in via Solferino. Ma sei anni fa con i suoi big (Abramovic, Beecroft, Pistoletto) si è trasferita in via Stilicone, vicino a un’ex fonderia della Ghisolfa. Ha portato le torri di Anselm Kiefer alla Bicocca. Scommessa vinta.
Anche per Vincenzo De Bellis: dopo quattro anni da direttore MiArt, vola in America al Walker Art Center di Minneapolis, Minnesota. Le meraviglie del libero mercato. Wild West.
Mauro Suttora

Wednesday, April 06, 2016

Vita a Molenbeek, Bruxelles

IL QUARTIERE ISLAMICO DA CUI SONO PARTITI I TERRORISTI ISIS

dal nostro inviato Mauro Suttora

Oggi, 25 marzo 2016

La frontiera passa qui davanti, sul canale Charleroi, aperto a Bruxelles nel 1832, due anni dopo l'indipendenza del Belgio dall'Olanda. La frontiera fra le due civiltà, cristiana e islamica, che si fronteggiano oggi come 1.300 anni fa a Poitiers (la battaglia da cui tornava re Carlo Martello nella canzone di Fabrizio De André) e 300 anni fa a Vienna (assediata dagli Ottomani e salvata da Eugenio di Savoia).

Più modestamente, il canale ora separa il centro di Bruxelles dal quartiere di Molenbeek ("Molino sul torrente"): la capitale d'Europa contro la capitale dei terroristi islamici che hanno ammazzato 31 europei il 22 marzo e 130 a Parigi il 13 novembre.

Da qui venivano quasi tutti i giovani fanatici dei due commandos. Qui, in rue Quatre-Vents 79, e' stato arrestato Salah Abdeslam dopo quattro mesi di tranquilla latitanza fra un attentato e l'altro. Qui, dicono i pessimisti, si è creata una generazione di simpatizzanti dello stato islamico che copre gli estremisti. Gli ottimisti come Youssef Choukri, invece, sostengono: "E' buon segno che i terroristi di Bruxelles siano gli stessi di Parigi. Vuol dire che magari c'era un solo gruppo. E che ora sono stati eliminati".

Youssef, ventenne, aiuta il padre immigrato marocchino in un deposito di via Delaunoy (dove al numero 47 c'era un altro covo islamista). Ha partecipato alla manifestazione permanente per le vittime in piazza della Borsa. Saranno 400 metri dal canale Charleroi. Ma sono due mondi differenti. Di qua i profumi di kebab, pollo, cacao caldo e caffè dei 100mila immigrati di Molenbeek. Di la', il centro di Bruxelles con i suoi edifici alti e abbastanza tristi. La Grand Place, le birrerie, la statua del bimbo che piscia. Ancora oltre, i grandi parchi dei palazzi reali (dove vive anche la 78enne Regina madre Paola di Liegi) e il quartiere europeo: Parlamento, Commissione, Consiglio, serviti dalla stazione metro Maelbeek insanguinata dai kamikaze.

Il vulcano, però, sta qui a ovest. Così, arrivando in città, decido di venire nell'unico albergo di Molenbeek: il Meininger, solo 50 euro a notte. Una specie di ostello nuovo e pulito, con velleità perfino artistiche, ricavato nell'ex fabbrica della birra Bellevue. Sull'orlo del cratere islamico.

L'aereoporto internazionale di Zaventem e' ancora chiuso dopo la strage. Atterro a Charleroi, dove i soldati perquisiscono tutti i viaggiatori in partenza provocando code chilometriche di auto. Così molti di loro preferiscono lasciare i taxi e le vetture incolonnate dei parenti o amici accompagnatori, per camminare anche un chilometro trascinando i trolley verso l'aerostazione.

Benvenuti nella nuova normalità dei viaggi post-22 marzo: tempi raddoppiati con controlli ai raggi X alle porte d'ingresso, ben prima dei check-in violati dai terroristi.

Il bus navetta arriva alla Gare du Midi. Anche qui code snervanti per entrare nell'unico ingresso lasciato aperto: quello di fronte alla statua di Paul-Henri Spaak, padre belga sia dell'Europa unita, sia di Catherine.

Salgo sul tram 82 pieno di donne arabe con velo e passeggino per i figli: non ci si può sbagliare, e' la direzione giusta verso il ghetto maomettano. Dove fino al 1965 di arabi non ce n'erano: "I primi marocchini cominciarono ad arrivare per sostituire gli immigrati italiani, spagnoli e portoghesi emancipatisi dalle miniere", mi spiega Giorgio, trentenne italiano che gestisce l'unico museo di Molenbeek: il Mima (Millennium iconoclastic museum of art) che avrebbe dovuto inaugurarsi il 24 marzo,  ma la cui vernice e' stata annullata per gli eventi assassini.

Scendo alla Gare de l'Est. Qui subisco un'ispezione addirittura corporale da parte di un giovane soldato che, con i commilitoni disposti a pettine, filtra i passeggeri. Tutti accettano di buon grado i controlli, anche giovani maghrebini con aspetto bellicoso ma docili come agnelli. Il militare palpando tocca la scatoletta delle mentine nella tasca della mia giacca: la tiro fuori e lui quasi si scusa, imbarazzato.

Un ufficiale poi mi confida: "Il difficile per noi è sveltire i controlli sugli insospettabili, ma senza sembrare razzisti verso religioni ed etnie sospette. Il cosiddetto 'racial profiling' infatti ci è severamente proibito".

Le strade di Molenbeek da quattro mesi sono setacciate da giornalisti di tutto il mondo. Per questo qualche abitante mostra insofferenza quando vede telecamere e macchine fotografiche. Il quartiere e' ben tenuto, pulito, con rastrelliere  per bici in affitto, file davanti ai pochi bancomat e ragazzi pakistani che giocano a cricket di fronte all'unica chiesa cattolica, Saint Jean.

La sera di Giovedi santo partecipo alla messa della lavanda dei piedi. I tre preti concelebranti sono africani, e nera è la stragrande maggioranza dei pochi fedeli. Gli unici bianchi sono immigrati polacchi e qualche portoghese sopravvissuto all'ondata musulmana. I sacerdoti faticano a trovare dodici volontari che si facciano lavare i piedi.

Ma davvero qui, nel Belgistan di Bruxelles, abbondano i simpatizzanti dell'Isis? "Se c'è n'è ancora qualcuno non lo conosco", mi dice Youssef, "e comunque sarebbero gli ultimi a mostrare esteriormente segni di arruolamento. I suicidi del 22 marzo non li vedevamo in giro. Quelli molto religiosi ci sono, ma si sfogano facendo crescere barbe incolte senza baffi, e mostrando sulla fronte il bernoccolo tipico di chi la strofina ogni giorno per terra pregando".

I negozi sono quasi tutti arabi. Stanno aperti fino a tardi e danno al quartiere il tipico tocco di suk, con la mercanzia che deborda sui marciapiedi e perfino i materassi cellophanati in strada. 
Nella vetrina di un centro sociale comunale, un foglio avvisa: "Corsi di francese e lingua araba (sul Corano) per sole donne". Apartheid nel cuore dell'Europa con soldi pubblici e laici, Corano imposto alle ragazze di seconda generazione che riscoprono le proprie radici.

Un altro cartello, blu come le bandiere dell'Unione europea. Annuncia un cofinanziamento comunitario di 5,7 milioni per restaurare un palazzo: "Noi paghiamo, e quelli ricambiano uccidendoci", commenta amaro un Sallusti belga.

Certo lo choc per la metropolitana fatta saltare proprio alla fermata dove scendevano segretarie e impiegati e' alto. Politici e superburocrati non rischiano: loro vanno al lavoro in auto (blu).

"È questa la grande sconfitta dei suicidi islamisti", conclude Youssef, "perché di noi arabi tutto si può dire, tranne che non siamo persone concrete. E che cosa hanno ottenuto questi pazzi? Solo morte, per se e per gli altri. Niente. Nichilisti. Perché ovviamente anche fra noi c'è chi protesta contro le guerre d'invasione occidentale in Iraq, contro Usa e Israele, o per le vittime civili dei droni. Ma farsi esplodere a casaccio in mezzo a innocenti non colpisce i colpevoli di quelle ingiustizie. Serve solo a creare fastidio contro noi arabi. Ad attirare qui giornalisti come lei, scusi tanto, neanche fossimo uno zoo. E a far chiamare 'vulcano' un quartiere abbastanza tranquillo, com'era Molenbek fino a novembre".
Mauro Suttora