Friday, August 01, 2014

Giancarlo Perna vs Sallusti

1 agosto 2014
Giancarlo Perna se ne va dal Giornale in polemica con Alessandro Sallusti

La firma storica del quotidiano non ha accettato che una sua intervista all’ex ministro Antonio Martino non sia stata pubblicata. E sottolinea: “Questione di stile. Neanche Montanelli mi censurò mai”

È stata un’intervista all’ex ministro e fondatore di Forza Italia Antonio Martino la goccia che ha fatto traboccare il vaso fra Giancarlo Perna, firma storica del Giornale, e il direttore Alessandro Sallusti. Così, dopo più di 30 anni uno dei giornalisti più corrosivi d’Italia lascia il quotidiano della famiglia Berlusconi e passa a Libero

UNA QUESTIONE DI STILE – Perna non ha accettato che la sua intervista a Martino non sia stata pubblicata dopo essere stata concordata, ma soprattutto non ha apprezzato il silenzio di Sallusti: “Questione di stile. Neanche Montanelli mi censurò mai. L’unica volta che lo fece, per un mio ritratto di Andrea Manzella, se ne pentì al punto che mi riscrisse un suo articolo su Menichella, per mostrarmi come secondo lui andavano trattati i grand commis: in punta di penna, altrimenti – mi disse – l’Italia non avrebbe neanche uno scheletro cui appoggiarsi”.

CURRICULUM DOC – Perna, 74 anni, che è stato anche inviato nei settimanali Europeo e Panorama, ha scritto una biografia al vetriolo di Eugenio Scalfari: Una vita per il potere (ed. Leonardo, 1990).

Wednesday, July 16, 2014

Luigi Di Maio indiscreto

Chi è Luigi Di Maio

IL 5 STELLE BON TON PIEGA ANCHE GRILLO

Emergenti: chi è la promessa pentastellata che fa "ragionare" perfino il leader.

Per il troppo lavoro ha perso la fidanzata e continua a rimandare la laurea. Vicepresidente della Camera a soli 26 anni, Luigi Di Maio ora tratta con Renzi e fa rientrare in gioco il movimento

Oggi, 16 luglio 2014

di Mauro Suttora



A 26 anni Giulio Andreotti e Aldo Moro non erano neppure in Parlamento. Bettino Craxi era solo consigliere comunale, Matteo Renzi un oscuro segretario provinciale Ppi. E Silvio Berlusconi non aveva ancora visto un mattone. Luigi Di Maio, invece, è diventato vicepresidente della Camera.

Se c’è un wonder boy della politica oggi in Italia, è lui. Undici anni meno del premier, ma quanto a parlantina e aplomb gli tiene testa. Lo ha notato l’Italia intera, quando il napoletanino del Movimento 5 stelle (M5s) ha affrontato Renzi in streaming. Risultato: ora Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio si fidano solo di Di Maio. Che così è diventato il numero uno del secondo partito italiano.

Ci ha messo appena un’ora e mezza a far fare dietrofront perfino al proprio capo. Grillo aveva di nuovo insultato Renzi: «ebetino», e anche «ebetone». Lui si è messo al telefono, e pazientemente lo ha convinto: la trattativa col Pd continua. Nessuno screzio fra i due, solo fiducia. «Imparo sempre da Di Maio, anche quando sta zitto»: così, come sempre scherzando ma non troppo, il fondatore dei 5 stelle lo aveva incoronato candidato premier prima delle europee.

Poi il disastro, perso un voto su tre, e soprattutto Renzi col doppio dei consensi: 40 per cento a 21. Allora Grillo e Casaleggio hanno aperto furbi al Pd: «Facciamo insieme la riforma elettorale». Obiettivo: far fuori Berlusconi e il suo patto del Nazareno con Renzi. Rimettendo in gioco i sei milioni di voti del M5s, finora congelati in un’opposizione dura ma con pochi sbocchi.

E chi meglio del genietto di Pomigliano d’Arco come volto della svolta costruttiva?
Di Maio ha un padre impresario edile nonché, come il collega Alessandro Di Battista (il suo opposto: esagitato ed esagerato), fascista: prima Msi, poi An. Lui, invece, è troppo giovane per non essere vergine. Mamma Giovanna è prof di italiano e latino allo scientifico. 

Come Renzi, ha cominciato a «rompere le balle» già al liceo. E ha continuato da capetto anche all’università di Napoli: fonda una lista, diventa subito presidente pure lì: del consiglio degli studenti. Oltre a consigliere della facoltà di Legge.

Fanatico dei computer, segue Grillo dal primo Vaffaday del 2007. L’impegno politico gli fa perdere due cose: la laurea (è ancora fuoricorso, ora vuole recuperare online) e la fidanzata (troppo indaffarato, ora pare pratichi l’endogamia con la pentastellata Silvia Virgulti, bella tv coach che gli ha insegnato a ben figurare sullo schermo).

Trombato alle comunali nel 2010 (neppure papà votò per lui, 59 preferenze), due anni dopo alle primarie per diventare deputato gli bastano 189 voti. E pochi minuti per convincere gli altri cento deputati 5 stelle, digiuni di politica, a designarlo vicepresidente della Camera.

Dopo un anno molti, anche negli altri partiti, lo preferiscono alla presidente Laura Boldrini. Ineccepibile, autorevole, equilibrato, ha imparato a memoria il regolamento e infligge espulsioni: su tredici deputati che ha fatto cacciare dall’aula, ben otto sono grillini. Altro che salire sui tetti.

Ciononostante è amato (o almeno non detestato) anche dai 5 stelle oltranzisti. La pantera 45enne Paola Taverna gli è affezionata: «Però col Pd dev’essere meno moscio, sennò sembriamo Fantozzi». Il senatore Michele Giarrusso lo stima ma scherza agrodolce: «La trattativa Renzi-Di Maio? Facciamo giocare un po’ i ragazzini, in realtà il Pd non è cambiato».

Lui procede imperterrito, come certi partenopei più severi e disciplinati degli svizzeri. Mai una parola fuori linea, mai una virgola non sintonizzata col vertice Grillo&Casaleggio. Ma riesce anche a non apparire pedissequo. Con i proconsoli onnipotenti del gruppo Comunicazione, veri guardiani dell’ortodossia (l’ex Grande Fratello Rocco Casalino e l’ex assistente della Taverna, Ilaria Loquenzi), dirige di fatto il M5s. Il cui slogan era «Uno vale uno». Ma Di Maio ora vale tanto.
Mauro Suttora 

Wednesday, June 25, 2014

Oasi di Sant'Alessio (Pavia)


Sant’Alessio (Pavia), giugno
Il momento più emozionante è stato l’anno scorso: «Dopo vent’anni di attesa, finalmente un gruppo di taccole ha nidificato nella torre», si entusiasma Harry Salamon. «Come nel ’92, quando duecento coppie di ardeidi decisero di fondare qui una nuova garzaia, il nido collettivo degli aironi. Era la prima volta che succedeva, in un luogo creato appositamente dall’uomo».

Siamo ad appena 25 chilometri a sud di Milano, nell’Oasi di Sant’Alessio. Bastano 40 minuti d’auto (un’ora con i mezzi pubblici) per entrare in un altro mondo. Fenicotteri e caprioli, aironi e cicogne, tucani e martin prescatori vivono in totale libertà nel loro habitat naturale. Niente gabbie. Ma i visitatori possono egualmente osservarli da vicino.

Attorno al castello medievale

Quarant’anni fa Salamon e sua moglie Antonia comprarono il castello di Sant’Alessio. Risalente ai longobardi, era stato ricostruito nel Quattrocento dal condottiero Franceschino Beccaria. Da qui l’armata dell’imperatore Carlo V nel 1525 si mosse per andare a sconfiggere i francesi nella battaglia di Pavia, che cambiò la storia d’Europa.

Oggi il castello, restaurato, è diventato il centro dell’Oasi naturalistica: dieci ettari di boschi, laghi, stagni e ruscelli. «Abbiamo applicato il sistema di Konrad Lorenz», racconta Salamon, «per reintrodurre specie animali in natura. Abbiamo rilasciato esemplari anche adulti che conoscono già l’ambiente dove vengono liberati. Così non sentono l’urgenza di andarsene subito, ma solo dopo aver conquistato le abilità necessarie alla vita selvatica».

La lista degli uccelli visibili a Sant’Alessio è lunga: picchi, sparvieri, upupe, sgarze, allocchi, civette, cardellini. Per brevi periodi falchi pescatori e di palude, astori, pendolini. E a terra conigli selvatici, lepri, scoiattoli, donnole, lontre. Fa impressione la quantità di animali che arrivano verso sera, per trascorrere la notte al riparo degli alberi. Che sono - apposta - abbandonati a se stessi.

«Salici e aceri, alberi dal ciclo breve, in questi quarant’anni sono giunti alla terza o quarta generazione. Lasciamo i tronchi sul posto per alimentare funghi e larve degli insetti», spiega Salamon.

I visitatori (il biglietto costa 13 euro, 10 euro fino ai 12 anni e per gli anziani nei giorni feriali. Orari: dalle 10 alle 17, fino alle 18 di sabato e domenica) percorrono camminamenti segreti che permettono di avvicinarsi a pochi metri dagli uccelli.  Nella tarda primavera ci sono centinaia di aironi. Per le scuole sono previsti corsi didattici sulla fauna nelle zone umide europee.
Mauro Suttora


ALTRE OASI VICINO ALLE GRANDI CITTA':


1) Macchiagrande e Vasche di Maccarese, Fiumicino (Roma): 310 ettari del Wwf, aperti ogni sabato e domenica dalle 10 alle 17, due visite guidate al giorno.

2) Giardino di Ninfa, Cisterna (Latina): giardino botanico e parco naturale Pantanello, 106 ettari di piante esotiche, lago, fiume Ninfa e un lembo di palude pontina ricostituita.

3) Cratere degli Astroni, Napoli: a pochi passi dal centro, è un vulcano spento che fa parte del più complesso cratere di Agnano, nell’area dei Campi Flegrei. È il più giovane dei crateri: con i suoi 3600 anni si estende per 247 ettari. Nel punto più basso del cratere si trovano tre laghetti con vegetazione tipica delle zone lacustri: canne, giunchi, tife e salici.
 
4) Oasi fluviale del Molino Grande, San Lazzaro di Savena (Bologna): tutela un tratto di bosco ripariale del torrente Idice. Alberi monumentali e nidi di rare specie di uccelli. Sentiero di 2 km lungo il fiume.

5) Ca' Roman, Venezia: all’estremità sud della laguna, di fronte a Chioggia. Oasi Lipu (Lega italiana protezione uccelli) con una straordinaria ricchezza faunistica. È su una delle più importanti rotte migratorie d’Italia: 190 specie d’uccelli censite la utilizzano in autunno e primavera per riposarsi e nutrirsi prima di riprendere il viaggio.

6) Cascina Bellezza, Poirino (Torino): quattro ettari a sud di Torino. Zona umida con rimboschimenti, siepi, prati e incolti che ospitano numerose specie.
 
7) Vanzago (Milano): uno degli ultimi boschi sopravvissuti nella pianura Padana. Oasi Wwf di 200 ettari con il Centro di recupero animali selvatici:  un vero e proprio ospedale.

Wednesday, June 18, 2014

Il mistero dei Bronzi di Riace

ECCO PERCHE' SONO POCO "DOTATI"

Le statue ritrovate in mare hanno corpi splendidi, ma una 'virilità' ridotta. Chi ritraggono? Come furono trasportate? Alberto Angela ci accompagna alla scoperta dei loro segreti


Oggi, 11 giugno 2014

di Mauro Suttora

Quindicimila al mese. Tanti sono i turisti che dall’inizio dell’anno hanno visitato i Bronzi di Riace nella loro collocazione definitiva: il Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria. E aumenteranno con l’estate, la prima durante la quale queste meraviglie mondiali possono essere ammirate dopo il loro restauro e la ristrutturazione del palazzo Anni 30 di Marcello Piacentini. Lavori durati quattro anni, costi triplicati (da 11 a 33 miloni). E un ricorso al Tar blocca ancora l’esposizione di preziosi reperti della Magna Grecia nelle altre sale del museo. Che quindi offre ai visitatori (increduli soprattutto gli stranieri) soltanto i Bronzi, solitari nel loro salone, avulsi da ogni contesto. Se tutto andrà bene, il nuovo allestimento dei quattro piani del museo verrà completato solo nel 2015.

C’è inoltre la possibilità che, in occasione dell’Expo, Milano scippi i Bronzi a Reggio per qualche mese, in modo da poterli mostrare a milioni di visitatori. Una raccolta di firme sta cercando di scongiurarlo.

Intanto Alberto Angela, figlio di Piero e conduttore di Ulisse (Rai3), pubblica I Bronzi di Riace, l’avventura di due eroi restituiti dal mare (Rizzoli - Rai Eri). Libro avvincente, che risponde a ogni domanda sull’epopea delle statue recuperate in mare nel 1972.

Le ipotesi sulla loro identità

Fra tutte le opere pervenuteci dall’antichità, infatti, i due Bronzi sono quelli che hanno colpito ed entusiasmato di più il pubblico. Perché? «All’origine del successo ci sono la bellezza straordinaria e la fattura pregevole del Giovane e dell’Uomo maturo. Ma non solo. A contribuire al loro fascino è anche l’aura di mistero che tuttora li avvolge», spiega Angela. Il quale ci accompagna nell’epoca e negli ambienti da cui provengono, va alla ricerca dei loro autori (grandissimi artisti: forse proprio il leggendario scultore Fidia?) e immagina chi potessero raffigurare: Castore e Polluce? Un guerriero e uno stratega? E ancora: come furono forgiati? Con quale tecnica fu possibile renderne la capigliatura morbida o le vene che appaiono sotto pelle?

Ma il percorso emozionante alla scoperta dei Bronzi non si ferma qui: in quali circostanze finirono sul fondale del mar Ionio? Furono buttati da una nave in una notte di tempesta? E la nave arrivò in porto o affondò? Quando accadde? Che lingua parlava l’equipaggio: greco, latino o addirittura goto?

Angela fa tesoro degli studi più aggiornati e dei recenti restauri: «Le statue viaggiavano adagiate sulla schiena, sul ponte di una nave, e forse proprio per facilitare il trasporto prima di caricarle a bordo erano stati rimossi gli scudi, gli elmi e le lance che le adornavano. Sotto i piedi spuntano ancora i perni in piombo che li ancoravano ai loro basamenti originari. Forse si trovavano in un tempio o in un luogo sacro. E i marinai, superstiziosi, sospettarono che la burrasca fosse stata inviata dagli dei per punire il “furto” sacrilego. Magari qualcuno si convinse che l’unico modo per placare la furia divina fosse gettare le statue in mare».

In realtà non sappiamo quasi nulla di quegli uomini e di quella nave, avverte Angela. I Bronzi risalgono a 2.500 anni fa, ma l’affondamento è posteriore, forse di secoli. L’unica certezza è che il relitto del bastimento non è stato mai trovato, e che le statue erano isolate sul fondale. Vicino a loro sono stati rinvenuti solo 28 anelli in piombo, magari appartenenti alla velatura della nave.

Una domanda imbarazzante coglie chiunque ammiri le statue perfette: perché il loro pene è così piccolo, sproporzionato rispetto al resto del corpo? «La scelta di attribuire una “virilità” così ridotta a due figure aitanti e imponenti come il Giovane e l’Uomo maturo», spiega Angela, «risponde alla convinzione degli antichi greci che un membro di grandi dimensioni fosse volgare e si addicesse a barbari e schiavi, non certo a un nobile greco. Nella rappresentazione di una figura maschile idealizzata e tesa alla perfezione, quindi, questo elemento anatomico doveva essere minimizzato. Esattamente come oggi le modelle non hanno mai forme accentuate (per esempio, i seni), ma contenute».

In ogni caso, per ritrovare in un bronzo, dopo Grecia e Roma, una qualità tanto sbalorditiva nella raffigurazione della fisicità di un uomo (con ossa, muscoli, tendini e vasi sanguigni) bisognerà attendere 2 mila anni: solo Donatello, nel Rinascimento fiorentino, riuscì a tornare a quei livelli, e dopo di lui Michelangelo.

Purtroppo soltanto un centinaio fra le migliaia di perfette statue bronzee grecoromane ci sono arrivate: nel Medioevo il loro bronzo venne sconsideratamente fuso per ricavarne monete, utensili e armi. Questo moltiplica il valore delle due statue conservate nel museo di Reggio Calabria.

Angela esclude che i Bronzi raffigurino Castore e Polluce, i gemelli figli di Zeus e Leda. Recenti esami, infatti, hanno stabilito che furono creati a 30 anni di distanza l’uno dall’altro. Più credibile che si tratti di un padre e di un figlio. Ma le curiosità che avvolgono le due statue sono innumerevoli. Non ci resta che leggere il libro e andare a Reggio Calabria.
Mauro Suttora



Felipe VI, re di Spagna


VIAGGIO A MADRID DOPO L'ABDICAZIONE DI JUAN CARLOS

dall'inviato Mauro Suttora

Oggi, 11 giugno 2014

Plaza de Toros de Las Ventas, la maggiore di Spagna, trabocca di spettatori. Prima delle corride in 25mila si alzano ad applaudire re Juan Carlos, accanto al sindaco di Madrid Ignacio Gonzalez. Gli applausi durano per tutto l'inno nazionale, che in presenza dei reali viene eseguito nella versione lunga.

Il re è commosso. Da mesi, da anni non veniva accolto così. «Gli battono le mani solo perché ha abdicato tre giorni fa», sibila uno spettatore repubblicano. «Macché, l'entusiasmo è genuino», commenterà con Oggi il sindaco Gonzalez (Partito Popolare), «Juan Carlos ci ha assicurato prosperità e progresso per 39 anni».

Il nuovo re di Spagna è Felipe VI, suo figlio. I toreri che hanno matato Juan Carlos sono i cinque milioni di spagnoli che alle europee del 25 maggio hanno tolto il voto ai due principali partiti, socialisti e popolari. La crisi è precipitata. Certo, le foto del re allegramente a caccia in Botswana con l'amante tedesca, fra lo sconcerto di milioni di disoccupati, lo hanno condannato. E i 17 anni di carcere che rischia suo genero, causa tangenti milionarie per Cristina, figlia del re. E poi il fisico malfermo: tumore benigno ai polmoni, femori e anche a pezzi, sette operazioni in due anni. Ma il re non si è aggrappato alla salute come scusa. Lo ha detto chiaramente: «Abdico per il bene della Corona e della Spagna».

Lo ha fatto proprio il 2 giugno, anniversario del referendum monarchia/repubblica italiano. Juan Carlos, nato a Roma, conosce la nostra storia. Sa che l'abdicazione di re Vittorio Emanuele III non servì a salvare casa Savoia. Ma sa anche che, se avesse rimandato la decisione, sarebbe stato peggio: il segretario monarchico del Psoe (Partido socialista obrero espagnol) è dimissionario, in autunno c'è il voto amministrativo, nel 2015 le politiche. E in cambio dell'abdicazione lui ha chiesto l'immunità perpetua dai processi. Regalo che gli può garantire soltanto l’attuale Parlamento, non certo quelle in cui estrema sinistra e il nuovo partito «grillino» Podemos (Indignati) arrivassero al 20%, come alle europee. Quindi abdicazione subito, e addio sogno di raggiungere 40 anni di regno.

Con Felipe re, diventa regina la controversa Letizia Ortiz Rocasolano. Dieci anni dopo le nozze, l'ex giornalista sale al trono proprio nel momento in cui due spagnoli su tre reclamano un referendum su monarchia o repubblica. Nel caso improbabile che venisse tenuto, i sondaggi danno ancora una prevalenza di monarchici. Ma Letizia, contrariamente all'inglese Kate, non suscita grandi simpatie.

«È un'arrivista susseguiosa», dice a Oggi la sua ex collega Mariam Gomez. Contrastata da Juan Carlos perché non nobile, è riuscita a sposare Felipe solo perché quest'ultimo, dopo il veto opposto dalla famiglia reale a una modella norvegese suo grande amore, si è impuntato.

Se Felipe mostra un'inquietante somiglianza con il dittatore siriano Bashar Assad, Letizia fa di tutto per sembrare Rania di Giordania. Operazioni plastiche comprese.
Gli spagnoli la criticano su tutto. Ha fatto due figlie bionde e stupende? Sì, però non ha provato una terza volta, per dare alla Spagna un erede maschio. Così prossima regina sarà l’infanta Leonor. Che però ha soli otto anni. E se - Dio non voglia - a Felipe capitasse qualcosa, sarà Letizia reggente fino alla maggiore età della figlia.

«Non solo è “plebeya”, come curiosamente i nostri altezzosi nobili chiamano tutti i borghesi», spiega Mariam Gomez, «ma in gioventù era repubblicana, figlia di repubblicani, è divorziata, forse anoressica, e in più pare abbia abortito e sia finita in carcere per possesso di hashish».

«Es una encantadora», Letizia è incantevole, ha invece dichiarato l’attuale regina Sofia da New York, dove si trovava nei giorni dell’abdicazione. Sublime diplomazia di una signora abituata da decenni a dire bugie e subire centinaia di corna dall’esuberante marito.

Ha voglia la povera Letizia a scapicollarsi assieme al principe ereditario in centinaia di appuntamenti per tutta la Spagna. Anche diversi al giorno in posti lontanissimi: per esempio, mentre re Juan Carlos assaporava gli applausi quasi postumi alla corrida, Felipe e Letizia erano al mattino in Navarra a consegnare un premio, e nel pomeriggio a Barcellona dagli industriali.

Gli impegni di corte che annichilirono Lady Diana vengono affrontati con professionalità da Letizia. Eppure la criticano anche su questo, perché pretende che almeno i fine settimana siano liberi per stare con le figlie.

Ora Felipe abita con Letizia in una villa vicino al palazzo della Zarzuela, residenza di Juan Carlos e Sofia, circondati da un parco immenso (15mila ettari) alle porte di Madrid. Per educazione non li sfratteranno. E per sobrietà non inviteranno i capi di Stato e gli altri nove re europei alla cerimonia di intronazione. Si eviteranno così le polemiche di un anno fa sul costo del cambio della guardia in Olanda, otto milioni. Il modello è il Belgio, dove re Alberto ha abdicato per la modica cifra di 600 mila euro, niente fuochi d’artificio per il figlio. E neppure una messa solenne per Felipe, nella ex cattolicissima Spagna.

D’ora in poi Felipe non potrà più viaggiare sullo stesso mezzo dell’erede Leonor, per ragioni di sicurezza. Passerà da uno stipendio di 150mila euro ai 300mila di suo padre. Le due attuali «infante» sue sorelle non faranno più parte della casa reale e non incasseranno appannaggi. Il bilancio della Corona sarà di otto milioni annui (contro i 150 del nostro Quirinale). Insomma, l’ambiziosa Letizia dovrà rassegnarsi a fare la regina low-cost. Perlomeno finché dura la crisi economica. Ma da quel fronte giungono buone notizie: 200 mila occupati in più in Spagna a maggio. Se torna la prosperità, anche la monarchia si salverà.
Mauro Suttora

Wednesday, May 28, 2014

Flop Grillo. Ma è sempre secondo



Sorprese: i 5 Stelle perdono tre milioni di voti su nove alle Europee

SPERAVA DI SUPERARE RENZI. INVECE IL PD LO HA QUASI DOPPIATO. E ADESSO? IL MOVIMENTO È CRESCIUTO, ORA LO GUIDA UN QUADRUMVIRATO. CON DENTRO UNA DONNA...

di Mauro Suttora 


Oggi, 28 maggio 2014

La più veloce e verace, come sempre, è la senatrice 5 stelle Paola Taverna. A mezzanotte di domenica, dopo le prime proiezioni, intuisce la bastonata: «Me sto a sentì male. Il Pd ci ha asfaltato. Disfatta totale», commenta sincera. Il Movimento di Grillo si attesta al 21 per cento: venti punti sotto Matteo Renzi, tre milioni di voti persi rispetto alle politiche dell’anno scorso. Ne restano comunque 5,8 milioni, e i grillini rimangono la seconda forza politica d’Italia.

Ha quindi buon gioco Beppe Grillo, il giorno dopo, a mimare per scherzo una pugnalata al cuore. Il gesto di un coltello nel petto riesce a sdrammatizzare. Ma non cancella la figuraccia dei suoi parlamentari che la sera prima, interdetti, rifiutano qualsiasi commento. Non era mai successo nella storia d’Italia che un partito, dopo aver perso un voto su tre, restasse muto. «Aspettiamo i dati veri, quelli del Viminale», balbettano alle due di notte, a risultati quasi definitivi.

Nel silenzio dei parlamentari grillini tocca soltanto a Grillo, come sempre, parlare dopo la sconfitta. La mattina trascorre nel silenzio, poi sul suo blog (per diverso tempo irraggiungibile) appare un ringraziamento ai propri elettori con la celebre poesia Se di Rudyard Kipling.

È ormai pomeriggio quando arriva un messaggio che cita Fabrizio De Andrè e fa capire che Grillo non ha alcuna intenzione di arrendersi e ritirarsi (in Rete gli avevano ricordato la sua «promessa» in campagna elettorale): «Verremo ancora alle vostre porte e grideremo ancora più forte», twitta, citando il Sessantotto della Canzone di maggio del cantautore suo concittadino.

Pochi minuti, ed ecco il videomessaggio sul blog nel quale Grillo sfrutta il mestiere di comico consumato per arginare l’amarezza sua e dei suoi. Usa l’ironia su se stesso e sul cofondatore Gianroberto Casaleggio («Ci prendiamo un Maalox»), ma promette che il M5s continuerà e alla fine vincerà. Risponde alle prese in giro affermando che il successo del M5S è solo questione di tempo, che questa volta ha deciso «l’Italia dei pensionati che non vogliono cambiare». E che comunque quella del M5S non è una sconfitta: «Siamo lì...»

Grande illusione, grande delusione

Certo, la grande illusione di superare Renzi (accreditata da sondaggi risultati tutti sbagliati) ora provoca una cocente delusione. Niente più «spallata al regime», addio rivoluzione. E in più la prospettiva di avere di fronte lunghi anni di opposizione a un giovane avversario. Grillo invece ha 65 anni, e il 59enne Casaleggio è malmesso in salute.

Ma comunque gli eurodeputati eletti sono 17, e il «quadrumvirato» spontaneo formato da Taverna, Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio e Roberto Fico sembra in grado di reggere il Movimento.

Wednesday, May 14, 2014

Tifosi violenti


COME SCONFIGGERLI

di Mauro Suttora

Oggi, 7 maggio 2014

Soltanto in Italia e in Serbia i tifosi violenti vengono ancora tollerati. I Paesi del Nord Europa hanno sconfitto da tempo gli hooligans. Non che siano scomparsi: se ne sono accorti lo scorso dicembre quelli del movimento dei Forconi che a Milano bloccavano da giorni il traffico a piazzale Loreto. Bastò che arrivasse un pullman olandese, da cui scesero minacciosi tifosi alticci, per far scappare tutti.

GRAN BRETAGNA. La svolta avvenne nel 1985, dopo i 39 morti dell’Heysel (Juventus-Liverpool). Margaret Thatcher autorizzò l’arresto preventivo dei sospetti violenti e tappezzò stadi e dintorni di telecamere. Basta la prova visiva per farsi 24 ore di carcere, e il Daspo (Divieto di accedere a eventi sportivi) dura fino a dieci anni. Chi lo vìola finisce dentro, e a chi fa appello ma perde la condanna viene raddoppiata. Per evitare figuracce all’estero, con semplice provvedimento amministrativo i teppisti si vedono ritirare i passaporti. Negli anni ci sono state varie accuse di liberticidio, ma la linea dura continua.

Severità anche in FRANCIA: tre anni di galera a chi osa portare razzi allo stadio, due anni per chi si azzarda a ricostituire bande di tifosi sciolte dal ministero degli Interni. Il Paris Saint-Germain ha rinunciato a 13 mila abbonamenti di ultras. In Spagna bisogna prenotare il posto con nome e cognome anche nelle curve. E il Barcelona ha sciolto gli ultras Boixos Nois. In Germania vige l’arresto preventivo per gli ubriachi o i minacciosi. In Russia il Daspo dura fino a sette anni, e i violenti rischiano 160 ore di lavori socialmente utili.

RISULTATI POSITIVI. Ora gli stadi britannici sono pieni al 90 per cento,  e  due  spettatori su dieci sono donne. Gli stadi non hanno più barriere: il terreno di gioco è protetto solo dalla sua «sacralità», i tifosi ospiti siedono vicino a quelli di casa. Il calcio è tornato uno spettacolo per famiglie: si gioca il 26 dicembre, il 1° gennaio e a Pasqua. Gli impianti sono di proprietà dei club, con tutti i posti a sedere, moderni e accoglienti come teatri.

Mauro Suttora

Wednesday, May 07, 2014

Eurodeputati: bilancio 2009-2014

Strasburgo (Francia), 15 aprile 2014

dall'inviato Mauro Suttora

Ultima seduta dell’Europarlamento nato nel 2009. È la settimana santa,  e i 766 deputati si affannano nelle   votazioni in extremis. Possono parlare al massimo un minuto ciascuno. È una catena di montaggio.

Tempo di bilanci. Lo facciamo anche noi, con i cinque parlamentari che avevamo «adottato» cinque anni fa. Chiedevamo loro innanzitutto una presenza costante a Bruxelles. I risultati sono nella pagina seguente.

Ottimo il leghista Lorenzo Fontana (95%), buoni gli altri. Ultima Francesca Balzani (Pd), al 71%, perché nell’ultimo anno è stata anche assessore comunale al Bilancio a Milano (in pratica la numero due del sindaco Giuliano Pisapia). Non si ripresenta alle elezioni del 25 maggio.

La produttività dei deputati, però, si misura anche con il numero di interrogazioni, mozioni, rapporti e interventi. Non solo in aula, ma anche nelle commissioni. E nelle riunioni dei partiti di appartenenza.
 
«È lì che si svolge il vero lavoro, spesso oscuro», spiega Licia Ronzulli (Forza Italia). 
«Senza un’assidua presenza in commissione, non avrei potuto raggiungere buoni risultati», conferma Niccolò Rinaldi. Che, eletto con l’Idv di Antonio Di Pietro, è stato anche vicepresidente dell’Alde (Alleanza liberal-democratici per l’Europa), terzo partito dopo i popolari/conservatori e i socialisti.

Fontana, per il sito mep ranking, è primo nel totale delle attività. Seconda Ronzulli, terzo Rinaldi. In coda Balzani e Magdi Allam. Quest’ultimo, eletto con l’Udc, ha poi fondato un suo partito personale (Amo l’Italia), e ora si presenta con Fratelli d’Italia nella circoscrizione Nordest.
 
Gli eurodeputati devono mantenere il contatto con i propri elettori. «Ogni anno ho visitato almeno due volte ognuna delle 22 province dell’Italia centrale», dice Rinaldi, «e ho organizzato 28 corsi gratuiti di formazione per l’accesso ai fondi europei. Ogni mese pubblico una newsletter con tutti i bandi in scadenza per i fondi europei diretti, da richiedere alla Ue, o indiretti, attraverso le quattro regioni del mio collegio: Umbria Lazio, Toscana e Marche. A Bruxelles ho organizzato sei corsi di formazione per amministratori e rappresentanti della società civile (disabili, insegnanti, volontari) per scambi di buone pratiche europee».

«Anch’io ho fatto conferenze per spiegare l’Europa e le sue grandi opportunità ai cittadini, avvicinandoli a una realtà troppo spesso vista come lontana ed astratta», aggiunge la Ronzulli.

Quanto a Fontana, proprio nel giorno in cui siamo a Strasburgo riceve un gruppo di elettori leghisti. Ogni deputato infatti ha diritto a invitare 110 persone l’anno, con viaggio rimborsato (260 euro un Roma-Bruxelles).
    
Passiamo a un argomento delicato: le lingue. È risaputo che gli eurodeputati italiani non brillano per conoscenza dell’inglese, lingua ormai indispensabile all’Europarlamento. Ha superato il francese dopo l’entrata nella Ue dei Paesi dell’Est, tutti anglofoni tranne la Romania.

Tutto da tradurre in 23 lingue

Rinaldi vola alto: «Parlo correntemente inglese, francese, spagnolo, portoghese. E sto imparando l’arabo». Ronzulli: «Sapevo già il francese, e in questi cinque anni ho frequentato corsi per migliorare l’inglese».

È vero che ogni documento dev’essere tradotto nelle ben 23 lingue dell’Europa-Babele, e che ogni intervento pronunciato in aula viene interpretato simultaneamente. Ma i veri contatti sono personali, e diversi deputati italiani hanno addirittura gettato la spugna dimettendosi, perché si sentivano tagliati fuori.

Una fonte di scandalo sono i portaborse. Ogni eletto ha diritto a ben 25mila euro lordi mensili per assumere quanti assistenti vuole. Tre al massimo a Bruxelles, gli altri nel proprio collegio. È vietato imbarcare parenti, ma i furbi lo fanno fare ai colleghi delle stesso gruppo.

«Pubblico tre volte l’anno bandi pubblici per tirocini nel mio ufficio, e poi l’esito della selezione», dice Rinaldi. «Idem per gli assistenti: ho fatto sessanta interviste».
Ronzulli: «Ho scelto collaboratori non per amicizia, ma perché competenti sul  funzionamento delle istituzioni europee».

E la doppia sede dell’Europarlamento? Mantenere i palazzi di Bruxelles (sede principale) e Strasburgo (una settimana al mese) costa 1,7 miliardi l’anno. Si risparmierebbero 200 milioni unificando.

«La decisione purtroppo dipende dai governi e non dal Parlamento, che anzi deve subirla», spiega Rinaldi. Aggiunge Ronzulli: «Quante risoluzioni abbiamo approvato per ottenere un’unica sede! È uno spreco intollerabile». Ma finché la Francia resisterà, Strasburgo rimarrà.

Si prevede una ventata antieuropeista al voto del 25 maggio. Il leghista Fontana è contro l’euro. Allam vuole un’Europa che difenda l’identità cristiana nei confronti degli immigrati, soprattutto quelli islamici. «Stati Uniti d’Europa», propongono invece Rinaldi e Ronzulli, «con un’unica politica estera e di difesa».
Mauro Suttora

Wednesday, April 30, 2014

A che serve l'Europarlamento?

L’Europarlamento serve a poco o a nulla.  Purtroppo questa è la realtà, nonostante i proclami retorici. Infatti i veri poteri, nell’Unione Europea, li hanno gli altri due organi: la Commissione (nominata dai governi dei 28 Paesi membri) e il Consiglio (i vertici dei premier o ministri in carica).

di Mauro Suttora

Oggi, 23 aprile 2014

I 751 eurodeputati (73 italiani) possono solo «codecidere» assieme alla Commissione, negarle la fiducia in caso di contrasto insanabile, o bloccarne il bilancio. Per il resto, solo poteri «consultivi». Cioè chiacchiere.

Il problema è che queste chiacchiere costano molto: 1,7 miliardi di euro annui. L’Europarlamento è leggendario per i suoi sprechi.  Due sedi: i francesi non vogliono mollare Strasburgo, che funziona una sola settimana al mese per le sedute plenarie. Ventitre lingue in cui devono essere obbligatoriamente tradotti tutti gli atti e le parole pronunciate in aula e commissioni: migliaia di traduttori e interpreti simultanei. Gli irlandesi hanno rinunciato al gaelico, ma i maltesi (che parlano tutti inglese) vogliono il maltese.

Gli unici felici sono gli eurodeputati. Per loro l’elezione significa un affare da 2,2 milioni di euro garantiti in cinque anni (non c’è rischio di voto anticipato). Ogni mese, infatti, intascano 6 mila netti di stipendio, altri 6 mila di diaria, più 25 mila euro per i portaborse (massimo tre a Bruxelles, ma vari nel collegio d’origine). Non possono più assumere parenti e amanti, ma qualche collega compiacente può farlo.

Gli eurodeputati scontano questi privilegi con l’assoluta irrilevanza. Se non si è invitati a qualche talk show, si sparisce per cinque anni. Soluzione: dare veri poteri all’Europarlamento (unico organo eletto direttamente, quindi democratico), e tenere solo inglese e francese come lingue ufficiali.

Wednesday, April 23, 2014

Jesus Christ Superstar

Parla Ted Neeley, il protagonista del film del 1973 ora in Italia per la versione teatrale del musical 

Oggi, 16 aprile 2014

di Mauro Suttora

Tremila volte Gesù Cristo. «Onestamente, non ho contato. Ma, calcolando tutte le repliche teatrali del musical in questi quarant’anni, la cifra potrebbe essere quella, più o meno».

È gentilissimo, Jesus Christ Superstar. Al secolo Ted Neeley, attore e cantante texano, che del Texas conserva l’accanto dolce e cantilenante. Nel 1973 divenne improvvisamente uno degli uomini più famosi e adorati del mondo. Fu quando uscì la versione cinematografica del musical di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice, che sbancò dappertutto.

Ora Neeley è in Italia, al teatro Sistina di Roma. Il 18 aprile, venerdì santo, debutta la produzione italiana (ma in inglese) di Jesus Christ Superstar. Che va avanti con successo da vent’anni, con la regia di Massimo Romeo Piparo. Ma che per la prima volta ha come protagonista il Jesus originale.

«Ho accettato con entusiasmo di venire in Italia», ci dice Neeley, che di persona ci appare più piccolo e fragile di come lo ricordavamo sullo schermo, «e dopo Roma gireremo altre città».

Papa Francesco lo vedrà?
Al Sistina almeno fino alla fine di maggio, il Jesus Christ italiano ha una storia collaudata: 11 anni consecutivi in cartellone nei teatri della penisola, oltre un milione di spettatori, cento artisti che si sono alternati nel cast, 19 regioni e più di mille rappresentazioni in 84 città italiane.

Il segreto del successo? «La combinazione perfetta fra il rock, il musical e una grande storia», dice Neeley. Quello che non dice, è la segreta speranza che in qualche modo Papa Francesco possa essere coinvolto: con una rappresentazione extra in Vaticano, o assai più difficilmente avendo il Papa come spettatore in teatro.

«Può fare lei da emissario?», scherza Neeley. Il quale, nella sua lunga carriera di musicista rock iniziata nel 1965, non è rimasto “crocifisso” al ruolo di Jesus. È stato, infatti il protagonista di tutti gli altri musical rock più importanti della storia: Tommy, Hair e Sgt.Pepper. E ha lavorato con una quantità di star, da Ray Charles e Tina Turner. Oltre a cantare e a recitare è anche batterista, compositore e produttore.

Ma, inevitabilmente, le richieste maggiori nei decenni sono state per un ritorno al Jesus di fama planetaria, assieme alle altre superstar del film di Norman Jewison: Yvonne Elliman (Maria Maddalena) e Carl Anderson (il Giuda di colore), purtroppo scomparso dieci anni fa per una leucemia.  Nell’anno del Giubileo, il 2000, e l’anno seguente, anche Anderson recitò nella versione italiana.

Questa volta, ad attorniare Neeley, sono stati reclutati personaggi famosi della musica pop-rock italiana: i Negrita suonano assieme all’orchestra, e il loro Pau è Ponzio Pilato; Simona Molinari fa Maddalena, e l’ex-Rokes Shel Shapiro il sommo sacerdote Caifa.

Mister Neeley, eccola qui con i suoi capelli lunghi che fecero impazzire milioni di ragazzine (e non solo): se li è mai tagliati, dal 1973? «Only for business purposes, solo per ragioni di copione, una volta che dovevo interpretare a teatro un personaggio completamente calvo».

E come mai è andato a Verona con sua figlia Tessa? «Ci hanno invitato all’apertura del Vinitaly, poi abbiamo visitato l’Arena dove porteremo il musical, infine il balcone di Romeo e Giulietta. Una giornata stupenda».

Il revival di Jesus Christ ha spinto Neeley a produrre anche un suo nuovo lavoro: Rock Opera, già disponibile su iTunes e in vendita nei negozi dal 22 aprile. Dentro, oltre a una versione della sua canzone preferita del musical (Getsemani), spicca un duetto da brivido con Yvonne Elliman: Up Where We Belong di Joe Cocker. Ci sono anche foto inedite di Ted sul set in Israele durante le riprese nel 1972 di Jesus Christ Superstar.

«Quella è una storia tutta da raccontare», spiega, «perché nel film si vedono aerei e carri armati. Immagini che mescolano il passato di 2 mila anni fa con il presente. Ebbene, nessuno poteva sapere che solo pochi mesi dopo, in quello stesso deserto israeliano del Negev dove girammo molte scene, sarebbe scoppiata una guerra vera, quella del Kippur. Proprio nelle settimane in cui uscì il film».

Neeley ci parla con la sua voce suadente, e non possiamo non comprendere l’illusione di molti cristiani fondamentalisti che, soprattutto nel Sud degli Stati Uniti, quasi lo scambiano per il Gesù reale. Dopo gli spettacoli, racconta, lo vanno a trovare nel camerino. E lui è gentile e disponibile con tutti. Non manda mai via nessuno, neanche i più fanatici.

Quando uscì, Jesus Christ Superstar suscitò polemiche. Combinava, infatti, la filosofia hippy dell’amore libero e della pace universale con la religione cristiana. Il rapporto fra Gesù e Maria Maddalena è al limite dello scandalo: I Don’t Know How To Love Him, non so come amarlo, canta lei, facendo capire che il confine fra amore spirituale e carnale è sottilissimo. Anzi, probabilmente è stato superato.

Giuda, poi, non è soltanto il classico traditore. È anche un critico della religione, in nome dei bisogni concreti: Too Much Heaven On Their Minds,  troppo paradiso nelle loro teste, urla contro gli apostoli che rifiutano scelte politiche più radicali. Esattamente il dilemma che attraversava molti cristiani negli anni ’60 e ’70.

«Il messaggio di Jesus Christ Superstar è ancora attualissimo», dice Neeley, «ovunque andiamo suscita discussioni infinite anche fra i giovani di oggi. Per questo, spesso, organizziamo repliche nelle scuole».

Neeley vive in California con la moglie, conosciuta proprio sul set del film, e i figli. Tessa collabora con lui e lo segue dappertutto.
Durante le prove al Sistina, Ted esibisce la sua leggendaria voce baritonale, non scalfita dall’età: nell’urlo di Getsemani riesce a raggiungere la nota Sol un’ottava sopra la mediana.

E pensare che, alle audizioni per il musical, Neeley non mirava alla parte di Gesù. Voleva quella di Giuda, che reputava più interessante musicalmente. Non ce la fece, e finì come riserva per entrambi i ruoli. Poi, dopo un’apparizione positiva, la promozione a titolare. E fu subito Superstar.
Mauro Suttora 

Wednesday, April 16, 2014

Berlusconi affidato in prova


PRATICAMENTE LIBERO

L'ex premier può continuare a fare politica con l'affidamento ai servizi sociali

di Mauro Suttora

Oggi, 9 aprile 2014

Andrà molto meglio a Silvio Berlusconi che a Calisto Tanzi, l'ex padrone della Parmalat che ha appena avuto confermata in Cassazione la condanna a 17 anni per il crac. Tanzi, 75 anni, sta scontando la pena agli arresti nell'ospedale di Parma. Berlusconi, invece, ai domiciliari non ci finirà.

«È un signore di 77 anni incensurato, non socialmente pericoloso, non delinquente abituale», spiega a Oggi l'avvocato milanese Caterina Malavenda, «quindi ha tutti i requisiti per ottenere l'affidamento in prova ai servizi sociali».
Anche perché la sua condanna a quattro anni per frode fiscale è scesa a un anno grazie all'indulto del 2006, e ci sarà uno sconto di altri 60-90 giorni alla fine. Insomma, all'inizio del 2015 Berlusconi sarà di nuovo un uomo libero.

Per questi 9-10 mesi il Tribunale di sorveglianza di Milano lo affida all'Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) di via Numa Pompilio, vicino al carcere di San Vittore. Indirizzo ben conosciuto alle migliaia di detenuti (soprattutto tossicodipendenti) che riescono a uscire dal carcere, o a evitarlo del tutto, grazie all'affidamento.

Ma non vedremo Berlusconi lì in fila per il permesso di tenere comizi nella campagna elettorale per le europee del 25 maggio. «Lo scopo dell'affidamento è la "rieducazione"», dice l'avvocato Malavenda, «quindi certamente la pena sarà un po' afflittiva, ma "disegnata" sul soggetto. L'unico divieto irrinunciabile è quello di frequentare delinquenti abituali e tossicodipendenti. Per il resto, massima elasticità. Ogni regola può essere derogata a richiesta dell'interessato, anche oralmente».

È già successo con Fabrizio Corona. Il quale aveva dimostrato che il suo lavoro si svolgeva di notte, e quindi nel 2012 ottenne di tornare a casa quando voleva, invece che alle 21. Poi l'affidamento gli è stato revocato perché le condanne sommandosi hanno superato i tre anni, ed è tornato in carcere.

L'ex banchiere Gianpiero Fiorani ha lavorato nove mesi da volontario in una comunità di recupero prima di recuperare lui la libertà nell'agosto 2012. Ma non è detto che a Berlusconi si imponga un particolare «servizio sociale». Per l'affidamento, infatti, basta avere un domicilio e un lavoro. E certamente l'ex premier un lavoro ce l'ha: capo del secondo partito italiano. 

Quanto al domicilio, probabilmente dovrà scegliere fra Arcore (Monza) e Roma. «Ma, salvo il divieto d’espatrio che già ha da otto mesi», spiega l’avvocato Malavenda, «potrà andare in giro per l’Italia a fare attività politica, avvertendo preventivamente l’Uepe».

Proprio come Corona, che durante l’affidamento si guadagnava la vita nelle serate in discoteca per tutta la penisola. L’unica cosa che Berlusconi non potrà fare, è candidarsi: è stato condannato all’ineleggibilità a pubblici uffici per due anni. Può solo mettere il proprio nome nel simbolo del proprio partito, come ha fatto.

Il suo vero incubo è quello di finire come il suo ex sodale Lele Mora: vendere vestiti usati in una bancarella al mercatino di piazzale Cuoco a Milano per conto della comunità Exodus di don Antonio Mazzi. Ma l’ex agente dei divi, condannato a quattro anni per bancarotta, vive il proprio affidamento come una catarsi. L’ex premier, invece, ha già respinto al mittente l’invito di don Mazzi, che pure si dichiara suo ammiratore: «Mi ha umiliato dicendo che è pronto ad accogliermi per pulire i cessi». Curioso però che un esperto di comunicazione come Berlusconi non colga l’immesso valore propagandistico di una simile photo opportunity: il martirio porta voti.
   
Ogni trimestre il responsabile dell’affidamento dell’ex Cavaliere presso l’Uepe stilerà un rapportino sul comportamento del condannato, e lo consegnerà al Tribunale di sorveglianza. In teoria, se Berlusconi non osserverà scrupolosamente le regole (riassumibili in una: dire sempre dove va), il beneficio potrebbe essergli revocato. Ma a Palazzo di giustizia nessuno sembra voler forzare la situazione.
Mauro Suttora 

Wednesday, April 09, 2014

Gwyneth Paltrow

IL "DIVORZIO CONSAPEVOLE" DA CHRIS MARTIN (COLDPLAY)

New York (Stati Uniti), 2 aprile 2014

di Mauro Suttora

Gwyneth Paltrow si separa, divorzia dal marito Chris Martin capo dei Coldplay? Ma no, non dobbiamo essere così banali. Lei non lascia. Si «disaccoppia consapevolmente»: lo ha annunciato in modo ufficiale nel suo sito Goop. Qualunque cosa questo voglia dire, capiamo che non si abbassa, come noi comuni mortali, a litigare. Forte della sua fede «new age» non butta vestiti fuori dalla finestra, non urla, non si rifugia nel bicchiere.

La regina dell’olistica, la diva più diafana di Hollywood, la più cool del cinema mondiale (superata in snobismo soltanto dalla regista  Sofia Coppola, figlia di Francis Ford) ci aveva già sorpreso sostenendo che le pietre le parlavano. E ora, sempre sotto il caldo sole di Los Angeles, ecco il «disaccoppiamento consapevole». Che non si riferisce, malpensanti noi, alla fine di una copula sessuale, ma a un «ulteriore stadio della vita di coppia».

Il guru: «Vita lunga, nozze brevi»

Tutto normale, insomma, tutto positivo. E qui arriva il suo santone, che sotto al messaggio nel blog di Gwyneth spiega l’arcano. Il dottor Habib Sadeghi, immigrato iraniano negli Stati Uniti, sostiene che oggi si divorzia di più soltanto perché si vive più a lungo. E vivere più a lungo, ma sempre con la stessa persona, non sarebbe «pratico». Lo scrive assieme alla moglie Sherry Sami: «Dopo il periodo della luna di miele, in cui proiettiamo solo nozioni positive sui nostri partner, inizia la fase delle proiezioni negative». E l’armatura che cominciamo a indossare per proteggerci, dicono i due filosofi, si trasforma in prigione.

Concetti profondi, che pare abbiano spinto l’eterea ma infelice Paltrow sotto le lenzuola dell’attuale marito di Elle MacPherson, il miliardario Jeffrey Soffer. Ma, anche qui, il concetto non è quello volgare di «corna». Si tratta di self-improvement, ovvero di «automiglioramento».

Sulla vita «sempre migliore» ma anche sempre più segretamente burrascosa della coppia Paltrow-Martin (valore commerciale congiunto: centinaia di milioni di euro) nei mesi scorsi avevano cominciato a indagare i più agguerriti reporter americani. Non l’avessero mai fatto. La soave ma determinata Gwyneth ha perso tutto il suo aplomb, minacciando querele preventive, negando interviste e accentuando ulteriormente il già proverbiale broncio.
 
Il trasloco della supercoppia con i figli Apple e Moses dalla Londra di Chris alla California di lei, con annesso acquisto di villona da 15 milioni di dollari? Non segnale di disagio, solo proficuo cambiamento di prospettiva: dalla pioggia al sereno. Smentita la rottura con Madonna, un tempo amica strettissima. Scandalo per una frase porno scappata all’altrimenti castigata signora Paltrow in una trasmissione tv con la comica Chelsea Handler: «Quando mio marito torna a casa nervoso, lo tiro su con un po’ di sesso orale».

Guerra contro i giornalisti

E siccome i giornalisti continuavano a punzecchiarla sulla solidità di cotanto matrimonio, lei è ricorsa a una mossa che riteneva da bomba atomica: ha chiesto a tutti i suoi (tanti) amici di boicottare i giornali che la attaccavano, rifiutando a loro volta ogni intervista.
  
Ma la catena di sant’Antonio dei vip paltrowiani contro la stampa rosa non ha funzionato, e quindi ecco oggi il guru di Gwyneth a spiegarci scientificamente l’accaduto: «Non dobbiamo pensare al matrimonio come all’investimento per tutta una vita, ma come all’occasione per un rinnovamento continuo. Così i coniugi si trasformano in maestri reciproci, e si aiutano a far evolvere la struttura interna di supporto spirituale della coppia».

Ben vengano queste ricette per la felicità, se servono a far tornare il sorriso sull’incantevole viso dell’inquieta diva. 
Chi scrive l’ha incontrata due volte personalmente a New York. La prima, settembre 2002, nel backstage dopo una sfilata di Calvin Klein ai Milk Studios. Tutti si complimentavano con lo stilista, ma Gwyneth appariva devastata. Le era appena morto il padre, e mi disse con il suo tipico filo di voce residuale che non era servita a distrarla una crociera in Costa Smeralda da cui era appena tornata, ospite sullo yacht di Valentino. Dopo poche settimane, però, l’incontro con Chris Martin risolse tutto.

Rinata dopo la maternità

L’ho rivista tre anni dopo, nel 2005, completamente trasformata e rinvigorita durante un’intervista all’Essex House di Central Park South per il suo rientro sullo schermo dopo la maternità, in un film che non ricordo (onestamente, dopo gli Oscar di Shakespeare in Love e i capolavori assoluti Sliding Doors e I Tenenbaum, non sono molte le apparizioni cinematografiche di Paltrow degne di nota nell’ultimo decennio). Le feci i complimenti, e lei insolitamente cordiale diede il merito del proprio buonumore, delle guance rosee e del petto rinvigorito alla figlia Apple.

Che faranno ora i due divi della supercoppia? Lui, Chris Martin, è l’antipersonaggio per eccellenza. Niente vita sociale, paparazzi, feste, comparsate, eccessi. Quando sposò Gwyneth aveva 26 anni, ma confessò di avere scoperto il sesso soltanto da tre. Non è, insomma, materiale da pettegolezzo. Infatti tutte le scappatelle della coppia scoppiata riguardavano la sua ape regina, non lui.

Gwyneth, invece, ci stupirà ancora. Ne siamo sicuri. Più in fretta si sbarazzerà del suo guru persiano, meglio per lei.  Fragilissima, quindi perfetta attrice, ha soltanto bisogno di copioni all’altezza e registi capaci di dom(in)arla, estraendo dalla sua faccia non bellissima ma terribilmente cinematografica più dell’unica espressione con cui a volte ammorba i suoi film. Finora ci sono riusciti Wes Anderson ed Anthony Minghella (in Il talento di Mr. Ripley). E datele da bere un bicchiere di gin. Inconsapevole.
Mauro Suttora 

Wednesday, March 19, 2014

Roche e Novartis condannate a 180 milioni di multa


DOPO LO SCANDALO AVASTIN/LUCENTIS: CHI DECIDE I PREZZI DEI MEDICINALI

di Mauro Suttora

Oggi, 10 marzo 2014

Truffa, disastro doloso, associazione a delinquere: sono i reati su cui indagano i magistrati per lo scandalo Avastin/Lucentis. Che ha già portato a un’astronomica multa (180 milioni di euro) da parte dell’Agcom (Autorità garante della concorrenza e mercato, in breve Antitrust) contro le multinazionali produttrici dei due farmaci: Roche e Novartis.
Le case farmaceutiche avrebbero collaborato per ostacolare l’utilizzo di un farmaco 50 volte più economico (Avastin) a favore di uno molto più costoso (Lucentis) contro una grave malattia della vista: la maculopatia senile degenerativa.

Ne soffrono 300mila pazienti in Italia: la maculopatia è la prima causa di cecità dopo i 75 anni. «E sono 100mila i malati che dal 2012 hanno subìto danni per il rallentamento delle cure», ci spiega Matteo Piovella, presidente dei 5mila oculisti riuniti nella Soi (Società oftalmologica italiana), che ha denunciato il caso due anni fa. «Non potendo più praticare le iniezioni intravitreali di Avastin, infatti, i medici hanno dovuto centellinare quelle del costosissimo Lucentis».

Com’è potuto accadere? Quali sono le regole per stabilire i prezzi dei nuovi farmaci, controllandone l’immissione in vendita? E che cosa non ha funzionato?

Ogni anno le medicine ci costano 26 miliardi di euro. Una cifra immensa, che fa gola a molti. Ciascuno di noi spende in media, in farmacia, 300 euro. Ma, aggiungendo i farmaci dispensati da Asl e ospedali, sono 434 euro a testa. Spesi bene?
«I prezzi delle medicine variano da un euro a migliaia di euro», ci spiega Silvio Garattini, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano e autore di Fa bene o fa male? (ed. Sperling & Kupfer, 2013). «Dipendono dal costo della materia prima? No. I principi attivi costituiscono solo una piccola frazione del prezzo. E anche le spese per la ricerca farmaceutica sono sorprendentemente basse. Infatti, nonostante vengano diffusi dati di grande impatto emozionale come “sviluppare un nuovo farmaco costa un miliardo di euro!”, la ricerca in realtà rappresenta solo l’8 per cento sul totale del fatturato delle aziende farmaceutiche».

I prezzi dei farmaci sono almeno proporzionali al loro beneficio? «Se fosse così, i prezzi dovrebbero essere molto bassi», sostiene amaro Garattini. «Su 280 nuovi farmaci messi in commercio negli ultimi dieci anni, il 51% incrementa una buona qualità della vita di solo un mese. Solo nel 12% dei casi il miglioramento è di almeno un anno. I farmaci antitumorali più recenti costano parecchie migliaia di euro per ciclo ma, alla fin fine, aumentano la sopravvivenza di un paio di mesi».

Cosa condiziona allora il prezzo di un medicinale? «La “promozione”, che incide per oltre un terzo del prezzo.  Far conoscere un farmaco costa parecchio. Bisogna organizzare congressi e meeting, realizzare materiali stampati, e soprattutto occorre mettere in moto la giostra degli informatori farmaceutici, che devono visitare i medici per persuaderli a prescrivere i farmaci».
Infine, un altro terzo del prezzo al pubblico va in spese di distribuzione: 3% ai grossisti, 30 alle farmacie.

L’Aifa (Agenzia italiana del farmaco), che dipende dal ministero della Salute, decide per ogni farmaco la classe di rimborsabilità. Quelli senza obbligo di prescrizione (ricetta del medico) hanno prezzo libero, a carico del paziente. L’Aifa controlla solo quelli non rimborsati ma con obbligo di ricetta: aumenti permessi solo ogni due anni, e senza superare l’inflazione programmata. Poi ci sono i medicinali rimborsati dal Servizio sanitario nazionale: su questi l’Aifa negozia il prezzo con le aziende produttrici. Anche perché sette miliardi di euro annui vengono spesi direttamente da ospedali e Asl.

Proprio in ambito ospedaliero è scoppiato il caso Avastin/Lucentis. Avastin era stata registrata nel 2004 per la cura contro il cancro dalla Roche. Poi si è scoperto che funzionava anche contro la maculopatia essudativa. Due anni dopo Novartis ha brevettato un farmaco specifico contro la maculopatia: Lucentis. Ora si scopre che le due aziende hanno favorito il secondo trattamento più costoso a svantaggio del primo. In questo modo, grazie ai rapporti che legano le due società, entrambe avrebbero ricevuto i propri guadagni.

Roche ha interesse a favorire le vendite di Lucentis, perché ottiene così delle royalties: il farmaco è stato infatti sviluppato dall’americana Genentech, controllata da Roche. E Novartis, oltre a guadagnarci direttamente, lo fa anche indirettamente, attraverso la sua partecipazione (il 30%) in Roche. La Guardia di Finanzia ha sequestrato e-mail fra dirigenti italiani delle due società che si mettono d’accordo, utilizzando anche articoli compiacenti della stampa specializzata e «pareri» favorevoli di medici.
 
Nel 2007, infatti, proprio l’Aifa permise l’utilizzo di Avastin per la cura delle maculopatie nella forma «off label»: espressione che indica l’utilizzo di un farmaco al di fuori delle indicazioni terapeutiche ufficiali. Si è andati avanti così fino al 2012, quando l’Aifa decide di escludere Avastin dagli «off label». Da allora la sanità pubblica ha passato solo il Lucentis, spendendo 45 milioni di euro in più rispetto all’Avastin.
  
Non è certo la prima volta che una casa farmaceutica (o due in combutta fra loro) favorisce un farmaco più remunerativo a scapito di farmaci ugualmente efficaci e sicuri ma più economici. È successo ad esempio per il gabapentin e il pregabalin, due principi attivi molto simili che si usano contro il dolore neuropatico. Il primo è più vecchio: quando il brevetto è scaduto il produttore, Pfizer, ha messo il secondo sul mercato con un costo più alto, organizzando campagne per decantarne le proprietà innovative.

Ed ecco un altro problema. Spiega Garattini: «Ci sono molti farmaci, forse troppi, con le stesse indicazioni terapeutiche. Degli antipertensivi, per esempio, si contano alcune centinaia di confezioni. Come mai? Sono tutti necessari? Per l’approvazione di un nuovo farmaco la legge europea richiede tre caratteristiche: qualità, efficacia, sicurezza. “Qualità”: il farmaco deve possedere sempre la stessa composizione, essere stabile per un certo periodo, così da fissarne la scadenza, e assorbibile per poter penetrare nel sangue. “Efficacia”: capacità d’esercitare un effetto benefico, mentre “sicurezza” significa conoscenza degli effetti collaterali. Nulla da eccepire, senonché queste caratteristiche non sono valori assoluti: andrebbero confrontati con quanto già esiste in terapia per le stesse indicazioni. Ma i confronti non vengono richiesti dalla legge, quindi c’è la possibilità che un nuovo farmaco sia meno attivo o più tossico di quelli già disponibili».

C’è, infine, un problema di buon senso. Avastin costa 15 euro a iniezione, Lucentis 750. Quando fu introdotto, il suo prezzo era addirittura 1.500. «Se il produttore si fosse accontentato di un prezzo superiore ma accettabile, per esempio 200 euro, il caso non sarebbe nato», spiega il dottor Piovella. Insomma, le case farmaceutiche hanno il diritto di guadagnare dai farmaci che producono. Anche perché i loro brevetti scadono dopo vent’anni. Ma con misura.
Mauro Suttora
Ha collaborato Valentina Arcovio

Wednesday, February 26, 2014

Grillismo o squadrismo?

I DEPUTATI DEL MOVIMENTO 5 STELLE SI LASCIANO ANDARE A SCENATE INCONSULTE IN AULA

Oggi, febbraio 2014

di Mauro Suttora

È passato solo un anno da quando sono entrati in Parlamento, emozionati e perfino intimoriti nelle giacche e cravatte comprate per l’occasione. I 150 parlamentari 5 stelle portavano aria nuova, pulita. Oggi, però, molti dei loro 9 milioni di elettori faticano a riconoscerli. Li vedono urlare sconcezze in aula, assaltare i banchi del governo, bloccare conferenze stampa, impedire fisicamente l’uscita dei deputati dalle commissioni.

Cos’è successo? Promettevano di riportare senso civico nelle istituzioni. Ma ora si comportano in modo «disgustoso e demenziale», come denuncia perfino l’unico giornale loro vicino, Il Fatto di Antonio Padellaro e Marco Travaglio (il quale però ne elenca anche gli atti positivi, a pag. 26). Il deputato Giorgio Sorial definisce «boia» il presidente Giorgio Napolitano. Angelo Tofalo grida «Boia chi molla!», slogan fascista. Samuele Segoni indica platealmente il proprio basso ventre durante un discorso. Massimo De Rosa dice alle deputate Pd di essere state elette grazie al sesso orale. Alessandro Di Battista insulta il mite capogruppo Pd Speranza.

«Inaccettabile degrado del costume e del linguaggio», li bacchetta Stefano Rodotà, loro candidato presidente. Il quale boccia Beppe Grillo anche quando chiede di processare Napolitano per alto tradimento: «Populismo degradante». I 5 stelle perdono altri fan: Adriano Celentano, Pippo Baudo, Antonello Venditti, Jacopo Fo (suo padre Dario invece sostiene ancora Grillo). Critico pure il senatore 5 stelle Luis Orellana, loro candidato presidente del Senato, e metà dei suoi colleghi. Grillo, intuendo il disastro, corre a Roma e invita i suoi “ragazzi” a moderarsi e «sorridere». 

Augias: «Violenti inconsapevoli»

Niente da fare. Dopo poche ore appare sul suo blog un video divertente contro la presidente della Camera Laura Boldrini (accusata di aver interrotto un loro ostruzionismo anti-banche) confezionato dall’attivista romano Denis Ferro, emigrato a Paderno Dugnano (Milano). Purtroppo, però, il titolo aizza al linciaggio: «Cosa fareste a Laura in auto?». Immaginabili le risposte. Da «squadristi inconsapevoli», secondo il giornalista e scrittore Corrado Augias. Al quale viene riservato un trattamento neonazi: i suoi libri bruciati in video.

Ciliegina sulla torta: un altro gentleman, Claudio Messora, scrive alla Boldrini che aveva accusato i grillini di avere fra loro dei «potenziali stupratori»: «Volevo tranquillizarti [sic], tu non corri nessun rischio». Messora, nominato «capo della comunicazione» direttamente da Gianroberto Casaleggio, è il vero capo dei senatori 5 stelle: i capigruppo ruotano ogni tre mesi, lui resta.

Infine, un tocco comico: Rocco Casalino, ex concorrente del Grande Fratello nel 2002, oggi addetto stampa grillino in Senato, attacca Daria Bignardi, ex presentatrice di quel Grande Fratello, perché ha “osato” chiedere a Di Battista in tv del padre fascista: «Il suocero della Bignardi, Adriano Sofri, è un assassino».

«Dare dei “fascisti” ai grillini è esagerato», commenta con Oggi Mario Capanna, pure lui 30 anni fa protagonista di memorabili ostruzionismi. «Anche noi di Democrazia Proletaria eravamo rivoluzionari, quindi criticavamo tutti. Però col Pci discutevamo sempre, cercavamo sponde e alleanze. E lottammo contro il decreto sulla scala mobile assieme a Berlinguer. Non ci isolavamo».

Memorabili anche gli ostruzionismi radicali: nel 1981 Marco Boato parlò 18 ore contro il fermo di polizia. Record mondiale. Lo soprannominarono “vescica di ferro”. Adesso giustifica la Boldrini: «Era suo preciso dovere interrompere l’ostruzionismo dei 5 stelle e permettere la votazione, perché i tempi stavano scadendo. Una minoranza può ricorrere al filibustering per ritardare l’approvazione di una legge che ritiene ingiusta, creando attenzione su di essa e appellandosi all’opinione pubblica, ma non può impedire il libero voto».

Marco Pannella, antesignano dei referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti e delle lotte anti-Casta, avverte Grillo: «Passa dal monologo al dialogo, altrimenti illuderai e deluderai i tuoi milioni di simpatizzanti».

Gli altri “papà” dei grillini sono i verdi. «Stessi temi ecologici, ma nonviolenti non so», sostiene l’ex consigliere regionale Veneto Mao Valpiana. «Noi non eravamo mai aggressivi e arroganti, massimo rispetto per gli avversari. Gandhi insegna che bisogna convincere, non insultare. Costruire ponti, senza rinchiudersi in se stessi. Invece i 5 stelle sembrano una setta tipo Scientology. Un gruppo chiuso, controllato dal centro».
Mauro Suttora