Wednesday, August 11, 2010

parla Lele Mora

ERO IO L'IMPERATORE DELL'HOLLYWOOD

Oggi, 4 agosto 2010

Lele Mora, l’imperatore dell’Hollywood era lei.
«Per dieci anni, alla domenica sera, stavo seduto nel privé su una poltrona a forma di trono».

Perché?
«Un po’ per scherzo, un po’ perché venendo dalla campagna la cosa mi piaceva. Ma la vera ragione era un’altra».

Quale?
«Ricevo 500 mail al giorno di giovani che vogliono entrare nel mondo dello spettacolo. Impossibile trovare il tempo di incontrarli tutti».

E allora?
«Venivano loro lì. Così non c’era bisogno del richiamo di nomi famosi per riempire il locale. Bastavo io».

Le serate con coca di cui parlano Belen e la Ribas.
«Mai vista, la cocaina. Io sono assolutamente contro la droga. Neanche fumo e bevo».

Ha fatto tre mesi di carcere per cocaina nel 1989.
«Completamente prosciolto. Fu terribile».

Mai vista, allora, la coca?
«Vedo chi la vende e chi la prende, come tutti. Ti fermano addirittura per dartela, qui sotto in viale Monza come in corso Como».

Dilaga.
«È la piaga di questi anni. Ormai la prendono tutti, anche gli operai al sabato».

E quindi?
«Se chiudono l’Hollywood, dovrebbero chiudere tutti i locali del mondo».

Battaglia persa?
«Mai darsi per vinti. Io aiuto don Mazzi».

Erano complici anche vigili e poliziotti.
«Ci sono sempre gli insospettabili».

Tanto vale legalizzare.
«Non saprei prendere posizione, non sono un politico».

Almeno non ci guadagnano i mafiosi.
«È come per l’alcol».

Cioé?
«Vogliono chiudere le discoteche alle due. Ma i ragazzi bevono lo stesso, nei baracchini».

E attorno a lei?
«Ho allontanato dalla mia agenzia personaggi come la Ribas, la Lodo, la Fabiani».

Perché?
«Non c’era più feeling».

Diplomatico.
«Io ai miei ragazzi ho fatto solo del bene. Ma non tutti sono riconoscenti».

Corona?
«Ai figli si perdona sempre. Anche a quelli più ribelli».

Lo hanno beccato per la terza volta senza patente.
«Non è quello che vuol far credere di essere».

E cos’è, allora?
«Buono, furbo. E malato di denaro».

Siete accusati di Iva evasa su 17 milioni.
«Lui non so. Io per fatture di poche centinaia di migliaia».

Come vanno gli affari?
«Non tanto bene».

Dopo Vallettopoli del 2007?
«Ero crollato da 50 a uno. Trent’anni di lavoro distrutti».

L’hanno abbandonata in tanti?
«No. Molti li ho lasciati io. Ora curo 80 artisti».

Gli addii più dolorosi?
«Simona Ventura e Valter Nudo. Lei dopo 14 anni. Lui mi ha tradito tre volte».

In che senso?
«Se n’è andato, non ha combinato niente, è tornato, l’ho ripreso in agenzia, l’ho rilanciato, mi ha mollato di nuovo».

Chi le è stato fedele?
«Tanti: la Ferilli, Ornella Muti, De Sica, D’Eusanio, Yespica. E poi Casalegno, Caldonazzo, Platinette, Remo Girone...»

Ora come va l’agenzia?
«Ci stiamo riprendendo, ma che fatica».

Questo suo ufficio brilla sempre.
«Lavoro come un matto. L’altra sera ho inaugurato un casinò ad Abbazia, in Croazia. Dodici ore d’auto. Ieri a Verona e poi a Bari».

Stanno finendo gli anni Zero. Lei, con Briatore, è stato il simbolo del decennio.
«Ho creato e lanciato tanti sconosciuti. A Belen ho dato il permesso di soggiorno, era clandestina. E poi la Falchi...»

Metà dei personaggi tv erano suoi.
«Anche tre quarti».

Si pente di qualcosa?
«Ho gonfiato anche “fenomeni” che non sanno fare niente. Senza talento e cultura».

Lei invece colleziona lauree ad honorem, le vedo appese lì dietro.
«Due in Scienza della comunicazione. Un'altra me la stanno per dare a Perugia. E poi la mia».

In?
«Economia e commercio, a Bologna».

Era uno degli uomini più potenti d’Italia.
«I veri potenti sono altri: politici, industriali, banchieri».

Lei no?
«Ho solo lavorato tanto, cominciando da Patty Pravo e Loredana Berté negli anni ‘70».

Un drogato di lavoro.
«Ecco. Questa è la mia unica droga. Vivo per lavorare, invece di lavorare per vivere».

Si vede che le piace.
«Sì, ma ho trascurato la famiglia».

Se l’è portata dietro: sua figlia lavora con lei.
«Anche mio figlio e mio genero».

Quindi non si è mai sentito importante? Neppure sul trono?
«Una volta la mia faccia non la conosceva nessuno. Ora che è nota, non posso fare più nulla».

Cioé?
«Appena faccio pipì fuori dal vasino mi segnalano».

L’hanno segnalata con Berlusconi fra le guglie del Duomo, due settimane fa.
«Sono andato per il concerto di Aznavour. Mi ha invitato un mio amico imprenditore di Roma, anche perché costava duemila euro a biglietto».

Che fa, prende le distanze?
«Assolutamente no. Amo Berlusconi come imprenditore, politico e uomo di parola».

Vota Pdl?
«Politicamente sono mussoliniano, perché lo erano i miei genitori».

Quindi ha votato Storace.
«No. Mussoliniano, non fascista».

L’hanno vista a un comizio Pdl.
«Ho aiutato la campagna di due amici: Podestà per la provincia di Milano, e Giorgio Pozzi a Como».

Insomma, è di destra.
«Ma solo personalmente. Sul lavoro niente politica».

Bipartisan.
«Sì. Infatti la Ferilli è di sinistra».

Oggi è il 2 agosto. Vacanze?
«Detesto il sole. Per questo sono bianco come un latticino»

Mauro Suttora

Cocaina a Milano

DOPO IL SEQUESTRO DELL'HOLLYWOOD, VIAGGIO NELLE NOTTI BIANCHE DELLE DISCOTECHE

Oggi, 4 agosto 2010

di Mauro Suttora

È qui la coca? Mezzanotte, venerdì sera, Milano, parco Sempione. Nel ristorante della discoteca Old Fashion intime coppie e allegre tavolate stanno finendo la cena. Fra un po’ si sposteranno nel dehors sotto il bel palazzo in mattoni rossi della Triennale. Sta per cominciare la musica, o almeno quel ritmo di rumori ossessivi che l’ha sostituita nelle discoteche.

È il primo week-end di agosto, ma ci sono ancora giovani eleganti in giro per Milano. Gli argomenti di conversazione sono due: dove si va in vacanza, e l’Hollywood. Il locale più alla moda della città, appena chiuso per droga. Che ha fatto notizia non per la droga, ovviamente: quella scorre a fiumi e nei fiumi finisce, secondo le analisi delle acque del Po. Gira nei locali notturni dai tempi dello scandalo al Number One, via Turati, primi anni ’70. E non solo: «Diecimila dosi consumate ogni giorno a Milano, 15 mila nei fine settimana, anche da manager», calcola meticolosa la Asl.

Ora però per la prima volta un magistrato svela una verità più imbarazzante: spacciatori (di coca a 50 euro per sniffata) e protettori (di escort a 300 euro per notte) erano protetti da capi di vigili, poliziotti e dirigenti comunali. Quelli che danno le licenze, e le possono togliere in due minuti con qualsiasi scusa (lo storico Nepentha chiuso perché c’era troppa gente).

Come a Chicago sotto Al Capone, ormai in mezza Lombardia comandano i mafiosi: notizia di un mese fa. La ’ndrangheta non solo fa i miliardi con la droga, ma compra direttamente le discoteche e le usa per nasconderci le pistole dei suoi killer. Il tutto a pochi centimetri dai nasi e dai seni della gente più invidiata d’Italia: le donne più belle (Belen Rodriguez, Elisabetta Canalis, Fernanda Lessa), gli uomini più ricchi (industriali, politici, figli di papà), i calciatori più famosi.

Nella penombra attorno all’Old Fashion, e al vicino Just Cavalli, si aggirano arabi e sudamericani. Non spacciano: chiedono cinque euro a ogni auto che parcheggia. Entriamo. L’anno scorso l’Old Fashion, aperto anche d’estate perché provvisto di giardino, aveva aggiunto Hollywood al proprio nome, per indicare un gemellaggio con il più famoso locale solo invernale. Ora la scritta è convenientemente sparita. Sono rimasti gorilla e buttafuori, facce orrende ma necessarie anche per - in teoria - proteggere la «bella gente» proprio da spacciatori e altri malintenzionati. A meno che - come ha scoperto il pm Frank Di Maio - anche loro non facciano parte del «giro», coordinati da poliziotti fuori servizio in vena di arrotondare, offrendo ai clienti ogni piacevole illegalità e impunità.

Nessuna traccia di traffici strani nei bagni dell’Old Fashion. E ci mancherebbe, proprio in queste notti. Anzi, energumeni occhiuti controllano il viavai attorno ai bagni. Stessa scena, più o meno, negli altri sette locali che abbiamo visitato, fino alle quattro del mattino: Just Cavalli e Bar Bianco al parco Sempione, Crazy Jungle in via Cavriana, e all’Idroscalo il Jardin au bord du lac, Papaya, Borgo Karma e Solaire. Quest’ultimo, con una bella terrazza, riaperto e ripulito dopo la passata gestione delle cosche calabresi.

Migliaia di giovani arrivano in auto ogni venerdì e sabato sera, come in tutta Italia. Un’industria da centinaia di milioni di euro. All’Idroscalo servizi d’ordine numerosi ed efficienti chiudono un occhio ed entrambe le narici di fronte a qualche nuvola di fumo dolciastro proveniente da gruppi di ragazzi che spinellano. All’Idroscalo i «privé» (zona riservata per vip, poltrone solo a chi compra bottiglie di champagne da cento euro) sono una simpatica imitazione di quelli di corso Como. Ma ogni disco che si rispetti deve averlo, il privé, per sembrare esclusiva anche se frequentata da proletari, e mai nessun premier ci farà un salto come invece capitò all’Hollywood tre anni fa.

Nell’immenso parcheggio del Papaya, locale popolare per diciottenni dove si entra gratis senza consumazione obbligatoria da 15 euro (negli altri locali mai una ricevuta fiscale, ma questo è un altro discorso, o forse lo stesso), trovo infine un piccolo spacciatore. Gli chiedo cocaina. Ha solo hashish. Droga leggera. Sembra di tornare al liceo, trent’anni fa. È arabo, vuole 50 euro. Trattiamo, compro a trenta.

Niente di più libero e facile: è la farsa del proibizionismo. Che infatti sia a sinistra (Michele Serra) sia a destra (Sergio Romano) è in questi giorni definito inutile. Viene in mente Robert De Niro in C’era una volta in America. Ricordate? Quando il presidente Roosevelt legalizzò i liquori, lui e i suoi amici mafiosi si ritrovarono senza lavoro. E ora vogliamo creare disoccupazione, con la crisi che c’è?...
Mauro Suttora

Wednesday, August 04, 2010

Gemelli Mussolini

GRAZIE ALL' INSEMINAZIONE ARTIFICIALE, SI ALLARGA LA DINASTIA DEL DITTATORE

I due trisnipoti del duce, Marzio e Carlo, sono nati con le tecniche del professor Antinori. E la bisnonna era Edda Ciano, figlia di Benito. Che sulla procreazione assistita, già allora diceva...

di Mauro Suttora

Oggi, 4 agosto 2010

Siamo ormai arrivati alla quinta generazione di Mussolini. Ma avere fra le mani il Dna di Benito fa sempre un po' impressione. È quel che è capitato al professor Severino Antinori, il medico italiano famoso per le tecniche di fecondazione artificiale, che ha favorito la nascita di Marzio e Carlo Ciano, trisnipoti del duce. Eccoli qui felici e pasciuti, a otto mesi dalla nascita (il 21 novembre 2009 nella clinica romana Quisisana), in braccio al papà Pier Francesco Ciano.

Ciano ha deciso di chiamare uno dei due gemelli con il nome di suo padre Marzio, morto a soli 37 anni, e terzogenito della coppia composta da Edda e Galeazzo, ex ministro degli Esteri, una delle figure più controverse del regime fascista.

«I bambini sono nati all' ottavo mese», dice Ciano, «e alla nascita pesavano 2,7 chili e 2,3. Mia moglie Alessandra e io ringraziamo il ginecologo Severino Antinori. Edda e Galeazzo Ciano ebbero tre figli, ma solo mio padre ebbe degli eredi: me e mio fratello Lorenzo. Lorenzo non ha figli, mentre io e mia moglie ora abbiamo dato alla luce questi bei gemelli, che porteranno avanti la dinastia».

FIGURA CONTROVERSA

La dinastia Ciano, nel bene e nel male, ha fatto l'Italia del Novecento. A cominciare dall'ammiraglio Costanzo Ciano, nato a Livorno nel 1876 e autore della «beffa di Buccari»: con i suoi Mas (Motoscafi antisommergibile) assieme a Gabriele D'Annunzio riuscì a penetrare nel porto della flotta austriaca. Il che, dopo Caporetto, risollevò il morale delle truppe italiane. Sotto il fascismo fu ministro e presidente (di quel che restava) della Camera dei deputati.

Suo figlio Galeazzo, spavaldo e brillante, sposò nel 1930 Edda Mussolini, primogenita del dittatore, il quale nel '36 lo volle ministro degli Esteri. Filoinglese come i gerarchi più intelligenti del regime (Italo Balbo, Dino Grandi), Ciano cercò di tenere l'Italia fuori dalla guerra di Hitler. E per nove mesi ci riuscì. Ma nel giugno '40 Mussolini, visto il crollo della Francia, la attaccò.
Ciano divenne ambasciatore in Vaticano, dove ebbe stretti rapporti con il futuro papa Paolo VI, allora numero due della Segreteria di Stato. Il 25 luglio '43, durante l'ultimo drammatico Gran Consiglio, Galeazzo Ciano tradì Mussolini, votandone la richiesta di dimissioni che fece cadere il regime. Per questo pagò con la vita nel gennaio successivo: venne fucilato a Verona, nonostante la moglie Edda implorasse la grazia presso il padre.

Una vicenda da tragedia greca, che vide spendersi e spegnersi Edda, figlia prediletta del Duce, donna anticonformista, spregiudicata e moderna. «Ho sottomesso l'Italia, non riuscirò mai a sottomettere mia figlia», disse di lei Mussolini.
Dopo la guerra Edda girò il mondo, sempre irrequieta, pur badando ai tre figli: Fabrizio, Raimonda (detta Dindina) e Marzio. Marzio, nonno dei gemellini, si sposò con Gloria Lucchesi, ma tre anni dopo la nascita di Pier Francesco si separò. Morì nel '74, ventun anni prima di sua madre Edda.

A causa della distanza fra la nascita di Edda Mussolini e quella di suo fratello Romano, venuto alla luce 17 anni dopo, negli stessi mesi del '62 in cui Romano ha avuto da Anna Maria Scicolone (sorella di Sophia Loren) la figlia Alessandra (oggi deputata Pdl), è nato anche Pier Francesco Ciano, che appartiene però alla generazione seguente.

Ma cos'avrebbe detto Benito della procreazione assistita con la quale sono venuti alla luce questi suoi trisnipotini? Può sembrare una curiosità balzana. Eppure la risposta, incredibilmente, c'è.
Il 28 novembre 1939, Mussolini disse queste parole alla sua amante Claretta Petacci, che le trascrisse nel proprio diario (desecretato da poco dall'Archivio di Stato, e pubblicato da Rizzoli nel 2009 in Mussolini segreto): «Cara, hai veduto l'incubazione meccanica? Cioè il toro monta una bestia finta, raccolgono il liquido, e con quello rendono incinte altre bestie. Il toro è un bel po' stupido, non si accorge. [...] Guarda le foto. A me fa un certo effetto, anche a te vedo. Sì, è brutto, la natura va rispettata anche per le bestie. pensa che hanno fatto lo stesso anche con delle donne. Per esempio, una non poteva avere figli col marito. Si faceva iniettare lo sperma di uno qualunque e rimaneva incinta. Uno in America fece la prova di dieci o quindici sperma prima di iniettarli alla moglie. Nauseante».

Ma Mussolini si riferiva alla fecondazione assistita «eterologa». Questi gemellini Ciano, invece, sono nati regolarmente fra marito e moglie.

Mauro Suttora

Wednesday, July 21, 2010

Rizzoli & Isles, nuovo serial Usa

Angie Harmon interpreta una detective dal nome famoso

New York, 7 luglio 2010

di Mauro Suttora - Oggi

Che coincidenza. Lunedì 12 luglio ha debuttato negli Stati Uniti (canale Tnt) un nuovo serial tv: Rizzoli & Isles. Sulle orme di Starsky & Hutch, il titolo richiama i cognomi delle due protagoniste: la detective italoamericana Jane Rizzoli e la medico legale Maura Isles, che indagano a Boston..
Il giorno dopo, martedì 13, in Italia Canale 5 ha cominciato a trasmettere in prima serata le tredici puntate di Women’s Murder Club, altro serial definito «un misto di Csi, Sex and the City e Grey’s Anatomy».
In comune, i due serial hanno la protagonista: Angie Harmon, 37 anni, texana con sangue cherokee, greco e irlandese. È una delle donne più belle degli Stati Uniti, a metà strada fra l’energetica Sandra Bullock e l’indimenticata Florinda Bolkan.
È lei l’affascinante Jane Rizzoli, che si chiama così per scelta di Tess Gerritsen, l’autrice dei libri (tradotti in Italia da Longanesi) da cui è tratta la serie. La coprotagonista Sasha Alexander ha anche lei un legame con l’Italia: tre anni fa ha sposato Edoardo Ponti, figlio di Sophia Loren.

Libri sofisticati

«Rizzoli» è un nome ben noto negli Stati Uniti. La Rizzoli Usa pubblica libri sofisticati d’arte e di moda in inglese, e la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada di New York, con le sue boiseries, è una delle più eleganti di tutto il continente. Lì è stata girata una puntata di Sex and the City, e lì si incontrano per caso Robert De Niro e Meryl Streep nella prima scena del film Innamorarsi (1984).
Un mondo intellettuale lontano da quello della dinamica Angie Harmon, che ha sposato l’ex giocatore di football Jason Seehorn da cui ha avuto tre figlie. I loro nomi sono Fede, 6 anni, Grazia, 5, e Speranza, 1. Speriamo che non ne nasca un’altra, perché rischierebbe di chiamarsi Carità. La Harmon, lei stessa figlia di un’indossatrice degli anni ‘70, prima di recitare in Baywatch e Law & Order è stata una top model negli anni ‘90, fra le preferite di Giorgio Armani, Calvin Klein e Donna Karan. Ha conquistato le copertine di Elle, Cosmopolitan ed Esquire, e nel 2008 ha fatto sensazione fra i puritani d’America perché è apparsa «nuda» sul mensile Allure.

Idee politiche di destra

Veramente non è che si (intra)vedesse granché, anche perché Angie, come molti texani, ha idee politiche di destra. Non sono molti gli attori di Hollywood che votano repubblicano, cosicché l’ex presidente George Bush junior le fece pronunciare un discorso alla convention del 2004.
Alle ultime elezioni la Harmon ha appoggiato John McCain contro Barack Obama, e ha già promesso il voto alla conservatrice Sarah Palin per il 2012. Insomma, una vera «dura»...

Mauro Suttora

Monday, July 19, 2010

Cappato, Marra e Bruti Liberati

LO STRANO SALVATAGGIO DELLA LISTA FORMIGONI

di Mauro Suttora

18 luglio 2010

Dove ha fallito la P3, sta riuscendo un altissimo magistrato di sinistra? Il presidente della corte d’Appello di Milano Alfonso Marra, nonostante le pressioni del faccendiere avellinese Pasquale Lombardi ora in carcere con i sodali Carboni e Martino, non fu capace di far riammettere la lista di Roberto Formigoni alle regionali di marzo. Anche per questa totale inefficienza la «nuova P2» è stata liquidata da Berlusconi come composta da «quattro pensionati sfigati».

A risolvere il pasticcio fu poi Piermaria Piacentini, presidente del Tar lombardo indagato nell’inchiesta sulla «cricca» Balducci-Anemone. Quanto a Marra, «Fofò» per gli amici, la sua carriera è finita ad appena cinque mesi dalla prestigiosa nomina milanese: il Csm ha avviato il procedimento disciplinare, mentre l’Anm parla addirittura di espulsione.

Il dirigente radicale Marco Cappato, persa la battaglia contro Formigoni in sede di ricorso elettorale, non si è dato però per vinto: ha presentato denuncia penale per quella che definisce «la falsificazione delle firme sui moduli della lista Formigoni: duemila su 3.500 erano pre-datate rispetto alla lista dei candidati».

L’allora procuratore aggiunto di Milano Edmondo Bruti Liberati, tuttavia, ha chiesto l’archiviazione anche di questo procedimento. «Dobbiamo capirne le motivazioni», dice Cappato, «perché la sua richiesta non è stata ancora accolta. Basterebbe un rapido controllo delle firme per rendersi conto delle irregolarità. A questo punto, mi auguro che anche in Lombardia, come in Piemonte, sia fatta luce sull’illegalità del voto».

Nel frattempo, Bruti Liberati è stato nominato procuratore capo a Milano. E l’elezione al Csm in maggio, contrariamente a quella di Marra a febbraio, è stata ad ampia maggioranza. Hanno sostenuto Bruti Liberati anche i consiglieri di centrodestra, compreso il «laico» Michele Saponara (ex sottosegretario di Forza Italia) e il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, del quale oggi il Pd chiede le dimissioni per aver partecipato a cene della «nuova loggia P3», anche se non risulta indagato.

Una nomina trasversale, insomma, per il 65enne magistrato marchigiano, colonna della corrente di sinistra Magistratura Democratica e già segretario dell’Anm. Che secondo alcuni ha rappresentato una specie di «spartizione» nel palazzo di Giustizia milanese: Marra per il centrodestra, Bruti Liberati per il centrosinistra.

Non è un mistero infatti che anche a febbraio la nomina di Marra provocò grosse polemiche, e gli schieramenti si divisero. Gli votò contro Giuseppe Maria Berruti, fratello del deputato Pdl Massimo, mentre da sinistra gli giunsero i consensi di Celestina Tinelli (Pd) e perfino del vicepresidente Nicola Mancino. Il candidato naturale era Renato Rordorf, ma adesso dalle telefonate della P3 caldeggianti il nome di Marra emerge che si riteneva impossibile che entrambe le cariche finissero in mano alla sinistra. Paradossalmente, però, Bruti Liberati sul caso Formigoni si è dimostrato finora più «utile» di Marra.

Mauro Suttora

Wednesday, July 14, 2010

Molise, torna negli Abruzzi

PROPOSTA: RIDURRE SPRECHI E BUROCRATI

Le due regioni sono separate dal 1963, ma ora c'è chi vuole fare marcia indietro. Perché con il federalismo non si può essere piccoli

Campobasso, 7 luglio 2010

di Mauro Suttora

Buone notizie, una volta tanto, sul fronte sprechi: un comitato chiede l’abolizione di un ente inutile invece della sua «salvezza».
A Campobasso è nato il gruppo «Majella madre», dal nome del monte che sia abruzzesi sia molisani considerano il proprio simbolo, più del Gran Sasso che sta troppo a nord.
Propone la cancellazione della regione Molise (appena 320 mila abitanti, come un quartiere di Roma o Milano) e la riunificazione con l’Abruzzo, da cui si separò nel 1963. Tanto più che la seconda provincia molisana, Isernia, nata nel ’70, dovrebbe essere abolita, avendo solo 88 mila abitanti.

Peggiore buco sanitario

Il promotore è Sergio Sammartino, docente di filosofia e giornalista (Il Tempo, Avanti). Proprio lui, figlio di quel senatore Remo Sammartino che, in Parlamento per trent’anni, fu uno dei padri dell’autonomia. «Ma poi, visti i risultati, si era pentito», dice Sammartino: «Il Molise è inefficiente, ha il peggior buco sanitario pro-capite in Italia dopo Lazio e Campania. Per questo dovrà aumentare l’Irpef regionale. Produce trenta euro ogni cento spesi: una politica fallimentare, basata sull’assistenzialismo pubblico. Eppure i suoi dirigenti sono capaci di spendere 150 mila euro in due giorni per la “Festa della regione”… Non c’è niente da festeggiare. Con il federalismo, il Molise dovrà accorparsi a un’altra regione. Non siamo autosufficienti. Si è parlato di Puglia o Campania. Ma vogliamo diventare ancor più “meridionali”, o preferiamo tornare a dov’eravamo prima del ’63, ed essere più “settentrionali”? Da allora l’Abruzzo si è sviluppato, oggi è ricco il doppio di noi».

Il presidente del comitato è Enzo Delli Quadri, già manager Alfa, Ansaldo, e direttore centrale dell’Enea. Gli «unionisti» stanno guadagnando consensi, in entrambe le regioni ed entrambi gli schieramenti: dal consigliere regionale molisano Michele Petraroia (Pd), a quello abruzzese Giuseppe Tagliente (Pdl).
Se ne parla nella famiglia di Alessandra Mastronardi, la giovane attrice de I Cesaroni, il cui padre Luigi di Agnone (Isernia) è favorevole. Un altro molisano famoso (genitori di Salcito, Campobasso), l’attore e produttore Massimo Ciavarro, taglia corto: «Sono favorevole a tutto ciò che diminuisce spese e tasse».

Romagna con l’Emilia

«Come mai una regione come la Romagna, poco più grande ma ben più ricca del Molise, non ha mai pensato di separarsi dall’Emilia? E perché la Basilicata ha sette senatori e noi due, cioè la metà in proporzione agli abitanti?», ragiona Sammartino.
Il suo interlocutore, ormai, è diventato il molisano più famoso: Antonio Di Pietro. La sua Italia dei Valori ha preso il 28% in regione nell’ultimo voto, le europee dell’anno scorso.
«Pochi anni fa, a un incontro di abruzzesi a Roma, Di Pietro disse che non capiva perché il Molise fosse separato dall’Abruzzo. Ma ora pare che voglia candidarsi a presidente del Molise nelle imminenti regionali del 2011. Speriamo che allarghi le sue ambizioni, e punti alla guida del nuovo, grande Abruzzi-Molise».

Mauro Suttora

Monday, July 12, 2010

Pannella & Bordin

"L'ho trovato bene. Un po' invecchiato. Gli occhi sono piu' profondamente segnati. Passa gran parte delle ore notturne circondato da collaboratori e amici. La signora Goebbels, che è un'assidua di queste riunioni e che se ne sente molto onorata, mi descriveva la cosa, non riuscendo a nascondere un vago senso di noia per la monotonia delle riunioni. Parla quasi sempre lui. E - si ha un bell'essere il Fuehrer - si finisce sempre col ripetere le stesse cose e con l'annoiare gli ascoltatori"

Galeazzo Ciano, Diario, 23 maggio 1939

Wednesday, July 07, 2010

Castiglioncello (Livorno), 20 luglio

Martedì 20 luglio presentazione di 'Mussolini segreto' a Castiglioncello (Livorno)

Incontri al Castello: Castiglioncello festeggia trent'anni

Gli Incontri al Castello, organizzati dal Comune di Rosignano M.mo, alla Limonaia, nel parco del castello Pasquini di Castiglioncello, con giornalisti e scrittori che presentano i loro libri, compie trent’anni. Un compleanno importante che Alessandro Franchi, Sindaco del comune di Rosignano M.mo e Gloria De Antoni curatrice della rassegna da tre anni, intendono festeggiare al meglio con ospiti prestigiosi e interessanti. “In un’epoca in cui anche il più piccolo comune della provincia italiana organizza incontri con gli autori, scoprendo che lo scrittore attira il pubblico e che ci sono appassionati di letteratura- dichiara il Sindaco- è nostro punto di forza ricordare che il comune di Rosignano è stato lungimirante scegliendo, trent’anni fa, di organizzare incontri con scrittori. Appuntamenti che con il tempo si sono fatti sempre più importanti e attesi dal pubblico.”

“Per festeggiare degnamente la rassegna - ricorda la curatrice Gloria De Antoni - abbiamo deciso di accontentare ogni richiesta del pubblico e cercando di rappresentare tutti i generi della letteratura a 360 gradi, dall’epistolario, al diario, dal saggio al romanzo nelle sue differenti accezioni: il romanzo d’indagine, quello classico e quello “estivo”, insomma non avremo come sempre un unico tema, ma un filo conduttore che è quello del genere letterario.”

La rassegna si apre domenica 11 luglio alle ore 18 con Marcello Sorgi, giornalista già direttore del tg1 e della Stampa, di cui oggi è editorialista e inviato, che racconta nel suo ultimo libro “Le amanti del vulcano” la carismatica vicenda di amore e tradimento tra il regista Roberto Rossellini e le attrici Anna Magnani e Ingrid Bergman.

Martedì 13 luglio arriverà a Castiglioncello Don Andrea Gallo con “Così in terra, come in cielo” edito da Mondadori, il lucido racconto del più famoso prete da marciapiede italiano.

Giovedì 15 luglio l’incontro sarà con Lorenzo Pavolini nella cinquina dei finalisti al premio Strega per “Accanto alla tigre”, un viaggio nella storia della famiglia Pavolini e insieme in quella collettiva del Paese. Protagonista Alessandro Pavolini, figura centrale del fascismo, nonno di cui Lorenzo scopre la verità solo nei libri di storia.
Il giorno successivo (venerdì 16 luglio) è la volta di Alice Di Stefano figlia della scrittrice Cesarina Vighy, recentemente scomparsa, che ricorderà la madre e i suoi libri da “L’ultima estate” a “Scendo. Buon proseguimento”.

Martedì 20 luglio il giornalista e scrittore Mauro Suttora presenterà il volume di Claretta Petacci “Mussolini segreto. Diari 1932 – 1938” edito da Rizzoli, di cui è curatore.
Mauro Suttora, giornalista del gruppo RCS (Rizzoli Corriere della Sera), collabora con «Newsweek» e con il «New York Observer». A settant’anni dalla loro stesura e dopo una serie di vicissitudini travagliate che ne hanno in passato ostacolato la pubblicazione, i diari di Claretta Petacci raggiungono il pubblico italiano. E rivelano ben più di quanto ci si potrebbe aspettare dalla donna nota a molti solo come l’ultima e più famosa amante di Mussolini.

Giovedì 22 luglio l’appuntamento sarà con il magistrato Antimafia e scrittore Gianrico Carofiglio. Carofiglio che con i primi quattro romanzi ha superato il traguardo del milione di copie vendute, converserà e parlerà al pubblico dei suoi romanzi d’indagine da “Le perfezioni provvisorie” a “Non esiste saggezza” entrambi editi da Sellerio.

Sabato 24 luglio Anna Testa e Giuliana Lojodice presenteranno «Buonasera Aroldo, buonasera Giuliana. Aroldo Tieri e Giuliana Lojodice, vita, carriera e scene da un matrimonio», edito da Baldini Castoldi Dalai.

Venerdì 30 luglio Enrico Vaime, testimone e protagonista dello spettacolo italiano, della rivista, del varietà, della commedia, della radio e della televisione, presenta la terza parte della sua autobiografia:“Anche a costo di mentire” edito da Aliberti.
Sabato 31 luglio torna a Castiglioncello Camilla Baresani con il suo ultimo romanzo “Un’estate fa” edito da Bompiani.

Gli incontri si fermano per una settimana per lasciare spazio al premio della comunicazione per riprendere Martedì 10 agosto con il professore-giallista Sergio Vanni e il suo “Un delitto educato”, quindi mercoledì 18 agosto Alessandra Levantesi, giornalista e critica della stampa presenterà il libro scritto con il compianto Tullio Kezich dal titolo “Una dinastia italiana. L’arcipelago Cecchi – D’Amico tra cultura, politica e società” edizioni Garzanti.

Venerdì 20 agosto torna un affezionato ospite di Castiglioncello Gillo Dorfles, per presentare il volume a lui dedicato “Divenire di Gillo Dorfles”. Il 12 aprile lo scrittore, filosofo e critico d’arte Gillo Dorfles ha compiuto 100 anni. Per festeggiare lo speciale compleanno del teorico dell’estetica, del gusto e delle mode, è uscito questo libro curato da Massimo Carboni, che è un omaggio per ricostruire a mosaico un percorso scientifico, culturale e creativo che include in prima persona l’intellettuale e l’artista che lo ha intrapreso, il suo stile di lavoro e il suo calibro etico.
Gli incontri alla Limonaia si terranno alle ore 18 e sono a ingresso gratuito.

07/07/2010

Monday, July 05, 2010

Elogio dell'individualismo

"La sovranità del nostro io individuale, idea nata nel Rinascimento fiorentino, rappresenta forse il dono più grande dell'Italia alla civiltà mondiale"

Salman Rushdie, 10 luglio 2010, discorso alla Milanesiana (Milano)

Wednesday, June 23, 2010

Pensioni d'oro ai parlamentari

DONNE AL LAVORO FINO A 65 ANNI, MA GLI ONOREVOLI INCASSANO LA PENSIONE A 50

A LORO BASTANO 30 MESI DI CONTRIBUTI, INVECE DI 35 ANNI

Alcuni prendono 3 mila euro al mese dopo un giorno solo di presenza. Altri hanno avuto l'assegno a 42 anni. Per senatori e deputati è sempre festa. Camera e Senato ci costano 2,5 miliardi l'anno, di cui 219 milioni per le pensioni degli ex onorevoli

di Mauro Suttora

Oggi, 16 giugno 2010

Non ce la fanno. I nostri governanti ci stanno infliggendo tagli per 25 miliardi di euro. Avevano promesso di sacrificarsi un po' anche loro: diminuire il numero dei parlamentari, abolire le province, abbassarsi il superstipendio da 15 mila netti al mese. Niente. Le province rimangono tutte in piedi. I parlamentari restano 950, per un costo di due miliardi e mezzo annui. E sugli stipendi, mentre gli altri dipendenti pubblici che guadagnano oltre 90 mila euro subiscono un prelievo del cinque per cento, e quelli oltre i 150 mila del dieci per cento, loro non hanno ancora deciso nulla.
Il governo non interviene per rispettare la divisione dei poteri: l'esecutivo non può interferire con il legislativo (Parlamento). Dovrebbero essere quindi le Camere stesse ad autoridursi gli stipendi. Buonanotte.

C'è però un aspetto un po' vergognoso in questa manovra: le pensioni. Improvvisamente, le donne del settore pubblico devono lavorare cinque anni in più: smetteranno a 65 anni, e non a 60. Ma in questo campo il confronto con i parlamentari è imbarazzante. Gli ex deputati e senatori, infatti, incassano pensioni da nababbo che vanno da un minimo di 3 mila fino a quasi 10 mila euro lordi al mese. E godono di enormi privilegi: possono riscuoterle con appena due anni e mezzo di «lavoro» (contro i 35 di noi comuni mortali) e a 50 anni di età, se deputati eletti prima del '96, o senatori da prima del 2001. Per gli altri l'età sale a 60 (con almeno due legislature) e a 65 (con una sola legislatura).

203 MILIONI DI BUCO ANNUO

Sono oltre 2.200 gli ex parlamentari a cui lo Stato versa la pensione, più oltre mille assegni di reversibilità ai coniugi dei defunti. Ogni anno costano 219 milioni di euro, a fronte di entrate previdenziali per appena 15,6 milioni. Lo «sbilancio» è notevole: la trattenuta che gli onorevoli in carica devono versare è infatti di appena mille euro al mese. Con questi conti, qualsiasi ente previdenziale sarebbe già fallito. Ma il buco dei parlamentari è ripianato dallo Stato.

Il caso forse più eclatante è quello di Toni Negri, ex capo di Potere operaio condannato a 17 anni per reati di terrorismo. Nel 1983 i radicali lo fecero eleggere deputato per protesta contro i suoi quattro anni di carcere preventivo. Dopo nove sedute, temendo di finire di nuovo in cella, Negri fuggì in Francia. Dal '93, quando ha compiuto 60 anni, riscuote la pensione «minima», che oggi è di 3.108 euro.

Ma almeno Negri ha dovuto aspettare fino a 60 anni. Giuseppe Gambale , invece, è il baby-parlamentare-pensionato più giovane d'Italia. Con quattro legislature alle spalle e vent'anni di contributi versati, Gambale (ex Rete, oggi Pd) ha lasciato Montecitorio nel 2006 a soli 42 anni, riscuotendo un vitalizio di 8.455 euro al mese. Ai quali ha aggiunto 4 mila euro come assessore comunale a Napoli fino al 2008.

Prima del 1997, bastava essere in carica anche un giorno solo per maturare la pensione, versando cinque anni di contributi volontari. Questo record spetta ai radicali Angelo Pezzana, Piero Craveri, Luca Boneschi e René Andreani, andati in Parlamento soltanto per annunciare la rinuncia all'incarico, ma ai quali vanno egualmente i 3 mila euro mensili. Un'altra radicale, Cicciolina , maturerà la pensione l'anno prossimo, quando compirà 60 anni. Irene Pivetti deve invece aspettare il 2013: a 50 anni, i suoi nove a Montecitorio le frutteranno 6.203 euro mensili. Dal 2000 incassa il vitalizio (ridotto per reversibilità) la vedova di un uomo che non mise mai piede al Senato: Arturo Guatelli infatti subentrò a camere sciolte al senatore Morlino (morto per infarto).

VOLCIC E PAOLO PRODI

Fra i nomi celebri con vitalizio di 3.108 euro ci sono il regista Pasquale Squitieri (senatore An dal '94 al '96), il giornalista tv Demetrio Volcic (senatore Pds dal '97 al 2001) e Paolo Prodi, fratello di Romano, senatore della Rete nel '94 per soli cinque mesi, subentrato al magistrato Carlo Palermo.
A quota 6.200 euro mensili stanno Mauro Fabris (Udeur) e Franco Giordano (ex segretario di Rifondazione comunista) entrambi 50enni nel 2008 quando non furono rieletti; Oliviero Diliberto (segretario Comunisti italiani) e Stefano Boco (Verdi), 52, Gloria Buffo (Sd) 54, Marco Fumagalli (Sd), Maurizio Ronconi (Udc) e Dario Rivolta (FI), 55 anni, nonché i 57enni Salvatore Buglio (Rosa nel pugno), Tana de Zulueta (Verdi), Mauro del Bue (Psi) e Franco Monaco (Pd).

BOSELLI, SGARBI, FOLENA

Antonio Martusciello (Pdl) dal 2008 (aveva 46 anni) intasca 7.959 euro, come Rino Piscitello (Pd), 47, ed Enrico Boselli (ex capo dei socialisti), 51. Vittorio Sgarbi prende 8.455 euro da quando aveva 54 anni, come Marco Taradash (Pdl), 57, e Alfonso Gianni (Rifondazione), 58. Alfonso Pecoraro Scanio, ex capo dei Verdi, è andato in pensione a 49 anni con 8.836 euro, così come Pietro Folena (Pd), 50. Fra i baby-pensionati sotto i 60 anni o a 60 anni appena compiuti, troviamo l'ex magistrato di Mani Pulite Tiziana Parenti, Maura Cossutta (figlia del fondatore dei Comunisti italiani Armando), Anna Donati (Verdi) e Nando dalla Chiesa, (Pd). Poi gli ex senatori Edo Ronchi (Pd), 58 anni, e Willer Bordon, 59. Entrambi avranno, con i riscatti, il massimo del vitalizio senatoriale: 9.604 euro.

C'è infine il privilegio del cumulo pensionistico, che negli ultimi 36 anni è costato agli italiani oltre 5 miliardi di euro. La seconda pensione, cumulabile al 100% con quella di Montecitorio o Palazzo Madama, scatta per tutti i parlamentari che, prima di essere eletti, avevano già aperto una posizione previdenziale. Così qualsiasi lavoratore dipendente, una volta eletto, non solo conserva il posto in aspettativa, ma ha diritto anche ai contributi figurativi per la seconda pensione. Basta che paghi il 9% della quota. Il resto, dal 22 al 31%, è versata dagli enti previdenziali.

I NOMI PIÙ PRESTIGIOSI

Tra i beneficiari, i nomi più prestigiosi della politica italiana. Gli ex magistrati Oscar Luigi Scalfaro o Luciano Violante. L' ex governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi, l'ex direttore generale Lamberto Dini. E fra gli ex giornalisti Gianfranco Fini, Massimo D'Alema, Maurizio Gasparri, Paolo Bonaiuti, Adolfo Urso, Marco Follini, Clemente Mastella, Walter Veltroni. Quest' ultimo riceve già una terza pensione, quella di eurodeputato: 5.200 euro netti al mese, che devolve in beneficenza.

In nome dei «diritti acquisiti», tutti questi privilegi sono intoccabili? «Neanche per sogno», sostiene Antonio Borghesi, deputato dell' Italia dei valori, «la Corte costituzionale ha stabilito che quelli dei parlamentari sono vitalizi e non pensioni. Quindi, si possono modificare in qualsiasi momento».

Mauro Suttora

Parlamentari: taxi o auto blu?

I 200 parlamentari con auto blu incassano anche 1.300 euro mensili per i taxi

Oggi, 16 giugno 2010

di Mauro Suttora

Sono circa duecento i parlamentari che hanno diritto all’auto blu: ministri, sottosegretari, presidenti e vicepresidenti di Camera e Senato, delle 40 commissioni parlamentari, segretari e questori. Alcuni ce l’hanno fissa con autista, altri attingono al parco macchine delle due Camere.

Contemporaneamente, però, ogni parlamentare incassa anche 1.300 euro al mese come rimborso forfettario per i taxi. Compresi quelli che non lo prendono mai, perché hanno l’auto di servizio. Uno spreco di cui si è reso conto il senatore Pietro Ichino (Pd), il quale racconta così il proprio (vano) tentativo di rinunciare a questo privilegio: «Sono soggetto per motivi di sicurezza [minacce di morte come ai suoi colleghi giuslavoristi Marco Biagi e Massimo D’Antona uccisi dalle Br, ndr] a un dispositivo di protezione che mi costringe a circolare soltanto su un’auto blindata della Guardia di Finanza, con molti svantaggi facilmente immaginabili, ma con il vantaggio di non avere mai spese di taxi. Eletto al Senato nel 2008, mi sono informato se fosse possibile rinunciare al rimborso delle spese di taxi. Mi è stato risposto che questo atto non era previsto, e avrebbe creato problemi burocratici di difficile soluzione. Ho pertanto deciso di devolvere il rimborso percepito alla Fondazione Giuseppe Pera, per l’istituzione di borse di studio a giovani laureati».

Generali Usa in Afghanistan

Uno sviene, l'altro straparla. Too much whisky?
W Biden: "Prendete i capi di Al Qaeda, e non rompete i coglioni chiedendo altre truppe"

Wednesday, June 16, 2010

Magistrati in sciopero

PROTESTANO PER I TAGLI, MA GUADAGNANO MOLTO

di Mauro Suttora

Oggi, 7 giugno 2010

Capita una o due volte ogni decennio che i magistrati facciano sciopero. Anzi, secondo alcuni non dovrebbero mai farlo. «È come se un sacerdote protestasse non celebrando messa», dice Marcello Maddalena, procuratore aggiunto di Torino. E Pier Ferdinando Casini, con una concezione meno sacrale della professione: «Non sono mica metalmeccanici».

No, i magistrati non sono metalmeccanici. Sono le persone che dirimono le nostre controversie e possono spedirci in galera. Il terzo potere dello stato, e i loro stipendi (41 mila euro annui appena entrati in servizio, 72 mila dopo cinque anni, 122 mila dopo venti, 150 mila dopo 28 anni) testimoniano la loro importanza.

Eppure, anche loro il primo luglio incroceranno le braccia. Per criticare la legge con cui il premier Silvio Berlusconi vuole limitare le intercettazioni telefoniche e le cronache giudiziarie? Macché. I magistrati scioperano per soldi. La manovra da 25 miliardi colpisce anche loro, come tutti i dipendenti pubblici. E loro non ci stanno.

Ecco le loro ragioni. «Sono tagli che colpiscono la nostra indipendenza», dice Luca Palamara, presidente dell’Anm (Associazione nazionale magistrati, il sindacato unico delle toghe), «e anche iniqui: un giovane appena entrato in servizio perde il 30 per cento del proprio stipendio, mentre gli anziani se la cavano col due per cento».

Indipendenza garantita dall’ammontare degli stipendi? È opinabile. In ogni categoria ci sono ricchi dipendenti disonesti, e lavoratori pagati poco ma probi ed efficienti. Il secondo argomento, invece, è incredibile ma vero. Poiché per tre anni gli vengono bloccati gli scatti , il magistrato fresco di concorso rimane a 41 mila euro annui invece di passare a 55 mila. Mentre quello con 28 anni di anzianità subisce solo il taglio di 3 mila euro previsto per tutti i redditi oltre i 90 mila.

«Il problema è che, divulgando questi dati, i magistrati si sono dati la zappa sui piedi da soli», dice Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale di sinistra Espresso (quindi non sospetto di pregiudizi berlusconiani contro i giudici) che l’anno scorso ha scritto un libro urticante fin dal titolo: Magistrati, l’ultracasta (Bompiani): «Nessun mestiere in Italia, e forse al mondo, garantisce ai nuovi assunti aumenti così alti e automatici nel giro di pochissimi anni. E senza alcun rischio: se non commettono reati o scorrettezze gravissime, non perderanno mai il posto».

Meglio dei politici, l’altra Casta per eccellenza: quelli almeno devono farsi eleggere col voto, ogni tanto. Non a caso, la retribuzione dei parlamentari è agganciata a quella dei magistrati, che è anche l’unica ad aver conservato la scala mobile anti-inflazione.

«I giudici italiani hanno uno stipendio medio cinque volte superiore a quello degli altri dipendenti pubblici, 51 giorni di ferie, e sono anche i più pagati dell’Europa continentale», continua Livadiotti, «i loro vertici prendono il doppio di quelli con incarichi analoghi in Francia». Gli unici a superarli sono i britannici, i quali però hanno un accesso diverso alla professione: spesso sono ex avvocati della difesa o dell'accusa diventati giudici in tarda età.

«Ma il privilegio più grande», dice Livadiotti, «è che tutti i magistrati italiani raggiungono automaticamente allo stipendio più alto: i 150 mila euro dei giudici di Cassazione, e i 170 mila dei giudici dei Tar o della corte dei Conti».

Sarebbe come se in un’azienda privata tutti, anche gli operai, anche gli asini e i pigri,dopo una ventina d’anni prendessero gli stipendi dei dirigenti. Non è sempre stato così: fino agli anni ’60 i pretori di provincia per progredire dovevano affrontare fior di concorsi. Oggi le cosiddette “valutazioni di professionalità” sono una barzelletta: le supera il 99,6 per cento dei candidati. E a giudicare i giudici sono gli stessi giudici, colleghi più anziani.Un’altra cornucopia è quella delle cosiddette «sedi disagiate» (praticamente tutto il Sud): ai giovani magistrati che ci vanno spettano decine di migliaia di euro in più.

Il ministro della Giustizia Angelino Alfano, per criticare lo sciopero della magistratura, lo ha definito «politico». «Invece è la classica protesta corporativa di una categoria che teme di perdere alcuni dei propri ingenti privilegi economici», conclude Livadiotti.

Mauro Suttora

Saturday, June 12, 2010

Film Sex and the City 2

DONNE NEWYORKESI VERAMENTE WORKAHOLIC, SEXAHOLIC, SHOPAHOLIC E SVAMPITE COME QUELLE QUATTRO?

Oggi, 2 giugno 2010

di Mauro Suttora

Ma come sono veramente le donne di Sex and the City? Sul serio le newyorkesi sono sprovvedute come Charlotte la svampita, workaholic (drogate di lavoro) come Miranda la "rossa", shopaholic (drogate di shopping) come Carrie la giornalista e drogate di sesso come Samantha la ninfomane? Dopo due anni di convivenza con una come loro, una deliziosa trentenne di Manhattan, sono in grado rispondere: si'. Meno il sesso. Il mio fidanzamento e' stato cosi' ricco di fantastici, teneri e agghiaccianti aneddoti che ne ho tratto un libro: No Sex in the City (ed. Cairo, 2007).

La mia Marsha si alzava alle sei del mattino per andare a correre a Central Park, non resisteva di fronte a scarpe Jimmy Choo da 500 dollari o a borsette Prada da 700, la sua carta di credito era costantemente in rosso perche' spendeva tutti i (parecchi) soldi che guadagnava in vestiti, ristoranti, abbonamenti a club e palestre e week-end agli Hamptons. Ma alla fine della sua (nostra) vorticosa vita sociale allietata da un paio di cocktail e vernissage ogni sera, non le restava piu' il tempo per (fare) l'amore.

Per lei il sesso era solo un ulteriore tipo di ginnastica, intercambiabile con yoga e pilates. E anche per le sue amiche gli uomini sono accessori un po' meno utili di quelli comodamente acquistabili negli store di Madison Avenue. Infatti, fateci caso: tutti i maschi della serie tv e dei due film Sex and the City sono o fessi (quelli di Charlotte e Miranda) o mascalzoni (il Mr. Big e Barishnikov di Carrie) o boy-toys (Samantha). Degni del cassonetto.

Il decennio degli anni Zero che si sta chiudendo passera' alla storia (guerre di Bush a parte) come quello di Sex and the City? In mancanza di altri fenomeni sociali, artistici, culturali, c'e' questo rischio. Il nulla. Zero, appunto.

Thursday, June 10, 2010

Yet

Washington Post
News Alert: General: Kandahar operation will take longer
07:47 AM Thursday, June 10, 2010

The top commander in the largely stalemated Afghanistan war acknowledged Thursday that a crucial campaign to secure the region of the country where the Taliban insurgency was born will take longer than planned because local Afghans do not yet welcome the military-run operation.

(it's all in that "yet"...)

Wednesday, June 09, 2010

I ricchi non piangono mai

LA MANOVRA NON TOCCA I MILIARDARI

di Mauro Suttora

Oggi, 2 giugno 2010

Coincidenza sfortunata: proprio nel giorno in cui suo padre ha imposto agli italiani sacrifici per 24 miliardi di euro, Pier Silvio Berlusconi ha varato il proprio nuovo maxiyacht da 18 milioni, lungo 37 metri. È vero, così il cantiere Ferretti di Ancona lavora e non licenzia i dipendenti. Ma Pier Silvio si era già fatto costruire tre anni fa dal cantiere anconetano un altro yacht da trenta metri: Suegno, costato dieci milioni. Aveva proprio bisogno di un secondo piroscafo?

La verità è che i ricchi non piangono mai. Non solo in Italia. I miliardari greci sbevazzano come sempre negli hotel a cinque stelle di Gstaad o Saint Moritz, mentre i loro compatrioti ad Atene sono in mutande. A New York gli speculatori responsabili della crisi mondiale continuano a incassare bonus da milioni di dollari. E nella nuova lista dei 5.700 evasori italiani con sette miliardi nascosti in Svizzera ci sono industrialotti lombardi, stilisti, attori, notai, avvocati e anche molte casalinghe, mogli prestanome dei suddetti.

Neanche un centesimo viene tolto dalla «manovra» di Berlusconi ai ricchi come lui. Obama ha aumentato le imposte sui redditi oltre i 200 mila dollari (160 mila euro). In Italia invece chi lavora viene tassato fino al 43 per cento, mentre le rendite da capitale rimangono al 12,5. Industriali, finanzieri e banchieri possono stare tranquilli.

Il governo Prodi aveva cercato di imporre un tetto di 270 mila euro annui per tutti i manager pubblici. Risultato: Pier Francesco Guarguagliani di Finmeccanica (oggi nei guai con la moglie per fondi neri) l’anno scorso ha intascato più di cinque milioni e mezzo. C’è il divieto di cumulo di cariche? Lucio Stanca è sia deputato, sia capo dell’Expo 2015 di Milano, per un totale di 650 mila euro. E come lui decine di politici con doppio incarico.

Non è questione di destra o sinistra. Il principale fustigatore dei potenti in Italia, Beppe Grillo, è lui stesso un ricco milionario che ama scorrazzare in motoscafo per la Costa Smeralda. E così l’ex eroe della sinistra tv, Michele Santoro, che ha scandalizzato i propri fans con la trattativa da una quindicina di milioni per il prepensionamento Rai alla verde età di 58 anni.

L’Italia ha il terzo debito pubblico del pianeta: 1.800 miliardi di euro. Ci superano solo Stati Uniti e Giappone, in cifre assolute. E in percentuale sul Pil, siamo i peggiori d’Europa: 115 per cento nel 2009, come la Grecia. Ciononostante, i nostri politici anche quest’anno riescono a spendere il 5 per cento in più di quel che incassano con le tasse. La manovra di questi giorni serve solo a rallentare l’allargamento del buco, non a tapparlo.

Eppure, tutti si sentono in diritto di protestare. Soprattutto i più ricchi. Sentite: «La nostra indipendenza va salvaguardata anche sotto il profilo economico», strillano i magistrati, «minacciati» come tutti i pubblici dipendenti dal blocco degli aumenti automatici triennali (per tutti, anche asini e pigri), oltre che da un prelievo del cinque per cento sui redditi oltre i 90 mila euro l’anno (ovvero la quasi totalità dei magistrati). Medici e primari da cinquemila euro netti al mese piangono: «Interventi tanto vergognosi quanto iniqui».

I dirigenti pubblici preparano i soliti ricorsi al Tar. «Guadagno 289 mila euro l’anno, ma alla Telecom erano due milioni e mezzo», dice Giuseppe Sala, direttore generale del comune di Milano. Ognuno guarda a chi prende di più. Bruno Vespa, dal «basso» del suo milione e 200 mila euro annui, invidia Santoro. E i tagli non toccano i prepensionati d’oro, come il dirigente della regione Sicilia Pier Carmelo Russo che cinque mesi fa ha agguantato 6.462 euro netti mensili a 47 anni, per poi vedersi nominare assessore all’Energia.

Le statistiche sono chiare: negli ultimi dieci anni i redditi dei dipendenti pubblici sono aumentati del 42%. Quasi il doppio dei privati, esposti alla concorrenza con l’estero. Eppure, all’ultimo momento la loro potente lobby ha fatto aumentare da 130 a 150 mila euro la soglia per il prelievo del 10%. E chissà di quali altri «ammorbidimenti» godranno i ricchi prima che i decreti tagliaspesa diventino realtà.

Mauro Suttora

Friday, May 28, 2010

A New York niente sesso

LE DONNE PREFERISCONO SHOPPING E PALESTRA

Da oggi al cinema Sex and the City 2

di Mauro Suttora

Libero, 28 maggio 2010

Come passeranno alla storia questi anni Zero? Corriamo un grande rischio: che il decennio appena finito venga ricordato, in mancanza di meglio o di peggio (Bush, guerre d’Iran e Afghanistan, Coldplay, ipod), per ‘Sex and the City’. E questa sì che sarebbe una tragedia. Quasi peggio del terrorismo islamico.

Le quattro smandrappate di New York, anche se amano comportarsi come ventenni sgarzelline e l’età mentale dei personaggi che interpretano è perfino minore, hanno tutte superato i 45 anni. Samantha ne ha addirittura 54. O meglio: questa è l’età dell’eccellente attrice inglese Kim Cattrall che la impersona, e che si è appena fatta notare come bollente segretaria-amante di Pierce Brosnan (alias Tony Blair) nello splendido ‘Uomo nell’ombra’, ultimo film di Roman Polanski.

Non a caso la meno letale del quartetto non è americana. Infatti Samantha è l’unica ad avere una vita sessuale. Ma poiché l’autrice di ‘Sex and the City’, Candace Bushnell, è gelosa della non frigidità del personaggio biondo da lei stessa creato, l’ha trasformata in macchietta: ninfomane, esagerata, comica, affamata di toyboys.

Le altre tre sono sexy quanto il ghiacciaio del monte Bianco. Ma non è colpa loro. È la New York di oggi a renderti così. Lo dico per esperienza personale: ci ho vissuto per molti degli anni Zero, e per un biennio mi sono fidanzato con una ragazza uguale a quelle di ‘Sex and the City’. Una ex modella trentenne bellissima, simpatica, intelligente, coltivata (laureata in un college top ten degli Usa), abbastanza ricca. E innamorata, come me. Ma a letto, una frana. Sono sopravvissuto nell’unico modo possibile, con questi fenotipi di Manhattan apparentemente assai attraenti: lasciandola. Ma avendo accumulato tanti di quegli aneddoti divertenti e agghiaccianti da scriverci un libro: ‘No Sex in the City’ (ed. Cairo, 2007).

La verità è semplice, come ha detto un famoso sociologo: “A New York hanno talmente sessualizzato lo shopping, che tutto il resto è stato desessualizzato”. La mia girlfriend Marsha si svegliava alle sette del mattino, e invece di fare l’amore correva a fare jogging a Central Park. Io la aspettavo a letto speranzoso (anche a Manhattan si verifica il fenomeno definito in inglese “morning glory”), ma quando lei tornava alle otto - sudata, ansimante, guance rosse, seno e lunghe cosce foderati nella tuta aderente, quindi ancora più affascinante - si buttava nella doccia: «I have no time, my love», mi gridava felice da sotto lo scroscio, già orrendamente piena di energia a quell’ora del mattino. Poi si precipitava giù a comprare da un coreano il beverone che loro chiamano “caffè” (una sciacquatura marrone), e lo sorseggiava con una cannuccia nel metrò verso il lavoro.

Verso le sei di sera passava a prendermi alla libreria Rizzoli sulla 57esima Strada, dove lavoravo. La sua vita frenetica a quell’ora prevedeva aperitivi, vernissage di gallerie, inaugurazioni di negozi e altri innumerevoli «eventi», che ora infestano la vita anche a noi italiani. Quindi in taxi al ristorante. Spesso un cinema, un concerto, un teatro a Broadway. Poi, ogni tanto, in un club a ballare. Feste in casa di amici. Oppure quella disgrazia che sono i «gala», al Plaza, al Waldorf o al Pierre, con i grandi tavoli rotondi da otto e qualche causa benefica da finanziare.

Insomma, difficile tornare a casa prima di mezzanotte. E a quel punto lei era troppo stanca per farlo. «I need to relax», si scusava. E io: «Appunto, rilassiamoci facendo l’amore». Lei mi sorrideva: «Accarezzami, Mauro». E si addormentava.

La sua attività principale, nel tempo libero, era lo shopping. Spendeva in scarpe Jimmy Choo e borsette Prada tutto quel che guadagnava (non poco). Nei weekend estivi bisognava andare agli Hamptons: come Portofino, ma umidi come New York. Siccome era sportiva, se non poteva fare jogging per il troppo caldo o troppo freddo, andava in palestra a sfogarsi sul tapis roulant. Ecco, dopo un po’ scoprii che quello era il mio vero rivale. Perché solo lì, e nei negozi, le donne di 'Sex and the City' riescono ad agguantare il piacere. Sex, zero. Come il decennio.

Mauro Suttora

Wednesday, May 19, 2010

Le case dei parlamentari

QUANTO PAGANO DEPUTATI E SENATORI A ROMA? RISPONDONO IN 80 (SU 945)

Oggi, 19 maggio 2010

di Mauro Suttora

Pier Ferdinando Casini è sintetico: «Abito in una casa di proprietà di mia moglie [Azzurra Caltagirone, ndr] nel quartiere Parioli». Stringato anche Francesco Rutelli: «Vivo nell’unica casa che possiedo. È di mia proprietà, ereditata da mio padre, architetto, che l’ha progettata e realizzata negli anni ‘60».

Maurizio Gasparri, presidente dei senatori Pdl, appare un po’ irritato: «Come tutti i parlamentari deposito la dichiarazione dei redditi presso il Parlamento e quindi è facilmente riscontrabile non solo il mio reddito, ma qualsiasi notizia relativa alla mia persona. Voglio comunque rispondere, a puro titolo di cortesia: non posseggo alcuna abitazione a Roma, dove vivo in una casa in affitto pagando circa 2.000 euro al mese alla proprietaria. Non ho mai avuto a disposizione case di enti di qualsiasi tipo».

Affitti non pubblici

Ci permettiamo di ricordare al senatore che i parlamentari devono dichiarare le loro proprietà, ma non il prezzo d’acquisto e i canoni d’affitto.

Esaustivo invece Piero Fassino (Pd, già segretario Ds): «Abito in un appartamento nel centro di Roma, acquistato nel ‘96 in comproprietà con mia moglie. Per coprire le spese di acquisto e ristrutturazione ho contratto un mutuo che ho terminato di pagare nel dicembre scorso. Sono proprietario di un appartamento a Torino, acquistato da mio padre nel 1962 e ricevuto in eredità nel ‘66. In comproprietà con mia moglie ho acquistato nel 2004 un casale in Toscana per il quale ho contratto un mutuo. Tutti i contratti di acquisto sono stati registrati per l’intero ammontare».

Visto l’interesse suscitato dalla nostra inchiesta della scorsa settimana sulle case dei ministri (dopo le dimissioni di Claudio Scajola per questioni immobiliari), abbiamo chiesto (per e-mail) a tutti i 945 parlamentari informazioni sul loro alloggio a Roma. Non hanno risposto in tanti: meno del dieci per cento.

Si vede che la maggioranza dei politici non ritiene di dovere queste informazioni ai propri elettori. Fra gli alfieri della trasparenza, invece, oltre a Fassino si distinguono i radicali: «Affitto un bilocale da un privato per 1.200 euro in zona Campo de’ Fiori», ci ha risposto la senatrice Donatella Poretti, «ma tutte le informazioni su di noi si trovano nel sito dell’Anagrafe pubblica degli eletti: http://www.radicali.it/ape/eletti/parlamento"».
Così il senatore Marco Perduca, che aggiunge particolari curiosi: «Sto in trenta mq scarsi al terzo piano a Trastevere per 1.250 € al mese. Non uso riscaldamento né acqua calda (neanche in inverno)». E il deputato Matteo Mecacci: «Affitto in zona Foro romano con la mia compagna un appartamento parzialmente arredato di 90 mq. Il canone mensile di 2.700 euro più 118 di oneri condominiali».
«Tifoso» dell’Anagrafe pubblica si dichiara anche il deputato barese del Pd Dario Ginefra: «Affitto 50 mq nel rione Monti, 1.300 euro al mese, quarto piano senza ascensore».

Zaccaria chez Monica

I senatori che si dichiarano proprietari di casa a Roma oltre a Gasparri sono solo tre. Barbara Contini (Pdl): «Lo scorso novembre ho comprato 75 mq in zona Pinciano accendendo un mutuo 15ennale con rata mensile di 2.700 euro». Elio Lannutti (Idv): «Vivo a casa di mia moglie nel quartiere Cinecittà, acquistata nel 1982 dal padre con il 50 per cento di mutuo Italfondiario al tasso del 16 per cento e pagata 76 milioni di lire». Roberto Zaccaria (Pd, già presidente Rai): «Vivo a Roma, dove ho recentemente trasferito la mia residenza. La casa è di proprietà della mia compagna [l’attrice Monica Guerritore, ndr] ed è stata acquistata nel febbraio 2009. Su questa casa, in zona Roma Nord, ho l’usufrutto, avendo concorso all’acquisto con mutuo ventennale di 400 mila euro».

In albergo vanno i senatori Fabrizio Di Stefano (Pdl, da Chieti, che sta all’hotel Imperiale in via Veneto) e Vanni Lenna (Pdl, da Udine): «Spendo 1.500 euro al mese». Guido Galperti (Pd, da Brescia) preferisce un residence vicino al Senato, a 1.100 euro mensili.

Gli altri in affitto. Cristiano de Eccher (Pdl, da Trento): «Pago, con contratto depositato e bonifico bancario, 1.100 euro più circa cento euro di spese per un monolocale in piazza Rondanini, vicino al Senato». Cecilia Donaggio (Pd, da Venezia): «Divido un’appartamento con una mia amica che vi abita da circa 40 anni in zona Prati, e la mia parte è di 1.200-1.400 euro». Maurizio Fistarol (Pd, da Belluno): «Affitto nel centro storico a 1.500 euro mensili». Andrea Fluttero (Pdl, da Torino): «Ho un piccolo alloggio ammobiliato in via dei Coronari per 1.600 euro mensili con contratto registrato. Vado al Senato in bici». Cinzia Fontana (Pd, da Cremona): «Affitto 50 mq con contratto regolare a Trastevere per 1.250 euro». Fabrizio Morri (Pd, da Urbino): «Bilocale di 40 mq a Monteverde nuovo per 1.100 euro». Salvatore Tomaselli (Pd, da Brindisi): «Affitto a 1.490 euro/mese». Felice Belisario (Idv): «A San Lorenzo, 1.200 euro per 75 mq».

Fra i deputati, prodigo di particolari è il romano Roberto Giachetti (Pd): «Da quando mi sono separato (2002) vivo in affitto in un appartamento di 90 mq nel quartiere Monteverde, per cui pago 1.650 euro, avendo lasciato l’abitazione ereditata da mia madre ai miei figli e alla mia ex moglie. Questo gennaio l’ho venduta, comprando per loro una casa di 120 mq. a Monteverde a 630 mila euro ed una casa per me, sempre a Monteverde, di 79 mq che ho pagato 550 mila euro con mutuo di 300 mila euro».

Esaustivo anche Luciano Ciocchetti (Udc, Roma): «Ho acquistato casa tre anni fa per 600 mila euro, con mutuo ventennale per 400 mila euro con una rata di 2.700 euro mensili. Il restante è stato da me versato direttamente alienando alcuni investimenti su fondi e con la liquidazione per la fine del rapporto di lavoro con l’Italgas. L’appartamento su via Acquacetosa Ostiense è di 125 mq + terrazzi e box».

Luisa Gnecchi (Pd, da Bolzano) è fra i pochi a sentirsi privilegiati: «Affitto con regolare contratto una stanza con angolo cottura e bagno. È piccola, ma molto comoda perchè vicino alla Camera. Pago molto, 1.200 euro al mese, una cifra che nessuna persona con un normale stipendio potrebbe pagare».
Giorgio Jannone (Pdl, da Bergamo) si dichiara esente da tentazioni: «Pago 1.600 euro al mese per l’affitto registrato di 50 mq in piazza del Parlamento. Ricopro la carica di Presidente della Commissione Bicamerale di Controllo degli Enti Previdenziali, ossia di tutti gli enti di previdenza che possiedono solo a Roma qualche decina di migliaia di appartamenti. Non mi sono certo mancate opportunità di acquisto o di locazione ...”agevolata”! Non intendo autoelogiarmi, ma voglio evidenziare che esistono molti politici che non meritano essere accomunati a luoghi comuni che generalizzano e offendono».

Scherza Roberto Nicco (Alleanza valdostana del Galletto): «E così siamo alla “dichiarazione pubblica di abitazione”! Comunque: ho affittato un alloggio in via della Lupa 19 (niente ipocrita privacy); il contratto è stato registrato; l’alloggio è composto di 2 vani più servizi. Il canone mensile attuale, comprensivo delle spese condominiali, è di 1.730 euro in totale».

Orgoglioso il ricchissimo avvocato Maurizio Paniz (Pdl, da Belluno): «Sono parlamentare dal 2001. A Roma ho abitato in albergo (hotel De Petris) fino al 2003 (pagavo 270/250 euro a notte); poi ho acquistato un appartamento di 50 mq. in via del Corso, vicino a piazza del Popolo, pagandolo 635 mila euro, somma integralmente dichiarata. Non ho ricorso a mutui perchè la mia dichiarazione dei redditi, che mi vede tra quelli che denunciano cifre elevate [964 mila euro nel 2009, ndr] mi permetteva di avere l’importo a disposizione».

Ce l’ha con le agenzie romane Marco Pugliese (PdI, da Avellino): «Visti i costi eccessivi degli alberghi in centro (130 euro al giorno nei tre stelle) ho affittato un miniappartamento di 55 mq. Pago 2.000 euro al mese più condominio e utenze. Anche se dimoro in zona Pantheon, mi sembra un po’ eccessivo. Tra l’altro, si deve anche subire l’arroganza di agenti immobiliari e dei titolari di case».
E ce l’ha con la capitale intera Gianfranco Paglia (Pdl, da Napoli): «Per mia fortuna non ho casa a Roma». Se può fa il pendolare anche l’umbro Rocco Girlanda (Pdl, da Gubbio): «Risiedo all’hotel Nazionale di piazza Montecitorio. È la soluzione più adatta alle mie esigenze perché, data la relativa vicinanza, talvolta posso rientrare a casa per tornare a Roma la mattina seguente».

Si lamenta Alessandro Montagnoli (Lega Nord, da Verona): «Sto in hotel vicini al parlamento, spesso diversi, e sinceramente la qualità non è sempre buona. Si va dai 90 a 130 euro per notte». In albergo vivono anche il suo collega leghista trevigiano Gianpaolo Dozzo e i deputati Michele Bordo (Pd) da Foggia («Pago 130 euro a notte»), il genovese Roberto Casinelli, Pdl («“Dimoro” all’hotel Nazionale a 165 euro»), Stefano Esposito (Pd), da Torino («Tre notti a settimana di media, 120 euro a notte»), Guglielmo Picchi (Pdl), da Firenze («Hotel non di lusso, e li cambio»), Giacomo Portas (Pd), da Torino («Hotel Cesari») e Simonetta Rubinato (Pd), da Treviso.

Cazzola e Castagnetti

Molti deputati che vivono a Roma da tempo hanno comprato. Enzo Carra (Udc): «Ho acquistato nel 1980 per 57 milioni di lire, in parte con mutuo ventennale dell’Istituto di previdenza giornalisti». Giuliano Cazzola (Pdl): «Lavoro da venticinque anni a Roma. La casa l’ho acquistata prima di diventare deputato due anni fa. È di 40 mq». Pierluigi Castagnetti: «Ho acquistato con mia moglie nel 2003 un minialloggio in centro per 250 mila euro, con mutuo del Banco di Napoli». Marco Causi (Pd): «Ho acquistato per 800 milioni di lire nel ‘98 un appartamento in zona Marconi/piazzale della Radio». Giuseppe Giulietti (Pd): «Ho comprato alla fine degli anni Ottanta 65 mq in zona Prati con mutuo Inpgi da tempo estinto». Roberto Rao (Udc): «Abito in una casa di 120 mq in comproprietà con mia moglie in zona San Giovanni, acquistata nel 2006 per 600 mila euro». Giuseppe Moles (Pdl) ha estinto il mutuo sui 35 mq comprati quand’era studente in zona piazza Bologna.

Fabio Gava (Pdl), da Treviso, sta in residence: «Ingresso, soggiorno con angolo cottura, camera matrimoniale e bagno, di circa mq. 40. Il costo varia a seconda dei giorni in cui mi fermo a Roma, comunque intorno a 1.500 euro al mese». Il milanese Antonio Palmieri (Pdl) abita invece in una casa di religiosi, nei pressi del Vaticano, dall’estate 2001. E Giuseppe Ruvolo (Udc), da Agrigento: «Vivo da dieci anni presso il Collegio del Sacro cuore di Gesù in corso Rinascimento 23, pagando 700 euro al mese per una cameretta più bagno». Anche Alessandra Siragusa (Pd), da Palermo, preferisce istituti di suore o bed and breakfast. Angela Napoli (Pdl), da Reggio Calabria: «Sono ospite di mia figlia, il cui appartamento di 90 mq. nella zona sud di Roma è stato acquistato nel 2002 con mutuo trentennale».

Maurizio Lupi (Pdl), da Milano, vicepresidente della Camera, divide l’affitto: «Risiedo in un appartamento condiviso di circa 80 mq in zona centro storico, la cui rata mensile di affitto è di 3.000 euro». E così Raffaella Mariani (Pd), da Lucca, e Marina Sereni (Pd): «Dividiamo un appartamento in affitto a mille euro a testa. Sono due camerette e un soggiorno più i servizi, al terzo piano senza ascensore. Siamo però vicine alla Camera, e non occorrono mezzi per raggiungerla».

Gli altri deputati, in affitto. Si va dai 650 euro più spese per il monolocale di 35 mq di Oriano Giovanelli (Pd), da Urbino ai 3.000 della bolognese Anna Maria Bernini (Pdl) e Ricardo Franco Levi (Pd), entrambi ovviamente in centro. Piano terra e 700 euro mensili per Nicolò Cristaldi (Pdl), da Trapani («Zona Corso Francia/Vigna Clara, 50 mq») e Luciano Pizzetti (Pd), da Cremona: «Affitto in centro un monolocale di 31mq per 900 euro». Trenta euro in più per i 35 mq della senese Susanna Cenni (Pd). «Risparmioso» anche Marco Zacchera (Pdl), da Verbania: «Un bilocale in centro. Il contratto è di 750 al mese più spese. Conosco i proprietari di persona e l’ho in affitto da dieci anni, quindi il prezzo è oggi minore di quello di mercato. Entrando però pagai dieci milioni di lire per una sistemazione, e 5.000 euro di riparazioni cinque anni fa». Andrea Orlando (Pd), da La Spezia, se la cava con 950 al mese. E Carmen Motta (Pd), da Parma, con 1.050.

Salendo, ecco Leoluca Orlando, Idv («Affitto un bivani di circa 35 mq in centro per 1.150 euro»), Erminio Quartiani (Pd) da Lodi («Appartamento ammobiliato di 50 mq. nel quartiere San Saba a 1.281 euro più spese condominiali» e il pavese Carlo Nola (Pdl): «Monolocale con servizi in centro: 36 mq, 1.300 euro al mese più spese». Stesso canone di Eugenio Minasso (Pdl), da Imperia, per i suoi 45 mq vicino alla Camera. A 1.400 sta Maino Marchi (Pd), da Reggio Emilia, e a 1.500 due nomi noti: il giornalista Pdl Giancarlo Mazzuca («Monolocale con servizi di 35 mq vicino al Senato») e l’ex segretario Cisl Savino Pezzotta, Udc, che quando scende dalla sua Bergamo sta in un due stanze di zona Trevi.

Enzo Raisi (Pdl), da Bologna): «Affitto 80 mq con regolare contratto vicino alla Camera per 1.515 euro mensili». Donella Mattesini (Pd), da Arezzo: «Sto in 50 mq. in via dell’Orso, tra la Camera e piazza Navona, e pago 1.600 euro, spese comprese». Walter Verini (Pd): «Vivo in una abitazione per la quale pago a un privato 1.622 euro. Sono 100 mq, al secondo piano nel quartiere Trieste». Sandro Biasotti (Pdl), già governatore della Liguria, vive in un appartamento di 42 mq in centro per 1.700 più spese. Luigi Nicolais (Pd) paga 2.037 euro. Andrea Sarubbi (Pd): «Affitto una casa di 135 mq in zona villa Pamphilj per 2.050 euro al mese. Ho anche una casa di proprietà a Garbatella che do in locazione a 1.300 euro mensili». Fabio Porta (Pd), eletto nella circoscrizione America Latina: «Vivo con la famiglia per 2.300 euro in 90 mq nel quartiere Africano». E Benedetto Della Vedova (Pdl): «In affitto da un privato a 2.500 mensili, zona Monti».

Infine la romana Barbara Mannucci, 28 anni, Pdl): «Vivo con i miei genitori in una casa sullla quale c’è un mutuo 25ennale preso da mio padre. Pago una rata di 1190 euro al mese». Il mutuo, ora che può, lo paga lei. Il contrario di una «bambocciona».

Mauro Suttora

Wednesday, May 12, 2010

Le case dei ministri

CASA NOSTRA: I POLITICI A ROMA ABITANO QUI

di Mauro Suttora

Oggi, 12 maggio 2010

Dopo le dimissioni del ministro Claudio Scajola e la scenata tv di Massimo D’Alema, che ha mandato «a farsi fottere» il condirettore del Giornale Alessandro Sallusti per una questione di affitti, sorge spontanea la domanda: quanto pagano i nostri politici per le case in cui vivono a Roma?

Lo abbiamo chiesto a tutti i ministri. Molti non hanno avuto problemi a rispondere. Alcuni nel dettaglio, fino alla data d’acquisto e all’importo del mutuo. Altri, invece, si sono addirittura offesi perla domanda: «Ho diritto alla privacy», ci hanno detto. Un’addetta stampa ha perfino obiettato: «Ci sono i terroristi, il mio ministro ha ricevuto minacce di morte». Come se sapere il prezzo del suo appartamento (mica l’indirizzo) potesse attirare Al Qaeda.

ANAGRAFE PUBBLICA DEGLI ELETTI
Se passasse la proposta radicale del 2008 di istituire un’«Anagrafe pubblica degli eletti e nominati», regnerebbe la trasparenza su centinaia di migliaia di consiglieri comunali e regionali, parlamentari e consulenti.
«Ma finora solo la Camera dei deputati e pochi consigli comunali l’hanno approvata Roma, Torino, Napoli i più grandi. Senza però passare all’attuazione concreta», dice il segretario dei radicali Mario Staderini, il quale tre anni fa sollevò proprio su Oggi il caso di un intero palazzo nel centro di Roma acquistato dal Senato, che adesso si scopre essere finito nei maneggi della «cricca» della Protezione civile.

Siamo allora ricorsi al fai-da-te partendo dal vertice, cioè dai 22 membri del governo. Le ministre più «aperte» sono state le donne. Mariastella Gelmìni (Istruzione) ha dichiarato di pagare 2.500 euro mensili d’affitto per la sua casa romana.

«Io ho comprato un appartamento di 160 metri quadri in centro il 18 febbraio 2009, per 930 mila euro. Ho acceso un mutuo a tasso fisso di 450 mila euro, che me ne costa quattromila al mese», ci ha detto precisissima Mara Carfagna (Pari opportunità). Trasparente anche Giorgia Meloni: «Abitavo con mia madre alla Garbatella, ma lì i prezzi ormai sono troppo alti. Così l’anno scorso ho preso 50 metri quadri con terrazzo all’Ardeatino, per 370 mila col mutuo».

Anche il ministro Roberto Calderoli (Semplificazione) sta in affitto in periferia (65 metri quadri da un privato), e da buon leghista tiene a precisare: «Non ho mai pensato di comprare a Roma, perché ritengo che la casa la si debba acquistare sul territorio, nella città in cui si vive». Riassumiamo le altre risposte nel box della pagina accanto.

Le case hanno fatto soffrire molto i politici negli ultimi quindici anni. Lontani sono i tempi in cui i massimi capi Dc, Psi, Pci e anche Msi (Segni e Amendola, Mancini e Almirante, Pertini e Jervolino) si accontentavano di vivere tutti assieme in case in cooperativa fatte costruire su viale Cristoforo Colombo o al Trionfale, lontanissimo dal centro. Il primo a dar scandalo fu Ciriaco De Mita cui l’Inpdai (l’ente pensionistico dei dirigenti) nell’88 concesse un attico ad affitto irrisorio in via del Tritone.

E per un altro equo canone da un ente a Trastevere Vittorio Feltri tanto bastonò D’Alema con la «Affittopoli» nel ‘95 che l’allora segretario Pds preferì trasferirsi nel quartiere Prati. Assieme a lui finirono sulla graticola altri big beneficiati dall’equo canone: Giuliano Amato in via Veneto, Rocco Buttiglione in via delle Tre Madonne ai Parioli (fra le più eleganti della capitale), Pierferdinando Casini, Franca Chiaromonte, Maura Cossutta, i sindacalisti Franco Marini e Sergio D’Antoni, Clemente Mastella, Luciano Violante, Walter Veltroni.

Nulla d’illegale, e a volte con affitti di tutto rispetto: Buttiglione pagava due milioni e mezzo all’Ira. Ma in altri casi il risparmio era notevole, e sommandolo per venti o trent’anni si arrivava a cifre non lontane da quella che ha inguaiato Scajola.

La seconda puntata dello scandalo è arrivata nel 2007, quando si è scoperto che molte di queste case erano state vendute dagli enti ai politici con grossi sconti. Così Casini ha pagato per cinque appartamenti con 30 vani nello stesso palazzo 1,8 milioni di euro. Li ha dati all’ex moglie, alle due figlie e all’ex suocera. Mastella ha avuto cinque appartamenti con 26 vani più terrazzo e box per 1,2 milioni sul lungotevere Flaminio, più un appartamentone in largo Arenula.

Veltroni ha riscattato 190 mq dietro piazza Fiume per 377 mila euro nel 2005: duemila euro al metro quadro, un terzo delle quotazioni di mercato. Raffaele Bonanni, segretario Cìsl, ha avuto otto vani per 200 mila euro; a Violante soggiorno, quattro camere e terrazzo in zona Fori per 327 mila euro; Francesco Pionati (ex giornalista Tgl, deputato) attico e superattico a Monteverde Vecchio con vista su Trastevere per 260 mila euro del 2001.

Anche le segretarie dei politici ricevono benefici: quella dell’ex ministro della Difesa Arturo Parisi si è vista assegnare una casa in via Margutta dall’Ente di assistenza per i ciechi. Insomma, per essere efficace l’Anagrafe pubblica dovrebbe essere allargata anche ai parenti e ai collaboratori degli eletti.

Mauro Suttora

Tuesday, May 11, 2010

Crisi in Grecia

VERSO UN DOPPIO EURO?

Oggi, 3 maggio 2010

di Mauro Suttora

1) Cos’è successo alla Grecia?
Il governo greco negli ultimi anni ha speso molto più di quel che ha incassato con le tasse. Quindi, senza il maxiprestito da 110 miliardi di euro (di cui sedici dall’Italia) concesso dall’Unione europea il 2 maggio, sarebbe fallito. Non avrebbe avuto più i soldi per pagare i creditori alla scadenza dei suoi titoli di stato fra due settimane.
«Se fanno porcherie anche gli stati, come i privati, possono fallire», spiega Lorenzo Marconi, autore con Marco Fratini del libro Vaffankrisi! (Rizzoli).
«Ma agli altri Paesi europei una bancarotta della Grecia non conviene», precisa Massimo Gaggi, editorialista del Corriere della Sera da New York e autore di La Valanga, dalla crisi alla recessione globale (Laterza), «perché costerebbe più del suo salvataggio. Anche gli Stati Uniti sono preoccupati, perché sarebbe il primo fallimento di un Paese Ocse, cioè di economia avanzata. E l’“effetto domino” renderebbe più costoso anche il rimborso del debito americano, che nei prossimi anni aumenterà a livelli spaventosi».

2) Di chi è la colpa?
«Dei politici greci, che hanno addirittura falsificato i dati di bilancio», dice Fratini. Quelli del governo di centrodestra sconfitto alle ultime elezioni, secondo i quali il deficit del 2009 sarebbe stato di poco superiore ai limiti imposti dal tratto di Maastricht, tre per cento sul Pil, mentre era del tredici. «Ma c’è anche una responsabilità da parte delle autorità monetarie europee, che hanno fatto finta di niente mentre la tempesta si stava avvicinando. Per attrarre finanziatori, infatti, i bot greci hanno dovuto offrire interessi del sei per cento, mentre in tutti gli altri Paesi, Italia compresa, data la bassa inflazione gli interessi sono quasi inesistenti. Tutti sapevano che la bolla prima o poi sarebbe scoppiata.

3) Cosa rischia l’Italia?
L’Italia ha lo stesso livello di debito pubblico della Grecia rispetto al Pil: 115 per cento. «Però è un debito meno preoccupante non solo di quello greco», dice Gaggi, «ma anche di quello della Spagna, che è di appena il 53%, per tre ragioni. Primo: gran parte dei nostri titoli di stato sono in mano a noi stessi, contrariamente a quelli di altri Paesi. I titoli del debito degli Usa, per esempio, sono stati comprati da Cina o Paesi arabi, e questo li rende più vulnerabili. Secondo: l’Italia ha già riformato le pensioni, il che rende più gestibili i bilanci pubblici dei prossimi anni. Terzo: l’Italia non ha dovuto salvare le proprie banche, come invece hanno fatto Usa, Gran Bretagna e Germania. Anche con la Grecia, le nostre banche sono esposte per appena quatto miliardi, contro gli ottanta delle banche tedesche e francesi».

4) Cosa rischiano le nostre tasche?
«Se possediamo obbligazioni di stato greche, ma anche spagnole o portoghesi, e le vendiamo ora, subiremo delle perdite», avverte Marconi. «Se invece le teniamo, è una scommessa. Se ci sarà un default, finiranno come i bond argentini: carta straccia. Ma questo rischio attualmente è ben remunerato: anche il sei per cento. E la Grecia, per ora, è stata salvata».

5) Come si può risolvere questa crisi?
«Secondo la cancelliera Angela Merkel e l’80 per cento dei tedeschi bisogna punire chi ha sbagliato, e quindi far fallire la Grecia», risponde Gaggi. «Ma questa strada si è dimostrata impercorribile, perché poi sarebbe stata la volta del Portogallo, della Spagna, dell’Irlanda, con un effetto a catena dagli esiti catastrofici. Anche la banche Bear Sterns e Lehman Brothers erano state fatte fallire. Ma questo non aveva bloccato la crisi, anzi». Quindi, soldi alla Grecia in cambio di tagli e risparmi.

6) Che fare per evitare altre crisi simili in futuro?
«Deve entrare in campo la politica», dice Lorenzo Fontana, eurodeputato della Lega Nord. «Noi passiamo per euroscettici, ma questa crisi dimostra che se l’Europa si basa solo sull’economia, rimarrà una creatura artificiale. Ci vuole rigore sui conti pubblici, a cominciare dall’Italia che ha il terzo debito statale più alto al mondo dopo Usa e Giappone. L’euro, così com’è stato impostato dieci anni fa, dev’essere rivisto. Occorrono strumenti per imporre disciplina fiscale agli stati, e dentro gli stati alle regioni»

7) I tedeschi che non volevano salvare i greci sono egoisti?
«No, le regole vanno rispettate», dice Fontana, «ci vuole responsabilità. E se ora hanno accettato di finanziare la Grecia, non si pensi che lo fanno per generosità. La Germania vuole salvaguardare i quaranta miliardi di crediti delle proprie banche verso la Grecia».

8) Cosa succederà all’euro?
«Non è un mistero che molti in Germania ipotizzino un euro a due velocità», spiega Fontana: «Uno per i Paesi nordici più competitivi, e un Euro 2 per i Paesi mediterranei, che possa attuare delle svalutazioni competitive. Io vengo da verona, e ricordo che grazie alla svalutazione della lira del ‘92 l’export del Nordest verso Germania e Usa decollò, portando grande ricchezza».
Oggi, se non fosse costretta nell’euro, la Grecia potrebbe svalutare aiutando le sue esportazioni e attraendo turisti. «Ma per un’Europa a due velocità ci vorrebbe un altro trattato», frena Gaggi, «e questo attualmente non è ipotizzabile».

9) È vero che alcuni grandi speculatori americani si sono accordati per attaccare l’euro?
«I giornali hanno addirittura riportato la data di una sera di febbraio in cui a New York George Soros e altri gestori di hedge fund avrebbero cenato e concordato un attacco simultaneo all’euro», dice Marconi. «Ma prendersela con gli speculatori è come criticare il leone perché attacca la gazzella ferita invece di inseguire quelle veloci e imprendibili. Le economie sane non soffrono le speculazioni».

10) Sarà almeno più conveniente andare in Grecia in vacanza quest’estate?
«Se Atene potesse uscire dall’euro e svalutare, sì», risponde Marconi, «ma con la moneta unica i prezzi diminuiranno al massimo del dieci per cento. Sarà meglio per i turisti americani venire in Europa, con l’euro sotto quota 1,30 invece che a 1,50. Disperati come sono, i greci dovranno abbassare un po’ i prezzi, ma non più di tanto. Piuttosto, si prevede un drastico calo di arrivi dei 2,3 milioni di tedeschi, perché la crisi colpisce anche lì. E non verranno rimpiazzati dal milione di italiani che ogni estate vanno in Grecia».

Mauro Suttora

Wednesday, May 05, 2010

Luca Beatrice: 'Da che arte stai?'

Un critico svela i trucchi dell'arte contemporanea

Oggi, 28 aprile 2010

di Mauro Suttora

Incidenti imbarazzanti al sesto piano del Moma (Museum of modern arts) di New York. Il modello nudo di una «performance» dell’artista Marina Abramovich ha avuto un’erezione. A forza di subire gli strusci degli spettatori, che devono passare fra due corpi in piedi, il poveraccio non è riuscito a controllarsi. E ha dovuto essere sostituito. Né sembrano meno «calienti» i visitatori: alcuni di loro, sia uomini che donne, sono stati espulsi dopo aver allungato le mani sui 36 modelli nudi, sia uomini che donne (che si esibiscono otto alla volta, a turno).

I dirigenti del museo non vedono l’ora che la retrospettiva dedicata alla 64enne artista serba finisca, il 31 maggio. «È buffo come la natura si ribelli all’arte», commenta Luca Beatrice, critico e curatore della Biennale di Venezia 2009. «La Abramovich aveva presentato questa performance a Bologna nel ‘77, ma allora il contesto era completamente diverso. Gli artisti usavano i corpi per trasgredire, basti pensare agli happening del Living Theatre o ai sit-in di protesta nelle strade. Oggi si è perso qualsiasi valore di ribellione sociale: riproporre questo tipo di arte è solo un gesto estetico».

Arte contemporanea: chi ci capisce qualcosa? Ci piace affollare le mostre, bere qualcosa alle vernici e visitare musei che anche in Italia si moltiplicano. Ora ce ne sono perfino a Monfalcone (Gorizia) o Isernia, e un mese fa a Gallarate (Varese) ne è stato aperto uno con il solito acronimo «furbo»: Maga (Museo arte Gallarate). Il clou sarà a fine maggio a Roma: il 27 si inaugura il Macro (Museo arte contemporanea Roma) dell’architetta francese Odile Decq, e appena tre giorni dopo il Maxxi (Museo arte XXI secolo) di Zaha Hadid. Dopo anni di rinvii, è curiosa questa apertura contemporanea di spazi d’arte contemporanea in concorrenza fra loro nella stessa città.

«In Italia ormai ci sono più musei che artisti», scherza Beatrice, che ha appena pubblicato il libro Da che arte stai? (Rizzoli). È una bella storia dell’arte italiana degli ultimi quarant’anni, che spiega con parole semplici le ultime tendenze e le rivalità fra le varie correnti. Beatrice infatti, come Vittorio Sgarbi, ama la polemica. E lui ce l’ha contro l’Arte Povera, «che fino al 1979 ha dettato le regole, imponendo le proprie scelte e tagliando le gambe ai non allineati. L’esatto specchio della cultura sessantottina: “Se non sei dei nostri, non esisti”».

Per Beatrice l’anno della svolta è stato il 1979, con la nascita della Transavanguardia. Cinque pittori (Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria, Mimmo Paladino) e un critico mentore: Achille Bonito Oliva, che si farà fotografare nudo sulla rivista Frigidaire, disteso sul divano come la Maya di Goya.

«Quell’anno è stato importante perché si usciva dai grigi anni '70», dice Beatrice. E mette assieme quattro donne diversissime fra loro: Nilde Iotti che diventa presidente della Camera dei deputati, Oriana Fallaci che scrive il capolavoro Un Uomo, Gianna Nannini che esplode con America, e l’americana Patti Smith che incendia Bologna e Firenze con due concerti memorabili, dopo un decennio di astinenza e ostracismo contro i gruppi rock stranieri.

La Transavanguardia italiana conquista il mondo, fino alla consacrazione definitiva del ‘99 con la personale di Clemente al Guggenheim di Manhattan. Ma oggi? A parte Maurizio Cattelan, chi sono i nostri nuovi artisti di successo?

«Tutto dipende dal contesto», spiega Beatrice. «Facciamo un gioco. Prendiamo un quadro di buona ma non eccelsa qualità e appendiamolo alle pareti di un ristorante. Quindi trasportiamolo in una galleria media, di quelle che i critici con la puzza al naso definiscono “commerciali”. Infine inseriamolo in una mostra importante, curata da un nome giusto, nelle sale della Fondazione Sandretto di Torino o di un museo egualmente conclamato».

Lo stesso quadro?
«Sì. Nel primo caso avremo l’opera domenicale di un dilettante, che ha chiesto al proprietario del ristorante di ospitarlo e, magari, di provare a venderlo a duecento euro. Nel secondo caso il dipinto aumenterà di valore, fino a qualche migliaia di euro ma non di più, perché la galleria non è così buona e si presume che lì un grande artista non ci lavorerà mai. Nel terzo e ultimo caso il quadrò prenderà la strada del successo, lodato dagli addetti ai lavori e inseguito dai collezionisti disposti a spendere cifre folli per portarselo a casa, perché il suo valorer è stato certificato da un Bonami o Birnbaum, dalla Tate Modern o da White Cube di Londra».

E la qualità del quadro?
«Di tutto sentiremo discutere, tranne che di quello. Perché quando Marcel Duchamp nel 1917 ha piazzato il suo orinatoio in una sala bianca, con gesto geniale e provocatorio, ha dimostrato che qualsiasi cosa sarebbe potuta stare lì. Bastava la certificazione del contesto e l’accordo fra gli attori del circo. Duchamp tutto avrebbe potuto prevedere, tranne che di essere preso così sul serio dai posteri».

E anche oggi...
«Se entriamo in uno qualsiasi dei santuari dell’arte contemporanea, troveremo una sfilza di oggetti in disuso, scarti, pezzi di neon, sculture minimaliste, avanzi di piastrelle, scritte... e a nessuno viene mai il dubbio che non si tratti arte. Se stanno lì, nel museo, sono arte e basta».

Ma un bravo pittore come può essere preso in considerazione dal curatore di una mostra o di un museo?
«È un bel casino. Intanto veda di non essere troppo bravo, capace e virtuoso. Sia sciatto piuttosto, trasandato, incerto, dipinga se può come un incapace o un mentecatto. Se qualcuno gli dà del pittore si deve ribellare, guardarlo in cagnesco e spiegargli che lui è un “artista che usa la pittura”».

Perché questa commedia?
«Perché ai critici, che sono spesso artisti falliti, piace il non finito che fa molto “tormento ed estasi”. Prediligono i fondi bianchi su cui ritagliare figurine incerte o volti dall’espressione idiota. Se collabori con qualche “galleria di mercato” sei finito. Se vivi decorosamente del tuo lavoro ti daranno del “commerciale”».

Insomma, un disastro. Chi si salva, Beatrice?
«Oggi l’artista italiano più importante al mondo, che per classe e inventiva batte Cattelan dieci a uno, è Francesco Vezzoli».

Oddio, quello che un anno fa nella galleria Gagosian di Roma ha esposto la boccetta di un finto profumo?
«Sì. Con lo spot di un minuto girato da Roman Polanski. Vezzoli ti sbatte in faccia l’inutilità dell’arte contemporanea. E si autodefinisce così: “Sono un frocetto di provincia che guarda i film di Visconti e trasforma la propria solitudine e il proprio dolore in una magnifica ossessione».

Mauro Suttora

I 17 anni di Fini e Berlusconi

UNA STORIA DI ALTI E BASSI

di Mauro Suttora

Oggi, 28 aprile 2010

Che ci fosse qualcosa di strano, cominciarono a sospettarlo nel 2005. I radicali avevano lanciato il referendum per la procreazione assistita. Gianfranco Fini annunciò che avrebbe votato sì: un’eresia, a destra. Il Vaticano era contrarissimo. I massimi dirigenti di An (Ignazio La Russa, Maurizio Gasparri, Altero Matteoli) si chiedevano cosa fosse capitato al loro segretario. Commisero l’errore di parlarne ad alta voce nel bar La Caffettiera di Roma. Un giornalista ascoltò tutto, e pubblicò testualmente. Apriti cielo. «Gianfranco ha perso la testa per amore», sussurravano i malcapitati, riferendosi al pettegolezzo-principe di quelle settimane nella capitale: una supposta love story fra l’allora ministro degli Esteri e una sua bella collega di governo assai aperta in tema di diritti civili. Fini allora aveva in mano An: convocò uno a uno i reprobi e tolse loro ogni carica per molti mesi.

Sono passati cinque anni. An non c’è più, e l’unica arma rimasta in mano a Fini in quanto ex presidente sono i soldi: quelli del rimborso elettorale del 2006, che incasserà fino all’anno prossimo, più il patrimonio di 400 milioni di euro in sedi e uffici dell’ex Msi, che si è ben guardato dal conferire al Popolo delle Libertà (così come Ds e Margherita non hanno dato tutti i loro averi al Pd). Infine il quotidiano Il Secolo, che riceve dallo stato tre milioni di euro all’anno anche se vende solo tremila copie (ogni copia del Secolo costa quindi mille euro ai contribuenti...)

Quasi tutti i parlamentari ex An eletti nel Pdl hanno abbandonato il loro ex capo ora che si è scontrato platealmente con Silvio Berlusconi. Con Fini sono rimasti solo il ministro Andrea Ronchi, il viceministro Adolfo Urso, il vicecapo dei deputati Pdl Italo Bocchino, una dozzina di senatori e una trentina di deputati. Ma cos’è successo, veramente?

«Semplice: Fini si sente troppo vecchio, e Berlusconi troppo giovane», spiega a Oggi un parlamentare Pdl. «Fini a 58 anni si è stufato di appassire come delfino a vita. Ha cominciato a esserlo a 41 anni, e ora rischia di fare la patetica fine del principe Carlo d’Inghilterra, al quale l’ultraottuagenaria regina Elisabetta non si sogna di passare la corona. Proprio come Berlusconi, che a 74 anni si sente ancora pimpante e che, al massimo, lascerà la presidenza del Consiglio fra tre anni al fedele Tremonti o al fedelissimo Alfano per salire al Quirinale».

L’eterna storia di tanti vecchi leader della storia incuranti della successione, che hanno «ucciso» qualsiasi «giovane» facesse loro ombra, in base alla regola del «dopo di me il diluvio»? A pensarci bene, è capitato a tutti i grandi politici del XX° secolo: De Gaulle senza lo scrollone del ’68 non avrebbe abdicato per Pompidou, Churchill rimase premier fino a 81 anni, Roosevelt aspettò la morte piuttosto che vedere il vice Truman al proprio posto. Per non parlare dei dittatori Stalin, Mao o Franco, tutti morti con lo scettro in mano.

Ma la crisi del diciassettesimo anno fra Fini e Berlusconi non è solo una questione dinastica. I due non si sono mai veramente pigliati: la loro convivenza è stata piena di alti e bassi, provocati secondo i maligni anche dalla opposta statura fisica.

Oggi i fans di Silvio accusano Gianfranco di ingratitudine. Se non ci fosse stato lo storico «sdoganamento» del novembre 1993 all’inugurazione di un suo ipermercato a Casalecchio di Reno (Bologna), sostengono, con la dichiarazione di voto berlusconiana per Fini sindaco di Roma, l’Msi sarebbe rimasto una scoria neofascista. Consideriamo però che allora Berlusconi era solo il presidente della Fininvest, detestato dalla sinistra ma anche dagli ex dc di Martinazzoli e da quelli di Segni. Non aveva molte altre sponde da blandire quindi, dopo la scomparsa del Psi del suo amico Craxi.

Nel dicembre ’94 Umberto Bossi fa cadere il primo governo Berlusconi, e due anni dopo si allea con la sinistra permettendole di governare fino al 2001 (quante giravolte in politica!). Fini invece rimane fedele a Silvio, e quello rimane forse il periodo più felice del loro rapporto. Di quei mesi, invece, Berlusconi conserva l’incubo del governo «tecnico» di Lamberto Dini (1995-’96). Ancor oggi teme che qualcuno lo possa sostituire, non dopo una sconfitta elettorale, ma in nome di un’emergenza economica o giudiziaria (avviso di garanzia, incriminazione, condanna). E adesso il candidato ideale, vista la stima conquistata a sinistra, sarebbe proprio Fini, terza carica dello stato.

Il primo «tradimento» di Gianfranco risale alle europee del ’99, quando An cerca di allargarsi a spese di Forza Italia imbarcando nella coalizione «Elefante» Segni e perfino i radicali antiproibizionisti sulla droga di Marco Taradash. Ma il risultato è negativo (An cala dal 12 per cento al 10), e Fini deve tornare all’ovile.

Dopo la vittoria alle politiche del 2001 Gianfranco non s’impegna direttamente in un ministero. Già allora s’illude di ritagliarsi un ruolo «superiore» come vicepremier. Ma dopo tre anni si accorge che senza mani in pasta conta poco, e quindi per due anni fa il ministro degli Esteri. Va in Israele a dichiarare che «le leggi razziali del fascismo furono un male assoluto», mentre ancora nel ’94 considerava Mussolini «il maggiore statista italiano del secolo». Nel 2004 riesce a far dimettere il filoleghista Tremonti da ministro dell’Economia, salvo doverlo reinghiottire appena un anno dopo.

Intanto gli anni passano, lui scalpita. Ma Berlusconi raggiunge i 70 anni e non dà segni di stanchezza. Anzi, perso il voto del 2006 non si dà per vinto e un anno dopo annuncia la fusione di tutti i partiti del centrodestra nel Popolo delle Libertà. «Siamo alle comiche finali», risponde Fini sprezzante. Ma ancora una volta deve andare a Canossa e nel 2008 An, contrariamente all’Udc di Casini, sparisce dalla scheda elettorale per vincere, ma inglobato nel Pdl.

Per l’ennesima volta Fini si smarca, preferendo il ruolo istituzionale di presidente della Camera all’impegno governativo. E comincia lo stillicidio di critiche a Berlusconi. Nel settembre 2008 propone il voto agli immigrati con cinque anni di residenza (proprio lui, autore della legge Bossi-Fini). Poi critica i troppi voti di fiducia e decreti, che strozzano il Parlamento. Nel 2009 altri pugni nello stomaco al centrodestra: «Il Pdl è a rischio di cesarismo», sì al testamento biologico (caso di Eluana Englaro), il fuorionda tv: «Berlusconi confonde la leadership con la monarchia assoluta». Si mormora di un’alleanza di centro Fini-Casini-Rutelli-Montezemolo.

Il resto è storia degli ultimi giorni. Fini ormai sembra essersi alienato le simpatie del suo stesso centrodestra. Se si presentasse da solo al voto, prenderebbe il 7 per cento. «Eppure dico le stesse cose della Merkel, di Sarkozy, dei popolari spagnoli, della moderna destra europea», replica lui, serafico. E in politica, come nei film di James Bond, «mai dire mai».

Mauro Suttora

Monday, May 03, 2010

Ingrid Bergman, Anna Magnani, Renzo Rossellini

IL TRIANGOLO

Anna, Ingrid e Rossellini: la passione che li incendiò

"LE AMANTI DEL VULCANO" RIEVOCA UN GRANDE SCANDALO

È il 1949: la diva svedese e la regina del nostro cinema si contendono il maestro del neorealismo. Un amore da film che Marcello Sorgi ricostruisce in un libro. E tutto nacque da un'incredibile lettera...

di Mauro Suttora

Oggi, 28 aprile 2010

«Mister Rossellini, ho visto i suoi film Roma città aperta e Paisà, e li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un'attrice svedese che parla molto bene l'inglese, non ha dimenticato il tedesco, non riesce a farsi capire bene in francese e in italiano sa dire soltanto "ti amo", sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei». Firmato: Ingrid Bergman.

Questa è l'incredibile lettera che l'allora più famosa attrice del mondo (Casablanca, Per chi suona la campana, Notorious e quattro nomination all'Oscar) scrisse al più famoso regista italiano, inventore del neorealismo. Rossellini la ricevette a Roma il 7 maggio 1948, il giorno prima del suo quarantaduesimo compleanno, e in quel preciso momento per la sua compagna Anna Magnani (la più famosa attrice italiana) fu la fine.

La tempesta personale e professionale che travolse il trio viene oggi magistralmente raccontata da Marcello Sorgi nel libro Le amanti del vulcano: un triangolo di passioni nell' Italia del dopoguerra (Rizzoli). «Rossellini era il tipico italiano, prima fascista, poi comunista», spiega l' ex direttore del Tg1, reduce dal successo di un' altra rievocazione siciliana di quell'epoca: Edda Ciano e il comunista, che descrive l'amore proibito tra la figlia di Mussolini al confino a Lipari nel '45 e un partigiano comunista. Ma soprattutto, Rossellini era un grande tombeur de femmes. E abboccò immediatamente all'«amo» lanciato abbastanza sfrontatamente dalla splendida star svedese.

Andò a Londra, dove la Bergman stava gira ndo un film di Hitchcock. Lì incontrò anche il marito svedese di Ingrid, che però era in crisi coniugale. Poi un weekend a Parigi, infine altri incontri a New York e a Los Angeles, dove l'acclamatissimo regista era andato a ritirare dei premi. Fra loro, i due parlavano francese. E Rossellini le propose subito di recitare nel suo nuovo film, Stromboli, senza dirle che la parte era già prevista per la Magnani. La Bergman, alla quale era bastato vedere i due film del regista italiano in una saletta d'essai per infatuarsene, lo invitò come ospite d'onore a un party nella sua villa californiana, in Benedict Canyon.

Racconta Sorgi: «C'era il meglio di Hollywood: Gary Cooper, Bette Davis, Frank Capra, l'unico con cui quella sera Roberto riuscì a scambiare qualche parola, tra dialetto romanesco e siciliano. Rossellini non sapeva l' inglese, ma questo non gli creava alcun imbarazzo. Il suo obiettivo era Ingrid. E sapientemente, alla sua maniera, era riuscito a raggiungerla in cucina per potere restare un momento da solo con lei». Molti anni dopo la Bergman raccontò a Renzo Rossellini, primo figlio di Roberto, che «forse lì, in cucina, era stato concepito Robertino», il bambino che nacque l'anno dopo. E Renzo si era divertito a insistere sui dettagli, domandandole: «In piedi?». «Quasi!», aveva chiuso il discorso lei, con un sorriso arrossito.

"LA GUERRA DELLE ISOLE"
Il problema era che Rossellini si trovava già impegnato a girare Stromboli con un giovane produttore siciliano, il principe Francesco Alliata (oggi novantenne), e il socio Pietro Moncada di Paternò. Quando ci fu la rottura con la Magnan i, Alliata non ri nu nciò al progetto: scritturò un regista tedesco (William Dieterle, soprannominato Dhitler per la precisione teutonica), e fece interpretare egualmente il film alla Magnani (con Rossano Brazzi), cambiando il titolo in Vulcano e girandolo nell' isola eoliana adiacente. Così per tutta la calda estate del 1949 si svolse la «guerra delle isole»: a Stromboli la troupe di Rossellini con la Bergman, a Vulcano quella della Magnani. Con una gara a chi finiva prima, ovviamente vinta dal tedesco cui bastarono sette settimane di riprese, contro le quindici (rispetto alle otto preventivate) del disordinato Rossellini. Il quale peraltro era anche immerso nella focosa passione con Ingrid.

Tutti i giornali del mondo seguirono la sfida privata e pubblica. Per l'opinione pubblica americana fu uno scandalo enorme: la Bergman, fino ad allora considerata una santa, divenne subito un'adultera da lapidare. Fu accusata di essere «l'apostolo della depravazione di Hollywood», subendo una campagna denigratoria senza eguali. Suo marito chiese il divorzio e ottenne l'affidamento della figlia Pia, la quale dichiarò: «Non ho mai voluto bene a mia madre».

L'AMERICA LI CONDANNÒ
Solo il grande scrittore Ernest Hemingway difese la star svedese, diventata sua amica dopo aver interpretato Maria in Per chi suona la campana. «Il caso arrivò addirittura al Senato americano», racconta Sorgi, «dove il senatore Edwin Johnson del Colorado la definì "potente distillatrice del male e cultrice del libero amore"».

Johnson se la prese anche con Rossellini, reo di avere sottratto agli Stati Uniti la star più preziosa: «I suoi trascorsi come membro del partito fascista italiano e attivo collaborazionista durante la guerra mondiale sono ben noti ai nostri servizi di controspionaggio. Rossellini aveva come amante una tedesca, nota attrice di sentimenti nazisti. È stato due volte in manicomio e fa abitualmente uso di stupefacenti». E si spinse a chiedere la censura sui suoi film: «La sua posizione di zelante fautore di Mussolini e aperto adulatore del fascismo rende passibile di molte obiezioni la distribuzione nei circuiti americani delle sue pellicole».

«In realtà», obietta Sorgi, «Rossellini non era mai stato un fascista militante. Frequentatore della Roma mondana e viziosa dei primi anni del fascismo, sì. Amico per ragioni di convenienza del figlio del duce, Vittorio, e autore grazie a lui di una trilogia di film di propaganda ispirati dal regime. Ma era stato emarginato dal fascismo per il suo carattere e l'indolenza lavorativa. La storia con la ballerina tedesca Roswita non aveva alcun fondamento politico. E la droga era stata un incidente di gioventù, curato in clinica e non in manicomio».

Al botteghino Stromboli stracciò Vulcano. Anche perché proprio nel giorno della prima di quest'ultimo, il 2 febbraio '50, nacque Robertino, figlio di Rossellini e di Ingrid, che rubò tutto lo spazio sui giornali. Nel '55 però la Magnani si prese tutte le rivincite, professionali e private, con Rossellini: mentre lei vinceva l'Oscar con La Rosa Tatuata, il matrimonio con la Bergman crollava.

Simili anche le morti di Anna e Ingrid: entrambe per tumore, nel' 73 a 65 anni la prima e nell'82 a 67 la seconda. Quanto a Rossellini, dopo aver dichiarato morto il cinema ed essersi dato ai documentari, scomparve per infarto nel '77, appena tornato dal festival di Cannes dove aveva presieduto la giuria. «Roberto è morto rapidamente, com' era vissuto», fu l'estremo commiato di Ingrid, con cui termina il libro di Sorgi.

Mauro Suttora