Friday, May 06, 2016

Terremoto in Friuli 40 anni dopo

IL SISMA DEL 6 MAGGIO 1976 NELLE PAROLE DEGLI STESSI SOPRAVVISSUTI, ALLORA E OGGI

di Mauro Suttora

Oggi, 6 maggio 2016



«La casa, vecchia, era mia. Proprio al numero 24 di via Properzia, a Gemona. L’avevo sistemata di recente e da pochi mesi mi ero comperato la sala da pranzo nuova. Adesso non c’è più casa, né mobili, né via, né contrada, né amici. Tutto distrutto, cancellato. Non abbiamo nemmeno lacrime da piangere perché bisogna preoccuparsi del futuro.

«È andata così. Verso le 9 di sera di giovedì 6 maggio, conclusa la cena, ero andato dabbasso a chiudere la porta. E qui ho avvertito la prima scossa del terremoto. Ho gridato: “È il preannuncio, verrà subito la seconda scossa, scappiamo!”.

«Sono salito e ridisceso a balzi, spingendo avanti mia moglie Luigia, tirandomi dietro i nostri due figlioletti, Stefano di 12 anni e Gabriele di 10. Mia madre Rosa, meno pronta a muoversi per l’età avanzata, 73 anni,
era rimasta indietro. Sono tornato a prendere pure lei. Incredibile. Il tutto in una ventina di secondi. 
Varco la soglia: si scatena il finimondo. La mia e le case vicine si sbriciolano con una serie di schianti tremendi, una grossa pietra sfiora tutta la mia famiglia mentre un’altra, più piccola, mi cade sulla testa.

«PER UN’ORA SI SENTE GRIDARE “MAMMA, MAMMA!”»

«Mia madre, sofferente di cuore, viene ferita alla testa e alle gambe. S’innalza un polverone che acceca, divampa un coro di urla, invocazioni, gemiti. Per un’ora non si sente che gridare “Mamma, mamma!”. 
Buio e orrore. Incontro sul cancello della sua casa mio fratello, mezzo morto. Ma purtroppo non ho il tempo di occuparmi di lui. Il mio bambino più piccolo è bagnato di sangue: per fortuna è il mio, che esce dalla ferita.

«Con la prima auto, all’ospedale di Udine: medicano me, suturando la ferita con vari punti, ma non possono accogliere la mamma perché sono già al completo. Altra corsa, al policlinico di Palmanova, lascio la mamma in buone mani per tornare in paese. Contiamo 13 morti dalla nostra parte della strada e 23 accanto».

Così raccontava Luigi Londero, 44 anni, dipendente della Solari di Udine, agli inviati di Oggi in Friuli nel maggio 1976. Il terremoto aveva fatto quasi mille morti. Londero è scomparso nel 2007.

Il suo figlio minore Gabriele, che fotografammo con lui, oggi maresciallo dei Carabinieri a Udine dopo aver girato l’Italia (Milano, Bolzano, Roma, Vicenza, Modena, Paularo in Carnia), ricorda adesso quei drammatici giorni:

«Nostro padre ebbe quasi un presentimento e ci spinse subito fuori. Oltre la soglia della porta c’era l’inferno. Noi ragazzini eravamo già in pigiama, a piedi nudi. Andammo al centro del cortile, lontano dai muri che potevano ancora crollare. Nel buio sentivamo solo preghiere e pianti.

«TENDE DI NYLON, POI FUGGIMMO IN CANADA»
«Quella notte raggiungemmo scalzi un fienile in campagna e dormimmo lì. Poi ci sistemammo in tende di nylon vicino a casa. Dopo qualche giorno mio fratello ed io andammo in Canada da mio zio, che era emigrato lì vent’anni prima con mio padre. Tornammo il 10 settembre, e proprio l’11 ci fu la replica del terremoto.

«Il boato e la paura furono peggio della prima volta. Ci evacuarono a Lignano, e lì abitammo per tutto l’inverno. Io facevo la prima media. Poi ci misero in prefabbricati donati dalla Slovenia, fino al 1981.

«In questi 40 anni ho assistito alla rinascita e al miracolo economico del Friuli. Ricostruimmo prima le fabbriche, e poi le case. Sono sposato e ho due figli, di 17 e 7 anni. Nel 2002 sono andato come volontario della Croce Rossa a soccorrere le vittime del terremoto in Molise. Momenti che non si dimenticano, purtroppo».

«SIAMO VOLATI DALL’ATTICO GIÙ NELL’ORTO»

Da Gemona a Majano, pochi chilometri a sud: «La sera del 6 maggio ero nel nostro appartamento, un semiattico del condominio Astor, al quinto piano», raccontava a Oggi 40 anni fa Marcella Cozzutti.

«Mio marito, che ha l’ufficio quasi di fronte, sul lato opposto della strada, mi aveva telefonato che avrebbe fatto tardi. Lo aspettavo per cenare. Erano con me nella sala da pranzo i miei figli Alessandra di 12 anni, Marco di 11
e Ilaria di 4. Giusi, 8 anni, leggeva il giornalino nella camera vicina.

«Arriva la prima scossa, noi quattro usciamo sul terrazzo cercando di parlare con i vicini: non ero sicura che fosse il terremoto. Grido verso Giusi: “Vieni, scappiamo!” E lei: “No, non è il terremoto, sono tuoni”. Ed ecco che
mi sento spintonata di qua e di là da una forza immane, tutto scricchiola e crolla mentre piomba il buio.

Ho pensato soltanto: “Stiamo morendo”. Finisco distesa. Marco mi afferra per le gambe gridando: “Mamma, resta qui”. Ritorno in piedi. Fra tanto terrore e caos avevo la sensazione di essere ancora in cima al palazzo. Invece Marco mi avverte: “Mamma, siamo finiti nell’orto”. Era vero. Con un piccolo salto, come scendere uno scalino, mi sono ritrovata sull’erba.

«Comincio a toccare e a contare i figli. Finché Giusi, che non era con noi, ma tra ciò che restava della stanza di fianco, mi dice con voce nemmeno spaventata: “Mamma, mamma, sbrigati a tirarmi fuori di qui, sono piena di calcinacci”. Insomma, 18 appartamenti afflosciati, spariti di colpo, e 25 morti. Noi, i bambini e io, incolumi.

«Mio marito, sceso dall’ufficio, tra il buio e la polvere non riusciva più a orizzontarsi. È andato avanti e indietro per qualche minuto prima di accorgersi che il condominio non esisteva più. Ha scorto Agostino, un vicino di casa che ha perduto la moglie sotto le macerie.

Dice lui: “Coraggio, Dino, sono morti tutti. Dobbiamo rassegnarci”. Ribatte mio marito: “No, io cerco. Ho speranza”. Mi chiama, lo sento e gli rispondo. L’appartamento era nostro, l’abbiamo perduto con i mobili. Poi i ladri mi hanno rubato i gioielli: ho ritrovato le scatolette, vuote».

«ABBIAMO PAGATO IL MUTUO PER ALTRI 30 ANNI»

«Il nostro condominio, costruito solo pochi anni prima, è crollato perché sotto c’era una faglia d’acqua», ci spiega adesso Alessandra Cozzutti, figlia di Marcella. Sposata, due figli grandi, abita nel paese accanto
a Majano, San Daniele, ma lavora sempre col padre commercialista.

«Andammo a vivere prima in roulotte, poi in una baracca fino al 1984. Abbiamo finito di pagare il mutuo per la casa crollata solo dieci anni fa, non abbiamo avuto risarcimenti. E ne abbiamo dovuto fare un altro per la casa nuova. Ma non ci lamentiamo. 
Mia madre è originaria di Trapani, ai terremoti era abituata.
Ma quello del settembre 1976 ci fece ancor più paura del primo, anche se non ci furono morti. E oggi ricordiamo quei giorni allo stesso tempo con dolore, ma anche con nostalgia. Perché eravamo giovani, con tanta energia per ricostruire».

Un benemerito della ricostruzione fu Giuseppe Zamberletti, il politico democristiano di Varese (oggi 82enne) che la coordinò come commissario.

Il terremoto del Friuli, contrariamente ad altri prima e dopo (Belice, 1968, e Irpinia, 1980) non provocò polemiche. Dopo pochi anni i paesi sono rinati, senza sprechi o tangenti. E negli Anni 80 il boom della produzione di mobili e vino ha reso ricco il Friuli.

Mauro Suttora

Wednesday, May 04, 2016

Roma ci costa mezzo miliardo all'anno

Il buco finanziario della Capitale è pagato da tutti gli italiani, oltre che dai romani tassati con l’addizionale Irpef più alta d’Italia

Oggi, 4 maggio 2016

di Mauro Suttora

«Roma ha 2700 anni di storia e da 145 è la capitale del paese. È la città con il patrimonio culturale più ricco del mondo, e tra le più visitate. Ma l’ex Caput Mundi è in una situazione drammatica, con una classe politica dimezzata dagli scandali e una macchina amministrativa devastata da clientele, inefficienza (assenteismo con punte del 30 per cento) e dalle inchieste che ne hanno messo a nudo la corruzione sistematica».

Così Daniele Frongia (consigliere comunale 5 stelle) e la giornalista Laura Maragnani iniziano il loro libro E io pago (ed. Chiarelettere), in cui fanno tutti nomi e le cifre del disastro Roma.

Tassa di 7 euro in hotel

«Un disastro che non riguarda più solo i romani, che ormai pagano le tasse locali più alte d’Italia (l’addizionale Irpef arriva al 9 per mille!) in cambio di servizi indegni di una città civile. Roma è un danno per l’Italia intera, di cui è l’indecente biglietto da visita, e una sciagura economica per tutti i contribuenti, che dal 2008 sono costretti ogni anno ad accollarsi il finanziamento salva-Roma.

È una gabella che ammonta a 300 milioni di euro, più un euro di sovrattassa su tutti coloro che transitano dagli aeroporti di Ciampino e Fiumicino, e dai 3 ai 7 euro a notte per i turisti negli alberghi della città. E sono altri 200 milioni», scrivono Frongia e Maragnani.

Insomma, Roma costa all’Italia oltre mezzo miliardo solo per ripianare il buco che si è lasciata alle spalle. Francesco Rutelli (sindaco dal 1993 al 2001) trovò 3,6 miliardi di debiti. Con Walter Veltroni (2001-8) sono saliti a sette, e dopo Gianni Alemanno (2008-13) e Ignazio Marino, ora ammontano a 13,6 miliardi.

Ogni sindaco ha qualcosa sulla coscienza. Cattedrali nel deserto come la “Città dello sport” dell’archistar Calatrava, voluta da Veltroni, “grande opera” gestita da Guido Bertolaso: doveva essere pronta per i mondiali di nuoto 2009, ora provano a resuscitarla per le olimpiadi 2024, ma sta già cadendo a pezzi a Tor Vergata. È costata 600 milioni, il preventivo era 60.

La Nuvola di Massimiliano Fuksas all’Eur: 300 milioni di scostamento tra previsione e consuntivo. La nuova Fiera di Roma: 360 milioni. La metro C ha già sfondato i preventivi per 800 milioni, e chissà se verrà mai terminata: rischia di non arrivare a San Pietro.

E poi: i 400 milioni che il Comune avrebbe potuto incassare dai vari condoni, e che nessuno ha mai visto. I milioni per Imu, Ici più altri «tributi non pagati dal Vaticano» e i «servizi non dovuti (non previsti dai Patti Lateranensi) che vengono offerti gratuitamente alla Chiesa» sono 400.

Morosi 8 inquilini su 10

Basterebbe far pagare gli affitti degli immobili comunali per riportare il bilancio in attivo, senza saccheggiare ulteriormente le tasche degli italiani. L’80 per cento degli inquilini è moroso. Su 55mila beni di proprietà comunale, c’è un danno economico di 150 milioni l’anno solo a causa degli affitti troppo bassi di ville, case e negozi. Ben 15 milioni il Campidoglio potrebbe incassarli adeguando l’importo di concessioni balneari e parcheggi privati, altri 10 rivedendo all’insù i canoni dei grandi impianti sportivi.

Il buco nero dell’Atac

Ogni anno un centinaio di milioni vengono buttati in municipalizzate (soprattutto Atac, trasporti) e partecipate. Solo un esempio: ogni anno «Ama (spazzatura) raccoglie materiale che vale 39 milioni e lo rivende a 8», scrivono Frongia e Maragnani. 

Roma non è la prima città italiana a rischiare la bancarotta: successe a Taranto nel 2005 con 500 milioni di buco, a Catania nel 2008 (un miliardo), ad Alessandria nel 2012.
Ma Roma è la Capitale, non può fallire. Così, capita che Franco Panzironi, nominato da Alemanno capo dell’Ama con stipendio da 545mila euro, assuma clientelarmente 41 persone all’Atac, fra cui il futuro genero (Armando di nome e Appetito di cognome) e la propria bellissima segretaria personale Gloria Rojo. 

Risultato: tutti licenziati e Panzironi condannato a 5 anni e 3 mesi.
Perfino l’immacolata Virginia Raggi, candidata sindaca 5 stelle favorita al voto del 5 giugno, è rimasta sporcata da Parentopoli: ora si scopre, dopo il suo lavoro nascosto nello studio di Cesare Previti, che è stata presidente di una società della Rojo.

Che fare, allora? «Per voltar pagina basterebbe che il Comune di Roma la smettesse di schifare i soldi», sostengono Frongia e Maragnani. Se solo facesse pagare affitti ragionevoli, incasserebbe 200 milioni in più all’anno. 
Se per esempio affittasse il suolo pubblico a bar e ristoranti in centro ai prezzi di Londra (2 euro al mq ogni giorno), di Parigi (1,5), o di Milano e Firenze, invece di regalarlo a 80 centesimi.

Al resto pensano i magistrati. Ma i traffici di Mafia Capitale, fra coop, rom e immigrati, valevano poche decine di milioni. I veri affari sono ben altri: «La metro C alla fine ci costerà sei miliardi», avverte Riccardo Magi, consigliere comunale radicale.

Mauro Suttora

Wednesday, April 27, 2016

Brennero, falso allarme

MA DOV'È IL MURO? IL CONFINE CON L'AUSTRIA È APERTO

dall'inviato Mauro Suttora

confine Italia/Austria, 15 aprile 2016



Papa Francesco è andato a Lesbo per confortare i profughi siriani bloccati in Grecia. Ma un altro papa era passato per il Brennero, dove ora gli austriaci vorrebbero, se non bloccare, almeno filtrare i migranti previsti per i prossimi mesi. Pio VI nel 1782 fece tappa a Matrei, terzo paese dopo il passo. E venne ritratto con il padrone dell’albergo Krone, dove le carrozze cambiavano i cavalli.

La famiglia Stadler continua a gestire da secoli il Krone, e l’attuale proprietario Hannes ci dice: «L’Austria l’anno scorso ha accolto 80mila rifugiati, la quota decisa quest’anno è 35mila. Noi austriaci siamo solo otto milioni, in proporzione agli abitanti sarebbe come se l’Italia ne ospitasse 270mila. Quindi la nostra parte la facciamo, non capisco le polemiche».

Le polemiche, in realtà, sono sul nulla. Il tanto temuto «Muro del Brennero», che avrebbe resuscitato la frontiera Italia/Austria abolita vent’anni fa, sono solo 15 metri di asfalto. Serviranno per incanalare dall’autostrada su una corsia d’emergenza auto e camion sospetti. Normali controlli di confine. 

E allora, perché tanto clamore quando gli operai hanno cominciato a lavorare? Semplice: il 24 aprile in Austria si vota, e nei sondaggi è in testa il candidato di destra, Norbert Hofer. Seguono un verde e un civico. Democristiani e socialisti sono ultimi. Quindi la ministra dc degli Interni di Vienna ha voluto far vedere che sugli immigrati è severa, per recuperar voti.

Ma davvero gli austriaci sono razzisti ed egoisti? Andiamo a vedere dove li mettono, i profughi. Il primo paese che incontriamo, otto chilometri dopo il confine, è Gries, mille abitanti. Trenta “asylanten” stanno in uno chalet moderno di quattro piani. 

Muhanad Asgar, 54 anni, è un prof d’inglese irakeno. Fuma una sigaretta da solo davanti all’entrata, in tuta, ciabatte e piedi nudi nonostante i 5 gradi: «Ho insegnato per 17 anni a Bengasi, in Libia. Sono cristiano, dopo che l’Isis ha ucciso mio figlio sono scappato in Italia con moglie e figlia. Abbiamo pagato il viaggio per l’Italia 7mila dollari, dopo quattro giorni eravamo a Savona. Ma la nostra meta è Linz in Austria, dove ci sono parenti di mia moglie. Stiamo aspettando qui da un anno e mezzo: solo due settimane fa, dopo interviste ed esami, mi hanno regolarizzato. Ora posso lavorare e andare a Linz. Ci danno 240 euro mensili a testa: per noi tre sono 700, ci bastano per comprare da mangiare e le altre spese. L’appartamento è gratis».

Compresa la carta igienica: mentre parliamo si ferma davanti al palazzo un camion dell’assistenza che ne lascia un pallet, più detersivi per la casa. Niente sussidi indiretti a coop e onlus, quindi, come da noi. Niente pericolo di tangenti e speculazioni. Su ogni porta degli appartamenti c’è il nome di tutti i membri delle famiglie, e la provenienza.
Al piano terra Kosovo, al primo piano gli armeni Mamadov, all’ultimo il siriano Maam al Baroudi con moglie e tre figli: «A Damasco avevo una fabbrica di mobili, i macchinari erano italiani, ma il nostro quartiere si è trovato in mezzo fra l’Isis e i soldati di Assad. Ho già il certificato dell’Agenzia rifugiati Onu, aspetto da un anno la regolarizzazione. Non posso lavorare come falegname, impazzisco a far nulla. I miei figli vanno a scuola, noi adulti abbiamo solo i corsi di tedesco. Con la pace, torneremo in Siria».

È l’estrema organizzazione a far fare agli austriaci la figura degli xenofobi. Non sopportano l’idea di un’invasione incontrollata come quella di settembre dai Balcani. Vogliono pianificare l’accoglienza, per carattere detestano emergenze e improvvisazione.



Al paese italiano del Brennero, intanto, i controlli e gli arresti continuano. Ma pochi: «Una decina al giorno, in media», ci dice Giovanni Pederzini, 67 anni, assessore delegato (in pratica sindaco) del comune che comprende la più grande Valle Isarco. Su mille abitanti, 300 sono extracomunitari. 

Imran Mohammad, 24 anni, è pakistano. Ha appena ottenuto la cittadinanza italiana dopo 14 anni di residenza. Fa il meccanico, ma ha lavorato due mesi al museo Plessi, aperto dal 2013 nell’ultima piazzola di sosta italiana sull’autostrada: «Simbolo di connessione tra il mondo mediterraneo e quello mitteleuropeo», spiega un cartello ai camionisti che guardano stralunati un’enorme scultura in ferro.

«Gli austriaci vogliono ripristinare la frontiera? A noi in paese converrebbe», scherza Pederzini, «e se rinasce pure la lira torniamo agli anni d’oro dei cambiavalute».
Strada statale, ferrovia e autostrada si stringono una accanto all’altra. Andiamo in stazione. Pattuglie di polizia, carabinieri ed esercito controllano ogni arrivo e partenza. 
Arrestano sette africani, li portano in commissariato. Li ha rimandati indietro la Germania perchè sono migranti “economici” e non hanno diritto all’asilo politico. Ma il grosso dei passeggeri, sui treni locali, sono gli universitari che da Vipiteno e Bressanone vanno a studiare a Innsbruck, capitale del Tirolo austriaco.

Per ora qui è tutto tranquillo. Ma se dalla frontiera sud Italia/Libia arriveranno decine di migliaia di disperati, tedeschi e austriaci non li faranno passare in massa, come nelle scene bibliche dello scorso autunno.
Mauro Suttora

Wednesday, April 20, 2016

Casaleggio: parla Massimo Fini

Oggi, 20 aprile 2016

di Mauro Suttora

«Il Movimento 5 stelle non si scioglierà come neve al sole. Ho parlato con Di Battista, Di Maio, il figlio di Casaleggio e gli altri. In realtà, dietro i proclami sono molto scossi dalla scomparsa di Gianroberto. Ma si attrezzano per farcela senza di lui».

Massimo Fini è stato l’unico giornalista ammesso al funerale del capo dei grillini, oltre a Marco Travaglio. È amico personale di Beppe Grillo da un quarto di secolo: «Sua moglie Parvin gli segnalò il mio libro La ragione aveva torto, e lui lo usò per i suoi primi spettacoli politici. Da allora ci frequentiamo, ma parliamo poco di politica. Lo scorso ottobre è venuto a Fucecchio quando mi hanno dato un premio. Nella sua villa di Genova c’è una tribù di sei figli: due del suo primo matrimonio, due del primo matrimonio di lei, e due assieme. Parvin è una donna fantastica. Sperava che la politica non gli prendesse molto tempo. Le è andata male».

E Casaleggio?
«Anche lui ha voluto conoscermi perché ha letto i miei libri. Mi ha ospitato una dozzina di volte sul blog di Grillo. Aveva la fissa della democrazia diretta, che però funziona solo nelle piccole comunità. A me, poi, la democrazia non piace, neanche indiretta: sono un libertario anarchico. Dovevamo scrivere un libro assieme negli ultimi mesi, ma dopo qualche incontro non se n’è fatto nulla. Mi disse che voleva ritirarsi nella sua casa di campagna».
Mauro Suttora

Tuesday, April 12, 2016

Elogio del liberismo selvaggio

Dalla prima Design week al Salone del mobile, il liberismo fa bella Milano

Manifestazioni nate e cresciute spontaneamente, senza contributi statali né pianificazione, e cresciute di anno in anno al di fuori di ogni programmazione. Niente politici che beneficiano clienti, niente assessori che “valorizzano” amici e amanti con soldi pubblici

Link all'articolo sul Foglio

di Mauro Suttora

12 aprile 2016

Milano. Il liberismo selvaggio celebra i suoi trionfi a Milano in questi giorni. Prima i tre giorni di MiArt, la fiera dell’arte moderna e contemporanea che in soli vent’anni è arrivata in cima alle rassegne italiane, misurandosi con Artissima di Torino e occhieggiando Art Basel.
Poi il Salone del mobile e il Fuorisalone, iniziati martedì, che ogni primavera trasformano per dieci giorni la città nella capitale mondiale di design, arredamento, architettura d'interni e arte. Quest’anno, inoltre, c’è la rinata Triennale. 
Per centinaia di migliaia di creativi di tutto il mondo, soprattutto giovani, arrivare a Milano in aprile è diventato un appuntamento fisso. E glamour. Alberghi pieni fino a Como e Brescia, bed & breakfast introvabili, case di studenti che scoppiano di amici. Strade invase ogni sera, eventi e performance ad ogni angolo, vernici, cocktail, feste in tutti gli angoli della città. 
Manifestazioni nate e cresciute spontaneamente, senza contributi statali né pianificazione, e cresciute di anno in anno al di fuori di ogni programmazione. Niente politici che beneficiano clienti, niente assessori che “valorizzano” amici e amanti con soldi pubblici. 
Così, mentre anche in queste settimane i candidati sindaci della metropoli lombarda promettono come sempre “decentramento” e “rivitalizzazione delle periferie”, il libero mercato ha già realizzato da solo il nuovo miracolo a Milano: quartieri una volta orrendi come Lambrate e Porta Genova, Bicocca e Bovisa, sono diventati di tendenza proprio grazie alle industrie dismesse e ai magazzini che li deturpavano.
La nuova vita ha iniziato a portarla dal Duemila la Design Week, con le scelte bizzarre degli artisti d’avanguardia che si sono installati in loft a buon mercato, ristrutturandoli. Dopo le “temporary galleries”, sono restati tutto l’anno.
Come a New York con Soho (South of Houston street) o Nolita (North of Little Italy), ora Milano esibisce ironicamente Nolo (North of Loreto), e pittori che esibiscono da Londra a Pechino frequentano i ristoranti di Crescenzago. 
Dall’altra parte della città, oltre piazzale Lodi, il gioiello della Fondazione Prada. Un po’ troppo autoreferenziale e autocelebrativo, invece, il Silos Armani di via Bergognone. Dopo zona Tortona, Fabbrica del Vapore accanto al Cimitero monumentale, il Porta Romana Design District, Porta Venezia e le immarcescibili Brera e Corso Como, ecco spuntare risorgimenti di aree centrali ma abbandonate dopo le sei di sera come le Cinque Vie dietro via Torino, con il palazzo della Siam (Società di Incoraggiamento Arti e Mestieri, nome di fragranza deamicisiana) in via Santa Marta che, nata nel 1838, rifiorisce grazie a computer artists e installazioni concept. Ti volti nella calca dei visitatori, e senti ventenni parlare coreano, ebraico, russo, arabo, cinese.
La maggior parte di loro arrivano a Milano atterrando con i low cost all’aeroporto di Bergamo Orio al Serio: altro esempio di spontaneità lombarda, sviluppatosi al di fuori di ogni piano e autofinanziato, contrariamente a Malpensa grande divoratrice di soldi statali con risultati scarsi. 
Così, mentre i burocrati spendono miliardi per Expo e ne sciupano altrettanti per vuote autostrade verso Brescia, la vera vita e gli affari fluiscono a Milano fra hangar e gasometri, con i contributi di sponsor privati e dei milioni guadagnati e reinvestiti dalle industrie brianzole dell'arredamento.
Gli stessi cumenda ex artigiani che nel 1961 fondarono il Salone del Mobile, mai immaginando che mezzo secolo dopo, stracciata la fiera concorrente di Colonia, sarebbero diventati l’epicentro dello stile planetario.
“Siamo una miniera, l’Italia in questo momento è sotto i riflettori. La situazione è ottima, la sinergia fra MiArt, Salone del Mobile e Triennale è fondamentale, l’arte vale oro”, commenta soddisfatta la gallerista Lia Rumma. Lei è una pioniera delle periferie: galleria a Napoli dal 1974, nel 1999 sbarcò in via Solferino. Ma sei anni fa con i suoi big (Abramovic, Beecroft, Pistoletto) si è trasferita in via Stilicone, vicino a un’ex fonderia della Ghisolfa. Ha portato le torri di Anselm Kiefer alla Bicocca. Scommessa vinta.
Anche per Vincenzo De Bellis: dopo quattro anni da direttore MiArt, vola in America al Walker Art Center di Minneapolis, Minnesota. Le meraviglie del libero mercato. Wild West.
Mauro Suttora

Wednesday, April 06, 2016

Vita a Molenbeek, Bruxelles

IL QUARTIERE ISLAMICO DA CUI SONO PARTITI I TERRORISTI ISIS

dal nostro inviato Mauro Suttora

Oggi, 25 marzo 2016

La frontiera passa qui davanti, sul canale Charleroi, aperto a Bruxelles nel 1832, due anni dopo l'indipendenza del Belgio dall'Olanda. La frontiera fra le due civiltà, cristiana e islamica, che si fronteggiano oggi come 1.300 anni fa a Poitiers (la battaglia da cui tornava re Carlo Martello nella canzone di Fabrizio De André) e 300 anni fa a Vienna (assediata dagli Ottomani e salvata da Eugenio di Savoia).

Più modestamente, il canale ora separa il centro di Bruxelles dal quartiere di Molenbeek ("Molino sul torrente"): la capitale d'Europa contro la capitale dei terroristi islamici che hanno ammazzato 31 europei il 22 marzo e 130 a Parigi il 13 novembre.

Da qui venivano quasi tutti i giovani fanatici dei due commandos. Qui, in rue Quatre-Vents 79, e' stato arrestato Salah Abdeslam dopo quattro mesi di tranquilla latitanza fra un attentato e l'altro. Qui, dicono i pessimisti, si è creata una generazione di simpatizzanti dello stato islamico che copre gli estremisti. Gli ottimisti come Youssef Choukri, invece, sostengono: "E' buon segno che i terroristi di Bruxelles siano gli stessi di Parigi. Vuol dire che magari c'era un solo gruppo. E che ora sono stati eliminati".

Youssef, ventenne, aiuta il padre immigrato marocchino in un deposito di via Delaunoy (dove al numero 47 c'era un altro covo islamista). Ha partecipato alla manifestazione permanente per le vittime in piazza della Borsa. Saranno 400 metri dal canale Charleroi. Ma sono due mondi differenti. Di qua i profumi di kebab, pollo, cacao caldo e caffè dei 100mila immigrati di Molenbeek. Di la', il centro di Bruxelles con i suoi edifici alti e abbastanza tristi. La Grand Place, le birrerie, la statua del bimbo che piscia. Ancora oltre, i grandi parchi dei palazzi reali (dove vive anche la 78enne Regina madre Paola di Liegi) e il quartiere europeo: Parlamento, Commissione, Consiglio, serviti dalla stazione metro Maelbeek insanguinata dai kamikaze.

Il vulcano, però, sta qui a ovest. Così, arrivando in città, decido di venire nell'unico albergo di Molenbeek: il Meininger, solo 50 euro a notte. Una specie di ostello nuovo e pulito, con velleità perfino artistiche, ricavato nell'ex fabbrica della birra Bellevue. Sull'orlo del cratere islamico.

L'aereoporto internazionale di Zaventem e' ancora chiuso dopo la strage. Atterro a Charleroi, dove i soldati perquisiscono tutti i viaggiatori in partenza provocando code chilometriche di auto. Così molti di loro preferiscono lasciare i taxi e le vetture incolonnate dei parenti o amici accompagnatori, per camminare anche un chilometro trascinando i trolley verso l'aerostazione.

Benvenuti nella nuova normalità dei viaggi post-22 marzo: tempi raddoppiati con controlli ai raggi X alle porte d'ingresso, ben prima dei check-in violati dai terroristi.

Il bus navetta arriva alla Gare du Midi. Anche qui code snervanti per entrare nell'unico ingresso lasciato aperto: quello di fronte alla statua di Paul-Henri Spaak, padre belga sia dell'Europa unita, sia di Catherine.

Salgo sul tram 82 pieno di donne arabe con velo e passeggino per i figli: non ci si può sbagliare, e' la direzione giusta verso il ghetto maomettano. Dove fino al 1965 di arabi non ce n'erano: "I primi marocchini cominciarono ad arrivare per sostituire gli immigrati italiani, spagnoli e portoghesi emancipatisi dalle miniere", mi spiega Giorgio, trentenne italiano che gestisce l'unico museo di Molenbeek: il Mima (Millennium iconoclastic museum of art) che avrebbe dovuto inaugurarsi il 24 marzo,  ma la cui vernice e' stata annullata per gli eventi assassini.

Scendo alla Gare de l'Est. Qui subisco un'ispezione addirittura corporale da parte di un giovane soldato che, con i commilitoni disposti a pettine, filtra i passeggeri. Tutti accettano di buon grado i controlli, anche giovani maghrebini con aspetto bellicoso ma docili come agnelli. Il militare palpando tocca la scatoletta delle mentine nella tasca della mia giacca: la tiro fuori e lui quasi si scusa, imbarazzato.

Un ufficiale poi mi confida: "Il difficile per noi è sveltire i controlli sugli insospettabili, ma senza sembrare razzisti verso religioni ed etnie sospette. Il cosiddetto 'racial profiling' infatti ci è severamente proibito".

Le strade di Molenbeek da quattro mesi sono setacciate da giornalisti di tutto il mondo. Per questo qualche abitante mostra insofferenza quando vede telecamere e macchine fotografiche. Il quartiere e' ben tenuto, pulito, con rastrelliere  per bici in affitto, file davanti ai pochi bancomat e ragazzi pakistani che giocano a cricket di fronte all'unica chiesa cattolica, Saint Jean.

La sera di Giovedi santo partecipo alla messa della lavanda dei piedi. I tre preti concelebranti sono africani, e nera è la stragrande maggioranza dei pochi fedeli. Gli unici bianchi sono immigrati polacchi e qualche portoghese sopravvissuto all'ondata musulmana. I sacerdoti faticano a trovare dodici volontari che si facciano lavare i piedi.

Ma davvero qui, nel Belgistan di Bruxelles, abbondano i simpatizzanti dell'Isis? "Se c'è n'è ancora qualcuno non lo conosco", mi dice Youssef, "e comunque sarebbero gli ultimi a mostrare esteriormente segni di arruolamento. I suicidi del 22 marzo non li vedevamo in giro. Quelli molto religiosi ci sono, ma si sfogano facendo crescere barbe incolte senza baffi, e mostrando sulla fronte il bernoccolo tipico di chi la strofina ogni giorno per terra pregando".

I negozi sono quasi tutti arabi. Stanno aperti fino a tardi e danno al quartiere il tipico tocco di suk, con la mercanzia che deborda sui marciapiedi e perfino i materassi cellophanati in strada. 
Nella vetrina di un centro sociale comunale, un foglio avvisa: "Corsi di francese e lingua araba (sul Corano) per sole donne". Apartheid nel cuore dell'Europa con soldi pubblici e laici, Corano imposto alle ragazze di seconda generazione che riscoprono le proprie radici.

Un altro cartello, blu come le bandiere dell'Unione europea. Annuncia un cofinanziamento comunitario di 5,7 milioni per restaurare un palazzo: "Noi paghiamo, e quelli ricambiano uccidendoci", commenta amaro un Sallusti belga.

Certo lo choc per la metropolitana fatta saltare proprio alla fermata dove scendevano segretarie e impiegati e' alto. Politici e superburocrati non rischiano: loro vanno al lavoro in auto (blu).

"È questa la grande sconfitta dei suicidi islamisti", conclude Youssef, "perché di noi arabi tutto si può dire, tranne che non siamo persone concrete. E che cosa hanno ottenuto questi pazzi? Solo morte, per se e per gli altri. Niente. Nichilisti. Perché ovviamente anche fra noi c'è chi protesta contro le guerre d'invasione occidentale in Iraq, contro Usa e Israele, o per le vittime civili dei droni. Ma farsi esplodere a casaccio in mezzo a innocenti non colpisce i colpevoli di quelle ingiustizie. Serve solo a creare fastidio contro noi arabi. Ad attirare qui giornalisti come lei, scusi tanto, neanche fossimo uno zoo. E a far chiamare 'vulcano' un quartiere abbastanza tranquillo, com'era Molenbek fino a novembre".
Mauro Suttora

Wednesday, March 23, 2016

intervista parallela a Sala, Parisi e Passera

TRE MANAGER IN CORSA PER LA POLTRONA DI SINDACO DI MILANO. ABBIAMO RIVOLTO LORO LE STESSE DOMANDE. QUANTO SI SOMIGLIANO LE RISPOSTE?

di Mauro Suttora

Oggi, 16 marzo 2016

Appuntamento a giugno. Giuseppe Sala (centrosinistra), Stefano Parisi (centrodestra) e Corrado Passera (lista civica) rispondono così.

1) La politica era il regno di avvocati e docenti universitari. Ora bisogna essere manager per candidarsi?

Sala: «Non ne farei una regola. Nel mio caso, credo che avere gestito un evento pubblico complesso e internazionale come Expo, così come avere un passato da manager privato e pubblico, possano essere di grande aiuto nell’amministrazione della cosa pubblica».

Parisi: «Le grandi metropoli moderne sono realtà complesse in grande evoluzione. Serve cultura gestionale e sensibilità sociale e politica. Non vedo contrapposizione tra “il politico” e “il manager”. La politica deve tornare a essere una cosa alta, non appaltata solo ai professionisti della politica. Io ho lavorato più di 15 anni nel settore pubblico a vari livelli.  Poi ho fatto un’altrettanto lunga esperienza nel settore privato in aziende di successo. Mi sento oggi pronto per guidare Milano da sindaco, da politico nuovo». 

Passera: «Essere stato un buon manager aiuta a offrire soluzioni credibili ai problemi concreti dei propri concittadini che sono, prima di tutto, il lavoro e la sicurezza. Ma una città, come un Paese, è molto di più di un’azienda. Per guidare una grande città bisogna saper creare competitività globale, ma anche coesione sociale, far lavorare insieme il mondo pubblico e quello privato».  

2) Milano non sembra amministrata male, rispetto ad altre città italiane. Cosa conserverebbe e cosa butterebbe?

Sala: «Il programma attuato dalla giunta Pisapia è un’esperienza che deve proseguire per il bene della città. Qualcosa da migliorare? Milano necessita di interventi di snellimento nella macchina burocratica».

Parisi: «Purtroppo c’è molta delusione da parte di chi si aspettava, dalla giunta Pisapia, la realizzazione di grandi progetti e la soluzione dei più gravi problemi.  Quello che oggi chiamiamo il “Miracolo Milano” è solo dato dagli effetti delle grandi decisioni prese dai sindaci Albertini e Moratti. Il nostro compito è ripartire da dove abbiamo interrotto il nostro lavoro cinque anni fa. Dobbiamo ridisegnare il futuro di Milano, avviare grandi progetti pensando alla Milano che sarà tra 10/20 anni. Nello stesso tempo dobbiamo lavorare sulla soluzione di problemi che non sono stati più affrontati. Il  degrado delle periferie è drammatico».
Passera: «Milano può diventare una delle metropoli più dinamiche d’Europa e ha energie che poche città al mondo hanno. Ma non cresce abbastanza, è in fondo alle classifiche sulla sicurezza, non ha risolto problemi gravi di inquinamento. Tutti problemi risolvibili, ma che l’attuale amministrazione non ha affrontato con determinazione”. 

3) Negli ultimi anni le tasse comunali sono raddoppiate. È possibile diminirle, quando e di quanto?

Sala: «Credo che ridurle sia possibile e doveroso: deve essere l’obiettivo. Amministrare significa garantire ai cittadini servizi e la miglior qualità di vita possibile. In questa direzione, molto si può fare continuando a lavorare su evasione e sprechi. Ad esempio, di recente la Tari è stata diminuita grazie  alla raccolta differenziata».

Parisi: «Le tasse sono più che raddoppiate rispetto al livello della giunta Moratti. E ciò per due motivi: mancanza di qualunque politica gestionale in grado di mettere sotto controllo i costi, eliminare gli sprechi e modernizzare l’amministrazione. L’altro sono le misure dei governi da Monti a Renzi, che hanno scaricato sugli enti locali manovre drammatiche di riduzione dei trasferimenti. Milano è stata prona alla volontà del governo. Noi riprenderemo un lavoro di messa in efficienza e di modernizzazione del Comune e avvieremo un confronto serrato con il governo. Diminuiremo le tasse, ma solo dopo aver assicurato l’equilibrio di bilancio». 
Passera: «Sì, sarebbe possibile ridurre la pressione fiscale, ma per farlo bisogna riavviare investimenti e occupazione, e questo io farò: le risorse necessarie verranno dalla cessione delle due partecipate pubbliche quotate - A2A e Sea - e del patrimonio immobiliare non necessario. Poi vanno rese efficienti spesa comunale e burocrazia». 

4) Verde o costruzioni nelle aree libere (ex Fs, ex Expo, Piazza d’armi)? In che percentuale?

Sala: «Impossibile dare percentuali. Serve un giusto bilanciamento tra verde e costruzioni agili e sostenibili. Il verde, il paesaggio naturale lombardo deve essere valorizzato e deve potersi integrare nei nuovi contesti urbani: dalla manutenzione ed estensione dei parchi cittadini alle soluzioni più innovative degli orti verticali».

Parisi: «A Milano gli spazi verdi devono aumentare ed essere riqualificati.  La qualità della vita di Milano dovrà migliorare.  Milano dovrà essere più bella e vivibile in tutti i quartieri, in tutte le strade. Servono progetti di grande respiro e capacità gestionale».
Passera: «Il quadrante Nord Ovest di Milano - quello dell’Expo - può ospitare un parco di quasi un milione di metri quadri, quasi il doppio di quanto oggi previsto. I sette scali ferroviari abbandonati possono diventare sette polmoni di verde, di housing sociale, di impianti sportivi, di intrattenimento per la città. La priorità sarà il recupero e la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e privato, senza consumo di nuovo suolo». 

5) Austria e Francia chiudono le frontiere, Milano subirà la pressione di migliaia di immigrati. Il sindaco ha qualche potere, o dipende tutto dallo Stato?

Sala: «Milano è una città accogliente, e come ha già fatto fino ad oggi saprà avviare politiche di welfare ad hoc per dare assistenza a chi ne avrà bisogno. I nostri interventi saranno tanto più efficaci quanto più potremo agire all’interno di un quadro nazionale definito, mantenendo l’autonomia per affrontare le esigenze che si manifesteranno».

Parisi: «Contrapporre all’ansia e alla paura, assolutamente giustificate, il solo appello all’accoglienza non fa altro che allontanare la ricerca di soluzioni e alimentare lo scontro sociale. Le città moderne devono fare i conti con questo tema assicurando la sicurezza e il decoro in tutte le aree ad alta presenza migratoria, imponendo il rispetto delle nostre leggi e delle nostre regole, rafforzando la nostra identità culturale e non concedendo nulla alla miope e semplicistica attitudine alla sottomissione culturale che caratterizza ampli settori della sinistra. L’integrazione è il nostro obiettivo e deve essere realizzata sulla base di regole chiare. Ma i governi e l’Europa devono fare la loro parte nelle politiche internazionali e nel controllo delle frontiere».   

Passera: «Austria e Francia non devono chiudere le frontiere e, se lo facessero, il nostro governo non dovrebbe tollerarlo. Il sindaco deve essere protagonista sul tema dell’immigrazione: favorendo l’integrazione di quella regolare e contribuendo a contrastare duramente quella irregolare. Lo Stato, oltre a chiedere la collaborazione delle amministrazioni locali, deve accelerare le pratiche di riconoscimento dei rifugiati e rendere più efficaci le espulsioni».  

6) Sicurezza: il sindaco ha poteri, o dipende tutto dallo Stato?
Sala: «Ho più volte detto che la sicurezza non deve essere uno slogan, ma è qualcosa che va fatta. Il sindaco ha il dovere, muovendo tutte le leve in suo possesso, di garantire al cittadino una città sicura e vivibile».

Parisi: «La sicurezza dev’essere garantita dallo Stato e dal Comune. Il sindaco deve farsi promotore del coordinamento delle forze dell’ordine con la polizia municipale. Dobbiamo reintrodurre il Vigile di quartiere, conoscere il territorio, farci sentire vicini ai cittadini. Ma un ruolo fondamentale lo hanno le tecnologie digitali. Mettere in rete le telecamere pubbliche e private presenti nella città potrà dare risultati importanti. Dobbiamo perseguire anche i rati cosiddetti “minori” che minori non sono quando capitano a noi: furti nelle case, furti di auto, moto e bici». 

Passera: «Lo Stato ha responsabilità indelegabili, ma il sindaco può fare tantissimo per la sicurezza. Io intendo garantire il controllo del territorio mettendo mille agenti della polizia locale nelle strade, con una pattuglia operativa con mezzi adeguati 24 ore al giorno in ciascuna degli 88 quartieri cittadini, e così nelle stazioni e sui mezzi pubblici più a rischio. Collocheremo 2.000 nuove telecamere in tutti i punti sensibili della città introducendo le più moderne tecnologie, in tutte le zone   miglioreremo l’illuminazione».
  
7) Aria pulita: sperare in pioggia e vento, o si può fare qualcosa?

Sala: «Si può intervenire in diversi modi. Investire nell’efficientamento energetico dei locali pubblici e di quelli privati, attraverso agevolazioni economiche per la sostituzione delle caldaie, incentivare l’uso dei mezzi pubblici ampliando la rete. Se potenziamo il sistema di trasporto pubblico, estendendolo alla città metropolitana - pensiamo a una linea di metro che colleghi Monza e Milano - a beneficiarne sarà l’intero territorio».

Parisi: «Non si può non fare nulla per anni e poi gridare allo scandalo per venti giorni senza pioggia. Il blocco del traffico non ha mai risolto il problema. E non ha senso contrapporre in modo ideologico la bici all’auto. Bisogna avviare politiche di lungo respiro in grado di dare risultati strutturali.  Certo, il tema non si esaurisce con buone politiche sulla città, bisogna coinvolgere l’hinterland con una visione metropolitana. L’inquinamento non si ferma ai confini della città. Come sindaco dell’area metropolitana cercherò il confronto costante con i 134 Comuni della provincia». 

Passera: «Servono politiche ambientali serie e di lungo termine. In questi ultimi anni è stato fatto troppo poco, come dimostrano tutti gli indicatori. Bisogna agire in molte direzioni: dal rinnovo della flotta dei mezzi pubblici, compresi quelli di Amsa, avendo come obiettivo la totalità di autobus ecologici, all’ammodernamento degli impianti di riscaldamento pubblici e privati. Doveroso poi che gli uffici comunali diano il buon esempio e abbassino le temperature degli ambienti in inverno. Il verde che verrà dal ridisegno degli scali sarà fondamentale, come pure l’utilizzo degli intonaci più innovativi».
8) Case comunali in mano alle mafie, appartamenti sfitti: si può intervenire?

Sala: «Non solo si può, ma si deve intervenire. Andiamo a vedere a chi sono stati dati in affitto gli immobili comunali, verifichiamo che il canone di affitto sia congruo e soprattutto ridefiniamo le regole di aggiudicazione. Serve equità e trasparenza».

Parisi: «Questa è già tra le mie priorità. Sulle case popolari serve una sinergia con la Regione, e questa si troverà facilmente, vista la sintonia con il governatore Maroni. Il patrimonio pubblico è la casa di tutti. Dev’essere valorizzato, oppure venduto. Anche questo è un modo per poter chiedere meno soldi ai milanesi. Non saranno tollerati abusi e occupazioni illegali».
Passera: «Le case popolari sono una vergogna di Milano. Manca manutenzione e, troppo spesso, un livello minimo di sicurezza. Oltre 20mila famiglie sono in lista d’attesa, ma molte migliaia di appartamenti sono vuoti e migliaia sono occupati abusivamente. Nell’housing sociale Milano può essere laboratorio di urbanistica e di nuove tecnologie. Prevedo di destinare almeno un miliardo di euro in cinque anni  al problema della casa: l’attuale amministrazione  prevede solo qualche decina di milioni».

9) Finito il mandato, per quale atto concreto vorrebbe essere ricordato?

Sala: «Mi piacerebbe essere ricordato per aver rimesso al centro le periferie, per aver ridato vitalità a ogni zona di Milano grazie a progetti concreti e duraturi».

Passera: «Vorrei essere ricordato per aver dimezzato la disoccupazione e per aver dato alla Grande Milano i poteri e l’autonomia che oggi in Italia hanno solo le Regioni. Elimineremmo tanta burocrazia inutile, ridurremmo costi pubblici e tasse».
Mauro Suttora

Wednesday, March 16, 2016

Una grillina sindaca di Roma?

Bella, concreta, telegenica: Virginia Raggi guida i sondaggi per il voto di giugno. Ma i suoi storcono il naso perchè ha lavorato per Previti. E per un vizietto di Casaleggio

di Mauro Suttora

Oggi, 9 marzo 2016

Dolce Virginia, occhi da cerbiatta, Audrey Hepburn del Tufello...
Si sprecano i soprannomi per Virginia Raggi, avvocata 37enne che a giugno potrebbe diventare sindaco di Roma per il Movimento 5 stelle. Per ora è in testa ai sondaggi davanti a Roberto Giachetti, l’ex radicale che ha vinto le primarie del Partito democratico. E distanzia anche Alfio Marchini, il bel costruttore che Silvio Berlusconi voleva candidato del centrodestra prima del veto di Giorgia Meloni. Senza speranza appaiono Guido Bertolaso e Francesco Storace.

È bastata un’intervista di Bruno Vespa per entusiasmare Gianroberto Casaleggio, ormai capo unico dei grillini dopo il disimpegno di Beppe Grillo: l’ha convocata a Milano nel suo ufficio dietro via Montenapoleone e ne ha constatato di persona la telegenicità.

La Raggi ha vinto con 700 voti le primarie online dei 5 stelle, battendo Marcello De Vito, candidato sindaco nel 2013. È stata consigliere comunale per tre anni, e ora va all’incasso dopo lo scandalo Mafia Capitale che ha fatto cadere il sindaco Ignazio Marino. «Da Marino-Forrest Gump a Virgin-Mary Poppins», scherzano i grillini, che si sentono già la vittoria in tasca.

Lingua sciolta, concreta, sorridente, Virginia dribbla le domande sui suoi tre anni di lavoro nello studio di Cesare Previti, anima nera del berlusconismo. Li aveva nascosti nel suo curriculum, e per questo Il Fatto, giornale fiancheggiatore dei grillini, ha chiesto di ripetere le primarie.
  
I problemi, però, per il M5s non finiscono qui. È scoppiato infatti anche per loro un caso Watergate: Casaleggio spiava le mail private dei suoi deputati?

Ne sono convinti i 38 parlamentari espulsi o scappati dal partito (uno su quattro), che puntano il dito su una fedelissima del capo: Paola Carinelli, deputata milanese.
 
Ma non sono solo i dissidenti ad accusarla di avere messo le loro mail nelle mani di un informatico vicino a Casaleggio. Anche le ortodosse Tatiana Basilio e Patrizia Terzoni l’hanno messa in croce: «Paola, hai dato tu le password del server a un perfetto sconosciuto, contro le decisioni del direttivo. Lo avevamo assunto con clausola di riservatezza, doveva rispondere solo a noi, ma così non è stato. Per questo volevamo sollevarti immediatamente da capogruppo».

La Raggi è specializzata proprio in diritto informatico nel suo attuale studio, quello del suo ex professore Pieremilio Sammarco (pure lui del giro Previti, chiese 20 milioni di danni a Marco Travaglio). Dipanerà lei la questione?
Mauro Suttora

parla l'italiano che presentò Trump a sua moglie

PAOLO ZAMPOLLI, L'ITALIANO CHE HA FATTO CONOSCERE DONALD TRUMP ALLA SUA TERZA MOGLIE MELANIA KNAUSS

New York (Stati Uniti), 9 marzo 2016

di Mauro Suttora



Il Kit Kat Club era uno dei locali più in voga a Manhattan alla fine degli anni 90. E lì Paolo Zampolli, l’italiano proprietario dell’agenzia ID models, organizzò la festa annuale durante la settimana della moda newyorkese 1998: «Una delle mie modelle più carine era Melania, una slovena che avevo scoperto a Milano pochi anni prima».

Di cognome faceva Knavs, ma se lo cambiò in Knauss per dare un’idea di Germania. Allora, nell’età d’oro delle supermodelle, essere tedesche era un plus: Claudia Schiffer, Heidi Klum. «Anche Heidi faceva parte della nostra scuderia», ricorda Zampolli, «e dopo la separazione da Marla Maples, sua seconda moglie, Donald Trump frequentava volentieri i nostri eventi».

Paolo e Melania sono coetanei, allora erano entrambi 28enni. «Io stavo con la sua migliore amica, la modella ungherese Edit Molnar. Melania era seria e determinata, non le piaceva granché la vita notturna. Venne al party quasi per dovere. Era professionale, aveva una gran voglia d’arrivare. Più che nelle sfilate, eccelleva nei servizi fotografici. E una sua immagine era finita addirittura su un palazzo intero di Times Square».

«Quella donna è incredibile, la voglio»
Al Kit Kat Club quella sera Zampolli, Edit e Melania erano seduti sui sui divanetti della zona vip. Trump, allora  52enne, si presentò con una donna. Ma quando vide la modella slovena dagli occhi grigioblu, fu attrazione immediata: «È incredibile, la voglio», confidò a Edit.

«Ma Melania non cadde ai suoi piedi», continua Zampolli, «e quella sera non diede a Donald il suo numero di telefono. Non lo avrebbe mai fatto, con un uomo accompagnato a un’altra donna. Si limitò a prendere il suo».
Insomma, l’esatto opposto del già famosissimo miliardario. Noto anche per le sue fiammeggianti avventure di coppia: prima con la ceca Ivana, anche lei modella dell’Est, poi con Marla.

«Qualche settimana dopo Trump venne a una cena a casa mia, nella zona di Gramercy park. Ed ebbi una sorpresa: si presentò con Melania. Lei gli aveva telefonato, e la relazione era cominciata».

E via, nella tumultuosa vita notturna di New York: «Una sera prendemmo tutti una limousine nera di quelle lunghe per andare a cena al ristorante Cipriani con il mago David Copperfield».

Elicotteri, aerei: «A volte il venerdì sera Melania e Donald mi davano un passaggio sull’aereo privato di Trump per andare in Florida nei week-end. Allora aveva un Boeing 727, ora ha il 757. Era uno dei pochissimi con il permesso di decollare dall’aeroporto La Guardia, invece di dovere andare fino a quello di Teterboro nel New Jersey, riservato ai voli privati. Loro atterravano a Palm Beach e raggiungevano il palazzo di Mar-A-Lago, io proseguivo per Miami».

La coppia Melania-Donald resiste da 18 anni. Memorabile è rimasto il servizio fotografico del 2000 sul mensile GQ in cui lei appare nuda, sdraiata sul letto dell’aereo privato, indossando soltanto una collana. Titolo: Sesso a 10mila metri di altezza, Melania Knauss accumula le sue miglia.

Nel 2008, chiusa l’agenzia di modelle, Zampolli lavora con Trump nell’immobiliare. Ora si è messo in proprio ed è  ambasciatore all’Onu dell’isola Dominica. Sposato, ha un figlio di sei anni.

Anche Melania e Donald si sono sposati nel 2005, e il loro figlio Barron ha dieci anni. Al matrimonio parteciparono Hillary e Bill Clinton. Erano amici. Ora di meno: a novembre la sfida presidenziale potrebbe essere fra Donald e Hillary. E se quest’ultima perderà, Melania diventerà First Lady come lei.
Mauro Suttora

Tuesday, March 01, 2016

parla Nicoletta Spagnoli

«Mia bisnonna Luisa non si limitò a fondare due grandi aziende di successo in campi diversissimi fra loro, alimentare e abbigliamento. Lo fece cent’anni fa, quando le donne stavano in casa e non potevano neanche votare. E, soprattutto, creò dal nulla i prodotti che vendeva: dal bacio Perugina alla lana d’angora, dalla caramella Rossana alla banana al cioccolato».

Otto milioni di italiani (30% di share, solo Don Matteo fa meglio) sono rimasti incantati dalla fiction tv Luisa Spagnoli. Una specie di Steve Jobs umbra, inventrice instancabile e donna all’avanguardia. «Amo due uomini contemporaneamente», osò confessare nella Perugia degli anni Venti, città provinciale e pettegola: il marito Annibale e l’amante Giovanni Buitoni, suo socio d’affari. Femminista, sostituì con donne gli operai partiti a combattere nella Grande guerra. Padrona illuminata, mise l’asilo nido in fabbrica e scomputava alle dipendenti il tempo dell’allattamento.

Non tutti sanno che ancor oggi la multinazionale della moda Luisa Spagnoli è gestita da una donna: Nicoletta, bisnipote di Luisa. Che, come lei, si occupa di tutto: disegna i vestiti, realizza i cataloghi, coordina le 153 boutiques in Italia e le 56 all’estero (da Palo Alto in California alla Cina, dalle quattro in Iran al Sud Africa).

La intervistiamo dopo che, nella sede storica di Santa Lucia a Perugia, ha dato personalmente una sistematina al trucco e ai capelli delle modelle per la prossima collezione invernale: «Come faceva mia bisnonna con i dolci, pure io non separo la parte creativa da quella commerciale: in azienda ho iniziato come disegnatrice, ma ora controllo ogni settimana i dati delle vendite per regolarmi sui gusti del pubblico».

Quel che Nicoletta non dice, è che da laureata in farmacia era andata negli Usa per un dottorato. Ma a trent’anni, nel 1986, si accollò la gestione dell’azienda di famiglia (che oggi fattura 126 milioni con 800 dipendenti) perché il padre Lino, che fu anche presidente del Perugia calcio, morì a soli 58 anni, come Luisa.
Sua sorella Carla si era sposata e trasferita a Como con figli, il fratello ora ha interessi differenti. Ecco quindi un’altra donna Spagnoli al comando solitario. Due anni fa il debutto del profumo: ovvio, si chiama Luisa.
«Anche oggi il 90 per cento delle nostre dipendenti sono donne. Mi piace che, grazie alla bravura dell’attrice Luisa Ranieri, tutta l’Italia abbia scoperto il genio di bisnonna. Era spregiudicata? Beh, non solo ebbe due uomini, ma riuscì a farsi amare da entrambi fino all’ultimo».
  
Mauro Suttora


Oggi, Febbraio 2016