Saturday, February 11, 2017

Il M5s odia la libertà e bastona i giornalisti

UN PARTITO INTOLLERANTE AL SUO INTERNO, CHE LANCIA MINACCE ALL'ESTERNO

di Mauro Suttora
Libero, 11 febbraio 2017

Il problema dei grillini non è né Virginia Raggi, né il caos Roma. È la struttura segreta-paranoica del loro movimento a produrre disastri a getto continuo. Da due settimane, disperato, Grillo vieta ai suoi adepti di scrivere addirittura sulle proprie pagine facebook. «Taci, il nemico ti ascolta», è il suo mussoliniano avvertimento.

Eppure il mestiere dei parlamentari è parlare, lo dice la parola stessa. Nessun partito al mondo può impedirlo. Tranne il partito comunista cinese. Ma perfino il Quotidiano del Popolo di Pechino ora boccia i grillini: «Sono i peggiori populisti d’Europa».

Come tutti i bocconiani, il figlio di Casaleggio non sa cos’è la democrazia. La cultura aziendale è il contrario della libertà. Nelle imprese comanda il Capo. Le aziende hanno un’organizzazione dittatoriale: agli ordini dei manager si obbedisce. In nome dell’efficienza, il dibattito è tollerato solo se sollecitato dal vertice.

Così nel Movimento 5 stelle. «Una formica non deve sapere come funziona il formicaio, altrimenti tutte le formiche ambirebbero a ricoprire i ruoli migliori e meno faticosi», teorizza Casaleggio baby. E Grillo tratta i suoi discepoli con la delicatezza del satrapo mesopotamico. 

I grillini sono un misto di caserma, oratorio, convento e asilo infantile. Fra loro i dossieraggi da setta poliziesca sono sempre esistiti, ben prima di quelli di un anno fa contro Marcello De Vito, il candidato sindaco a Roma fatto fuori dalla Raggi.

Ai primi, nel 2013, contribuii anch'io. Un dirigente romano mi chiese informazioni su certi senatori monzesi che erano riusciti a farsi eleggere in blocco, eliminando tutti i milanesi. In teoria le cordate erano proibite. Spiegai che una era stata eletta solo perché moglie di un consigliere comunale grillino: fino a pochi mesi prima non sapeva neanche chi fosse Grillo. Altri casi di parenti infestavano la Lombardia.

Tutto fu scrupolosamente registrato. Dopo qualche mese partirono le epurazioni contro chi osava dissentire. I 40 parlamentari espulsi in questi quattro anni sono stati ricattati con pettegolezzi riservati.

Ormai, dopo la pubblicazione delle loro chat Whatsapp, fra i grillini si è sparso il panico. Parlano solo di persona, non lasciano più tracce scritte. Alcuni si illudono che le chat Telegram siano più sicure. Sembra di essere a Mosca o a Berlino negli anni 30. 
   
L’unica libertà di parola la esercitano contro i giornalisti. Sventolano una pseudoclassifica sulla libertà di stampa che vedrebbe l’Italia al 77° posto al mondo. Non capiscono che la graduatoria si riferisce alle minacce contro la libertà di stampa. E ci mancherebbe, in un paese per metà in mano a mafie e ’ndranghete, e in cui i politici possono mandare i cronisti in carcere o intimidirli con querele campate in aria. 

Questo non impedisce che l’Italia abbia fior di giornali e tv. Ma loro auspicano il genocidio dei giornalisti: «Verrete sostituiti dalla rete», jellano. 

Di Maio si appella all'Ordine dei giornalisti. Non ricorda che il M5s nel 2008 raccolse mezzo milione di firme per un referendum sulla sua abolizione (furono buttate perché il figlio di Casaleggio sbagliò le date della raccolta). Ma per bastonare la libertà, tutto va bene. 

Lo scoop della polizza di Romeo regalata alla Raggi è opera in tandem di Fatto ed Espresso. Però nell’elenco dei giornalisti da punire, quello del quotidiano pro-Grillo magicamente sparisce.

 Intolleranti al loro interno, i grillini moltiplicano le minacce all’esterno. «Siamo il cambiamento che proponiamo», era il loro slogan. Speriamo di no.

Mauro Suttora 

Friday, February 10, 2017

Baby Casaleggio si fa pagare dai grillini

UN MILIONE DI EURO IN DIECI MESI

di Mauro Suttora

Libero, 10 febbraio 2017


Le uniche buone notizie per Beppe Grillo, ma soprattutto per Davide Casaleggio, in questi giorni arrivano da Rousseau. La piattaforma lanciata dieci mesi fa, dopo la morte di Casaleggio padre, si sta rivelando una gallina dalle uova d’oro. «Abbiamo incassato un milione di euro», annuncia trionfale Luigi Di Maio.

Microdonazioni da 20-30 euro l’una di militanti grillini, quelli che ancora credono nei vecchi slogan, prima del disastro Roma: democrazia diretta, uno vale uno, l’onestà andrà di moda.

Al ritmo di centomila euro al mese, questo fiume di soldi sta raddrizzando le finanze del Movimento 5 stelle. Casaleggio junior (simpaticamente soprannominato Trotaleggio dalla metà degli attivisti che non lo sopporta) ne aveva bisogno urgente, perché i conti della sua società privata stanno invece andando a catafascio.

L’ultimo bilancio della srl Casaleggio & Associati è in rosso per 123mila euro. Nel 2015 il fatturato è crollato della metà rispetto al 2013: poco più di un milione, contro i due degli anni d’oro. Quando l’utile, una volta distribuiti buoni stipendi ai soci, raggiungeva il quarto di milione.

Ma ormai il giocattolo si è rotto. La società, con sede nel lussuoso quadrilatero della moda, a metà strada fra Mediobanca e via Montenapoleone (curioso, per un movimento che si dice rivoluzionario, stare in una zona da 20mila euro al mq), non “tira” più con la pubblicità del blog di Grillo. L’editrice Chiarelettere ha disdetto un ricco contratto. E anche i siti-civetta come La Fucina e Tze Tze, accusati di propalare bufale, vanno male. Risultato: -28% di utili.

A farne le spese Casaleggio junior, che controlla il 60% del capitale, ma anche il socio Luca Eleuteri con il 20% e gli altri: Maurizio Benzi, Marco Maiocchi e Mario Bucchich. Tutti chiamati a ripianare le perdite. Tutti sconosciuti agli attivisti grillini, mai un discorso in pubblica, mai una parola nelle riunioni. Alla faccia della trasparenza, il secondo partito italiano è guidato da una società privata a scopo di lucro con il culto della segretezza. Ne sa qualcosa Milena Gabanelli, la più votata alle primarie M5s per le presidenziali, respinta maleducatamente quando chiese di visitare la sede di via Morone.

In teoria, la nuova piattaforma Rousseau dovrebbe sganciare i destini del Movimento da quelli della società personale Casaleggio. Ma in pratica, il controllo del giovane Casaleggio sulla Fondazione che la gestisce (e che incassa le donazioni) è ferreo. 

Ha cooptato lui i due fedelissimi che la gestiscono: Massimo Bugani, candidato trombato alle ultime comunali di Bologna, e David Borrelli, l’eurodeputato che di nascosto voleva portare i grillini fra i liberali europei, fino all’umiliante dietrofront verso gli antieuropeisti di Farage.

«Il sistema Rousseau ci costa poche centinaia di migliaia di euro l’anno, molti lavorano gratis», si vanta Di Maio. Dove va il resto del milione raccolto? Mistero. Finora la fondazione non ha pubblicato resoconti.

I parlamentari, intanto, hanno pubblicato i loro ultimi rendiconti. Ormai l’entusiasmo iniziale si è inaridito. Pochi continuano a “restituire” 4-5mila euro mensili sui 14mila di stipendi e rimborsi, come quattro anni fa (un virtuoso rimane il senatore Maurizio Buccarella). Gli altri sono calati a 1.700-2.000. Il minimo indispensabile per non essere espulsi. 

Molti dichiarano di spendere grosse cifre per non meglio precisati «eventi sul territorio». Ma ora che Rousseau macina milioni, che bisogno c’è di fare sacrifici? Se il convento è ricco, anche i frati possono godersi i loro 10mila al mese.
Mauro Suttora    

Wednesday, February 08, 2017

Mamma Trump arrivò negli Usa con 50$



FUGGIVA LA FAME DELLE ISOLE EBRIDI NEL 1930

di Mauro Suttora

Oggi, 8 febbraio 2017

La mamma di Donald Trump era una poverissima immigrata scozzese, che arrivò nel 1930 a New York con appena 50 dollari in tasca. Mary Anne MacLeod aveva solo 18 anni quando s’imbarcò. Era l’ultima di dieci figli di un pescatore delle isole Ebridi, nell’estremo nord della Gran Bretagna.
Il suo villaggio, più vicino alle isole Far Oer che a Londra, negli anni 20 era devastato dalla fame. La Grande guerra aveva ucciso molti maschi in età di matrimonio, e 200 di loro annegarono sulla nave che li riportava a casa.

Per di più uno speculatore miliardario, una specie di Trump dell’epoca, Lord Lever (fondatore di quella che è oggi la multinazionale Unilever), comprò l’intera isola dove abitava la famiglia MacLeod, Lewis, costringendo i poveri contadini a lasciare i loro piccoli campi. 
Infine, una disgrazia privata: una sorelle di Mary Anne aveva avuto un figlio fuori dal matrimonio, scandalo inconcepibile per la religione protestante dell’epoca.

Fu così costretta a fuggire in America, dove pochi anni dopo la raggiunse la sorella, che andò a servizio a ore come domestica a Long Island.

Dopo qualche anno Mary Anne conosce a una festa danzante Fred Trump, padre di Donald, lui stesso figlio di immigrati tedeschi. È la svolta: l’intraprendente Fred, già attivo come costruttore, la porta via dalla sua misera vita. Nel 1934 Mary Anne torna in Scozia, probabilmente per avvertire la famiglia del fidanzamento, e ottenerne l’approvazione. Nel ’35 si sposa, ma soltanto nel ’42 otterrà la cittadinanza statunitense.

Avrà cinque figli. Il penultimo, Donald, nasce nel 1946. Il primogenito maschio, purtroppo, morirà per alcolismo a 42 anni. Ecco perché il presidente Usa ora è astemio.

Mamma Trump segue l’ascesa del marito. Fred Trump nel dopoguerra fa fortuna costruendo e affittando case popolari per i reduci della Seconda guerra mondiale. Fra questi, a Brooklyn, c’era Woody Guthrie, il famoso cantante folk (This Land is Your Land) padre artistico di Bob Dylan, che dedica al padre del presidente la poco affettuosa canzone Old man Trump, accusandolo di pretendere affitti troppo alti e di discriminare i neri.

Mary Anne MacLeod Trump muore a 88 anni nel 2000, un anno dopo l’amato marito. Non ha mai voluto trasferirsi a Manhattan, dove Donald aveva sfondato con i suoi grattacieli. Ma ritornò in Scozia per una visita, perché lì Trump ha acquistato un grande golf club, in onore di sua mamma immigrata.

Mauro Suttora

Tuesday, January 24, 2017

Trump: perle di saggezza

di Mauro Suttora

24 gennaio 2017

dai suoi tre libri:

Approccio positivo
Immaginati come un individuo vittorioso. Focalizzati su questo, invece che sui dubbi e le paure.

Pensate in grande
Qualunque cosa facciate, pensate in grande. È la regola aurea che ha ispirato tutte le grandi conquiste dell’età moderna, dai grattacieli alle scoperte scientifiche e alle invenzioni tecnologiche.

Obbedire
Imparare a prendere ordini è importante per la leadership, perché prima di diventare un leader dovete imparare a essere un buon seguace.

Insonne
Sono così innamorato del lavoro che dormo solo 3-4 ore a notte. Non vedo l’ora di alzarmi e andare a lavorare, perché mi diverto tantissimo.

Basic instinct
Ascolto tutti, ma alla fine decido io. Seguite il vostro istinto personale. Senza istinto farete molta fatica ad arrivare al top.

Brevi
Nelle riunioni non tirate per le lunghe. Devono essere corte e andare subito al punto. Il giorno ha poche ore: più si va veloci, più cose si fanno.

Gratis
Quando vado al ristorante, specie dopo The Apprentice, mangio sempre gratis. “Mr. Trump, offre la casa”, anche se sono con 10-15 persone.

Ricco, non avido
Contrariamente all’opinione comune, i ricchi non sono avidi. Gli imprenditori devono essere molto generosi per diventare ricchi.

Matrimonio
Ci si sposa per amore. Ma il matrimonio è un contratto, non c’entra niente con l’amore. Se l’amore finisce, resta solo una ex rancorosa. Niente è peggio di un’ex moglie col dente avvelenato. Se non avessi fatto accordi prematrimoniali con Ivana e Marla, sarei sul lastrico.

Viagra
È fantastico, ma non ne ho avuto mai bisogno. Vorrei un anti-Viagra, con l’effetto opposto. Non mi sto vantando, sono solo fortunato. Se ti serve il Viagra, probabilmente sei con la donna sbagliata.

Donne
Siate impertinenti, sicuri di voi, brillanti, spiritosi, e avrete tutte le donne che volete.

Politica
In politica come nella vita, gli amici vanno e vengono, ma i nemici si accumulano.

Contro Bush
Dopo l’11 settembre 2001 gli Usa avevano la possibilità di diventare il Paese più popolare del mondo. In poche settimane Bush l’ha distrutta. Ha invaso l’Iraq che non c’entrava nulla, ha mentito. Ora non siamo più rispettati come un tempo.

Cina
Non ho nulla contro la Cina, ma odio il fatto che i suoi leader siano molto più intelligenti dei nostri, e che i nostri prodotti siano fatti lì.

Amo vincere
Mi piace il successo. Sono molto competitivo. Amo vincere quando studio, gioco, faccio affari, politica.

Meglio del sesso
Amo schiacciare la controparte e portare a casa affari miliardari. Non c’è nulla di più bello. Meglio del sesso, che pure apprezzo molto.

Vendetta
Se qualcuno vi offende, fategliela pagare. Non è un consiglio edificante, ma viene dall’esperienza. Altrimenti si passa per codardi. Reagite. Così sanno che se ci provano, troveranno un osso duro.

No alcol, droga, caffè
Un mio fratello è morto per alcolismo. Era un gran bel ragazzo, personalità stupenda. L’ho visto disintegrarsi. Non ho mai preso droghe ne’ alcol. Non bevo nemmeno il caffè.

Non mi accontento mai
Non fa parte del mio carattere. Se riposate sugli allori, avete chiuso. Non si puòrestare fermi. Se lo fate, la vita vi taglia fuori. Gli immobiliaristi non vanno mai in pensione, continuano fino a 80-90 anni.

Tuffatevi
Non concedetevi il tempo per dubitare. Quando pensate «Non sono sicuro di poterlo fare», trasformatelo in «Mi sentirò grande quando l’avrò fatto!»

Forza non è arroganza
La forza è disciplina, comportamento, determinazione e grinta. Non significa che devi essere arrogante, sgarbato, sgradevole o autoritario.

(a cura di Mauro Suttora)

Monday, January 23, 2017

Trump: le prime mosse

di Mauro Suttora

Washington, 23 gennaio 2017

«Oggi il potere non passa solo da un presidente o da un partito all’altro. Oggi il potere torna a voi, popolo». Donald Trump, come tutti i politici, vorrebbe marcare l’inizio di una nuova era. E per dimostrarlo non misura le parole. Così il 20 gennaio, subito dopo il giuramento da presidente Usa, non ha pronunciato un discorso: ha annunciato una rivoluzione.

«COMPRA E ASSUMI AMERICANO». Il suo slogan è “America first”, prima l’America. Cioè preferire i prodotti made in Usa, e precedenza ai lavoratori statunitensi sugli immigrati. Nazionalismo economico. In concreto: imporre dazi doganali alle importazioni, ed espellere i clandestini. Dal liberismo al protezionismo.

SANITÀ. Il primo decreto firmato abolisce la riforma sanitaria di Obama, che allargava l’assistenza medica a una ventina di milioni di persone, non così povere o anziane da usufruire dell’assistenza gratuita, e non così ricche da essere coperte con le assicurazioni private obbligatorie. Ma è stata una firma simbolica: ora la parola passa ai 50 stati.
   
MELANIA/IVANKA. La terza moglie slovena Melania è tornata a New York. Si trasferirà a Washington solo a giugno, quando il figlio Barron finirà la quinta elementare. Il vuoto è colmato da Ivanka, solo 10 anni meno della matrigna, figlia della prima moglie ceca Ivana. Le due donne sono state impeccabili durante le cerimonie, ma hanno scambiato poche parole nelle lunghe ore in cui sono rimaste una accanto all’altra, presenziando alla parata. Rivalità in vista?

EX. All’inaugurazione c’erano tutti gli ex presidenti tranne il 92enne Bush senior, in ospedale. Miracolosa la guarigione del coetaneo Jimmy Carter, sopravvissuto a un tumore del cervello. Bill Clinton stava un po’ troppo con la bocca semiaperta, in debito di ossigeno. Sua moglie Hillary ha voluto esserci nonostante l’umiliante sconfitta, forte dei suoi tre milioni di voti in più di Trump (ha perso a causa dei collegi statali maggioritari). Il più allegro era George Bush junior, che non ha mai nascosto il suo disprezzo per Trump (ricambiato). Ma tutti si sono stretti fintamente la mano.
   
ANTI. Nel primo giorno della sua presidenza Trump si è beccato la prima manifestazione contro. Non era mai successo. «Io non l’ho votato, ma almeno diamogli una possibilità», ha detto l’attore Michael Keaton (in questi giorni nei cinema interpreta un personaggio trumpiano che espulse crudelmente i fratelli McDonald dal loro impero degli hamburger). Niente da fare. Le donne sono già furibonde per il maschilismo di Trump. «Potevano votarmi contro», ha risposto lui.
   
PACCHETTO. La scena più buffa è stata quella di Melania Trump che consegna a Michelle Obama un regalo. Ma l’ex First lady non sa dove metterlo. Si rivolge alle due guardie, che però hanno le mani immobilizzate nel saluto militare. Interviene Barack, sempre gran signore, e fa sparire la scatola azzurra. Cosa c’è dentro? Per ora, mistero. È un pacchetto di Tiffany, la gioielleria accanto alla Trump Tower sulla Quinta avenue di New York.

PACCO. È quello che gli schieramenti avversari temono dal fronte opposto. I democratici sono terrorizzati da quel che combinerà il vecchio Donald (perfino Reagan era più giovane di lui quando divenne presidente). I trumpisti continuano ad accusare i giornalisti di dare notizie false, anche sui numeri del pubblico all’Inaugurazione: neppure l’evidenza delle foto ha sopito la lite sulla minore presenza rispetto al debutto di Obama nel 2008.

Mauro Suttora

Friday, January 20, 2017

Il governo Trump

Speciale Oggi, 20 gennaio 2017

di Mauro Suttora

Il numero due di Trump è il vicepresidente Mike Pence, 57 anni, ex governatore dell’Indiana. Come segretario di Stato (ministro degli Esteri) è stato scelto il texano Rex Tillerson, 64, già presidente della multinazionale del petrolio Exxon Mobil. 
Un altro pezzo grosso del governo è il segretario del Tesoro newyorkese Steven Mnuchin, 54, banchiere di Wall Street (Goldman Sachs) e produttore cinematografico (Avatar, X-Men, American Sniper, Mad Max: Fury Road). 
Altri miliardari del gabinetto Trump sono il ministro del Commercio Wilbur Ross, 79 (patrimonio personale: tre miliardi di dollari) e quella dell’Istruzione Betsy DeVos, 59 (cinque miliardi).

Alla Difesa c’è il generale in pensione James Mattis, 66. Gli altri due generali al governo sono l’ex marine John Kelly, 66, segretario della Sicurezza interna (il dipartimento creato dopo la strage dell’11 settembre 2001), e il consigliere per la Sicurezza nazionale (ruolo ricoperto in passato da Kissinger, Brzezinski e Condoleezza Rice) Michael Flynn, 57, già capo della Dia, il servizio segreto militare.

L’italo-americano Mike Pompeo, 54, già deputato del Kansas, guida la Cia. Posto delicato, dopo le accuse della Centrale di controspionaggio estero alla Russia di avere favorito Trump contro Hillary Clinton allle elezioni, con intromissioni nei computer.

La nomina più curiosa è quella del governatore del Texas Rick Perry, 66, a ministro dell’Energia. Perry, vicino alla lobby dei petrolieri del proprio stato, in passato aveva proposto l’abolizione del dipartimento che ora guida.
Mauro Suttora

Cosa farà Trump nel mondo

Speciale Oggi, 20 gennaio 2017

di Mauro Suttora

Gli Stati Uniti che Donald Trump eredita dopo gli otto anni democratici di Barack Obama sono un Paese in ottima salute. L’indice di Borsa Dow Jones è ai suoi massimi storici di sempre: quasi 20mila punti. Il doppio del boom precedente, quello della New Economy di Bill Clinton alla fine degli anni 90.

La supremazia tecnologica è anch’essa senza precedenti nella storia umana. Mai tanto potere planetario si era concentrato in così pochi chilometri quadri come oggi nella Silicon Valley. Una accanto all’altra, a sud di San Francisco, stanno le sedi dei giganti che controllano la Rete mondiale: Apple, Google, Facebook, Yahoo, Amazon, Whatsapp, Twitter, Instagram.

A nord della California c’è la Microsoft di Bill Gates, con i suoi 22 miliardi di utile annuo su 86 di fatturato: una redditività astronomica. Né ha perso potere la vecchia Ibm, con i suoi 81 miliardi di ricavi.

Le difficoltà della coreana Samsung hanno rafforzato Apple come leader mondiale dei telefonini. E il 32enne Mark Zuckerberg in soli dodici anni è riuscito a connettere quasi due miliardi di persone sulla Terra con la sua Facebook.

Nonostante i progressi del proprio Pil, la Cina rimane a 11mila miliardi di dollari contro i 18mila degli Usa (terzo a grande distanza il Giappone con 4mila). 
Ma il vero indice di ricchezza è il Pil pro capite, e qui ogni americano è (in media) all’ottavo posto con 55mila dollari, superato solo da piccoli paradisi del petrolio come Qatar, Brunei, Kuwait ed Emirati, o europei come Lussemburgo, Norvegia e Svizzera (gli italiani sono 31esimi, i cinesi 84esimi).

Insomma, l’America di Trump continua a essere l’unica superpotenza mondiale, nonostante tutti quelli che da decenni ne annunciano il declino. Le sue università attraggono sempre i migliori cervelli scientifici del mondo, New York è ancora l’approdo preferito di ogni miliardario che voglia acquistare una casa prestigiosa, i film e le serie tv di Hollywood dominano il nostro immaginario.

Tutta questo potere soft è ben sorvegliato con i 600 miliardi di dollari che gli Usa spendono ogni anno per le loro forze armate, più i 500 miliardi destinati ai servizi segreti dopo il 2001 per controllare estremisti islamici e cyberterroristi. 
Per dare l’idea dell’enormità di queste cifre e della distanza rispetto agli altri Paesi, basti dire che le spese militari cinesi sono di 200 miliardi annui, le russe 60, le britanniche 55, le francesi 50.

Quale sarà l’America di Trump? In campagna elettorale lui si è dichiarato protezionista e isolazionista. Questo significa che ostacolerà il liberismo nel commercio internazionale, e non s’immischierà in tutte le crisi in cui viene chiesto l’intervento militare Usa.

Per il primo aspetto, quello economico, il conflitto principale sarà con la Cina. Trump vuole salvare i posti di lavoro che l’America (ma anche l’Europa) perde in favore dei Paesi del Terzo Mondo che producono a costi minori. 
Per giustificare l’introduzione di barriere e tariffe doganali contro i prodotti made in China accusa Pechino di violare gli standard ecologici delle fabbriche occidentali, e le nostre libertà sindacali: «Ci fanno concorrenza sleale distorcendo il mercato!», tuona.
Paradossalmente, quindi, un presidente “reazionario” potrebbe rivelarsi un campione dei diritti ambientali e umani, che se rispettati fanno aumentare i costi dei prodotti.

Sul secondo aspetto, ricordiamo che l’isolazionismo trionfò negli Usa durante gli anni 30, quando movimenti come America First di Charles Lindbergh (il primo uomo che volò sull’Atlantico) non volevano che «giovani americani andassero a morire in Europa» una seconda volta, dopo i 116mila soldati statunitensi uccisi nella Prima guerra mondiale. 
Ci volle l’attacco di Pearl Harbour per convincere gli Usa a intervenire contro i nazifascisti nel dicembre 1941, ben due anni dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale.

Questa volta, sono i disastri combinati da Bush junior in Iraq e Afghanistan a tenere gli americani lontani da ulteriori interventi. Già Obama non si è immischiato in Siria, in Libia si è limitato a far rispettare una no fly zone, e anche contro l’Isis impiega aerei e droni invece dei «boots on the ground» (stivali sul terreno, interventi con soldati).

Se Trump proseguirà in questo disimpegno, ecco un secondo paradosso: un repubblicano potrebbe rivelarsi il presidente Usa più pacifista dopo i democratici Carter e Clinton. Quel che è certo, è che chiederà a noi europei di aumentare le spese militari cui destiniamo il 2% del loro Pil, mentre gli Usa superano il 4. 
Ma che può fare se rifiutassimo? Chiudere le basi americane in Italia e Germania? Sarebbe curioso che proprio un presidente di destra come lui attui il vecchio sogno dei comunisti: sciogliere la Nato.

L’unica cosa certa è che Trump non crede al riscaldamento globale della Terra, e quindi non ridurrà le emissioni di combustibili fossili (petrolio, carbone e gas). Proseguirà nello sfruttamento dello shale gas, il gas da argille estratto dalle rocce bituminose che ha già reso gli Usa indipendenti energeticamente e abbassato il prezzo del petrolio. Inoltre darà un giro di vite contro gli immigrati clandestini dal Messico.

Ma da un personaggio creativo, pragmatico e imprevedibile come Trump c’è da aspettarsi di tutto. Anche che litighi con il russo Putin, che ora passa per suo grande amico, ma che inevitabilmente prima o poi entrerà in collisione con gli interessi americani nel mondo.

Mauro Suttora

Trump, Putin, Lavrov

di Mauro Suttora

Speciale Oggi, 20 gennaio 2017

Il famoso scrittore norvegese Jo Nesbø ha scritto Okkupert, una serie tv venduta in tutto il mondo (non in Italia) in cui la Russia invade la Norvegia e i Paesi nordeuropei subiscono il ricatto energetico russo e pressioni di ogni tipo, con quinte colonne filorusse interne.

È questo lo scenario inquietante aperto dalla vittoria di Donald Trump, amico di Vladimir Putin, il quale sarà seguito dai due principali candidati presidenti francesi entrambi filorussi (François Fillon e Marine Le Pen). Amici di Putin sono anche i grillini, leghisti e forzisti italiani, e l’antieuropeista Nigel Farage in Inghilterra.

Oggetto del contendere sono le sanzioni imposte alla Russia da Usa e Ue nel 2014, dopo l’annessione unilaterale della Crimea e la guerra ucraina. Trump le vuole togliere, anche se sarà difficile convincere il senato statumitense, dove neppure i repubblicani condividono l’aentusiasmo del nuovo presidente per l’autocrate russo.

Trump e Putin non si sono mai incontrati, anche se nel 2013 Donald andò a Mosca per il concorso di Miss Universo che organizza ogni anno, e poi si vantò di averci parlato. Più stretti i rapporti di Trump con il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, che ha lavorato 17 anni all’Onu a New York e quindi lo conosce bene.

Non è un mistero che Putin abbia tifato Trump al voto Usa, e che la simpatia sia apertamente ricambiata dal nuovo presidente. Controversa invece rimarrà la vicenda delle mail rubate al partito democratico per danneggiare Hillary Clinton. 
La Cia è sicura che siano stati i russi a darle a Wikileaks, e per questo il presidente Obama ha espulso 35 diplomatici russi da Washington. Ma Trump, in nome della comune lotta al terrorismo islamico, riallaccerà i rapporti con Mosca.
Mauro Suttora

L'Impero Trump

Speciale Oggi, gennaio 2017

di Mauro Suttora

I dipendenti del Trump Hotel di Las Vegas (il più alto della città, 64 piani, inaugurato nel 2008) sono felici. Improvvisamente a dicembre, dopo mesi di proteste e trattative, hanno ottenuto quel che chiedevano: aumenti salariali, copertura pensionistica e sanitaria, orari più leggeri, distribuzione equa delle mance.

Questo perché l’elezione di Donald Trump a presidente lo ha ammorbidito verso il sindacato. Temendo l’accusa di essere un padrone dispotico, ha ceduto su tutta la linea. Anche gli ex studenti della Trump university che lo avevano denunciato per truffa hanno avuto 25 milioni di dollari di risarcimento. E può darsi che venga demolito persino il muro sul mare del Trump Golf Club in Irlanda, dopo anni di inutili battaglie.

L’impero economico di Trump vale diversi miliardi di dollari: da 3 a 10, a seconda delle stime. Si va a tentoni, perché lui rifiuta di rendere pubbliche le proprie dichiarazioni dei redditi e i conti della Trump organization, che non è quotata in Borsa. D’altra parte, dopo averli tenuti nascosti per tutta la campagna elettorale, perché dovrebbe cedere proprio ora che ha vinto?

Mai nella storia degli Stati Uniti era stato eletto un presidente così ricco. Le proprietà immobiliari di Trump coprono 25 Paesi in quattro continenti. Sul suo impero non tramonta mai il sole. Ci sono gli alberghi, da New York a Washington, da Las Vegas a Manila. I golf club, dal New Jersey alla Florida, dalla Scozia a Los Angeles. I palazzi per uffici e i condomini residenziali. I progetti immobiliari faraonici dal Sudamerica all’India, dalla Georgia al Giappone. I casinò, i resort. I diritti sul concorso Miss Universo, su programmi tv come The Apprentice. E perfino una flotta di sei fra elicotteri e aerei, tutti col gigantesco nome “Trump” dipinto sulle fiancate.

I residenti della Trump Place di Manhattan sono riusciti, dopo l’elezione, a far togliere le lettere dorate del suo cognome che sovrastavano la loro entrata. Otto newyorkesi su dieci gli hanno votato contro l’8 novembre. Ma altri condomini dei suoi grattacieli di lusso, per esempio quello nero altissimo di fronte all’Onu, sono fieri di avere comprato da lui.

Negli anni 50 un affittuario di suo padre a Brooklyn gli dedicò una canzone, Old Man Trump, definendolo uno «sporco speculatore». Era un veterano di guerra: Woody Guthrie, padre artistico di Bob Dylan. Dopo le case in convenzione, Trump senior e il figlio fecero il grande balzo in avanti nel 1980 con la Trump Tower sulla Quinta avenue. Donald ebbe un’idea geniale: per costruire più in alto rispetto ai palazzi vicini, acquistò i diritti di edificazione dall’adiacente negozio di Tiffany. Ne fu tanto orgoglioso da battezzare Tiffany la secondogenita. Oggi la Trump Tower vale quasi mezzo miliardo di dollari.

Fra le sue 144 società Trump ha dal 2010 anche il Central Park Carousel, l’iconica giostra vintage ribattezzata ‘Trump Carousel’, che incassa 586mila dollari annui, e l’altrettanto famosa pista di pattinaggio sul ghiaccio nel cuore del polmone verde di Manhattan, il Wollman Rink (8,7 milioni di incassi l’anno).

Da questo impero ora Trump dovrà staccarsi, per non rischiare conflitti di interesse. Compito difficile, perché i suoi tre figli maggiori sono coinvolti ai massimi livelli (come vicepresidenti) nel business di famiglia.

Di Trump Tower se ne contano a decine in tutta America ma anche all’estero: Istanbul, Dubai, Mumbai, Seul, Panama, Toronto, Vancouver. Anche in Messico. Sono comunque le attività di New York alla base di almeno il 66% della ricchezza di Trump, con il 64% del giro d’affari generato dal settore immobiliare. La sede dell’organizzazione è nella Trump Tower, 30 piani sotto il suo attico da 3mila metri quadri (che da solo vale 50 milioni).

Gli altri palazzi Trump più famosi a Manhattan sono il 40 Wall Street, storico edificio del 1930 fra i più conosciuti dello skyline con il suo tetto spiovente azzurro, acquistato nel 1995; il Trump International Hotel di Columbus Circle, nell’angolo sud-ovest di Central park, che agli ultimi piani ospita anche appartamenti privati, fra cui l’attico da 500 mq. venduto due anni fa per 33 milioni (66mila dollari a mq); il Trump Park Avenue all’angolo con la 59esima Strada, storico ex hotel Delmonico che ospitò i Beatles nel loro primo tour Usa del 1964, trasformato in condominio, comprato e ristrutturato 15 anni fa da Trump, il quale ne conserva 23 appartamenti che affitta a canoni stratoferici (fino a 100mila dollari mensili).

Altri ex hotel di Trump a New York sono il Barbizon, a Central Park South, e il 610 Park Avenue (ex Old Mayfair), acquistato vent’anni fa assieme al gruppo Colony Capital di Tom Barrack (proprietario della Costa Smeralda per dieci anni, fino al 2012); l’ultimo nato, il condo-hotel Trump Soho, aperto nel 2010, unico edificio del quartiere alto il triplo degli altri, non si sa in base a quali favoritismi.

D’inverno Trump, come molti paperoni di New York, fugge al caldo di Palm Beach in Florida. La sua proprietà a Mar-a-lago da 250 milioni e 10mila mq. ha 126 stanze e una storia curiosa. Fu costruita negli anni 20 da una eccentrica miliardaria che poi la cedette al governo federale, con la clausola (mai rispettata) che fosse destinata a residenza dei presidenti Usa.

Venne comprata nel 1985 da Trump come residenza privata fino al 1995, quando la converti in un club privato di lusso. Perciò costruì piscina, salone di bellezza, spa, campi da tennis e da croquet.
Solo oggi la volontà della vecchia miliardaria viene rispettata, per uno scherzo del destino.

A Washington è stato appena inaugurato l’ultimo Trump hotel, nell’ex palazzo centrale delle Poste. Sta al numero 1100 di Pennsylvania Avenue, a metà strada fra la Casa Bianca e il Congresso. Se qualche suo ospite si troverà nella capitale per incontrare membri di uffici governativi (come capita alla metà di chi va a Washington), ecco delinearsi un bel conflitto d’interesse con Donald, che del governo è il capo. Gli avvocati democratici non vedono l’ora di sollevare cause.

Ma l’hotel Trump più alto degli Stati Uniti sta a Chicago: con i suoi 423 metri è il quarto grattacielo d’America, superato solo dall’One World Trade Center (ex Torri Gemelle) e dal 432 Park Avenue di New York (finiti l’anno scorso) e dalla Willis Sears Tower di Chicago. È costato 1,2 miliardi di dollari, la quota di Trump era il 10%.

Mauro Suttora