Monday, February 23, 2009

Francesco Rutelli

Ritratto di un politico maestro nel riciclarsi

Libero, sabato 21 febbraio 2009

di Mauro Suttora

«Dovete iscrivervi tutti all’Lsd». Udine, estate 1978. Ogni tanto, diciottenne in bici, facevo un salto alla sede del partito radicale, attirato più dalle belle ragazze che dal fascino di Pannella. E un pomeriggio Rita, una di loro, mi intimò di darle tremila lire «per l’Lsd».

«E che sarebbe, questo Lsd?» «Lega Socialista per il Disarmo», sorride Rita, estasiata. «Ma da quando in qua sei antimilitarista?» «Dalla scorsa settimana. Sono andata a Roma, ho incontrato Francesco Rutelli. Lui ha fondato l’Lsd. Ed è bellissimo…»

La seconda volta che m’imbattei in Rutelli fu un anno dopo. Sempre impegnato contro gli eserciti, aveva organizzato con Adele Faccio una Carovana di protesta da Bruxelles (sede Nato) a Varsavia (sede dell’omonimo patto). Ci andai, mi piaceva questa equidistanza fra sovietici e yankee. Presi tenda e sacco a pelo, m’imbarcai su uno dei sei pullman pieni di radicali. Dormivamo in campeggi e palestre di scuole. Le pacifiste tedesche erano affascinanti. C’era anche una sedicenne Sabina Guzzanti che suonava la chitarra. Però Rutelli mi deluse. Lui, con gli altri capetti radicali, non dormiva con noialtri. Dirigeva i sit-in di fronte alle basi militari col megafono, e poi spariva in albergo.

Arrivati al muro Berlino Est fummo manganellati dai vopos, le guardie di frontiera. In Polonia non arrivammo mai. Però io m’ero appassionato alla nonviolenza, e cominciai a leggere Gandhi. Così l’anno dopo, quando Rutelli fondò con lo scrittore Carlo Cassola il mensile ‘L’Asino’, me ne facevo mandare da Roma venti copie che rivendevo agli amici. ‘L’Asino’ era un famoso giornale antimilitarista e anticlericale fondato da Guido Podrecca che all’inizio del ’900 vendeva centomila copie. Poi fu chiuso dai fascisti. La versione rutelliana durò due anni. «Franciasco», come lo chiamavano le sue adepte romane (fra cui Eugenia Roccella), ci scriveva scintillanti articoli contro le spese militari e i missili atomici.

Nel frattempo, a soli 25 anni, Rutelli era diventato segretario nazionale del Partito radicale. Ancora oggi qualche morboso curiosone ogni tanto mi chiede quanti dei giovani politici messi in orbita da Pannella (da Rutelli a Capezzone) siano passati per il suo letto. «Non ne ho idea», rispondo sincero.
Dopo due anni Pannella vuole far spazio a una sua nuova scoperta, Giovanni Negri. Ma Rutelli oppone una fiera resistenza, riesce a restare sveglio tutta una notte mentre il capo radicale parla in riunione fino alle quattro del mattino, e alla fine riesce a farsi nominare vicesegretario assieme a Negri e a un altro giovanissimo: Gaetano Quagliariello.

Negli anni ’80 continuo a seguire con simpatia la carriera di Rutelli, che anch’io reputo bello e simpatico (secondo la mia fidanzata, invece, assomiglia ad Alberto Sordi). Lui sposa Barbara Palombelli, mia collega all’Europeo, e continua a organizzare proteste contro le parate militari del 2 giugno: in mutande e scolapasta in testa fa sfilare in piazza Venezia le «trippe disarmate».

A un certo punto però Pannella gli toglie lo stipendio, costringendolo a «ruotare»: un’usanza giusta ma crudele per dimostrare che i deputati radicali non sono attaccati alle poltrone, e che quindi si dimettono a metà mandato. Il povero Rutelli deve riciclarsi con i verdi, e a un certo punto è perfino costretto a elemosinare collaborazioni giornalistiche a Feltri, allora direttore dell’Europeo.

Ma in politica la ruota gira sempre, e nell’89 i verdi raggiungono il sette per cento: quarto partito italiano. Trionfo di Rutelli che ne diventa il capo. E nel ’93 Ciampi lo nomina ministro dell’Ambiente. Ma lui si dimette dopo un solo giorno per protesta contro il Parlamento che nega l’autorizzazione a procedere contro Craxi. In quei giorni tumultuosi di Tangentopoli Berlusconi debutta in politica «sdoganando» Fini, e candidando il segretario del Msi sindaco di Roma. A Pannella viene l’idea di contrapporgli Rutelli, che viene eletto.

Non abitando allora a Roma non so come valutare Rutelli, sindaco per otto anni. Però mi ha impressionato la scena di giubilo cui una distinta signora si è abbandonata sull’autobus 52 la scorsa primavera, quando giunse la notizia che Francesco aveva perso il nuovo tentativo di salire al Campidoglio dopo Veltroni: come mai tanto astio?

Mi ha colpito anche la cattiveria di una biografia a lui dedicata dall’editore di Kaos (un ex radicale che gli aveva pubblicato dei libri): ‘Cicciobello del potere’. Viene staffilato come «mediocre politicante che fa carriera a colpi di opportunismi, spregiudicatezze e aria fritta: passato dalle lotte contro la fame nel mondo agli appetiti dei palazzinari romani, dalle campagne anticlericali alle genuflessioni in Vaticano, dall’antimilitarismo ai campi da golf…»

Nel ’99, con Cacciari ed Enzo Bianco, fonda il movimento dei sindaci. Poi si allea con Di Pietro, Prodi e Parisi: dall’Asino all’Asinello. Quindi, nel 2001, viene mandato al sacrificio contro un arrembante Berlusconi. Candidato premier per la sinistra, perde ma si consola: «Solo due punti di distacco». Infine, lui ex radicale, riesce nel miracolo di diventare capo degli ex democristiani nella Margherita. Io lo ammiro per questo, oltre che per essersi risposato in chiesa con la Palombelli. Mi spiace che Andrea De Carlo lo abbia sbertucciato nel romanzo ‘Mare delle verità’ (2006). E lo penso sempre quando passo davanti alla stupenda fontana di piazza Esedra con le naiadi nude scolpite da Mario Rutelli, di cui è bisnipote.

Mauro Suttora

Wednesday, February 18, 2009

Elena Russo, raccomandata

Oggi, 11 febbraio 2009

Povera Elena Russo. Per quanto tempo la bella attrice napoletana sarà perseguitata da quella telefonata? Nel 2007 Silvio Berlusconi fu intercettato mentre la segnalava al dirigente Rai Agostino Saccà, assieme ad altre belle attrici emergenti, per una parte in qualche fiction. Da allora, qualsiasi cosa faccia, la Russo attira il sospetto della «spintarella». Ora però è diventata testimonial di uno spot in cui il governo celebra la risoluzione del problema della spazzatura a Napoli.

E poiché il committente è la presidenza del Consiglio (cioè Berlusconi stesso), il marchio di «favorita» è tornato automaticamente a sfiorarla. Ma come viene spiegata la scelta presa da un istituto prestigioso come Pubblicità Progresso? Dice il suo presidente, Alberto Contri (ex consigliere Rai berlusconiano): «La Russo non era la nostra prima scelta. Faceva parte di una rosa di napoletane veraci assieme a Serena Autieri e Luisa Ranieri. Ma loro non hanno potuto girare lo spot, perché erano già impegnate».

Parole che potrebbero creare qualche imbarazzo alla Russo, che da Londra (dove studia l’inglese) commenta: «Lo spot mi è stato proposto dalla mia agente, sapevo della gara con altre professioniste. Nessun favoritismo».

Chantal Sciuto

Lady Frattini lasciata dal ministro degli Esteri

Oggi, 11 febbraio 2009

di Mauro Suttora

Che sfortuna essere nata il 4 novembre. Aveva organizzato da mesi la propria festa di compleanno, Chantal Sciuto. La sera più importante della sua vita: perché compiva 40 anni, cifra tonda, e perché da sei mesi era la fidanzata (prima segreta, poi ufficiale con tanto di comunicato a mezzo stampa) del ministro degli Esteri Franco Frattini. Peccato non si fosse accorta che era anche la data delle elezioni presidenziali Usa, avvenimento storico per la probabile vittoria di Barack Obama.

Così quella sera il capo della diplomazia italiana, invece di presenziare a uno dei party d’alto livello programmati a Roma, o di prepararsi a commentare l’evento in uno studio tv, ha dovuto partecipare alla festa della bella dermatologa. Lei, come da copione, gli ha presentato i genitori arrivati apposta dalla Sicilia. Lui, dopo averle regalato un anello, si è persino fatto fotografare per un giornale a cui lei aveva assicurato l’esclusiva e gli è toccato sorridere a molti amici di lei, tra cui personaggi della «Roma godona» fra spettacolo e tv, come attricette e tronisti, gente lontanissima dall’aplomb della diplomazia. Ma è riuscito a eclissarsi quasi subito, prima di mezzanotte.

«Lo soffocava», sibila un ambasciatore che lavora nel bianco palazzo della Farnesina, già lambito dagli scandali rosa tre anni fa per gli appuntamenti galanti di Salvo Sottile, addetto stampa dell’allora ministro Gianfranco Fini.

In effetti, i caratteri di Chantal (soprannominata Chantal n°5 dagli amici) e dell’algido Franco sono agli antipodi. Ma in amore gli opposti si attraggono, e Frattini sembrava aver perso la testa per la dottoressa dei vip. Tanto da portarla con sé all’austero convegno Ambrosetti di Cernobbio, al vertice Ue di Avignone, e perfino all’Assemblea generale dell’Onu a New York.

Il modello della Sciuto era Carla Bruni Sarkozy. Dimenticando però che l’ex top model, prima di conquistare il presidente francese, esibiva già un carniere pieno di conquiste importanti: da Donald Trump a Mick Jagger, da Eric Clapton al genero filosofo di Bernard-Henri Lévy.

Chantal invece, Venere in miniatura dagli occhioni smeraldo, movenze da gatta e vocina sexy, prima di Frattini vantava un fidanzamento con Paolo Calissano, l’attore finito nei guai per cocaina e la morte di una ragazza nella sua casa di Genova, e amicizie con il conduttore Michele Cucuzza e gli attori Enrico Mutti e Antonio Cupo. I suoi amori però non arrivano mai all’happy end. Avrà un caratterino difficile? Cucuzza ha sempre smentito il flirt ed è rimasto in buoni rapporti con lei.

Con Calissano invece fu gelo totale, anche perché Chantal confessò (con quella sincerità disarmante che l’ha portata ad annunciare via comunicato stampa il fidanzamento con Frattini) di essere rimasta incinta di lui, ma di avere abortito spontaneamente. Calissano motivò la propria discesa nella droga anche per quell’episodio. Poi però l’attore ha precisato: «Chantal è fantastica, una persona speciale. Una delle donne più solari, dinamiche e intelligenti che abbia mai conosciuto. Forse non avevo capito la fortuna che mi era capitata».

Neanche Frattini l’ha capita, e l’ha scaricata da un giorno all’altro («Senza preavviso, fino a una settimana prima tutto sembrava filare per il meglio», dicono gli amici di lei) e, si dice, con un sms. Frattini ha addirittura scomodato l’ufficio stampa del ministero per smentire, ma una conoscente sussurra: «Sms? No, molto peggio».

Oddio, e che c’è di peggio di un messaggino per dire addio? In che modo è stata tradita l’eleganza dei modi che anche gli avversari politici riconoscono a Frattini? Nessuno sembra saperlo con certezza, anche perché Chantal, distrutta, per la prima volta in vita sua si è rifugiata nel silenzio. Ha lavorato un po’ al Villa Borghese Institute, la clinica della bellezza dei proprietari delle acque Rocchetta e Uliveto dove esercita come dermatologa. Poi è scomparsa qualche giorno.

Niente più aperitivi in piazza San Lorenzo in Lucina con l’amico Sandro Rubini, arrampicata sulle sue scarpe preferite (Caovilla tacco 12). Niente più vita sociale instancabile, dai 40 anni dell’amica del cuore Ramona Badescu alle prime con Nancy Dell’Olio (ex dell’allenatore Eriksson), fino alle feste dello sceicco arabo Rashid Al Habtoor (ex di Manuela Arcuri e Naomi Campbell).

DOMINATRICE SADOMASO

In questi giorni nel generone romano non si parla d’altro. Alcuni dicono che Chantal non andasse d’accordo con la figlia diciottenne di Frattini: il padre aveva cercato di farle diventare amiche, le portava a pranzo insieme la domenica. Altri parlano di presa coscienza di una insuperabile incompatibilità di carattere.

Forse la verità è da ricercare nella smania di apparire di Chantal. Dava interviste corredate da foto da dominatrice sadomaso con frustino da cavallerizza in pugno, si faceva paparazzare assieme a lui con perizoma in bella vista, andava in Tv a farsi pubblicità («Conflitto d’interessi», ha tuonato il deputato del Pd Roberto Giachetti). Forse un po’ troppo per l’austero Frattini, soprannominato «frigorifero».
Mauro Suttora

parla Gad Lerner

Oggi, 11 febbraio 2009

Cosa pensa del conflitto istituzionale innescato da Berlusconi?

«Non considero esaurita la forza, la spinta del berlusconismo. Ma l’ossessione di affermare la sua autorità, facendo leva sulle posizioni neodogmatiche della Chiesa, questa volta ha fatto commettere un errore a Berlusconi. Il quale teme un asse fra i due altri presidenti, quello della Camera Gianfranco Fini e quello della Repubblica Giorgio Napolitano, che imbrigli la sua azione di governo. E’ ricorso quindi al decreto legge, ingaggiando un braccio di ferro con il presidente della Repubblica. Il suo è un fastidio esibito contro ogni impiccio che lo ostacoli. Ma Berlusconi non si rende conto che sul tema da lui scelto per scatenare questo conflitto la società italiana è molto più avanti delle pagnotte e bottiglie piazzate davanti alla clinica La Quiete. Tutti i cittadini prima o poi, tramite qualche parente, hanno avuto a che fare con la pratica pietosa e silenziosa di interrompere gli accanimenti negli ospedali, per evitare che la tecnica imprigioni la vita. Il neodogmatismo illiberale mal corrisponde all’evoluzione del costume. Mi sembra che Berlusconi abbia presunto troppo dalla forza del suo consenso».

Riuscirà a cambiare la Costituzione?

«Berlusconi l’ha già stravolta da tempo, con la prassi della decretazione d’urgenza. Ha instaurato una nuova costituzione materiale, riducendo il rapporto con il Parlamento a una cinghia di trasmissione».

Sul caso Eluana si sarà fatto guidare da qualche sondaggio.

«Mi pare che questa volta abbia agito d’istinto, approfittando dell’appoggio delle gerarchie del Vaticano per liberarsi da quello che per lui ormai è diventato un vero e proprio incubo: l’asse Fini-Napolitano. Ma credo che sia stato un autogol, perché una volta finite le accuse irrazionali di omicidio, o le affermazioni secondo cui una ragazza dovrebbe morire, mentre ormai purtroppo si tratta di una donna, passato tutto questo, a Berlusconi resterà poco in mano».

Mauro Suttora

Tuesday, February 17, 2009

Coldplay verso Udine

Coldplay in mutande
"Che noia essere il signor Paltrow"

Libero, sabato 14 febbraio 2009

Stasera e domani i Coldplay suonano a Osaka in Giappone. Mercoledi saranno a Londra, poi da fine febbraio in Australia per mezzo mese, quindi Hong Kong, Singapore, Abu Dhabi… Fino a Udine il 31 agosto, stadio Friuli, unico concerto italiano del loro tour mondiale. Tutto esaurito, anche perché i loro prezzi sono onesti: 40-50 euro a biglietto contro i vergognosi 100-200 per gli U2 a San Siro in luglio.

«Se siamo la rock band più importante del mondo?», si schermisce il loro leader, cantante, chitarrista e pianista Chris Martin. «Non so se lo siamo mai stati, ma ora tornano gli U2 con il loro nuovo disco… Siamo solo stati i supplenti, occupando il loro posto per un po’».

Così risponde Martin a ‘60 Minutes’ sulla Cbs, il programma tv più prestigioso d’America. Che lo ha appena intervistato in coincidenza dell’ennesimo exploit: sette nomination e tre Grammy award (gli Oscar della musica) per il miglior disco rock del 2008 (‘Viva la Vida’, sette milioni di copie vendute in otto mesi), la migliore canzone e il migliore gruppo.

«Ma ci affidiamo più all’entusiasmo che alle nostre effettive capacità», confessa Martin. «Qualsiasi cosa si faccia, se lo si fa con entusiasmo alla gente piace di più. Io non so ballare come Usher, non so cantare come Beyonce, non so scrivere canzoni come Elton John. Ma cerchiamo di fare il massimo con quello che abbiamo».

Umili e riservati, ma anche gentili e pieni di senso dell’humour, appaiono i quattro moschettieri del rock del terzo millennio (unica novità di questi anni Zero, Rem e Oasis c’erano già da prima). Hanno trent’anni, stanno insieme da dodici, continuano a firmare democraticamente le loro canzoni con i nomi di tutti, anche se tutti sanno che la mente è Martin. Non hanno mai sbagliato un colpo: tutti i loro quattro dischi, da ‘Parachutes’ del 2000 in poi, hanno conquistato platini planetari.

Il loro segreto? «Uno solo: c’impegniamo molto, molto duramente», dice a ’60 Minutes’ il chitarrista Johnny Buckland. Tutti figli di professori, media borghesia, hanno cominciato nel quartiere di Camden a Londra. Laurea (Martin con lode in greco e latino, Buckland in matematica, il batterista Will Champion in antropologia), e firma del loro primo contratto discografico. Più facile di così…

Nei concerti suonano meticolosamente tutti i loro successi, da ‘Yellow’ in poi. Non si stancano, non fanno le bizze come certe rockstar che si rifiutano di eseguire alcuni pezzi, con la scusa che «non vogliono rimanere prigionieri di una sola canzone». «Alcune non le farei, perché non ci piacciono più particolarmente, ma gli spettatori hanno pagato caro il biglietto, sono venuti per ascoltare proprio quelle, e quindi le suoniamo». Michael Stipe dei Rem ha anche consigliato ai Coldplay di non variare troppo i brani live rispetto alla versione su disco, perché i fans sono abituati a quelle.

Martin spiega, scherzando ma non troppo, di utilizzare un particolare rilevatore di «customer satisfaction», soddisfazione del cliente: «Quando siamo sul palco non riusciamo a osservare molto la gente, però vediamo da lontano le luci dei corridoi di uscita. Così all’inizio di una tournée, per capire quali canzoni funzionano e quali no, se notiamo molte silhouettes di persone che ingombrano le uscite, vuol dire che la canzone che stiamo suonando probabilmente non è quella giusta, perché la gente preferisce uscire per farsi un hot dog o qualcos’altro… Mentre so che tutto va bene se le uscite illuminate rimangono vuote. E’ il nostro modo di giudicare, il “silhouette factor”…»

Martin non si sente la “rockstar” del nuovo millennio: «Rockstar, non mi piace questa parola. E poi non indosso i pantaloni giusti per essere una rockstar». Il bassista Guy Berryman però è felice, come gli altri, che sia Martin a catturare tutta l’attenzione dei paparazzi, anche per il suo matrimonio con l’attrice Gwyneth Paltrow: «Non riuscirei mai a uscire di casa con tutti quei fotografi!» «E’ una benedizione stare in questa band senza essere il cantante», sorride Champion.

«Invece io», ribatte Martin, «sogno il momento in cui tu, Will, improvvisamente ci dirai: “Ho deciso di diventare uno sgargiante batterista omosessuale, mi metterò vestiti incredibili e dirò cose pazzesche”. Mi sarebbe veramente d’aiuto per alleggerire la pressione e conquistare un po’ di tranquillità».

Ne avrebbe bisogno, Martin, per evitare le scenate un po’ penose cui lui, gentleman britannico, talvolta si abbandona aggredendo i fotografi per strada. Di solito accade quando è con Gwyneth, e anche con ’60 Minutes’ quando si affronta l’argomento Paltrow si chiude a riccio: «Per certi giornali divorzieremmo ogni settimana, e la settimana dopo i Coldplay si scioglierebbero. Come diceva Bob Dylan: “Sono contento che quello non sono io”».

Mauro Suttora

Wednesday, February 11, 2009

Mariella Bocciardo, cognata di Berlusconi

SCOVATA L’UNICA BERLUSCONA CHE LAVORA: MARIELLA BOCCIARDO, COGNATA DI SILVIO, STAKANOVISTA DEL PARLAMENTO (HA VOTATO 99,8% DELLE VOLTE) – “ERO PRODUTTRICE DELLE NEWS FININVEST. CON CARELLI, BOCCA, ZUCCONI... RICORDO CERTE NOTE SPESE”… (da dagospia.com)

PRESENTE! LA SUPERCOGNATA STRACCIA GLI ONOREVOLI FANNULLONI

Mauro Suttora per "Oggi"

11 febbraio 2009

La stakanovista della Camera mi fa accomodare su un divano nella Galleria dei Presidenti di Montecitorio. È il corridoio posteriore del palazzo, opposto al più mondano Transatlantico: l'entrata di servizio. Mariella Bocciardo, 59 anni, tranquilla signora milanese, deputata dal 2006, fino a un mese fa era conosciuta a Roma solo come la «cognata di Berlusconi» (prima moglie di Paolo, fratello di Silvio).

Ora però è stata pubblicata la classifica dei parlamentari più presenti alle votazioni, e lei risulta in testa con un incredibile 99,8 per cento. In otto mesi ha premuto il tasto 2.029 volte.
«Ma è un record che voglio migliorare», dice lei, che come tutte le donne lombarde è insoddisfatta fino al raggiungimento della perfezione. Mormora: «In realtà ho mancato cinque voti solo perché il sistema elettronico si era inceppato».

Due anni e mezzo fa, quando perlustrai il Transatlantico per scoprire le novità fra i nuovi eletti, la debuttante signora Bocciardo stazionava nel capannello delle donne di Forza Italia. Il cosiddetto «gruppo bella gnocca», come lo chiamavano con invidia i deputati di sinistra. In effetti, l'avvenenza delle varie Mara Carfagna, Fiorella Ceccacci Rubino, Gabriella Carlucci o Michaela Biancofiore contrastava col grigiore di tutto il resto. Ma la più matura «cognata» rifiutò la mia proposta d'intervista: «Non saprei cosa dirle, sono appena arrivata. Mi faccia acclimatare».

Adesso si sente preparata, per la prima volta parla con un giornale. E apre al nostro fotografo la sua casa di Milano Tre, dove posa sul divano con entrambe le figlie, Alessia (presidente di Pbf, la holding di famiglia che fra l'altro pubblica il quotidiano Il Giornale) e Luna (anche lei con ruoli di responsabilità nel gruppo), e i nipotini Jody e Davide, figli di Alessia.

Signora, le dà fastidio essere definita «la cognata»?
«Per carità, far parte della famiglia Berlusconi è un onore. Ma terrei a precisare che il mio impegno politico non è nato con l'elezione in Parlamento. Faccio la volontaria per Forza Italia da quando è stata fondata, nel ‘94. Anni e anni di lavoro, dal primo club a Milano Tre con Valentina Aprea alle provinciali di Milano del ‘99 con Paolo Romani, quando facemmo eleggere Ombretta Colli. Ora il nuovo coordinatore della Lombardia dopo Mariastella Gelmini, l'eurodeputato Guido Podestà, mi ha chiesto di diventare sua vice. Così sono tornata a passare tutti i miei sabati e domeniche fra la sede di Forza Italia in viale Monza, e riunioni in Lombardia».

Mai nessuna carica elettiva?
«No. Per me la politica è passione. Nel 2001 Silvio mi chiese: "Mariella, hai qualche aspirazione? Vuoi venire a Roma?". Io risposi: "Non mi sento pronta, preferisco rimanere nel partito. Aspettiamo ancora un po'».

E in questi due anni e mezzo a Roma, che cos'ha combinato?
«Il bilancio è assolutamente positivo. Mi piace molto l'attività nella commissione Affari sociali, perché è lì, più che in aula, che si affrontano e si cercano di risolvere i problemi concreti. Anche con l'opposizione il clima in commissione è diverso, più costruttivo. Faccio parte anche della bicamerale per l'infanzia. Dobbiamo prendere coscienza che la vita dei bambini oggi è a rischio».

Beh, non più di trent'anni fa...
«No, no, la situazione è peggiorata. Fra bambini abusati, rapiti, vittime di pedofili, l'infanzia oggi vive un disagio che scuola e famiglie non affrontano con la necessaria attenzione».

Signora, non vorrei toglierle la gioia per il record di presenze alle votazioni, ma le viene mai il sospetto che abbia ragione suo cognato Silvio? E cioè che alla Camera basterebbero trenta o quaranta deputati, perché gli altri passano il tempo a pigiare il bottone su questioni di cui non sanno niente?
«Guardi, non vedo nulla di squalificante nel "pigiare un bottone". Fa parte anche questo del mio lavoro, e trovo riduttivo pensare solo al momento del voto: il lavoro di un parlamentare non si esaurisce in aula. Come in tutte le cose, è la passione e la dedizione del singolo a fare la differenza».

Però ora la maggioranza ha cento voti in più, non c'è neanche il brivido del testa a testa.
«Veramente ogni voto è prezioso, perché fra deputati ministri, sottosegretari e in missione, ogni volta ci mancano una sessantina di persone».

E perché chi ha il doppio incarico non si dimette?
«Non lo chieda a me».

Com'è che non riuscite a diminuire i costi della politica?
«Il nostro sistema prevede due Camere che fanno le stesse cose. Quindi per risolvere il problema o tagliare i parlamentari, bisogna cambiare la Costituzione».

Per diminuire le auto blu no.
«Mah, a volte l'auto di servizio può anche servire. Certo l'uso andrebbe razionalizzato».

Quando ha visto Silvio l'ultima volta?
«A Natale, per gli auguri».

Avete parlato di politica?
«No. Per quello, lo sentirò al massimo due volte l'anno».

Niente filo diretto, quindi?
«Non ce n'è bisogno. La sintonia è totale».

Come sono i rapporti con i suoi colleghi di Forza Italia?
«Cordiali, con un briciolo di sana competizione».

Anche fra donne?
«A volte».

Con chi va d'accordo, nell'opposizione?
«Livia Turco, Paola Binetti».

Da quanti anni conosce Silvio Berlusconi?
«Da quando ho incontrato suo fratello, al liceo, verso il '63 o '64. Silvio era simpaticissimo già allora. Ho lavorato per lui quando vendevano le prime case a Brugherio e Milano Due. Poi sono arrivate le mie figlie e per un po' mi sono dedicata solo alla famiglia. Ricordo quando nacque Luna, alle cinque del mattino del 2 agosto 1975: Silvio venne in clinica a trovarmi già alle sette. È sempre stato molto premuroso».

Poi lei e suo marito vi siete separati.
«Sì, nell'82, ma i rapporti sono rimasti molto cordiali. E io ho ricominciato a lavorare in Fininvest».

Di cosa si occupava?
«Ero produttrice delle prime news, quando ancora non avevamo la diretta. C'erano Emilio Carelli oggi a Sky, Giorgio Bocca, Guglielmo Zucconi... Seguivo tutta la produzione, dalle riunioni di redazione alla trasmissione finita. Mi occupavo persino degli stipendi, e ricordo anche le note spese di certi giornalisti».

Per esempio?
«Uno chiese il rimborso addirittura di uno shampoo».

Chi?
«Non dico il peccatore».

Prima di Forza Italia per chi votava?
«Come mio padre, che stava per Malagodi: liberale. Ma seguivo poco la politica».

Che scuole ha fatto?
«Il liceo linguistico-umanistico di via Manin a Milano. Abitavamo in viale Zara, ero figlia unica. Amavo i libri francesi, i Beatles e De André. Poi mi sono iscritta a Lingue alla Cattolica. Ma mi sono sposata a 21 anni con Paolo, è nata Alessia e ho interrotto l'università».

Un colpo di testa. Cosa dissero in famiglia?
«Paolo ed io stavamo già insieme da tanti anni... La presero bene, anche se erano severi».

Dove vi siete conosciuti?
«Sotto casa, in bici. Lui andava dai salesiani, come il fratello».

Se lo immaginava allora che trent'anni dopo sarebbe finita in politica con Silvio?
«Beh, al liceo lessi "La Forza d'amare" di Martin Luther King. E oggi mi piace poter contribuire, nel mio piccolo, a diffondere certi valori».

Quali?
«Responsabilità, senso del dovere, onestà».

Mauro Suttora

Lucca: la disfida del kebab

La città di Puccini vieta i ristoranti etnici dentro al centro storico: nel mirino quattro paninerie turche. Razzismo culinario?

Lucca, 4 febbraio 2009

dall'inviato Mauro Suttora

«Non sono ammessi nuovi esercizi di etnie diverse». Maledette quelle due paroline, etnie diverse, altrimenti del nuovo regolamento per i ristoranti di Lucca non si sarebbe accorto nessuno. Se avesse scritto «fast food», non sarebbero piovute accuse di razzismo da tutto il mondo sul povero Mauro Favilla, 75 anni, eterno sindaco prima dc (nel 1972!) e oggi pdl. Perché arrivando in questa perla della Toscana pensavamo di trovarla devastata da pizzerie al taglio, pub rumorosi o ristoranti cinesi come certe zone turistiche di Roma e Firenze. Invece l’oggetto del contendere sono solo quattro piccole rivendite di kebab turco.

«Prima ha aperto quella di via Elisa», ci dice Hayri Gok, 30 anni, di Varto (Turchia), «poi sono arrivato io nel 2007. E dopo hanno aperto quelle di San Paolino e corso Garibaldi».
Un successone: attirati dal prezzo (tre euro per un pasto completo di carne e verdura), studenti, giovani turisti e immigrati affollano i locali. E per Lucca si profila l’incubo Pisa, dove i kebab ora sono sedici.

Invidia, protezionismo? «Beh, i kebab non rappresentano certo una minaccia per noi», assicura magnanimo Giuliano Pacini, 67 anni, proprietario del ristorante più antico di Lucca (aperto dal 1782), la Buca di Sant’Antonio. «Quel regolamento c’era già, ed servito per impedire a McDonald’s di installarsi in centro. Lo hanno messo in periferia. Ma i take-away non sono in concorrenza con i ristoranti della cucina tipica. Il Comune vuole solo far mantenere un certo stile, un decoro… Lucca era famosa come la città del “garbo”».

E oggi ai lucchesi non «garba» l’invasione del turismo «basso», quello del «mordi e fuggi», dei grupponi scaricati dalle corriere che arrivano al mattino, parcheggiano fuori dalle mura, percorrono via San Paolino e visitano in poche ore le stupende piazze e chiese del centro.

Poi ci sono gli immigrati. Quando arriviamo nella kebabberia di San Paolino, proprio di fronte alla chiesa, la troviamo piena di albanesi che vengono sfamati da pakistani che lavorano per una catena tedesca di cibo turco. Infatti i kebab (porchetta di bovino) sono penetrati in Europa grazie alla folta colonia dei turchi di Germania. E da lì stanno invadendo l’Italia.

Anche Gok viveva in Germania fino a cinque anni fa. Ha aperto il suo Mesopotamia proprio in centro, nel “chiasso” (vicolo) Barletti, all’angolo con via Fillungo (la via Condotti o Montenapoleone di Lucca). Scandalo! E per di più lo tiene aperto dal mattino fino a mezzanotte sette giorni su sette grazie al cognato e alla moglie. Lavorano come bestie, e così riescono a tenere i prezzi bassi. Lì vicino con tre euro si compra solo una fettina di pizza al taglio sottile come la carta.

«Mi hanno dato una multa di 370 euro per il cartello pubblicitario che ho messo sul marciapiede», si lamenta Gok. Perché non chiedi il permesso di occupazione del suolo pubblico? «L’ho chiesto, non me lo danno».
Lo sai che il nuovo regolamento impone a tutti i ristoranti anche «almeno un piatto tipico lucchese»?
«E quali sono?»
Farro, ceci…
«Ah, bene, i ceci già li metto nel falafel».
E poi il comma E dell’articolo 7 richiede che i camerieri sappiano l’inglese…
«Perfetto: io oltre all’inglese e all’italiano parlo anche turco e tedesco».

«Bisogna stare molto attenti quando si prendono certe iniziative di tutela della “tradizione”: io sento puzza di razzismo», commenta con Oggi Graziano Cioni, l’assessore-sceriffo di Firenze famoso perché vietò i lavavetri ai semafori. Cioni è di sinistra, il sindaco di Lucca di destra: la polemica è facile. «Ma dov’era la sinistra quando il regolamento è stato approvato prima in commissione e poi in consiglio comunale?», chiede il sindaco Favilla. «Allora non ci accusarono di razzismo, e non hanno neppure votato contro: si sono astenuti».

Gli elettori di centrodestra difendono il nuovo regolamento: «Ci voleva, i fast food non possono moltiplicarsi indiscriminatamente. Di fronte a quei kebab la sera c’è disordine, sporcano per terra, lasciano cartacce, disturbano con schiamazzi», dice la signora Simonetta V., dipendente comunale.
«Il sindaco è vecchio, vorrebbe che mangiassimo tutti farro», ribatte Alessandro Fantozzi, 22 anni, lucchese che studia Scienze politiche a Pisa. Aggiunge il suo amico Alessandro Solinas, 23, studente a Bologna: «Dove si può pranzare con tre euro a Lucca?»

La statua seduta di Giacomo Puccini, il lucchese più famoso, osserva muta sotto la sua casa natale. Lucca ne ha appena festeggiato il 150° della nascita, e per attirare turisti d’estate organizza anche concerti rock in piazza Napoleone (Leonard Cohen lo scorso luglio). Però qui il turismo resta d’élite, i miliardari inglesi hanno comprato le ville della Lucchesia.

«Anche a Pistoia hanno proibito i ristoranti “di culture diverse da quella locale”», insiste il sindaco. Ma solo in una piccola zona, quella della piazza della Sala. Invece lo stupendo centro storico di Lucca è enorme, due chilometri: come quello di Milano. Troppo, per andare a farsi un kebab fuori dalle mura.

Mauro Suttora

Wednesday, January 28, 2009

parla Ari Folman

VALZER CON HAMAS

«Le guerre non servono a niente, neanche questa di Gaza», dice il regista israeliano di Valzer con Bashir, film antimilitarista candidato all'Oscar

Oggi, 28 gennaio 2008

di Mauro Suttora

«Le guerre non servono mai a niente: non c'è alcuna gloria nelle armi, non si diventa eroi. Niente di buono può avvenire in una guerra. Anche questa di Gaza è stata inutile. A quando la prossima? Quanto durerà la tregua?»

Ari Folman, 45 anni, israeliano, è il regista del film d'animazione Valzer con Bashir. Probabilmente fra un mese vincerà il premio Oscar per il migliore film straniero, che molti in Italia speravano andasse al nostro Gomorra tratto dal libro di Roberto Saviano. Ma in fondo sono entrambi film «nonviolenti»: denunciano l'assurdità della violenza, mostrandola.

Valzer con Bashir ha già vinto il Golden Globe, il premio più prestigioso dopo l'Oscar. E ha trionfato all'ultimo festival di Cannes. Racconta la prima guerra del Libano, quella del 1982, in cui combattè anche il diciottenne Folman. Gli israeliani invasero Beirut, ne cacciarono i guerriglieri palestinesi dell'Olp, e non mossero un dito quando i cristiani maroniti libanesi sterminarono tremila palestinesi (fra cui molte donne e bambini) nei campi profughi di Sabra e Chatila.

«Sono passati quasi trent'anni, ma oggi a Gaza siamo daccapo», ci dice Folman, al telefono dagli Stati Uniti.

«L'unica differenza è che allora noi israeliani peccammo per "omissione", perché non fermammo le bande cristiane. Mentre ora abbiamo combattuto direttamente. Ma è sempre guerra. Con tutti i suoi falsi miti: il coraggio, il fascino dei "duri", l'illusione del "quando ci vuole ci vuole". Lo slogan ufficiale di questa nostra guerra è "enough is enough"...»

Che in Italiano si può tradurre «ne abbiamo abbastanza», mister Folman. I suoi compatrioti erano stufi di fare da bersaglio per i missili dei terroristi di Hamas, lanciati da Gaza. Non condivide la loro esasperazione?

«Certo. Ma la gente si divide fra quelli che cercano di affermare le proprie ragioni con la violenza, e quelli che usano altri mezzi. Purtroppo oggi nella mia regione - Israele, Palestina, Medio Oriente - la maggioranza delle persone ha fiducia nella violenza. E i violenti trovano sempre una giustificazione per le loro azioni: la politica, la religione, la razza, i confini, la sicurezza...»

Insomma, lei è un antimilitarista integrale. Ma la guerra contro Hitler? E quelle degli israeliani che si difendevano dagli attacchi di tutti i Paesi arabi?

«Non ho visto nessuna guerra, dopo il 1945, che non potesse essere evitata. E dopo quella dei Sei giorni nel 1967, anche dalle mie parti non è stato fatto abbastanza per prevenire i conflitti».

Ma i governi israeliano e palestinese sono in perenne trattativa.

«Guardi, due anni fa stavo finendo di montare il mio film. Era l'estate 2006 e scoppiò la seconda guerra in Libano, fra Israele ed Hezbollah. Pensai: "Peccato che il film non sia pronto, uscirebbe proprio al momento giusto". Poi mi consolai pensando che sarebbe rimasto sempre attuale. Avrei voluto sbagliarmi, invece ho avuto ragione».

Nel suo film appare Ariel Sharon: nell'82 era il generale che comandava gli israeliani. Fu condannato per avere permesso la strage di Sabra e Chatila. Però vent'anni dopo, da premier, ha costretto i coloni israeliani a ritirarsi da Gaza. I politici cambiano e si cambiano, lei non vede speranza?

«I politici giocano alla guerra contando i morti con freddezza, come in una partita a scacchi. Da una parte e dall'altra, per loro lanciare missili o bombardare è facile. Non hanno pietà per la sofferenza, non rispettano la vita umana, sono privi di morale. La mia canzone preferita è Signori della guerra di Bob Dylan. Volevo metterla nel film, ma era superfluo. Dice: «Voi, politici, fabbricanti e commercianti d'armi, preparate i grilletti che altri premeranno. Vi nascondete dietro a pareti e scrivanie, non siete voi a sparare. Ma vi vedo attraverso le vostre maschere...»

Perché lei non si rifiutò di combattere, nell'82?

«Per tutti i diciottenni israeliani è normale diventare soldati. Tre anni di servizio militare. E poi richiami ogni anno anche in tempo di pace. In Israele la gente si divide in due: quelli che hanno combattuto, e quelli che non lo hanno fatto. Se sei un buon cittadino lo fai, è automatico. Per questo il mio film è stato accolto così bene dall'establishment: perché in fondo sono uno di loro».

Beh, se al governo ci fosse stata la destra di Benjamin Netaniahu invece del centrosinistra di Tzipi Livni e dei laburisti, forse qualche problema lo avrebbe avuto.

«Quando si tratta dell’esercito non c’è molta differenza fra destra e sinistra, in Israele. Eppure le istituzioni non solo non mi hanno ostacolato, ma hanno pagato per mandare il film in giro per il mondo, candidandomi all'Oscar. In fondo, però, il mio non è un film politico: mostro soltanto la prospettiva e lo straniamento del singolo soldato israeliano. E metto in chiaro che la responsabilità diretta del massacro di Sabra e Chatila non è nostra, ma dei cristiani maroniti che volevano vendicare l'assassinio del loro candidato presidente Bashir Gemayel. Di qui il titolo».

Israele e Palestina riusciranno a convivere in pace, un giorno?

«Certo. Tutti lo sanno che prima o poi accadrà. Lo vuole la grande maggioranza della gente, da entrambe le parti. Perché tutti alla fine vogliono vivere tranquilli, guadagnare bene, pagare meno tasse e farsi una vacanza all’estero. Non vogliono vivere militarizzati».

Ma è da sessant’anni che dura, questo conflitto.

«Cioè niente, per i tempi della storia. Io ho realizzato il mio film con produttori tedeschi. Eppure tutta la mia famiglia è stata sterminata nell’Olocausto. Unici sopravvissuti: i miei genitori. Sono stato al festival del cinema di Sarajevo. Solo tredici anni fa si massacravano. Ora vivono in pace. Si può fare».

Mauro Suttora

L'Uomo nero di Rignano Flaminio

DI SICURO C'E' SOLO CHE NON E' LUI

Intervista esclusiva al cingalese Kelum Weramuni, scagionato

di Mauro Suttora

Oggi, 28 gennaio 2008

No, non è lui l’Uomo Nero. Kelum Weramuni de Silva non è un pedofilo, non ha violentato i bambini di Rignano Flaminio (Roma), non ha mai conosciuto gli alunni e le maestre dell’asilo del paese. Una settimana fa è arrivato il decreto ufficiale d’archiviazione dalla procura di Tivoli.

Ma Kelum, 30 anni, due mesi fa è tornato nella sua patria, lo Sri Lanka: «Era da quattro anni che non vedevo la mia fidanzata Ishara, i miei genitori, la mia famiglia. In Italia non potevo più lavorare, non mi prendeva nessuno dopo quella storia. Ero tornato clandestino, avevo un decreto d’espulsione, dormivo da amici, loro mi aiutavano anche per mangiare. Ma non ce la facevo più. Sono tornato a casa. Però qui non c’è lavoro. Quindi spero di poter tornare presto in Italia»
.
Ha ancora voglia di stare nel nostro Paese, Kelum, nonostante l’incubo che gli è piombato addosso e che è durato più di un anno e mezzo. Il 24 aprile 2007 era stato arrestato assieme a tre maestre della scuola materna «Olga Rovere», una bidella e il marito di una di loro. Una gragnuola di accuse infamanti: violenza sessuale aggravata dalla minore età delle vittime, sequestro di persona, atti osceni, maltrattamenti, sottrazione di persona, corruzione di minori, atti contrari alla pubblica decenza.

Diciassette giorni di carcere a Rebibbia, poi l’interrogatorio e la scarcerazione. Ma l’inchiesta si è conclusa solo adesso, con tre archiviazioni (lui, la bidella, una maestra che non era finita in prigione) e quattro «avvisi di conclusione dell’indagine», con una possibile richiesta di rinvio a giudizio.

Kelum faceva il benzinaio nel paese di ottomila abitanti, 40 chilometri a nord di Roma. «Lavoravo lì dal settembre 2005», ci racconta, «ma non ho mai conosciuto nessuno di quella scuola. Anzi, non sapevo neppure dove fosse. Quando sono arrivato in commissariato mi hanno detto di cosa ero accusato, ma non capivo».

Venti bambini fra i quattro e i sei anni avevano raccontato ai genitori di essere stati portati più volte in una casa fuori dall’asilo, alla periferia del paese. Lì gli adulti li avrebbero sottoposti a giochi erotici di ogni tipo, con maschere, carezze, toccamenti e penetrazioni con piccoli oggetti. La cosa sarebbe andata avanti da anni: le prime denunce dei genitori sono del 2006.

«Gli avvocati mi hanno spiegato che due bambini su venti mi avrebbero “riconosciuto”. Una bimba, mentre era in auto con i suoi che si erano fermati a far benzina, disse che io ero Maurizio, facevo i giochi della scuola con loro, mi mascheravo da scoiattolo. E un altro era scoppiato a piangere dopo che io gli feci una smorfia per scherzo. Diceva che io ero Giovanni, l’Uomo nero con il codino che li aspettava in auto e li portava a casa di una maestra».
Due bambini su venti. Ma le loro testimonianze sono bastate per incastrare Kelum, unico uomo dalla pelle nera nei dintorni.

«Nell’interrogatorio spiegai al giudice che non ho la patente e non ho mai guidato. Lavoravo dalle sette del mattino alle otto di sera, ero sempre lì alla pompa, tutti mi vedevano. Nella pausa di chiusura, dall’una alle tre, andavo a pranzo lì vicino, a casa di altri cingalesi. Potevano testimoniare tutti, anche il mio padrone».

Gli avvocati Ettore Iacobone e Domenico Naccari assistevano Kelum da tempo: il permesso di soggiorno gli era scaduto, aveva ricevuto un decreto di espulsione, ma il suo datore di lavoro aveva fatto domanda di regolarizzazione. Aspettava la sanatoria. Invece, è finito in prigione.

Il caso ha fatto un enorme clamore non solo per le accuse di pedofilia collettiva da parte di maestre in un asilo, ma anche perché il paese di Rignano si è spaccato in due, fra colpevolisti (le famiglie dei bambini) e innocentisti (parenti e amici degli accusati). Ci fu perfino una dimostrazione di questi ultimi sotto Rebibbia per chiedere la scarcerazione.

I presunti «orchi» di solito non vengono trattati bene dagli altri carcerati.
«Ma io non ho avuto problemi in quei diciassette giorni, tutti mi credevano», dice Kelum. che è buddista e ha un carattere assai mite. Anche adesso, al telefono da Ceylon, più che la rabbia sembrano trasparire sorpresa e rassegnazione.

«Non sono mai riuscito a capire perché quei due bambini mi hanno accusato. I carabinieri sono anche venuti a sequestrare un computer nella casa dove dormivo, non so cosa cercavano, ma non hanno trovato niente. Io sono sempre stato tranquillo, perché non avevo nulla da nascondere».

La sua famiglia in Sri Lanka ha saputo qualcosa?

«Certo, i miei amici hanno telefonato qui a casa raccontando quello che era successo. Ma la mia fidanzata mi conosce da quando avevamo quindici anni, nessuno ha creduto a niente. Anche perché di solito sono gli occidentali che vengono qui in Sri Lanka per fare certe cose con i bambini».

Ma davvero vuoi tornare in Italia dopo questa disavventura?

«Prima di emigrare in Europa lavoravo in un albergo qui vicino a Colombo. Ma adesso c’è crisi nel turismo, non c’è lavoro. Ero emigrato in Germania, però dopo un mese ho preferito l’Italia. Quando mi hanno liberato dal carcere mi hanno subito portato in un Cpt, un Centro di permanenza temporaneo, per espellermi. Ma i miei avvocati hanno fatto ricorso, e sono rimasto. Ho lavorato da un dentista a Morlupo, poi però non mi ha preso più nessuno. Con quelle accuse, quale famiglia ti vuole come domestico? Eppure mi sembrava che il giudice mi avesse creduto, infatti non mi ha dato neppure il divieto d’espatrio. Ora voglio solo tornare».

Mauro Suttora

Monday, January 26, 2009

Mercedes Bresso, Eugenia Roccella

Tutti gli ex radicali delle sponde opposte

di Mauro Suttora

Libero, sabato 24 gennaio 2009

E pensare che si chiama come la Madonna. Mercedes Bresso, 64 anni, la governatrice del Piemonte che sul caso di Eluana Englaro ha dato dell’«ayatollah» all’arcivescovo di Torino, deve il proprio nome alla mamma, devota della chiesa Vergine della Mercede a Sanremo.

Diventata leader dei laici italiani, la Bresso è coerente con le proprie origini anticlericali. Infatti, prima che il Pci la eleggesse nel 1985 consigliere regionale piemontese, era dirigente radicale. Fece parte della segreteria nazionale nel ’75, anno caldo delle lotte sull’aborto, quando Emma Bonino finì in carcere.

Curiosamente, quello stesso posto di dirigente del partito di Marco Pannella lo occupò nell’81 (anno del doppio referendum sull’aborto) pure Eugenia Roccella, oggi sottosegretario al welfare e vicinissima al Vaticano, ma allora accesa femminista. Segretario radicale era in quegli anni un 27enne Francesco Rutelli, anch’egli irriconoscibile rispetto a oggi.

Ex pannelliani, insomma, occupano posti opposti in palcoscenico nella disputa sul diritto alla vita. Ma la diaspora radicale coinvolge molti altri nomi noti della politica italiana, alcuni dei quali sorprendenti.

Giorgio Stracquadanio, per esempio. Il 49enne ghost writer e spin doctor di Silvio nonché consigliere di Maria Stella Gelmini potrebbe passare da deputato a sottosegretario alla presidenza del Consiglio se il portavoce Paolo Bonaiuti fosse promosso viceministro. A Milano Stracquadanio era attivo radicale negli anni ’80, e portaborse dell’allora antiproibizionista Tiziana Maiolo assessore comunale nel ’90.

Anche l’ex presidente del Senato Marcello Pera può essere catalogato come ex radicale (dal ’92 al ’94), così come il ministro Elio Vito (portaborse del consigliere comunale Pannella a Napoli negli anni ’80, poi deputato) e il vicepresidente dei senatori Pdl Gaetano Quagliariello (vicesegretario nell’81 con Rutelli).

Fra i deputati c’è il rutelliano Roberto Giachetti, mentre nel centrodestra spiccano Benedetto Della Vedova e Giuseppe Calderisi (autore del progetto di nuova legge elettorale per le imminenti europee). Fuori dal Parlamento ma vicino al cuore di Silvio sta Daniele Capezzone, segretario radicale fino a due anni fa e ora portavoce di Forza Italia.

Stefano Rodotà lasciò i radicali per il Pci nel ’79 perché Pannella non gli garantì l'elezione. In quegli stessi anni scalpitava fra i radicali salernitani Alfonso Pecoraro Scanio.

Sono stati candidati della Rosa nel pugno Gianni Vattimo, Barbara Alberti, Fernanda Pivano, Luca Boneschi (oggi avvocato dei giornalisti milanesi), Giorgio Albertazzi, Salvatore Samperi, Tinto Brass, Riccardo Chiaberge (direttore del supplemento domenicale del Sole 24 Ore), Massimo Alberizzi (inviato "africano" del Corsera) e il costituzionalista Michele Ainis.

Gli editorialisti Angelo Panebianco (Corsera), Massimo Teodori (Giornale) e Piero Ignazi (Sole ed Espresso) sono ex radicali. Perfino Eugenio Scalfari è stato vicesegretario nazionale del Pr prima di Pannella e consigliere comunale a Milano nel '60 (quando l’attore Arnoldo Foà fu eletto a Roma).

Ma lista dei giornalisti politici ex radicali è sterminata: Lino Jannuzzi (direttore di Radio radicale fino all’81), Paolo Liguori, il notista politico del Tg1 Bruno Luverà, Marco Taradash (inventore delle rassegne stampa radiofoniche), Daniele Bellasio e Christian Rocca del Foglio, Laura Cesaretti (Giornale e Velino), Vittorio Pezzuto (ex segretario nazionale dei club Pannella negli anni ’90, oggi portavoce di Renato Brunetta), Stefano Andreani (cronista parlamentare di Radio radicale, poi potente capo di gabinetto di Andreotti nell'era Caf, ora dirigente Invitalia – la ex agenzia Sviluppo), Roberto Iezzi (ufficio stampa Camera).

Carlo Romeo, oggi capo del "segretariato sociale" Rai, è stato fino al ’95 direttore del mitico tg radicale di Teleroma 56, da cui passarono Mauro Mazza, Michele Plastino, Gianni Cerqueti, Giancarlo Dotto, Fabio Caressa, Paola Rivetta... Infine Iuri Maria Prado, commentatore di Libero: pure lui pannelliano fino al 2006, quando i radicali (ri)svoltarono a sinistra.

Mauro Suttora

Friday, January 23, 2009

Time e Newsweek

I neswsmagazine Usa crollano nelle vendite: troppo radical chic

Libero, venerdì 23 gennaio 2009

di Mauro Suttora

Time e Newsweek sono crollati. I due settimanali statunitensi vendono in edicola 96mila copie il primo e 83mila il secondo, contro le 163mila e 147mila del 2004. Meno 40% in quattro anni. Come se Panorama ed Espresso annaspassero a 16-20 mila copie, in proporzione agli abitanti (gli americani sono cinque volte gli italiani).

Anche per gli abbonati è un disastro. Solo due anni fa Time ne aveva quattro milioni, Newsweek 3,1. Ora il primo è sceso a 3,2 e l'altro a 2,6. Ma entrambi potrebbero tagliare drammaticamente la «circolazione garantita» ai pubblicitari, fino a scendere a un milione di copie.

Agli abbonati, infatti, i newsmagazines vengono regalati. Un anno per venti euro: 27 cent a copia. E’ lo stesso prezzo proposto agli abbonati italiani: tre anni per 59 euro. Non coprono neppure i costi di carta e inchiostro. Questo perché è dalla pubblicità che vengono i soldi veri. Ma se la «bolla» pubblicitaria scoppia, il bluff salta.

Il terzo settimanale politico americano, U.S. News & World Report, è stato chiuso tre settimane fa. L’unico che va bene è l’inglese Economist, la cui edizione Usa aumenta del 20% annuo: 500mila copie nel 2006, 600mila nel 2007, 700mila l’anno scorso.

«Anche noi probabilmente diventeremo settimanali d’opinione come l’Economist, con un lettorato più ristretto ma d’élite», mormorano all’unisono Rick Stengel, 53 anni, direttore di Time, e Jon Meacham, 40, di Newsweek. Guidano i loro giornali entrambi da appena due anni, chiamati a bloccare l’emorragia. I giornalisti interni sono 200 a testata: la metà di dieci anni fa
.
Time ha cambiato il giorno d’uscita, dal lunedì al venerdì. Newsweek ha dedicato la metà delle sue copertine 2008 alla politica (due a Michelle Obama). Entrambi pubblicano sempre più opinioni e sempre meno notizie. Bye bye “news”magazines, quindi: ai loro sofisticati lettori ormai le news arrivano da internet, tv e quotidiani.

Ma è proprio la linea politica il principale problema dei due settimanali. Entrambi, infatti, stanno s(t)olidamente a sinistra. E non potrebbe essere altrimenti, per due giornali ideati nel centro di Manhattan, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro: l’unica differenza è che il grattacielo di Newsweek ha la vista su Central Park, mentre la redazione di Time dà sul fiume Hudson. Antropologicamente radical-chic.

Troppo liberal, come la città di New York dove l’80% vota democratico. Time ha cercato di togliersi di dosso la patina fighetta dando spazio al commentatore neocon Bill Kristol. Ma è durato poco. Newsweek è riuscita a pubblicare una copertina pro matrimonio gay dopo che perfino la libertaria California l’ha bocciato.

Restano alcune isole d’eccellenza come le column di Fareed Zakaria (Newsweek), il miglior commentatore (kissingeriano) di politica estera oggi negli Usa: lavora anche per la concorrenza con il suo programma Gps alla tv Cnn del gruppo Time Warner (sul canale 516 di Sky Italia, ogni domenica alle 14 e 21). Ma da destra il liberista Economist morde la prosopopea dei due ex colossi, troppo uguali fra loro.

Mauro Suttora

Tuesday, January 20, 2009

Obama: gli speechwriter ricordano

GRANDE ATTESA PER IL DISCORSO DI BARACK
Roosevelt e Lincoln i più bravi della storia

Libero, 20 gennaio 2008

di Mauro Suttora

Peccato che qualche logorroico politico italiano non abbia fatto la stessa fine del presidente Usa William Harrison. Eletto nel 1841, pronunciò un discorso inaugurale molto lungo: due ore. E poiché gli inverni a Washington sono assai rigidi, trenta giorni dopo morì di polmonite fulminante.

Sono previsti meno cinque gradi centigradi oggi nella capitale americana, quindi i due milioni di convenuti sperano che Obama sia sintetico. La prima versione del suo discorso era già pronta una settimana fa, scritta dal geniale speechwriter Jon Favreau. L’inventore dello slogan «Yes we can» è un timido 27enne del Massachusetts laureato dai gesuiti. Si fece conoscere da Obama nel 2004, segnalandogli un errore sul «gobbo» del discorso per la Convention democratica. Ora lo segue in tutti i suoi spostamenti, tenendo in mano il Blackberry per aggiungere, togliere e limare le dichiarazioni ufficiali in ogni momento.

«Lessi i discorsi inaugurali di tutti i presidenti Usa nel 1961, mentre preparavo quello di John Kennedy», ricorda Ted Sorensen, oggi 80enne, «e onestamente, a parte Lincoln e Roosevelt, gli altri erano modesti». Sorensen invece è riuscito a passare alla storia per la famosa frase kennediana: «Non domandarti quel che può fare il tuo Paese per te, ma ciò che tu puoi fare per il tuo Paese».

L’altro gran comunicatore del ’900 è stato Ronald Reagan. La sua ghostwriter, Peggy Noonan, 58 anni, è una dei non pochi repubblicani oggi infatuati di Obama. Ma il discorso del debutto reaganiano nell’81 contiene il famoso slogan liberista: «Il governo non è la soluzione del problema, è “il” problema».
Nell’86, dopo l’esplosione dello shuttle Challenger, Reagan la chiamò e lei gli scrisse un discorso in un’ora, con frasi memorabili tratte da una poesia che aveva imparato a sette anni. E due anni più tardi coniò per il presidente Bush senior la promessa: «Guardate le mie labbra: niente nuove tasse». Gli fece così vincere l’elezione, ma perdere quella del ’92 quando Bill Clinton gli rinfacciò l’impegno mancato.

«La sola cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa»: così Franklin Roosevelt nel ’33 cercò di galvanizzare gli statunitensi, colpiti allora come oggi dalla crisi economica.

Ma anche il povero Bush junior, nonostante oggi nessuno lo rimpianga, può andar fiero di una frase scintillante del 2004: «L’unica forza che può spezzare il regno dell’odio e del risentimento, denudando le pretese dei tiranni e ricompensando le speranze degli onesti, è la forza della libertà umana».

Hendrik Hertzberg scriveva i discorsi di Jimmy Carter, che è passato alla storia per la sua tendenza all’autoflagellazione: tutti i mali del mondo erano colpa degli Stati Uniti. «Aveva uno spirito religioso che privilegiava la predica», ricorda Hertzberg, «le sue diagnosi erano anche giuste, ma un politico deve annunciare soluzioni».

Ci riuscirà oggi Obama, in un’America dove i disoccupati stanno aumentando di mezzo milione al mese? «Il discorso politico più ottimista del secolo scorso in fondo è stato quello in cui Churchill promise agli inglesi sangue, sudore e lacrime», dice John O’Sullivan, scrittore per Margaret Thatcher, «perché subito dopo aggiunse: “Andremo avanti fino alla vittoria finale”. La seconda frase fu credibile solo perché veniva dopo la prima».

«Il primo discorso da presidente di Nixon nel ’69 cadde in un momento in cui gli Stati Uniti erano divisi come oggi a causa della guerra in Vietnam», ricorda l’autore, Pat Buchanan. «Nel ’73 invece fu molto più facile: c’erano l’apertura alla Cina, la distensione con l’Urss e la fine della guerra. Nixon chiese una traccia a Kissinger, ma la rimaneggiò a tal punto che alla fine non ne rimase neppure una parola...»

«Il discorso d’inaugurazione è la prima e ultima occasione che un presidente degli Stati Uniti ha per dire che le cose vanno male», avverte Peggy Noonan. «Lo può fare soltanto all’inizio del suo primo mandato. Passati cento giorni, è lecito rispondergli: “Ehi, brutto scemo, ormai comandi tu. Quindi è colpa tua!...»

Thursday, January 08, 2009

Renzo Lusetti, il "vicepiacione"

Bello come il suo capo Francesco Rutelli, il deputato del pd indagato per i favori al faccendiere napoletano Romeo piace perfino a Berlusconi, che lo voleva arruolare. E si consola con la neomoglie in questo suo superattico romano

Oggi, 31 dicembre 2008

Perfino Silvio Berlusconi si era innamorato della sua bella faccia telegenica con sorriso permanente, e l’aveva invitato due volte ad Arcore nove anni fa per offrirgli un posto da dirigente di Forza Italia. Renzo Lusetti aveva appena stracciato la tessera dei popolari contro la segreteria Castagnetti, e la tentazione di passare con l’avversario fu forte. Ma alla fine rimase nel partito che lo aveva incoronato principe già ventenne, quando Ciriaco De Mita lo fece capo dei giovani democristiani.

A Roma era soprannominato «vicepiacione» da quando il «piacione» in carica, Francesco Rutelli, lo tirò fuori dalle secche di Tangentopoli imbarcandolo come assessore al comune di Roma di cui era sindaco. Fu in quel periodo, metà anni Novanta, che Lusetti conobbe il faccendiere napoletano Alfredo Romeo che ora lo ha inguaiato assieme al deputato Pdl Italo Bocchino: il faccendiere napoletano gestiva le case comunali.

Lo scorso maggio Lusetti si è sposato in seconde nozze con Vira Carbone, 39enne conduttrice Rai. Cerimonia civile nella chiesa sconsacrata di Caracalla finita su Cafonal del sito Dagospia, e ricevimento all’Hilton. Testimoni: Maria Grazia Cucinotta e Dario Franceschini. Molti gli invidiano la casa a due piani sulle pendici di Monte Mario, attico e superattico con entrata indipendente, vista sulla città, terrazze, boiseries, un lussuoso scalone di legno circolare che porta alla zona letto. «Vale tre miliardi», sussurrano gli ospiti. «Ma è di mio suocero, è intestata a lui e a mia moglie», precisa Lusetti a Oggi.

La signora Carbone Lusetti appare su Raiuno ogni weekend di primo mattino, nel programma Sabato, domenica &. Ed era in prima fila alla presentazione dell’ultimo libro di Bruno Vespa. Gran cerimoniere: Berlusconi. Il feeling trasversale continua.

Wednesday, December 24, 2008

La Casta costa

Bella riforma! Adesso i partiti sono 66. E noi li paghiamo tutti...

Il finanziamento statale, abolito col 90% di no, è resuscitato. Fa sopravvivere decine di formazioni fantasma. E giornali, di destra e sinistra, che ci costano mille euro a copia

di Mauro Suttora

Oggi, 24 dicembre 2008

Il più simpatico è l’insegnante di ginnastica torinese Maurizio Lupi (solo omonimo del vicepresidente della Camera). Con appena 124 preferenze è riuscito a farsi eleggere consigliere regionale nel 2005 in Piemonte. Un burlone: il suo partito si chiama Verdi-verdi per distinguersi da quelli veri, giudicati troppo a sinistra («Verdi rossi»). La sua «Ambienta-lista per Ghigo» (il candidato del centrodestra) prese appena l’1,2% dei voti.
Eppure è stato eletto, e oltre allo stipendio mensile di 10.500 euro ora incassa 43mila euro l’anno come rimborso delle spese elettorali per il partito Verdi-verdi. Iscritti: nessuno. Insomma, l’elezione per il fortunato Lupi significa un affare da 845mila euro in cinque anni: ognuno dei suoi 124 elettori gli ha regalato quasi settemila euro. Record mondiale probabilmente, roba da Guinness.

Vita da Casta. Tutto regolare, per carità: dal 2005, anche i partiti che si presentano in una sola regione hanno diritto al finanziamento pubblico. Che era stato abolito a furor di popolo dal referendum radicale del ‘93 (90% di no), ma è stato resuscitato e ribattezzato pudicamente «rimborso elettorale». Quindi il buon Lupi non ruba niente.

Ricordate il libro La Casta, di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella? E’ stato pubblicato solo un anno e mezzo fa, ma sembra passato un secolo. Suscitò fiumi d’indignazione, ha venduto un milione e 260mila copie. Ora la Rizzoli lo ripropone in edizione economica. Gli autori hanno aggiunto un capitolo, per capire se nel frattempo qualcosa è cambiato, se qualche spreco dei politici è diminuito. Niente: «Che fine hanno fatto le promesse lanciate per placare il grande fuoco purificatore? Chissenefrega, ormai le elezioni sono passate», accusano Rizzo e Stella.

I senatori ds Cesare Salvi e Massimo Villone tre anni fa denunciarono nel libro Il costo della democrazia i quattro miliardi annui spesi per mantenere mezzo milione di persone, fra politici di mestiere e consulenti. Non sono stati rieletti: la Casta espelle chi propone autoriforme. Sordina anche sul rumoroso fenomeno di Beppe Grillo, dopo la bocciatura dei suoi referendum.

Il problema però rimane. Soprattutto in questi tempi di crisi economica. Anche i politici stringono la cinghia? Macché. Nella pagina accanto pubblichiamo l’incredibile l’elenco dei 66 partiti che si sono spartiti il finanziamento pubblico nel 2007, con accanto la cifra incassata. La cifra vera: un quarto di miliardo, compresi i soldi per gli «organi di partito». Giornali, radio, tv: 57 milioni all’anno per testate assistite. Come il Secolo d’Italia di Alleanza Nazionale: vende solo tremila copie in edicola ma incassa dallo Stato tre milioni di euro. Il conto è presto fatto: ogni acquirente del Secolo costa mille euro ai contribuenti.

Ma è così per tutti, anche a sinistra: L’Unità incassa 6,5 milioni, e i Ds riescono a rimpinguare di parecchio i «rimborsi» elettorali (34 milioni) con i media: oltre al quotidiano prendono 1,9 milioni per radio Città Futura di Roma e 300mila euro per radio Galileo di Terni. Da quando poi la legge Gasparri concede soldi per tv satellitari di partito è iniziata la corsa alla nuova mammella di Stato: 4,2 milioni l’anno per l’ex Nessuno Tv (canale Sky 890), diventata dal 4 novembre la dalemiana Red. La corrente concorrente dei veltroniani non ha voluto essere da meno, e così ecco Youdem, su Sky 813. Totale per i Ds: 47 milioni.

Ds e Margherita si sono fusi nel Partito democratico, ma così non hanno fatto i loro giornali. Quindi il quotidiano Europa continua a percepire 3,6 milioni annui. Vende 1300 copie in edicola (2.769 euro a copia, quindi).
Ma anche i singoli deputati Pd sono preziosi, se hanno un partito personale. Così la tv Libera (Sky 924) si fa sponsorizzare dal partito Democrazia Europea di Sergio D’Antoni per ricevere 2,4 milioni. La sede del partito personale dell’ex segretario Cisl è in corso Vittorio Emanuele 326 a Roma. D’Antoni aveva fatto confluire Democrazia Europea nell’Udc nel 2002, ma poi è passato al centrosinistra. Il suo partito ha ricevuto 41mila euro nel 2007, redige regolare bilancio, paga 17mila euro per un dipendente. Ma cosa fa? «Non partecipiamo direttamente alle elezioni, però abbiamo organizzato iniziative e incontri per promuovere le politiche sociali nel Sud», assicura D’Antoni, che è appunto il responsabile delle politiche del Mezzogiorno nel Pd.

Il vero artista del contributo pubblico, però, è Gianfranco Rotondi. L’amabile ministro avellinese per l’Attuazione del programma (carica di per sè surreale), segretario di quel che resta della Democrazia cristiana, ha incassato 51mila euro di rimborsi e 10mila direttamente da Forza Italia in cambio dell’appoggio a Silvio Berlusconi. Ma sono briciole. La vera polpa sta negli «organi» di partito, ben due quotidiani: La Discussione, il glorioso giornale fondato da Alcide De Gasperi che piglia 2,3 milioni di euro, e Balena Bianca (300mila).

Forza Italia incassa 46 milioni. Ma nel 2007 ha distribuito soldi a vari partitini confluiti nel Popolo delle Libertà, oltre alla Dc di Rotondi: 430mila euro ad Azione Sociale di Alessandra Mussolini, un milione a Italiani nel Mondo dell’ex dipietrista napoletano Sergio De Gregorio, 100mila ai Riformatori Liberali (ex radicali) di Benedetto Della Vedova, e perfino 15mila a Rinascita Socialdemocratica di Luigi Preti, 94 anni.

E l’estrema sinistra? Desaparecida, dopo il disastro delle ultime elezioni? Neanche per sogno. Gli ex della Sinistra Arcobaleno continuano a ricevere una valanga di soldi. Infatti alle politiche 2008 è bastato arrivare all’uno per cento (anche senza eletti) per incassare contributi fino al 2013. In più, una leggina approvata alla chetichella ha esteso fino al 2011 i rimborsi della legislatura precedente, quella del 2006, anche se interrotta anticipatamente.

Altro che risparmi, quindi: la Casta raddoppia, cento milioni in più all’anno. «Un mese fa durante la Finanziaria abbiamo cercato di eliminare questo ulteriore regalo», dice a Oggi Silvana Mura, tesoriera di Italia dei Valori, «ma gli unici a votare con noi sono stati i radicali. I politici non possono chiedere sacrifici ai cittadini se si comportano così».

I Verdi nel 2007 hanno sfiorato i dieci milioni con due radio per 2,9 milioni, e 2,7 milioni per il giornale Notizie Verdi. Rifondazione comunista oltrepassa i 16 milioni, di cui 3,9 grazie al quotidiano Liberazione. Il quale però ne perde due milioni perché vende solo 6.600 copie. I Comunisti italiani di Oliviero Diliberto hanno ereditato il settimanale Rinascita: anch’esso glorioso, fondato da Palmiro Togliatti, riceve 900mila euro ma vende appena 2.400 copie.

All’estremo opposto, il Msi-Fiamma Tricolore dell’eurodeputato Luca Romagnoli si deve «accontentare» di 364mila euro del finanziamento per le europee, perché dopo la rottura con Pino Rauti non è riuscito a conservare il quotidiano Linea (1,5 milioni): «Ci siamo trasformati in cooperativa», spiegano i giornalisti. L’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro incassa due milioni per il suo giornale. Quanto alla Lega Nord, riceve quattro milioni per il quotidiano La Padania (8mila copie) e mezzo milione per Radio Padania.

Il Nuovo Psi prende 472mila euro per il quotidiano Il socialista Lab, più 45mila euro arrivati da Forza Italia. I socialisti di sinistra dello Sdi, invece, hanno dovuto rinunciare allo storico quotidiano Avanti!, che riceve 2,5 milioni dallo stato ma è diventato pure quello coop spostandosi più a destra. Si consolano con 2,7 milioni annui di rimborsi.

Fra le vestigia del passato c’è anche il Pli, partito liberale mantenuto in vita dall’ex eurodeputato Fi Stefano De Luca con 17.500 euro frutto delle regionali in Veneto e Piemonte. E il Pri di Giorgio La Malfa figlio di Ugo, eletto nel Pdl, angustiato sia dai creditori, sia dalla concorrenza dei repubblicani di sinistra di Luciana Sbarbati, senatrice pd. Sopravvive grazie a 90mila euro ricevuti da Forza Italia, 40mila di rimborsi dalle regionali pugliesi, ma soprattutto con i 624mila euro del quotidiano Voce Repubblicana.

L’Udeur di Clemente Mastella ha incassato 1,3 per il giornale Campanile Nuovo. L’Udc di Pierferdinando Casini può contare sul milione del quotidiano Liberal: era nato un anno fa come organo di Forza Italia, ma nel frattempo il direttore Ferdinando Adornato ha compiuto un’altra giravolta e ha lasciato Berlusconi.

I radicali della Lista Pannella, infine: ricevono dallo Stato 1,6 milioni l’anno. Ma la loro Radio radicale, fra convenzione con il Parlamento e contributi per l’editoria, piglia 13 milioni annui. «Siamo un servizio pubblico», precisano, «trasmettiamo i congressi di tutti i partiti e le sedute delle Camere». È vero. Però ormai Senato e Camera hanno due canali Sky tutti loro, più il Gr Parlamento Rai. Spesa tripla per lo stesso servizio.

Mauro Suttora


FINANZIAMENTO AI 66 PARTITI NEL 2007
(fra parentesi quelli a giornali, radio, tv di partito)

1) Alleanza Nazionale 27,4 milioni (3)
2) Altern. Sociale A. Mussolini 628mila
3) Democratici di Sinistra 47,4 milioni (12,9)
4) Dc (Rotondi) 2,7 milioni (2,6)
5) Dem. Europea (D'Antoni) 2,4 milioni (2,3)
6)Forza Italia 46 milioni
7)Azione Sociale (Mussolini) 430mila
8)Italiani Mondo (De Gregorio) 1 milione
9)Riformatori Lib. (Della Vedova) 100mila
10)Rinascita Socialdem. (Preti) 15mila
11)Insieme Unione (Verdi+Pdci) 1,6 milioni
12)Partito consumatori italiani 165mila
13)Italia dei Valori (Di Pietro) 5,9 milioni (2)
14)L'Ulivo 16,1 milioni
15)L'Unione 741mila
16)La Casa delle Libertà 300mila
17)Lega Nord 14,1 (4,5)
18)Lista Pannella 14,6 milioni (13)
19)Margherita 28,7 milioni (3,6)
20)Repubblicani (Sbarbati) 242mila
21)Mov. Sociale Fiamma Tricolore 364mila
22)Nuovo Psi 2 milioni (472mila)
23)Partito Comunisti Italiani 5,2 milioni (0,9)
24)Pli (De Luca) 17.500
25)Partito Pensionati (Fatuzzo) 897mila
26)Pri (La Malfa) 754mila (624mila)
27)Rifondaz. Comunista 16,5 milioni (3,9)
28)Rosa nel Pugno 1,3 milioni
29)Socialisti Democratici-Sdi 2,7milioni
30)Udc 11,8 milioni (1)
31)Udeur 4 milioni (1,3)
32)Verdi 9,8 milioni (5,6)

LISTE REGIONALI

33)Alleanza Autonom. (V.d'Aosta) 180mila
34)Associaz. Marrazzo (Lazio) 321mila
35)Cittadini per Illy (Friuli V.G.) 85mila
36)Fortza Paris (Sardegna) 68mila
37)Gente della Liguria 64mila
38)Insieme per Bresso (Piemonte) 109mila
39)L'Aquilone (Cuffaro, Sicilia) 278mila
40)Leali al Trentino 11mila
41)Lista Civica per il Trentino 206mila
42)Lista Storace (Lazio) 338mila
43)Liste Civiche Nord-Est (Veneto) 5.600
44)Movimento Lid (Belluno) 5.600 euro
45)Mov. per l'Autonomia (Sicilia) 1 milione
46)Nuova Sicilia 86mila
47)Pace Diritti Insieme Sinistra (Bz) 15mila
48)Partito Auton. Trentino Tirolese 78mila
49)Per il Veneto con Carraro 185mila
50)Per la Liguria Sandro Biasotti 128mila
51)Primavera Pugliese 91mila
52)Puglia prima di tutto 324mila
53)Progetto Nordest (Veneto) 86mila
54)Repubblicani-Dem. (Campania) 74mila
55)Riformatori Sardi Liberaldem. 88mila
56)Sinistra Dem. Trentino per Ulivo 61mila
57)Sinistra Federalista Sarda 196mila
58)Stella Alpina (Val d'Aosta) 87mila
59)Sudtiroler Volkspartei 1,2 milioni
60)Union fur Sudtirol 26mila
61)Union Valdotaine 120mila
62)Unione Autonom. Alto Adige 14mila
63)Uniti per la Sicilia 255mila
64)Verdi-Verdi (Piemonte) 48mila

ESTERO

65)Associaz. Italiane Sudamerica 128mila
66)Italia nel Mondo con Tremaglia 77mila

Tuesday, December 16, 2008

Morte di Carlo Caracciolo

«(...) Il 1° ottobre 1955 uscì L'Espresso. Vivevo in provincia (...). L'aria fresca ci veniva dai giornali che leggevamo, soprattutto dall'Europeo di Arrigo Benedetti e dal Mondo di Mario Pannunzio.
Erano i nostri Vangeli laici. Ci sentivamo sì di sinistra, ma soprattutto laici e liberali. Rammento un couplet, un ritornello, che faceva al caso nostro: «Se non ci conoscete - guardateci i calzini. - Noi siamo i liberali - del conte Carandini». Pure noi portavamo i calzini lunghi, mentre le nostre madri li volevano corti, più facili da lavare. Anche per questo L'Espresso divenne subito una delle nostre bandiere».

Giampaolo Pansa,oggi sul Riformista

Monday, December 15, 2008

Medio Oriente, Ernesto Rossi

"L'economia dell'Italia meridionale è più medio-orientale che europea"

Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze
intervistato da Elisa Calessi su Libero, sabato 13 dicembre 2008


"Mi chiedono come sono considerati da noi Giorgio La Pira, Danilo Dolci, Lelio Basso, Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi. Un'Italia dimenticata dagli italiani che li' non solo ricordano, ma considerano l'unica degna di memoria (...)"

Roberto Saviano, su Repubblica di domenica 14.12.08, raccontando il suo incontro a Stoccolma con i giurati svedesi dell'Accademia delle scienze che danno il Nobel

Strage di Mumbai

"Per 40 ore sdraiato in bagno"

parla Arnaldo Sbarretti, direttore di hotel, 50 anni

di Mauro Suttora

1 dicembre 2008

«Non dimenticherò più quel numero, 3228. Era la mia stanza al 32° piano, il penultimo dell' hotel Oberoi Trident a Mumbai. Avevamo finito alle sei di sera il nostro workshop dell' Enit. L' Ente del turismo italiano ci aveva portato in India per presentare agli operatori turistici locali i nostri alberghi. Io avevo chiuso la mia camera, ed ero sceso nella hall.

Dopo pochi secondi si è scatenato l' inferno: esposioni, bombe, raffiche di mitra, fumo, una confusione totale. Un agente della sicurezza mi ha scaraventato nell' ascensore, urlando: "Ci sono i terroristi, via di qui, tornate alle vostre stanze !". Ho avuto solo il tempo di vedere un uomo stramazzare per terra, colpito proprio accanto a me. Ora più ci penso, più mi vengono i brividi.

Tornato al mio piano, corro verso la camera. Sento una voce dall' altoparlante interno: "Avviso a tutti gli ospiti: è in corso un attacco terroristico. Rimanete chiusi nelle vostre camere". Mi sento in trappola. Decido di fare l' esatto contrario di quanto consigliato, e mi precipito giù per le scale di servizio assieme a degli uomini kuwaitiani. Al 20° piano sentiamo spari e urla che si avvicinano: sono i terroristi che cercano i turisti per ammazzarli. Tutti, senza preferenze per americani e inglesi, come qualcuno invece ha detto. Terrorizzati, risaliamo le scale e ci barrichiamo nelle nostre stanze.

Ho chiamato mia moglie a Milano per avvertire che ero vivo, e lei mi ha dato il numero del consolato italiano a Mumbai. Dal consolato mi hanno detto di chiudere la luce e abbassare la suoneria del cellulare, di nascondermi e non fare rumore. Ho obbedito. Mi sono sdraiato per terra in bagno, fra water e vasca. In quella posizione rimango 40 ore, senza mangiare e dormire continuando a sentire urla, spari, scoppi. Ero convinto di morire. Invece, la porta della stanza si spalanca all' improvviso. Penso siano i terroristi. Invece sono i poliziotti che mi liberano.

Il vero dramma è che tutto quello che è successo poteva essere evitato. Il governo indiano sapeva dei rischi, erano arrivati avvertimenti su un possibile attacco, ma nessuno ci ha avvisato. Nella hall dell' albergo c' erano i metal detector, ma la security ci diceva sempre di passarci accanto, non controllava nessuno. Così alcuni terroristi avevano potuto stabilirsi da giorni al Taj Mahal, senza destare sospetti. Alla fine, secondo me, sono state le teste di cuoio inglesi e americane a liberarci.

Io negli alberghi ci lavoro da vent' anni, e sarò stato in un migliaio di hotel in tutto il mondo. Questa strage ha cambiato la mia vita, ma cambierà anche la vita di tutti noi. Finora abbiamo sottovalutato la ferocia dei terroristi islamici. Io ero contro Bush, gli Stati Uniti non mi sono mai stati molto simpatici. Però ora vedo le cose in maniera diversa. Devo ammettere che gli americani hanno imparato la lezione dell' 11 settembre 2001. Ma noi europei dormiamo. Ci vogliono servizi segreti che funzionino, e anche la capacità di reagire con grande forza contro questi assassini».

Mauro Suttora

Wednesday, November 19, 2008

Leggenda Obama

LA VITA DEL NUOVO PRESIDENTE USA

Oggi, 6 novembre 2008

New York (Stati Uniti)
Non capita tutti i giorni che il figlio di un pastore di capre kenyota e di una signorina del Kansas incontrata per caso a Honolulu diventi l’uomo più potente del mondo.

Eppure proprio questo è successo nella notte del 4 novembre: la trionfale elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, al di là delle idee politiche sue e dell’avversario sconfitto, John McCain, rappresenta un avvenimento storico.

L’unico voto paragonabile a questo nella storia moderna degli Stati Uniti è stato quello per John Kennedy nel 1960. Ma i Kennedy, seppure cattolici, erano dei miliardari bene incistati nella nomenklatura americana. Obama, invece, è un totale «homo novus». Conviene quindi conoscere bene il suo passato per prevedere che cosa farà in futuro.

«Non ero abbastanza nero per i neri, e abbastanza bianco per i bianchi»: così lo stesso Barack descrive con amarezza la propria gioventù nell’autobiografia I sogni di mio padre (ed. Nutrimenti). Il libro è in vendita in Italia da un anno, ma fu scritto da Obama già nel 1995. E che un politico senta non solo il bisogno di scrivere la storia della propria vita ad appena 34 anni, ma che la compili prima ancora di essere stato eletto a qualsiasi carica (Barack è diventato senatore statale dell’Illinois - paragonabile a un nostro consigliere regionale - solo nel ‘97), e soprattutto che la tiri così per le lunghe da trarne un tomo monumentale con più di 400 pagine, dice tutto sull’ambizione del nostro. Ambizione giustificata, comunque: secondo Joe Klein, che l’ha recensita sul settimanale Time, «si tratta forse della migliore autobiografia mai scritta da un politico americano».

«Era ambizioso anche il padre», raccontano i parenti e i compagni d’università di Barack Obama senior. Il papà di Obama nasce nel 1936 nel profondo Kenya, sulle rive del lago Vittoria: dalla parte opposta rispetto alle spiagge cosmopolite di Malindi. Appartiene alla tribù dei Luo, che fino agli anni Trenta scorrazzava felice nuda per la savana. I maschi indossavano solo un perizoma di cuoio. Leggenda vuole che proprio il nonno di Obama, Hussein Onyango, sia stato fra i primi «eccentrici» a coprirsi di vestiti occidentali, cuciti con stoffe colorate.

Obama senior è descritto dal figlio come «pastore di capre», ma forse è solo civetteria: in realtà pare che la sua fosse una famiglia benestante di allevatori. Il ragazzino comunque camminava dodici chilometri al giorno per andare a scuola. A vent’anni va a Nairobi e scopre che si possono ottenere borse di studio universitarie per gli Stati Uniti. Nel frattempo sposa la prima delle sue quattro mogli e ha due figli (particolare nascosto alla mamma di Obama).
Il programma di 81 borse di studio è finanziato dalla fondazione Kennedy: un altro anello che collega i due presidenti.

Obama senior finisce all’università delle Hawaii, dove con la sua personalità brillante e forte (alcuni dicono prepotente) ammalia la studentessa del primo anno Stanley Ann Dunham, figlia unica di un commesso viaggiatore del Kansas e della moglie Madelyn (la famosa nonna di Obama, morta a 86 anni proprio alla vigilia del voto).

Nel ’61 nasce Barack (in arabo «benedetto», in ebraico «fulmine»), ma poco dopo suo padre lo molla assieme a Ann, se ne va ad Harvard e, da buon poligamo, si mette con un’altra americana. Poi tornerà in Kenya, farà altri due figli con la prima moglie (in totale Obama ha sette fratellastri), e morirà alcolizzato in un incidente d’auto nell’82. Va a trovare il figlio alle Hawaii solo una volta in vita sua, quando Obama ha dieci anni.

Mamma Ann, però, non fa la parte della ragazza madre abbandonata e inacidita. «Papà è dovuto tornare nel suo Paese a lottare per la libertà»: questa è l’immagine da eroe che inculca nel piccolo Obama, per giustificare l’assenza. Poi, sempre ottimista e piena di curiosità ed energia (doti ereditate dal figlio), si risposa con uno studente indonesiano e si trasferisce a Jakarta. Lì Obama frequenta le elementari, ma per le medie la mamma preferisce farlo tornare a Honolulu dai nonni. Che riescono a iscriverlo nella scuola media e liceo più prestigioso delle Hawaii, quello dove vanno i ricchi.

Obama racconta del disagio che provava con i compagni, unico nero, e della loro sorpresa quando videro sua madre: «Ma è bianca!» Ottimo studente, determinatissimo anche nello sport, sogna di diventare campione di basket. Nel ’79, dopo la maturità, emigra in continente: prima a Los Angeles, dove frequenta due anni l’Occidental College, e poi a New York, dove si laurea in relazioni internazionali nella prestigiosa Columbia university. Vive sulla 94esima strada, al confine fra East Harlem e la Manhattan dei ricchi: una scelta carica di significato.

Poi il primo impiego nella scintillante New York reaganiana degli anni ’80, soldi facili e cocaina. Lui ammette di avere sniffato e fumato spinelli (meno ipocrita del «Però non ho inalato» clintoniano), ma quell’ambiente non fa per lui. Ha sogni di grandezza, vorrebbe diventare scrittore, cerca dal mondo l’attenzione che non ha avuto da piccolo. Scopre la politica «di base», si offre come volontario e nell’85 emigra a Chicago.

È la sua fortuna: occuparsi dei problemi degli altri è la sua vocazione. Poi, sulle orme del padre, va ad Harvard a specializzarsi in diritto, e lì il suo talento e il suo carisma esplodono: primo presidente nero della prestigiosa Rivista di legge. Il secondo regalo il destino glielo riserva al ritorno a Chicago: appena assunto in un studio legale specializzato in diritti civili, gli mettono accanto la futura moglie Michelle per «tirarlo su».

Anche in politica è fortunatissimo: eletto la prima volta nel ’97 perché gli altri candidati vengono squalificati. Batosta nel 2000, alle primarie per deputato a Washington. Ma lui, testardo, prova e riprova. E nel 2004 diventa l’unico senatore di colore degli Usa (altro che «integrazione») perché il suo avversario è accusato dalla ex moglie: «Mi voleva portare in un club porno!»

In quale altro stato del mondo un politico può essere eletto presidente dopo soli quattro anni di esperienza parlamentare nazionale? Solo in America, baby. La «Terra delle opportunità», come la chiama sempre Obama, grato, nei suoi trascinanti discorsi. Soltanto quattro persone sono riusciti a infiammare come lui gli Stati Uniti con la parola, nell’ultimo mezzo secolo: i due Kennedy, Martin Luther King e Ronald Reagan.

Anche qui, particolare incredibile: il suo speechwriter, quello che gli scrive i discorsi, ha solo 27 anni. Il suo motto «Yes we can» è già diventato leggenda, come la «Nuova frontiera» di Kennedy o la «Grande società» di Lyndon Johnson.

Adesso siamo alla selezione di ministri e funzionari per la Casa Bianca (che fu costruita da schiavi neri nel 1800). Il più potente sarà il capo di gabinetto Rahm Emanuel (detto Rahmbo), 49 anni, figlio di un israeliano, e questo rassicura gli ebrei. Obama non ha fatto il servizio militare (la leva fu abolita nel ’75), in cambio Emanuel è stato volontario dell’esercito d’Israele nella prima guerra del Golfo. La «voce» di Barack invece sarà il fido 37enne Robert Gibbs, suo addetto stampa al Senato.

Gli unici a trattarlo male dopo la vittoria sono stati la Borsa (crollata del dieci per cento nelle 48 ore successive, ma ormai non fa più notizia) e il capo della Russia Vladimir Putin, che da vero maleducato lo ha accolto annunciando l’installazione di nuovi missili a Kaliningrad, 400 chilometri da Berlino.

I problemi stanno per arrivare. Ce ne saranno tantissimi, con la crisi economica e le due guerre (Iraq, Afghanistan) in cui gli Usa sono infognati da troppi anni. I fans di Barack si accorgeranno che non è Superman. Ma, in ogni caso, è iniziata l’Era di Obama.

Mauro Suttora


RIQUADRO: Concepito la notte della vittoria di John Kennedy

Un'incredibile coincidenza lega Barack Obama a John Kennedy. Il nuovo presidente degli Stati Uniti è stato probabilmente concepito la notte in cui Kennedy vinse la sua elezione, l'8 novembre 1960. Esattamente nove mesi dopo, il 4 agosto 1961, a Honolulu la giovanissima Stanley Ann Dunham, 18 anni, dà alla luce Barack Hussein: figlio dello studente 24enne Obama arrivato dal Kenya due anni prima con una borsa di studio per l'università delle isole Hawaii.

Questione di ore, al massimo di giorni. Ma basta per legare le due elezioni che hanno creato più speranze nell'era moderna: quella del 43enne Kennedy, il primo presidente cattolico e il più giovane nella storia degli Stati Uniti (morì che era più giovane di Obama adesso), e quella del primo presidente di colore.


RIQUADRO 2: L'inventore di «Yes we can» ha 27 anni

L’inventore dello slogan di Obama «Yes we can» è un timido 27enne del Massachusetts, laureato dai gesuiti: Jon Favreau. Nel 2004 era volontario per la sfortunata campagna presidenziale del democratico John Kerry. Prima dello storico discorso alla Convention con cui Obama si fece conoscere al mondo lui si accorse di un piccolo errore sul «gobbo», segnalandoglielo.

Da allora è stato imbarcato nel suo staff, e nel gennaio di quest’anno ha inserito il motto «Sì, possiamo (farcela)» nel discorso con cui il candidato ringraziava per l’insperata vittoria nella primaria dell'Iowa contro Hillary Clinton. Lo segue in tutti i suoi spostamenti, tenendo in mano il Blackberry per aggiungere, togliere e limare le dichiarazioni ufficiali in ogni momento. Com’è successo anche nel discorso di Chicago dopo la vittoria, quando ha inserito al volo un grazie a McCain dopo i nobili auguri dell’avversario sconfitto. Obama comunque è un bravissimo scrittore, sia di libri sia di discorsi. Potrebbe anche farcela da solo ma, come ha detto a Favreau, «le mie giornate hanno solo 24 ore».

Mauro Suttora

Wednesday, November 12, 2008

Gli universitari protestano

LE VERE CIFRE DEI TAGLI

Roma, 3 novembre 2008

Il 6 agosto, quando venne approvata la legge finanziaria, nessuno se n’era accorto. Eppure i tagli all’università erano già decisi lì, e ben dettagliati: meno 63 milioni di euro l’anno prossimo, 190 milioni nel 2010, 316 l’anno dopo, fino ai meno 455 del 2013. Ma quasi nessuno protestò. Un po’ perché erano tutti al mare, e un po’ perché un risparmio dello 0,6 per cento sui dieci miliardi e 800 milioni che nel 2009 finiranno all’università statale non sembrava drammatico. Soprattutto per un Paese con 1600 miliardi di debito pubblico, che anche quest’anno spende più di quello che incassa, e che quindi, impegnato al pareggio di bilancio entro il 2012, deve tagliare su tutto.

Poi, in ottobre, sull’onda del decreto sulla scuola elementare della ministra Mariastella Gelmini, gli universitari hanno cominciato a protestare anche loro. E non solo per i tagli. La finanziaria, infatti, ha introdotto altre due misure: il quasi blocco del turnover sul personale (un solo nuovo assunto ogni cinque dipendenti che vanno in pensione), e la possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato.

«Attacco all’autonomia»

Quest’ultima iniziativa ha fatto tuonare i docenti universitari di sinistra (da Alberto Asor Rosa a Gianni Vattimo, in ordine alfabetico): «È il più grave attacco mai condotto contro l’autonomia e il futuro dell’università italiana», hanno proclamato.

Gli studenti temono che la conseguenza di questa trasformazione sia un forte aumento delle tasse universitarie, che attualmente coprono solo l’11 per cento dei costi delle università statali.

La nuova legge dice che nel caso in cui un ateneo si trasformi in una fondazione e ottenga fondi dai privati, lo Stato ridurrebbe i finanziamenti pubblici per quell’ateneo di tanto denaro quanto ammontano i fondi privati. Per docenti e studenti, che considerano molto remota la possibilità di essere finanziati dai privati, la prima conseguenza di questo provvedimento è un aumento delle tasse universitarie.

«In realtà non si capisce perché si debba passare attraverso la complicazione delle fondazioni», commenta Roberto Perotti, docente della Bocconi e autore del libro L’università truccata (ed. Einaudi, 2008), «invece di consentire, molto semplicemente, di dedurre dall’imponibile le donazioni private all’università».
Inoltre, c’è l’esempio negativo delle fondazioni bancarie: «Introdotte per staccare le casse di risparmio dal settore pubblico, ma diventate il regno del sottobosco politico, fonte di prebende per i politici locali», nota Perotti.

Quanto ai tagli e al blocco al 20% del turnover, la stalla viene chiusa quando i buoi sono già scappati: nei prossimi mesi infatti si svolgeranno concorsi per settemila posti di docenti (quattromila ordinari e associati, tremila ricercatori). Così aumentano in un colpo solo di più del dieci per cento i 60 mila prof oggi di ruolo (ce ne sono poi altri 40 mila fra straordinari, incaricati e a contratto).
«Se questi concorsi andranno in porto, ogni discussione sulla riforma dell’università sarà d’ora in poi vana: per dieci anni non ci sarà più posto per nessuno, e ai nostri studenti migliori non rimarrà altra via che l’emigrazione», avverte l’editorialista del Corriere della Sera Francesco Giavazzi.

E allora perché protestano gli universitari? «Mi sembra una giustificatissima rivolta generale contro la condizione cui sono costretti i giovani in Italia oggi», ci dice Nando dalla Chiesa, fino a maggio sottosegretario all’Università per il centrosinistra e oggi tornato alla sua cattedra di Sociologia della criminalità organizzata alla Statale di Milano. «I ragazzi hanno ragione, anche se fa un po’ specie vederli insieme a qualche barone universitario che difende i suoi fondi e magari non viene a far lezione».

«Molti sprechi da evitare»

«No, questi cortei e occupazioni non hanno alcun senso», ribatte Barbara Mannucci, che a 26 anni è la più giovane deputata del Popolo delle libertà, fresca laureata al Dams di Roma 3: «Siamo in una situazione economica molto difficile, tutti i ministeri sono stati colpiti dai risparmi, e la mia esperienza personale mi dice che ci sono parecchi sprechi che si possono eliminare. A cominciare dalle cinque segretarie e le auto blu per i rettori: perché, non possono usare l’auto o il taxi?».

Per fornire più cattedre ai docenti negli ultimi sette anni i corsi di laurea sono raddoppiati: da 2.400 a 5.500. I prof sono aumentati al ritmo del cinque per cento l’anno. «E io ero costretta a frequentare nella stessa giornata sette corsi diversi», si lamenta la Mannucci, «perché ogni corso è stato spezzettato in tre esami per moltiplicare gli stipendi. Non parliamo poi delle sedi staccate: la Sapienza di Roma ha aperto a Pomezia ben cinque facoltà con sei corsi di laurea, fra cui “Scienze infermieristiche”... Ma quale studente romano andrà mai a Pomezia? E sono tutte spese in più.»

«Bloccare i nuovi atenei»

«In effetti l’autonomia conquistata dalle università negli anni Noventa è stata usata nel modo peggiore», concorda Dalla Chiesa, «perché lo Stato ha detto ai rettori: “Fate quel che volete con i soldi pubblici”. È un meccanismo micidiale, senza alcun criterio di responsabilità. Ma a questo malcostume ha partecipato anche il centrodestra, con la ministra dell’Istruzione Moratti che ha permesso il moltiplicarsi delle università. Quando sono arrivato al ministero, nel 2006, abbiamo fatto appena in tempo a bloccare un nuovo ateneo a Villa San Giovanni. Che ha le università di Reggio Calabria e Messina a pochi chilometri».

Nel 1980 le università in Italia erano 40. Nel 1999 sono aumentate a 75. Oggi sono 95, ma con le sedi staccate si arriva a 330. La Lombardia ha sedi in 29 comuni, la Sicilia in 22, il Piemonte in 21 e il Lazio in 19.
In sette atenei la spesa per il personale supera il 90% del finanziamento statale, in altri 25 l’80. Denuncia uno studente di sinistra: «I miei prof hanno una stampante a colori e un fax ciascuno, mentre nell’università americana che ho frequentato sono in pool, e c’è una ogni dieci docenti».

Insomma, sembra di vivere l’incubo descritto dal filosofo libertario Ivan Illich trent’anni fa, nel suo libro Descolarizzare la società: «Il sistema scolastico, come tutte le burocrazie, serve più ai professori che agli studenti. Così come il sistema sanitario serve più ai medici che ai malati, e quello politico più ai politici di professione che ai cittadini rappresentati».

Gli universitari italiani pagano oggi una media di 720 euro l’anno in tasse (mille in Veneto, Emilia e Lombardia, 450 in Sardegna, Sicilia, Puglia). Ma cosa ricevono in cambio? Un pezzo di carta che serve a poco. L’università si è «democratizzata», il sapere è diventato un «diritto» diffuso, i laureati sono 300 mila all’anno contro i 40 mila di quarant’anni fa. Ma le lauree si sono svalutate.

«Certe università te le tirano dietro», denuncia Dalla Chiesa, «con il meccanismo della conversione in crediti dell’esperienza professionale si possono evitare un sacco di esami. L’immoralità è dilagante. Un esempio? In questi giorni, fateci caso, tutti parlano di “ricerca”. E la didattica? Abbiamo dimenticato che le università sono nate per insegnare? Certo, è noioso per i docenti fare lezione, ricevere gli studenti, seguirli, assisterli, fare gli esami, i seminari, le tesi. Tutti preferiscono fare “ricerca”. Perché? Perché è lì che girano i soldi».
«Il sistema attuale è di una straordinaria iniquità», aggiunge Perotti, «perché le tasse di tutti finanziano l’università gratuita dei più abbienti. Nessuno viene premiato se è bravo, e nessuno paga per i propri fallimenti».

Che fare, quindi? La soluzione non sono le università private. Che, sorpresa, in Italia sono finanziate anch’esse al 54% con soldi pubblici. Perotti, nella sua brillante requisitoria, non risparmia neppure casa propria. Tornato in Italia a insegnare alla Bocconi nonostante avesse ottenuto una cattedra di ruolo (a vita) alla Columbia di New York, rivela che «l’ufficio relazioni esterne della Bocconi impiega circa cento persone, e ha un bilancio di 13 milioni di euro, circa un quarto dell’intera spesa per gli stipendi dei docenti. Calcolando che i migliori professori di economia negli Usa costano 300-400 mila dollari, con un terzo della spesa per relazioni esterne la Bocconi potrebbe costruire il migliore dipartimento d’economia d’Europa».

E stiamo parlando non del corso con otto studenti che l’università di Sassari ha decentrato per motivi clientelari a Tempio Pausania, ma del tempio dell’accademia privata in Italia, che fa pagare quattromila euro l’anno di tasse ai propri universitari.

Mauro Suttora

Friday, November 07, 2008

"Obama? Carino"

L'America che non vota

"Il nuovo presidente? E' un mulatto carino"

Libero, venerdì 7 novembre 2008

di Mauro Suttora

«He looks kinda nice, though…»: con l’indifferenza di chi viene solo annoiata dalla politica, la mia ex fidanzata americana Marsha commenta l’elezione di Obama. «Però è carino»: è questo il giudizio più profondo che riesco a strapparle sul suo nuovo presidente.

Marsha, 34 anni, ex modella, stilista in erba, vive a Manhattan e in questi giorni ha ben altro a cui pensare: sta organizzando la sua prima sfilata d’autunno nel Connecticut. Sono passato a salutarla per Halloween, e lei mi ha portato nelle tre feste cui era invitata quella sera. Ora sta con uno del cinema («Un cameraman: sei come Julia Roberts», la prendo in giro), ma lui è a Los Angeles e lei continua a vivere sola nel monolocale «alcova» di un grattacielo dell’Upper East Side.
«Alcova» non ha niente di lussurioso: semplicemente, a New York chiamano così i monolocali con la pianta a elle, che permettono il «lusso» di non vedere subito il letto dalla porta d’entrata.

Marsha non ha mai votato in vita sua. Come quattro statunitensi adulti su dieci se ne frega allegramente della politica.
«Ma questo è un voto storico, no?», obietto.
«E perché?»
«Un nero, per la prima volta…»
«Veramente non è un nero vero, sua madre era bianca, no?»
«Vabbè, un mulatto, ma è proprio questa la grandezza dell’America».
«Grandezza, grandezza… Sei sempre innamorato dell’America, eh, Mauro?» Marsha mi ha sempre accusato di essermi messo con lei per questo, e non perché fossi innamorato di lei.
«Beh, non capita tutti i giorni che il figlio di un pastore di capre del Kenya e di una signorina del Kansas incontrata per caso a Honolulu diventi l’uomo più potente del mondo».
«Anch’io sono un miscuglio pazzesco, Mauro: un quarto irlandese, un quarto tedesca, un quarto italiana, solo un quarto americana di due generazioni».
«Obama è cresciuto in Indonesia, poi alle Hawaii, poi università a Los Angeles, New York, Boston… Sta a Chicago ma ha una nonnastra a Nairobi e una sorellastra a Giakarta. Non eri tu che lamenti sempre quanto siano provinciali i tuoi compatrioti, che otto su dieci non sono mai stati all’estero. Ecco Obama, un cittadino del mondo!»
«Come on, io sono nata a Filadelfia, università a Nashville e Firenze, abito a New York, ho lavorato a Roma, mio padre sta in Florida, mia mamma in New Jersey e le mie sorelle dall’altra parte del continente, in California e a Seattle. Tutti gli americani sono dei “bastardi” vagabondi».
«Quindi non voti neppure questa volta?»
«Troppa fatica. Non sono neanche registrata. Non saprei da dove cominciare. E poi troppe code, io ho da fare».
«Però eri bushiana».
«Ha fatto bene a combattere quei maledetti terroristi».
«Saddam non era di Al Qaeda».
«Che noia, Mauro. Ricominciamo?»
«Ammetti almeno che la guerra in Iraq è stata un errore».
«Boh. Tu, piuttosto, vai sempre a quelle cose contro la pena di morte? Ti ricordi?» (Incontrai Marsha cinque anni fa a un concerto all’Onu contro le esecuzioni capitali).
«Certo, e mi ricordo anche la tua opinione al riguardo: “Chi la fa l’aspetti, se uccidi è giusto che ti uccidano”…»
«Lo penso sempre, my dear».
«Incredibile che una donna fine e coltivata come te, laureata con tesi su Derrida, sia rimasta alla legge del taglione».
«Mauro, è Halloween, non litighiamo: let’s have fun, divertiamoci».

In realtà Marsha di questi tempi non si diverte molto: mi ha confessato di essere in rosso di 15 mila dollari con la sua carta di credito: «Passo il tempo a ristrutturare, rifinanziare e rinegoziare il mio debito. Se al mio prossimo trunk show [vendita privata di vestiti, ndr] non vendo abbastanza, non so neppure se mi conviene continuare a pagare duemila dollari al mese d’affitto qui a Manhattan. Dovrò trasferirmi a Brooklyn, o condividere un appartamento».

Facciamo il giro delle sue tre feste di Halloween. All’ultima, in una discoteca sulla Quinta Avenue, appena entrato corro nei bagni per la pipì. Mi ritrovo in una calca enorme, circondato da ragazze alte e bellissime. Penso di essermi sbagliato, forse ho bevuto troppo. «Ma è il bagno delle donne?», domando alla mia bionda vicina. «No, but we share», mi sorride lei, alitandomi alcol sul viso da cinque centimetri. No, ma condividiamo. L’era Obama è iniziata, ci sarà anche la crisi. Ma New York è sempre New York.

Mauro Suttora