Friday, May 19, 2000

Libertari: destra o sinistra?

LIBERTARI

di Mauro Suttora 
Il Foglio, maggio 2000

I libertari sono di destra o di sinistra? Si sta sviluppando in Italia, con un quarto di secolo di ritardo rispetto agli Usa, il dibattito sulle libertà individuali. Ma, contrariamente a ciò che pensano Pierferdinando Casini e Rocco Buttiglione, i libertari italiani del Duemila si ritrovano più a destra che a sinistra. E così nascono come funghi gruppi di anarco-capitalisti, libertari della Lega, libertari radicali, libertari per il libero mercato...

A Milano, in concorrenza alla libreria Utopia di largo La Foppa, regno degli anarchici storici di «A-rivista anarchica» e della rivista «Libertaria», è nata la libreria Libertaria di Fabio Massimo Nicosia, capofila dei «free market libertarians» che hanno come esponenti italiani i professori Raimondo Cubeddu dell’università di Pisa, Carlo Lottieri e Marco Bassani.

Accanto alla tradizionale casa editrice Eleuthera (anarchici di sinistra) prosperano le edizioni Liberilibri di Macerata (libertari di destra, hanno pubblicato l’opera di David Friedman, figlio del Nobel Milton) e l'editore anarcoleghista Leonardo Facco di Treviglio (Bergamo).
Il Saggiatore ha appena ristampato il classico del 1974 dell’harvardiano Robert Nozick «Anarchia, stato, utopia», ma i libertari/liberisti italiani si rifanno più alla scuola «austriaca» (Carl Menger, Ludwig Von Mises, il Nobel Friedrich Von Hayek e il loro discepolo americano Murray Rothbard, ripubblicati da Liberilibri, Rubbettino e Ideazione di Domenico Mennitti, ex An).

Il «Circolo» milanese di via Marina, che fa capo a Marcello Dell’Utri (Forza Italia) riempie la sua sala con le conferenze organizzate da Massimiliano Finazzer Flory: accanto al filosofo Giulio Giorello discettano sul libertarismo di mercato (privatizzazioni, droga, diritti individuali) esponenti anarchici come Pietro Adamo e radicali come Angiolo Bandinelli e Iuri Maria Prado. Il professor Sergio Ricossa, maitre-à-penser dei liberali italiani, si dichiara apertamente e non provocatoriamente «anarchico». Si moltiplicano interessanti riviste (Enclave a Bergamo, Elite a Napoli) e vivaci siti Internet (radicali.it, libertari.org, i veneti di Libertarissima, i leghisti di Padania libera, liste di discussione italiane sul sito Usa onelist.com), con chat lines affollate da saputi e tignosi ventenni.

Quale sarà lo sbocco politico di tutto questo ribollire in ambito culturale, universitario e di filosofia politica ed economica? Che paradossalmente diventi proprio la tendenza libertaria il mastice giovanile e «militante» di un nuovo Polo allargato a Lega e alla lista Bonino, in contrapposizione al conservatorismo catto-statalista di destra e sinistra?

«Per dire se i libertari sono di destra o di sinistra bisogna prima definire i termini “libertario”, “destra” e “sinistra”», premette il professor Angelo Panebianco. E non dice un’ovvietà, perché attorno al significato stesso di queste tre parole il dibattito è apertissimo. «I libertari sono dei liberali estremisti, come gli anarcoliberali della scuola di Chicago di Friedman non accettano lo Stato nemmeno nella qualità di “male necessario”, e vogliono limitarlo fino a farlo scomparire. Sono fautori di una distruzione della sfera pubblica in quanto tale, e di una privatizzazione integrale. Quanto alla distinzione fra destra e sinistra, mentre oggi in Italia lo statalismo è presente in entrambe, per il liberalismo questo è già più difficile. Ma, così com’è sempre stato impossibile collocare gli anarchici sull’asse destra-sinistra, anche per i libertari c’è questa difficoltà».

Secondo la famosa definizione di Von Hayek i liberali si collocano al terzo lato di un triangolo i cui altri due lati sono occupati da socialisti e conservatori. È uno schema che si può applicare anche all’Italia, con i radicali «terzo polo» fra Centro-sinistra e Centro-destra? «Veramente certi libertari americani considerano perfino Hayek un pericoloso statalista», spiega Panebianco. «Quanto ai nostri radicali, non sono dei “libertarians” in senso proprio, perché non hanno mai considerato la politica come un àmbito che va distrutto, a beneficio del mercato. Anzi, tutta la storia di Marco Pannella testimonia il primato della politica. Le posizioni liberiste in economia della lista Bonino, poi, sono quelle dei liberali classici, e non mi sembrano affatto estremiste: i radicali italiani, per esempio, non parlano di privatizzare le prigioni, come chiedono i libertari».

Quindi l’ondata di libertarismo è confinata al dibattito accademico? «Sicuramente dopo la caduta del Muro di Berlino il pensiero liberale, comprese le sue versioni libertarie più spinte, ha dominato la scena mondiale», dice Panebianco. «Non così in Italia. Però oggi anche da noi un ventenne destinato a una carriera intellettuale è più attratto dai pensatori liberali che non da quelli marxisti che monopolizzavano la scena venti o trent’anni fa».

Quasi quarant’anni fa, nel 1962, Pannella diventò segretario radicale e puntò sui temi libertari per rivitalizzare un partito che fino ad allora era soltanto liberale, anche se propugnatore delle «aperture a sinistra». «Pannella recuperò dalla grande tradizione anarchica l’anticlericalismo e l’antimilitarismo, due parole vietate dalla cultura dello Stato etico, fosse esso fascista, cattolico o comunista», spiega Angiolo Bandinelli, già segretario e parlamentare del Pr. «L’anticlericalismo sfociò nella legge sul divorzio del ‘70 e nella vittoria del referendum quattro anni dopo, l’antimilitarismo nella legalizzazione dell’obiezione di coscienza al servizio militare conquistata nel '72».

In quegli stessi anni nascono anche i «libertarians» americani, sull’onda del rifiuto della coscrizione obbligatoria per il Vietnam. «E all’inizio si collocavano nell’ambito dell’estrema sinistra», dice Nicosia, che sta per pubblicare «Il sovrano occulto» da Franco Angeli, «perché allora la destra negli Stati Uniti era statalista. Fu solo più tardi, con l’avvento di Ronald Reagan e con l’influenza di Milton Friedman, che i repubblicani si convertirono allo slogan “meno Stato”».

I libertari americani hanno come punto di riferimento Henry David Thoreau. Quelli europei, invece, Pierre-Joseph Proudhon, con il suo celebre motto «la proprietà è un furto». Niente di più diverso, e questa differenza si riverbera ancor oggi sui movimenti dei due continenti. 

«Noi anarchici siamo di sinistra, se per sinistra si intende l’obiettivo dell’uguaglianza, della libertà e l’esaltazione della diversità», sostiene Luciano Lanza, direttore della neonata rivista «Libertaria» dopo aver fondato «A-Rivista anarchica» nel ‘71 e avere diretto il trimestrale «Volontà» dal 1980 al ‘96. «Ma non siamo di sinistra se per sinistra si intende quella oggi egemone, cioè statalista. Insomma, è corretto dire che l’anarchismo non è né di destra né di sinistra, perché la sua dimensione si realizza in un al di là della politica come viene comunemente intesa, cioè lotta per la conquista del potere».

«Anche gli anarco-capitalisti rifiutano la politica parlamentare», precisa Nicosia, «perché intendono rimpiazzarla con il libero mercato basato sul diritto di proprietà». «Ma risolvere la politica nell’economia è quanto di peggio possa succedere», obietta Lanza. «La nostra non è certo una posizione conservatrice», ribatte Nicosia, «anzi è rivoluzionaria, perché un vero libero mercato spazzerebbe via tutti gli interessi consolidati monopolistici e oligopolisti del grande capitalismo familiare e mafioso italiano». 

In polemica con il protezionismo della Confindustria perfino un acceso liberista come il radicale Ernesto Rossi 40 anni fa si schierò per la nazionalizzazione dell’energia elettrica. «Ma era una contraddizione solo apparente», lo giustifica Bandinelli, «perché una delle principali caratteristiche dei radicali italiani è sempre stata il pragmatismo anglosassone, estraneo alla tradizione idealistica e ideologica italica».

Niente totem né tabù, insomma, e così il partito radicale, diventato il principale interprete del libertarismo nostrano, conclude nel 1981 la stagione delle lotte per i diritti civili con il referendum sull’aborto. Ma c’è un filo rosso che collega i diritti di libertà personale degli anni Settanta a quelli economici degli anni Novanta l’antiproibizionismo, ovvero la quintessenza del libertarismo. «E la sinistra non è mai stata antiproibizionista, né allora né oggi», attacca Nicosia, «perché per esempio, nonostante tutte le posizioni per la legalizzazione della droga dei Ds o del ministro della Giustizia Oliviero Diliberto, gli statalisti hanno sempre in mente un “servizio pubblico” che deve proteggere il “povero“ cittadino, come i drogati da assistere tramite i burocrati dei Sert in alternativa all’internamento nelle comunità terapeutiche».

«Ma ormai abbiamo così introiettato il diritto dello Stato a intromettersi nei nostri affari privati, con la scusa di “proteggerci”, che accettiamo il casco obbligatorio per i motociclisti, e i tifosi non possono neanche più urlare quello che vogliono negli stadi», si ribella Aldo Canovari di Liberilibri. Così i libertari rispondono con provocazioni «Privatizziamo il chiaro di luna», è per esempio il titolo di un libro di Lottieri, il quale sostiene l’ardita tesi secondo la quale il liberismo spinto sarebbe la migliore ricetta anche per l’ecologia.

parte finale non pubblicata dal Foglio:

«Ma queste rischiano di essere dispute astratte fra professori universitari», taglia corto Bandinelli. Che sintetizza «Oggi gli unici coerenti sono i radicali, libertari sia sul versante dei diritti individuali economici, sia su quello dei diritti della persona, sulla scia del socialismo umanista pre-marxista che rivendicava il diritto di ciascun individuo a essere uomo libero».

Risultato: la lista Bonino è vista con il fumo negli occhi sia dalla sinistra, che li accusa di «liberismo selvaggio», sia dalla destra cattolica che invoca il «diritto alla vita». Per non parlare delle posizioni stataliste-corporative, presenti in egual misura nella sinistra sindacale e nella destra populista che difende i commercianti, i taxisti e perfino la centrale del latte di Roma. 

«Trent’anni fa abbiamo conquistato la libertà di divorziare per i coniugi che non si amano più», protestano i radicali, «oggi con il referendum contro il reintegro intendiamo ottenere la libertà di divorzio anche nel mondo del lavoro». Ma sinistra e destra rispondono all’unisono «Troppa libertà, cari libertari».
Mauro Suttora

Saturday, April 22, 2000

Il Castello d'Oria (Brindisi) e i Martini Carissimo

STORIA DELLA FAMIGLIA MARTINI CARISSIMO E DEL CASTELLO D’ORIA (BRINDISI)

di Mauro Suttora

Milano, aprile 2000



Introduzione

Centinaia di migliaia di visitatori, attratti dall’esposizione nel Duomo di Milano del grandioso ciclo pittorico dei «Teleri della vita del beato Carlo e dei quadri dei miracoli di san Carlo», hanno letto la didascalia che, sull’attiguo pilone, illustra una grande tela dipinta da Gian Battista Crespi detto il Cerano: «Vende il principato d’Oria per il prezzo di 40 mila scudi i quali incontinente distribuisce ai poveri».

Oria? E dov'è mai questo paese, sede di un principato? E perché san Carlo Borromeo fu il suo signore? Domande legittime, perché gran parte dei milanesi ignora un antico, anche se breve, legame che un tempo unì la metropoli lombarda alla terra di Puglia.

Come gran parte delle città e dei borghi pugliesi, anche Oria ha radici lontane, risalenti alla civiltà messapica. Rifiorì nel Duecento sotto Federico II, al quale si deve il castello a pianta triangolare, che accoglie nel cortile interno la cripta dei santi Cristante e Daria (sec IX), forse appartenente alla prima cattedrale.

Oria era un piccolo ma ricco principato, a 35 chilometri da Brindisi, al centro di un fertile entroterra, che dopo varie vicissitudini nel 1562 venne dato dal re di Spagna al conte Federico Borromeo. Questi, defunto dopo pochi mesi, lasciò in eredità il principato al fratello minore Carlo, cardinale e arcivescovo di Milano.

La morte del fratello turbò profondamente Carlo, già ai vertici degli onori presso la Curia romana: da quel momento iniziò a dedicarsi «apertamente e decisamente al disprezzo completo di questa vita e a quella sacra disciplina di più severa condotta, che da tempo si era affacciata alla mente», come scrive il suo biografo Carlo Bascapè.

Preso possesso dell’arcidiocesi milanese nel 1565, ben presto il contatto con la popolazione portò l’arcivescovo Carlo a immedesimarsi nella grave miseria in cui versava gran parte del suo gregge. Scelta per sé una vita di assoluto rigore - vesti povere, digiuni e penitenze - , man mano destinò i suoi molti averi ai bisognosi e agli appestati.

Tra queste benemerite azioni, la vendita del principato d’Oria nel 1567 ha un posto rilevante. Ecco come descrive il munifico gesto un altro suo biografo, G. P. Giussano:
«E poi vendé il suo Prêcipato d’Oria nel Regno di Napoli per quaranta mila scudi, e nel far il compartimento per darli parimenti a simili luoghi bisognosi, Môsignor Cesare Specciano, che all’hora era Preposito della casa, errò di due mila scudi, che aggiunse di più, e dicêdolo al Cardinale, per ritirarli indietro, gli rispose che non occorreva, poiché era errore molto giovevole a poveri, e così in un sborso solo fece limosina di quarantaduemila scudi».

Un episodio che unisce terre e popoli lontani, e che sottolinea l’animo generoso e la santità di un vescovo tanto caro ai milanesi, ma che ha forse qualche tito lo per farsi ricordare e amare anche dalla popolazione di Oria.

Architetto Ernesto Brivio, storico della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano

Cerano: San Carlo vende il principato d'Oria (Duomo di Milano)


L'ORIGINE DELLA FAMIGLIA CARISSIMO

Tutto cominciò con il cavaliere bolognese Gesualdo Storletti. Quando egli partì verso le Crociate in Terra Santa, si fregiò il petto di una croce d’oro in campo rosso per testimoniare la sua fede religiosa, e sotto vi aggiunse la parola «Carissima». Gesualdo tornò a Bologna vittorioso nel 1222, e in seguito suo figlio Giovanni, in segno di devozione, abbandonò il cognome Storletti per quello di Carissima.

Com’è successo per molti casati, nel corso dei secoli il cognome si modificò: dalla forma originaria di Carissima si passò al Carissimi, e infine all’attuale Carissimo. Si verificò anche una dispersione geografica in tutta Italia, perché la famiglia da Bologna si estese in Sicilia, a Parma e a Benevento.

I CARISSIMO A TRAPANI

Il primo a recarsi a Palermo, allora fiorentissima sede dell’imperatore Federico II, fu Pascotto Carissima. Da lì nel 1248 Pascotto si trasferì a Trapani dove gli nacque un figlio, Tomeo, padre a sua volta di Pirrone.

Pirrone ebbe sei figli. L’unica femmina, Smeralda, si sposò nel 1349 con Palmerio Spinola, gentiluomo genovese residente a Trapani, e generò un altro Palmerio, che troviamo «giurato» a Trapani nel 1409 assieme al cugino Tommaso Carissimo.

Gli altri fratelli di Smeralda dal 1392 aiutarono re Martino d’Aragona a domare i baroni ribelli, e furono ricompensati con feudi: quelli di Calatafimi e Sant’Ippolito andarono ad Antonio Carissimo, mentre le isole Egadi (Favignana, Marettimo e Levanzo) finirono ad Aloisio assieme alle tonnare di San Niccolò e San Leonardo.
Le concessioni furono confermate da re Alfonso V d’Aragona a Melchiorre Carissimo, figlio di Aloisio, nel 1445. Ma nel 1516 questo ramo si estinse, per la morte dell’unico erede maschio.

I CARISSIMO A BENEVENTO

Contemporaneamente ai Carissimo siciliani, ecco Pietro e Giovanni Carissimo, soldati così valorosi del regno di Napoli da ricevere in ricompensa alcuni feudi nel Beneventano da parte del re francese Carlo d’Angiò (1266-1285), fratello del re di Francia.

Al 1350 risale un documento che attesta la presenza in Benevento città del cavalier Giacopo Carissimo. Un suo discendente, Bartolomeo, sposò Beatrice, figlia del principe Morra della stessa famiglia di papa Gregorio VIII. Rimasto vedovo, Bartolomeo si risposò con Prudenzia Visconte contessa di Mirabella. Dal nuovo matrimonio nacque Giannantonio, che nel 1557 era Governatore del tempio della SS.Annunziata a Benevento.

I CARISSIMO A PARMA

Il ramo parmense dei Carissimo è presente in città dalla seconda metà del XIV secolo con Paolo, che fu consigliere generale nel 1387. Il ricordo dell’illustre casato è perpetuato nella toponomastica cittadina con l’intitolazione del borgo dove sorgeva il palazzo Carissimo, sovrastato da una torre: diritto allora concesso soltanto a pochi nomi dell’alto patriziato.

Della famiglia restano la tomba con epigrafe di Pirro, capitano che servì valorosamente lo Stato di Milano, nella chiesa di Santa Cristina a Parma (1480). Inoltre nel bellissimo Duomo (all’interno del quale ottennero il diritto di sepoltura) troviamo le lapidi di Battista Carissimo (morto nel 1598), di Pietro Maria e di Vincenzo , scolpite dal D’Agata.

Un altro Carissimo, il nobile magistrato Alessandro, fece da modello per Leonardo da Vinci quando questi dipinse il suo capolavoro, l’Ultima Cena di Santa Maria delle Grazie a Milano: il Codice Forster II attesta che la mano di Cristo era la sua. Ottaviano, capitano di cavalleria, guidò nel 1551 una spedizione contro Pico della Mirandola.

Tra le religiose ricordiamo Sandrina e Cabrina, che nel ‘500 furono Badesse di Sant’Ulderico di Parma. Ma anche questa famiglia si estinse verso la fine del Seicento per mancanza di eredi maschi, dopo aver goduto per vari secoli gli onori di vari uffici e cariche nobiliari.

IL CASTELLO DI ORIA

Per una coincidenza quasi magica della storia, qualche anno prima che Pascotto Carissimo giungesse da Bologna a Palermo, presso la corte di Federico II di Svevia, quest’ultimo durante uno dei suoi frequentissimi viaggi si era recato in Puglia, e fermandosi a Oria nel 1222 aveva ordinato la costruzione di un castello. Hanno così inizio due vicende parallele, quelle della famiglia Carissimo e del castello di Oria, che si incroceranno soltanto sei secoli dopo.

Oria si trova nel centro della penisola Salentina, lungo la via Appia che nel suo ultimo tratto collega Taranto a Brindisi, e il mar Jonio all’Adriatico. La leggenda racconta che sia stata fondata attorno al Mille avanti Cristo da un gruppo di soldati cretesi reduci da una spedizione in Sicilia, e approdati in Puglia dopo una tempesta.

La posizione geografica centrale di Oria le ha fatto subìre nel corso dei secoli innumerevoli assedi (compreso quello di Annibale), battaglie (come quella fra Ottaviano e Marco Antonio durante la guerra civile) e saccheggi (da parte di goti, longobardi e saraceni). Il luogo dove l’imperatore Federico II fece costruire il castello svevo è quello di un’antica acropoli dei messapi, i primi abitanti della Puglia. Alcuni resti delle mura messapiche sono sepolti sotto il castello.

Ai tempi di Roma su quel colle sorgeva il tempio di Saturno, che nel 58 dopo Cristo fu trasformato in chiesa cristiana da Sant’Oronzo. Nell’880 il vescovo Teodosio vi eresse la chiesa dei santi Crisante e Daria, di cui esiste ancor oggi l’ipogeo nel cortile del castello, ai piedi della torre del Salto.

Il castello ha pianta triangolare, con il vertice orientato verso Nord. Lunga 103 metri e larga 68, la costruzione è imponente per la sua vastità, per l’altezza (166 metri sul livello del mare) e per i suoi muraglioni larghi quattro metri, che raccolgono una piazza d’armi con una capienza di cinquemila persone.

Su una delle torri, rotonde e altissime, fa mostra di sè ancor oggi l’aquila degli Imperiali marchesi di Oria e principi di Francavilla, che furono gli ultimi feudatari fino alla fine del Settecento. Federico II ordinò la costruzione di numerosi castelli nel suo regno sia per esigenze di difesa esterna, sia per controllare meglio le eventuali rivolte popolari. Soggiornò spesso in quello di Oria anche dopo l’inaugurazione, cui prese parte, nella primavera del 1230.

Quando l’imperatore muore nel 1250, l’erede è suo figlio Corrado. Ma il principato di Taranto, che comprendeva Oria, andò al figlio naturale Manfredi. E quando Oria, assieme a tutte le città della Puglia meridionale (Brindisi, Taranto, Lecce, Otranto, Mesagne) nel 1255 gli si ribella, ecco che il castello subisce il primo dei suoi numerosi assedi.

IL PRIMO ASSEDIO

Sotto la guida di Tommaso d’Oria, uno dei migliori comandanti dell’epoca, gli oritani rinchiusi nel castello fecero fronte alle truppe dell’imperatore per mesi, sventando anche un tentativo nemico di penetrazione attraverso un cunicolo sotterraneo, finché Manfredi non dovette togliere l’assedio per andare a fronteggiare l’esercito del Papa che era entrato in Puglia.

Clamoroso fu anche l’inganno con il quale Tommaso d’Oria riuscì a uscire dal Castello, grazie a un salvacondotto concesso dall’imperatore convinto che il suo avversario volesse recarsi a Brindisi per trattare la resa. Invece l’indomito capitano ne approfittò per incitare i brindisini a mandargli aiuti, e poi tornò a chiudersi nel castello.

Ma l’imperatore non poteva permettere che un simile schiaffo restasse impunito, anche perché aveva bisogno di impressionare i baroni, che non gli furono mai fedeli. Così, vinte le truppe papaline, Manfredi dispose un secondo assedio con forze ancora più numerose. Ma fu il tradimento dei brindisini e non la resa di Tommaso d’Oria a far entrare l’esercito imperiale nel castello. Il giorno dopo il corpo del valoroso comandante penzolava appeso a uno spalto.

LA PRINCIPESSA MARIA D’ENGHIEN

Nel 1403 le mura del castello d’Oria assistettero mute al dramma della principessa Maria d’Enghien. Vedova del principe di Taranto Raimondello Orsini, preferiva vivere a Oria anziché a Taranto. E si trovava proprio nel castello quando ricevette la proposta di contratto di nozze che le offriva Ladislao d’Angiò-Durazzo, re di Napoli dal 1400.

Lei all’epoca aveva trent’anni, era bella, i suoi possedimenti erano vasti e il popolo l’amava (non capitava spesso ai governanti, né allora né oggi). Ladislao non poteva vincere con la forza, e allora cercò le vie del cuore con l’attraente vedova. La sventurata disse sì, e lui subito le fece recapitare l’anello nuziale nel castello d’Oria. Ma poi rimase deluso riguardo ai tesori di Raimondello, che sperava fossero maggiori. Così imprigionò la povera Maria d’Enghien nella residenza di Castelnuovo a Napoli.

Soltanto trent’anni più tardi, dopo la morte di Ladislao (1414) e di sua sorella Giovanna II che gli era subentrata come regina di Napoli (1435), Maria potè riacquistare la libertà. Sua figlia Caterina divenne moglie di Tristano di Chiaramonte e solo allora, dopo una vita di espiazioni e di pianto, a sessant’anni, riuscì a tornare nel Salento e a rivedere il suo amato castello d’Oria. Quel castello dov’era stata felice da giovane, dove aveva sentito l’ansia di un’ambizione nascente e di una vanità che le proveniva dall’età, dalla bellezza e dai vasti possedimenti.

Pochi anni più tardi, nel 1440, il castello d’Oria ospitò Isabella di Chiaramonte, nipote di Maria d’Enghien, e la storia si ripetè: questa volta la giovane andò a Napoli per sposare Ferrante, figlio naturale e successore del re Alfonso d’Aragona che riuscì a unificare tutto il Sud, Sicilia compresa, sotto il suo scettro. Ma il destino di Isabella fu meno triste di quello di sua nonna.

L’ASSEDIO DELLA REGINA GIOVANNA

Torniamo ai fatti d’arme: quasi due secoli dopo il primo assedio del 1255, la grande storia italiana passa di nuovo per il castello d’Oria. Nella notte del 28 agosto 1433 i soldati della regina di Napoli Giovanna II d’Angiò-Durazzo, comandati dal conte Jacopo Caldora, dal principe di Salerno e dal conte di Tricarico, invasero Oria che non aveva voluto arrendersi. Il figlio di Maria d’Enghien Giovanni Antonio Orsini, infatti, appoggiava più gli aragonesi che gli angioini.

La città subisce un saccheggio totale, violenze inaudite e un incendio. Le fiamme lambiscono le mura del castello, dentro al quale si sono rifugiati gli oritani. Inizia un altro assedio, che però questa volta finisce bene per Oria. Arriva infatti a liberarla l’Orsini, che sorprende alle spalle gli assedianti.

L’ASSEDIO SPAGNOLO

E arriviamo così al 1503, nell’epoca in cui l’Italia era diventata terra di conquista per Francia e Spagna. Il gran Capitano spagnolo Consalvo sconfisse i francesi D’Ambigny nella battaglia di Seminara (Reggio Calabria) e il duca di Nemours in quella di Cerignola (Foggia), diventando così padrone dell’intero regno di Napoli.

Ma nel castello d’Oria era rimasta un’ultima guarnigione francese. Allora ventimila soldati spagnoli dotati di ben venti cannoni (allora rarissimi, l’artiglieria era stata appena inventata) circondarono la città. I cannoni furono issati sul colle di San Basilio che si eleva di fronte al castello, e da lì partivano i colpi. L’assedio durò oltre un mese, con sanguinosi tentativi d’assalto.
I cittadini si erano trasformati in soldati, asserragliandosi come settant’anni prima nella fortezza, e compirono vari atti eroici.

Dopo averle provate tutte il comandante degli assedianti spagnoli Pedro De Pace ordinò di far scoppiare un mina. Ma l’imperizia degli artificieri fece sì che l’ordigno procurasse morti da entrambe le parti. Per tutto il mese d’agosto del 1503 l’assedio continuò, e alla fine si trovò una soluzione: i francesi furono liberi di uscire dal Castello, che venne consegnato agli spagnoli. La città dovette accettare il dominio spagnolo, ma in cambio gli abitanti non subirono angherie e ritorsioni.

Intanto Oria era stata separata dal principato di Taranto, ed era diventata capoluogo del marchesato che comprendeva anche Manduria e Francavilla Fontana.

DAL MARCHESE BONIFACIO A SAN CARLO BORROMEO

Nel Cinquecento il castello d’Oria ospitò un altro grande infelice: il marchese Gian Bernardino Bonifacio. Era un uomo dottissimo, ma entrò in urto con il vicerè e con l’arcivescovo di Oria perché usurpò diversi beni di privati. Lo accusavano di essere un individuo strano ed eretico, anche se tutti gli riconoscevano un gran carattere. Molti scrittori lo hanno descritto come un uomo pieno di vizi e nemico della Chiesa.

Così nel 1557 il marchese Bonifacio dovette andare in esilio volontario e abbandonare Oria. Amante della libertà e curioso di vedere il mondo, andò a Venezia e poi si spinse fino in Germania e Inghilterra. Morì a Danzica nel 1597 vecchio, cieco e poverissimo. Ancor oggi, visitando il castello, una porta alta e stretta in una delle stanze che guardano a Ovest ci mostra la dimora di quest’uomo singolare.

Intanto, nel 1562 il regno di Napoli conferì il principato d’Oria, assieme al titolo di principe, alla famiglia del cardinale milanese Carlo Borromeo. Il futuro San Carlo tenne il principato per cinque anni finché, non avendo altri mezzi per aiutare i poveri di Milano, lo vendette per 40 mila scudi che distribuì agli indigenti in un sol giorno.

Il quadro che raffigura la vendita del castello e dei possedimenti di Oria viene esposto assieme ad altri all’interno del Duomo di Milano ogni anno da ottobre a gennaio, in occasione delle festività di San Carlo (4 novembre), Sant’Ambrogio (7 dicembre), e di quelle natalizie.

Nel Seicento e Settecento il castello d’Oria andò parzialmente in rovina. Nel 1825 fu comprato dalle monache Benedettine, che ne occupano ancor oggi una parte. Nel 1866, con l’incameramento dei beni religiosi da parte dello Stato, il castello passò al Comune di Oria.

BENEVENTO

Negli stessi secoli, invece, in quel di Benevento la famiglia Carissimo si espande. Avevamo lasciato Giannantonio nel 1557 come governatore del tempio beneventano della Santissima Annunziata. Da lui nacquero due figli.
Il primo, Girolamo, dopo la laurea a Napoli nel 1575 divenne un eccellente avvocato e coprì importantissimi uffici nella città di Benevento. L’altro, Giuseppe, all’inizio del XVII secolo possedeva diversi feudi: Cirritello, Lucita, San Marco, Cocuozzolo, Gambarota e Staffili.

Morto Giuseppe senza eredi, tutti i possedimenti passarono a Girolamo e ai suoi tre figli: Bartolomeo, Antonio e Scipione. Ma questi dovettero sostenere un lungo e aspro conflitto con il patriziato beneventano sul valore e l’uso dei loro diritti nobiliari. Alla fine, nel febbraio 1619, una sentenza definitiva della Sacra Rota sotto il pontificato di Alessandro VIII li reintegrò fra i nobili di Benevento con il titolo di Patrizi.

Bartolomeo Carissimo si sposò con la baronessa Claudia del Tufo, ed ebbe cinque figli. Com’era usanza a quel tempo, le tre femmine non maritate si fecero suore. E una di loro, Beatrice, diventò badessa del monastero di San Vittorino. Il primogenito Giuseppe fu eletto consigliere comunale per il ceto patrizio nel 1671 e si distinse fra i migliori avvocati del foro napoletano.
Anche suo figlio Ferdinando, che sposò in successione due vedove, fu avvocato, ma a Roma presso la Sacra Rota. L’altro figlio Carlo, anch’egli consigliere comunale nel 1688 e nel 1695, fece costruire per la famiglia il magnifico palazzo Carissimo a Benevento, che ancora oggi è fra i più grandiosi edifici della città.

Lo zio Ottavio, invece, secondogenito di Bartolomeo, si diede alla guerra e combattè valorosamente per il re Filippo V, ma anche la sua unica figlia femmina Claudia finì nel convento di San Vittorino, dove successe alla zia come madre badessa.
Molte vocazioni, in quell’epoca, fra i Carissimo: Scipione, fratello di Claudia, coprì successivamente le cariche di canonico, primicerio e arciprete della Chiesa metropolitana di Benevento.

Il terzo figlio di Ottavio, Domenico, si diede invece alla vita pubblica. Diventò console di Benevento e nell’anno giubilare 1675 fece adornare di stucchi la porta Ruffina, la più frequentata della città perché è in direzione di Napoli, decorandola con le statue di San Bartolomeo e di altri santi protettori. Nel 1738 un altro Carissimo, Pietro, ricopre la carica di consigliere comunale.
Ma alla fine del Settecento suo nipote Gennaro decide di lasciare Benevento e di trasferirsi in provincia, a Foiano di Val Fortore, verso il confine con la Puglia.

FOIANO DI VAL FORTORE

Durante il tranquillo soggiorno nel suo feudo di Foiano, Gennaro si dedicò all’amministrazione degli interessi di famiglia, e ne fece prosperare il patrimonio. L’esempio paterno fu seguito con ottimi risultati anche dal figlio Nicola Antonio, che nacque a Benevento nel 1818 e morì a Foiano nel 1902.

Ma Nicola Antonio non si limitò alla cura dei propri affari privati: sotto il nuovo regno d’Italia occupò diverse cariche pubbliche. Per molti anni fu sindaco di Foiano, e più volte consigliere provinciale. Dalle sue nozze con Anna Saveria Magno nacquero ben nove figli. Fra questi il quintogenito Alessandro sposò nel 1881 la nobile Concetta Margarita di Francavilla Fontana.

Il terzogenito Gennaro nacque a Foiano nel 1846. Dopo il liceo classico si laureò in legge all’università di Napoli, e nel 1869 entrò in magistratura. Per dieci anni fece il giudice di Tribunale a Napoli, Bari, Firenze e Viterbo. Ma nel 1879, a soli 33 anni quindi, lasciò la carriera di magistrato dopo il matrimonio con Elena Martini, figlia del senatore Tommaso e della contessa Isabella Gattini di Matera.
E qui le due storie, quelle della famiglia Carissimo e del castello di Oria, si uniscono: Elena Martini, infatti, apparteneva a una delle famiglie più in vista della cittadina salentina.

I MARTINI CARISSIMO A ORIA

Gennaro Carissimo si impegnò nell’amministrazione del vasto patrimonio delle famiglie Carissimo e Martini. Nei suoi possedimenti sviluppò la coltivazione intensiva dell’ulivo e introdusse nuove colture, come il mandorlo e il pistacchio.
Per combattere la cronica penuria d’acqua fece installare una pompa alimentata da un motore a vento alto trenta metri: un’idea così ingegnosa e avveniristica che gli valse il Cavalierato del lavoro. Così riuscì a render fertile una zona fin ad allora abbandonata, al di là del santuario di San Cosimo presso Oria.

Seguendo le orme del suocero Tommaso Martini, nobile nominato senatore nel 1892, Gennaro Carissimo si dedicò alla vita pubblica diventando sindaco di Oria nel 1906 (riconfermato nel 1910) e vicepresidente della provincia di Terra d’Otranto (corrispondente alle attuali provincie di Brindisi, Taranto e Lecce).
Amministrò l’ospedale Martini, fondato a Oria dal suocero, e vi spese di tasca sua 40mila lire (circa mezzo miliardo ai valori attuali). Liberale, appoggiò a livello nazionale i governi di Giovanni Giolitti, finché nel 1913 il re Vittorio Emanuele III lo nominò senatore.

La sua vita privata, però, fu subito funestata da un gravissimo lutto: la morte nel 1884 della moglie Elena, che tre settimane prima aveva dato alla luce la figlia Maria Isabella. Due anni dopo Gennaro Carissimo si risposò con la sorella di Elena, Mariannina, e da essa ebbe altri quattro figli.

Intanto il castello d’Oria era stato acquistato nel 1825 da Elena Martini, zia del senatore Tommaso e badessa del monastero di San Benedetto. Ma con l’avvento dell’unità d’Italia e la soppressione delle corporazioni religiose, il castello divenne proprietà del comune di Oria.

Il primogenito maschio del senatore Carissimo, Giuseppe, nacque nel 1889. Dopo il liceo classico a Lecce e la laurea in Legge a Roma cambiò il proprio cognome in quello di Martini Carissimo, come aveva voluto il nonno materno nel suo testamento.

La famiglia Martini può vantare origini antiche quanto i Carissimo: nel 1020 infatti il capostipite, nobile capitano dell’esercito spagnolo, si stabilì a Brindisi. Nei secoli seguenti i Martini si trasferirono a Oria, dove per secoli godettero dei privilegi nobiliari. Fra i più insigni della famiglia si ricorda Giovan Carlo Martini (1717-1760), erudito arciprete di Oria, buon poeta e fecondo scrittore di versi in latino e in italiano.

LA RINASCITA DEL CASTELLO

Nel 1933 avviene la permuta fra il palazzo dei Martini Carissimo nel centro di Oria e il Castello svevo. In cambio di quello che ormai è un rudere, il municipio oritano ottiene la proprietà di un prezioso edificio, che adibisce a sua sede.

Fra le clausole del contratto, c’è quella che impegna l’avvocato Giuseppe Martini Carissimo a restaurare il Castello «come meglio crederà, dandone avviso alla Soprintendenza delle Antichità e Belle Arti». Martini Carissimo, inoltre, «farà visitare le torri nei giorni e nelle ore che egli stesso vorrà designare a quei cittadini e forestieri che vi si recheranno a scopo culturale e storico».

Il Castello svevo era completamente «diruto», e Giuseppe Martini Carissimo dovette impegnare ingenti fondi personali per ripristinarlo. Per ringraziarlo di quest’opera re Vittorio Emanuele gli concesse il titolo di conte di Castel d’Oria.

Così, dopo avere ospitato nel corso dei secoli gli Hohenstaufen i D’Angiò, gli Enghien, i Del Balzo Orsini, i D’Aragona, i Bonifacio, i Borromeo e gli Imperiali, il castello è passato alla famiglia Martini Carissimo. La storia della quale, come abbiamo visto, si è intrecciata con personaggi illustri quali l’imperatore Federico II e Leonardo da Vinci, Pico della Mirandola e san Carlo Borromeo.

Al conte Giuseppe Martini Carissimo va il merito di avere saputo tutelare il poderoso castello dal degrado, e di averne fatto un importante punto di riferimento culturale.
Dopo i restauri il castello e l’intera cittadina di Oria, con il suo Centro di documentazione sulla civiltà messapica (1000 a.C.), sono diventati mete di autorevoli studiosi e turisti provenienti da tutto il mondo.
Oltre alla suggestione del ricordo federiciano, infatti, per chi visita Oria e il suo castello si aggiunge la possibilità di una presa di contatto con importanti testimonianze di vita e di cultura che coprono l’arco di tre millenni di storia.

Mauro Suttora

© Il Gabbiano Edizioni, 2000
Via della Meccanica 2
20083 Vigano di Gaggiano (Milano)

Tuesday, April 11, 2000

Alberto Mingardi

Il Foglio, 11 aprile 2000

di Mauro Suttora

Mandello Lario (Lecco). Qui, nel paese della Moto Guzzi, vive un piccolo mostro. Si chiama Alberto Mingardi. Un bel film di un regista svizzero, Alain Tanner, si intitolava «Jonas, che avrà vent’anni nel Duemila». Mingardi invece ha 18 anni, ma ha già scritto sette libri. Abita con il padre dentista e la mamma casalinga, ma è collegato costantemente con il mondo attraverso il computer. Anzi, no: ormai è obsoleto pure quello, adesso c’è il telefonino «wap», con Internet e la posta elettronica che arrivano direttamente sul display.

Si definisce «anarcocapitalista»: «Così metto assieme due parole brutte», gongola. Risultato: lo detestano sia gli anarchici, sia i capitalisti. I primi, perché gli anarchici in Italia sono prevalentemente collettivisti, si sentono di sinistra e piuttosto che far comunella con Mingardi e i suoi «maggiori» (i premi Nobel per l’economia Friedrich Von Hayek, Milton Friedman e James Buchanan) scappano a sognare la rivoluzione con gli autonomi dei centri sociali. I secondi, i capitalisti, lo detesterebbero se leggessero i suoi libretti: «Fragole di dinamite», «Anarchici senza bombe», «Copia pure» (contro i diritti d’autore), «Le ragioni del non voto», pubblicati dalla Stampa Alternativa di Marcello Baraghini.

Tutto è cominciato tre anni fa, quando il quindicenne Mingardi, studente del liceo classico Manzoni di Lecco, torna a casa e legge un editoriale di Sergio Ricossa sul Giornale che suo padre compra ogni giorno. Da allora si entusiasma per il liberismo, compra e legge parecchi libri (da Ludwig Von Mises a Murray Rothbard, da David Friedman - il figlio di Milton - a Bruno Leoni), oltre ovviamente a quelli del suo idolo Ricossa. Infine, conosce un singolare gruppo di libertari leghisti raccolti attorno a Leonardo Facco, giornalista della Padania ed editore in proprio a Treviglio (Bergamo).

La scorsa estate si fa mandare a Torino da Facco a intervistare Ricossa per conto del trimestrale «Enclave», rivista che propugna l’anarcocapitalismo. E lì scocca la scintilla. Alberto, emozionatissimo, pensa che il professore pensi: «Ma adesso mandano a intervistarmi anche i bambini?» Invece Ricossa non solo lo apprezza, ma dopo l’intervista accetta volentieri anche la proposta di pubblicare presso l’editore Facco una raccolta dei suoi articoli sul Giornale. Il libro è corredato da un saggio introduttivo di Mingardi e da una lunga intervista-dialogo fra i due, sotto il titolo «Da liberale a libertario, cronaca di una conversione».

Ma l’intraprendente ragazzo non si ferma qui. Dopo aver prefato Ricossa, si fa da lui prefare un proprio libro, «Estremisti della libertà»: una raccolta di interviste ai principali protagonisti del libertarismo internazionale, tutte raccolte esclusivamente via Internet dal «virtual boy» lariano. Così siamo a sei libri. E il settimo? «Si intitola ‘Fuga dallo Stato’ e uscirà, sempre per Facco editore, dopo l’estate», spiega Mingardi.

«Alberto è diventato il bastone della vecchiaia di Ricossa, assieme sono imbattibili», commenta Fabio Massimo Nicosia, proprietario della libreria Libertaria di corso di Porta Romana a Milano. Spiega l’economista torinese: «Oggi tutti si dichiarano liberali, perfino gli ex comunisti. Quindi, per marcare la differenza, io mi definisco libertario. Anche perché se si resta liberali si fa un buco nell’acqua: perfino il grande Luigi Einaudi ammise alla fine che le sue erano “prediche inutili”».

Giordano Bruno Guerri è un altro intellettuale conquistato dall’energia contagiosa di Albertino. A forza di ascoltarlo, durante le vacanze di Natale fa si è fatto trascinare da lui fino in Costa Rica, dove un gruppo di visionari statunitensi ha fondato «Laissez-faire City»: una città libertaria in cui, grazie a Internet, si sperimenta in concreto una vita senza tasse, senza leggi se non quelle del libero mercato fra individui adulti e consenzienti, e dove i ricchi americani trovano conveniente investire i propri capitali per ragioni fiscali.
Una specie di terra promessa tropico-equatoriale dell’utopia della scuola di Chicago friedmaniana, dopo gli esperimenti riusciti in Cile, quelli un po’ meno riusciti nell’Argentina di Carlos Menem (che cercò di privatizzare le strade), e gli approcci abortiti con il presidente peruviano Albert Fujimori. Ai libertari il Costa Rica sta simpatico, oltre che per il clima e le onde del Pacifico, anche perché è l’unico Paese al mondo senza esercito.

Ma, attenzione, questi disincantati anarchici di destra non sono pacifisti: «Crediamo nella difesa individuale, nel libero porto d’armi come negli Stati Uniti, e nelle milizie private». Che sostituiranno gli eserciti statali, come ai tempi dei mercenari lanzichenecchi? «Perché no? Ciascuna comunità potrà scegliere sul mercato fra varie agenzie di protezione cui appaltare la difesa interna ed esterna».

Un ulteriore incontro eccellente ha catapultato tre mesi fa Mingardi a Potsdam (Berlino), all’esclusivo congresso mondiale della Mont Pélerin Society, una specie di Trilaterale o Aspen dei liberisti, fondata da Von Hayek nel 1947 e composta da professori universitari, grandi industriali e ambasciatori. Agli incontri a porte chiuse di questo think tank si può accedere solo per invito, e per essere ammessi come soci bisogna avere partecipato a tre meeting. Gli unici membri italiani sono Ricossa, Antonio Martino e i professori Angelo Maria Petroni, Domenico da Empoli ed Enrico Colombato.

In questo caso il pigmalione di Mingardi è stato Martino, al quale la figlia Alberta, ingegnere a Milano e convinta libertaria pure lei, ha presentato il liceale prodigio. «Mingardi è un ragazzo straordinario», conferma Martino, «siamo in costante contatto tramite posta elettronica. Questa nuova generazione di libertari si sta moltiplicando rapidamente, e il fenomeno è ancora più significativo in quanto fino a pochi anni fa certi autori e le loro idee erano del tutto sconosciuti in Italia. Un grosso merito in questa opera di divulgazione ce l’ha Aldo Canovari, editore di Liberilibri, che ha tradotto in italiano i principali testi del libertarismo classico e contemporaneo».

Anche Canovari è un fan di Mingardi: «L’ho visto in azione a un convegno della destra qui a Macerata, ha pronunciato un intervento spiritoso e brillante che ha fatto rizzare i capelli al povero Marcello Veneziani. Il libertarismo di mercato è l’approdo ineluttabile del dibattito politico, e non solo a destra: c’è un interesse vivissimo pure a sinistra per le nostre idee, ho ristampato il libro di Bruno Leoni, e perfino il mattoncino da 350 pagine di Rothbard vende bene».

Rothbard è l’autore preferito, la bandiera sventolata più di ogni altra dai neolibertari italiani. Anche da Mingardi. Perché? «Perché è riuscito a fondere la grande tradizione della scuola economica austriaca di Mises e Hayek con l’individualismo americano». E qui in Italia, da che parte pendete? La Lega? «Non solo», precisa Mingardi: «Se proprio votiamo, possiamo farlo anche per Forza Italia o per la lista Bonino».

«Per un libertario non è incongruente essere contemporaneamente leghista, liberale o radicale», commenta il professor Massimiliano Finazzer Flory, animatore del Circolo culturale di via Marina a Milano (area Forza Italia), dove la scorsa settimana il professor Lorenzo Infantino della Luiss ha celebrato l’opera di Mises nel quadro di una serie di conferenze sul pensiero lib-lib-lib (liberale, liberista, libertario). Vota Bonino, per esempio, Marco Faraci, altro enfant prodige del libertarismo: pisano, 24 anni, laureando in Ingegneria elettronica, reaganian-thatcheriano sfegatato, è lui l’organizzatore del miglior sito italiano sull’argomento: «Capitalismo e libertà» (www.freeweb.org/politica/capitalismo).

Ottimo è anche un altro sito libertario: il «www.libertari.org» fondato da Mingardi, che ha spedito in America i 70 dollari per la registrazione, ma che non disdegna di imperversare su tutte le liste di discussione di area anarchica e radicale: «Però il miglior forum è il nostro», precisa, «non è moderato e volano gli insulti».
Instancabile poligrafo, quando gli abbiamo telefonato a Lecco Mingardi stava scrivendo un articolo sulle pensioni private per il Borghese di Vittorio Feltri. «È stato proprio a causa di un altro mio pezzo uscito sul Borghese, dal titolo “La pornografia renderà libera la donna”, che una mia fidanzata, turbatissima dopo la lettura, mi ha lasciato», scherza.

Vicedirettore della rivista Élites dello psichiatra napoletano Mauro Maltonato, redattore di Enclave, Albertino collabora anche con l’Opinione di Arturo Diaconale e ha distillato un saggio su Ayn Rand per l’ultimo numero dei Quaderni Radicali di Giuseppe Rippa. Non pago e poco pagato, trova anche il tempo di scrivere (in inglese) per il Laissez-faire City Times: «Che mi dà cento dollari ad articolo», esulta. Soldi che finiscono (subito) in libri americani ordinati via Internet, e nei viaggi: dopo Costa Rica e Berlino, nell’ultimo week-end Mingardi è corso a Lucca per un seminario sulla “scuola austriaca” organizzato dai professori Dario Antiseri e Raimondo Cubeddu.

E il liceo? Fra tre mesi c’è la maturità, nel primo quadrimestre Alberto ha avuto 8 in storia e 6 in filosofia («La mia prof è una comunista sfegatata, viene a scuola col Manifesto, ma ammetto che sopportarmi è difficilissimo: è la mia preferita»), e in italiano, greco e latino naviga sul 7. Università? «Sono indeciso fra economia e commercio e scienze politiche. Mi piacerebbe andare a Stanford, ma costa 60 milioni l’anno». Hobbies? «Faccio regate sul lago con l’Hobycat 16, un catamarano, suonavo il piano ma non ho più tempo, continuo ad ascoltare cantautori come De André e Vecchioni, mi piacciono perfino quelli di sinistra, e poi Wagner».

Nelle settimane scorse ha abbandonato la virtualità, è uscito dal suo computer e si è misurato per la prima volta con una vicenda politica concreta: la protesta di Moreno Simionato, un agricoltore di Domodossola che si è ribellato alle angherie burocratiche. Anche come organizzatore politico, assieme al suo amico Carlo Stagnaro, ha dato ottima prova di sè: è riuscito a coinvolgere parlamentari come Marco Taradash e Sandra Fei, il caso è stato quasi risolto. E così il tanto detestato Stato ha dovuto indietreggiare per la prima volta davanti ad Albertino Mingardi, che ha 18 anni nel Duemila. Non sarà l’ultima.

Mauro Suttora

Saturday, March 18, 2000

Silvia Baraldini

Graziata negli Usa la sua compagna condannata a 58 anni

di Mauro Suttora

Oggi, 18 marzo 2000

Ora che gli americani hanno liberato una sua compagna che era stata condannata a 58 anni di carcere, non si capisce più cosa ci stia a fare Silvia Baraldini in prigione, lei che di anni da scontare ne ha quindici in meno.

Il 19 gennaio scorso, poche ore prima di lasciare la Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton ha graziato la 45enne Susan Rosenberg, militante come la Baraldini del gruppo estremista americano «19 Maggio» (data di nascita sia del rivoluzionario di colore Malcolm X, sia del capo comunista vietnamita Ho Chi Min).

Entrambe erano state arrestate all’inizio degli anni Ottanta per una rapina commessa dalla loro organizzazione nel New Jersey, durante la quale erano stati ammazzati una guardia giurata e due poliziotti. Il 9 novembre 1982 la Baraldini venne catturata e processata con ben nove imputazioni. Ma soltanto due furono confermate da testimoni: la complicità nell’evasione di Assata Shakur, militante del Black Liberation Army condannata a cento anni per omicidio, e la partecipazione a una tentata rapina a Danbury (Connecticut).

In realtà Silvia Baraldini non ha mai impugnato un’arma, né gliene hanno trovate in casa. Lei era soltanto una fiancheggiatrice: autista, al massimo palo. Ma tanto bastò al severo pubblico ministero Rudolph Giuliani, futuro sindaco di New York, per farla condannare a vent’anni. Pena raddoppiata per effetto di una legge speciale americana antimafia, la Rico (Racketeer influenced corrupt organisation), poi estesa anche ai terroristi. Infine, un supplemento di tre anni per oltraggio alla corte. Totale: 43 anni.

Due anni fa la Baraldini ottenne il trasferimento in Italia, con l’impegno da parte del nostro governo di tenerla in prigione fino al 2008. Ma ora, dopo la grazia ottenuta dalla Rosenberg, non sembra giusto che lei rimanga l’unica a pagare. Così il ministro della Giustizia italiano Piero Fassino ha chiesto al suo nuovo collega americano, John Ashcroft, di rivedere la questione. Anche perché la mamma 84enne di Silvia Baraldini, Dolores, versa in fin di vita in una casa di cura a venti chilometri da Roma. E la figlia è potuta andarla a visitare pochi giorni fa soltanto grazie a un permesso speciale di quattro ore (che non le veniva concesso da settembre).

Dallo scorso ottobre la Baraldini è stata trasferita dal carcere di Rebibbia al sesto piano del policlinico Gemelli di Roma, dov’è piantonata per seguire un ciclo di sei settimane di radioterapia e di sei mesi di chemioterapia. La donna, infatti, ha dovuto sottoporsi a due interventi chirurgici per l’asportazione di noduli al seno.

La sua battaglia contro il tumore era iniziata già negli Stati Uniti, dove nell’88 era stata operata anche all’utero. Ma gran parte della vita di questa donna sembra un calvario, con il quale sta pagando duramente gli errori commessi in gioventù.

La famiglia Baraldini si trasferisce nel 1961 da Roma a New York, dove il padre Michele lavora in una società del gruppo Olivetti. Silvia, allora tredicenne, passa dall’esclusivo collegio romano delle suore dell’Assunzione, in piazza di Spagna, a un altro istituto religioso di un quartiere residenziale americano, dove come vicino di casa c’è Arturo Toscanini. Poi il padre diventa funzionario dell’ambasciata italiana a Washington, e Silvia prende la maturità nel ’65. È l’estate della famosa marcia di Martin Luther King per i diritti dei neri d’America, ma i genitori le vietano di parteciparvi.

Il 1965 è anche l’anno in cui Bob Dylan, profeta dei giovani antimilitaristi che rifiutano di andare nella guerra del Vietnam, parla in una sua canzone di «weathermen», gli uomini che fanno le previsioni del tempo. Da lì prenderanno il nome i terroristi del gruppo Weather Underground, che verranno distrutti dall’Fbi all’inizio degli anni Settanta, ma alcune frange dei quali sopravviveranno fino agli anni Ottanta.

La giovane Silvia ottiene di andare a fare l’università a Madison (Wisconsin), uno dei college più di sinistra degli Stati Uniti. Il suo impegno politico si concretizza dopo la morte del padre, nel ’68, con l’adesione agli Sds (Students for a democratic society). Poi, piano piano, sempre più a sinistra, fino ad approdare ai gruppuscoli dell’estremismo afroamericano.

Lavora a New York come interprete per la Rai, commessa di libreria, telefonista, segretaria e contabile in un laboratorio di gioielli. La sorella minore Marina, intanto, si laurea alla Rockefeller university, torna a Roma con la madre in una casa di via del Babuino e diventa funzionario Cee a Bruxelles.

Sempre più coinvolta dalla politica, Silvia Baraldini viaggia per conto di alcune organizzazioni marxiste in Africa. Il governo americano non gradisce tutto questo attivismo, cosicché per evitare l’espulsione e ottenere la cittadinanza statunitense nel 1981 lei si sposa con un compagno, Tim Blunk (condannato a 58 anni, ma libero dal 1996 dopo essersi dissociato dalla lotta armata).

Lei invece, dopo l’arresto e il processo, non si dissocia né si pente. «Non posso pentirmi di cose che non ho commesso», dice, dura, e dopo la condanna lancia un appello ai compagni affinché continuino la lotta. «Se tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto», proclama orgogliosa in un’intervista a Oggi dell’aprile 1988.

Finisce a Lexington (Kentucky), in un carcere di massima sicurezza dove le detenute vengono sottoposte a un isolamento ferreo: chiuse in un seminterrato, non possono usare neppure l’acqua calda, che è considerata un’arma. Ogni notte vengono svegliate più volte. Sono sorvegliate sempre da telecamere, anche sotto la doccia, e quando vanno in cortile devono sottoporsi a ispezioni corporali.

La sorella Marina Baraldini denuncia queste vessazioni, intervengono in suo favore l’attrice Susan Sarandon e Amnesty International, e alla fine, nel luglio ’88, un giudice americano riconosce che quella inflitta a Silvia e a due sue compagne di prigionie è stata una vera e propria tortura. Il carcere di Lexington verrà poi chiuso.

La sorella Marina muore nell’89 per un’esplosione in volo dell’aereo che la stava riportando a Parigi dopo una missione in Ciad, causata da terroristi libici. Ma la mobilitazione della sinistra italiana in favore di Silvia Baraldini continua, con tanto di canzoni di Francesco Guccini, interviste di Lucio Manisco al Tg3 e cortei di Rifondazione.

Ora l’obiettivo è far estradare l’eroina indomabile in Italia, visto che gli Stati Uniti non concedono sconti di pena a chi non denuncia i compagni di lotta. Ma Silvia, pur pentendosi, si rifiuta di fare la spia: «Ciò che stavo cercando di fare non giustifica l’assassinio di quattro persone innocenti», ha dichiarato al giudice americano che nel ’97 ha esaminato la sua domanda di libertà provvisoria, «e per aver perduto mia sorella capisco bene il dolore che provano le famiglie colpite. Anche se non ho partecipato né all’ideazione né alla realizzazione dei fatti che portarono a quelle morti, come appartenente all’associazione responsabile devo scusarmi con tutti per il ruolo da me svolto nella tragedia. Lo farei ancora? No, era un’impresa donchisciottesca».

Dichiarazioni insufficienti per la giustizia statunitense, che però nel ’99 acconsente al trasferimento in Italia. Ora, tuttavia, la grazia concessa a Susan Rosenberg cambia le carte in tavola. La compagna di lotta della Baraldini era infatti stata condannata per reati ben più gravi, anche perché era stata arrestata proprio mentre stava trasportando le armi e gli esplosivi utilizzati dal gruppo «19 Maggio».

Ciononostante, grazie alle aderenze dei genitori (una famiglia ebraica in vista, che abita nell’Upper West Side, ricco quartiere di Manhattan), dopo 16 anni di prigione oggi è libera: un condono di 42 anni rispetto alla sua severissima pena. Negli Stati Uniti si sono levate subito le proteste dei parenti delle tre vittime della rapina dell’81 nel New Jersey: «Sono totalmente disgustato dal comportamento dell’ex presidente Clinton», ha detto Gregory Brown, che perse il padre quando aveva 16 anni.

Il problema è che adesso al governo negli Stati Uniti c’è l’avversario di Clinton, George W. Bush: il rischio è che, proprio a causa dello scandalo provocato in America dalle grazie in extremis, la posizione Usa si indurisca, che il nulla osta per la liberazione di Silvia Baraldini non venga concesso, e che quindi l’unica a rimanere dentro sia l’italiana.

Mauro Suttora

Tuesday, January 18, 2000

Foglio: Ds senza radicali

ELEGANTE PARADOSSO: SOPRAVVIVEREBBERO I DS SENZA I RADICALI? LA RISPOSTA É: «NO»

Lettera aperta di Mauro Suttora pubblicata su "Il Foglio" martedì 18 gennaio 2000 pag.4

Signor direttore

Sopravviverebbero i Ds senza i radicali? Al congresso hanno discusso soltanto dei referendum sociali radicali, hanno appoggiato quello per il maggioritario con firme raccolte dai radicali, hanno sposato l'antiproibizionismo radicale sulla droga. Walter Veltroni ha annunciato la grande lotta Ds per il 2000:"Contro la fame nel mondo", anche questo un tormentone radicale di vent'anni fa. E "I care" era il motto dei pacifisti radicali negli anni 60.

Ma è ormai da quasi mezzo secolo che Marco Pannella precorre, incalza, stimola e provoca i comunisti-(pi)diessini. All'inizio degli anni 50 era vicino di casa di Enrico Berlinguer a Roma (zona Piazza Bologna), e i due discutevano di politica quando Enrico portava il cane a fare pipì. Nel '54 il ventiquattrenne Marco, presidente dell' Unuri, aprì il parlamentino universitario ai comunisti in nome dell'unità laica, e poi con Achille Occhetto si oppose ai goliardi socialisti di Bettino Craxi.

Nel '59 Pannella ebbe addirittura l'onore di scrivere una lettera aperta a Palmiro Togliatti su Paese Sera, e il Migliore gli rispose. Nel Pr di allora il Pannella filocomunista si opponeva al vicesegretario Eugenio Scalfari, filosocialista.

Il feeling col Pci era così alto che nel '63 Pajetta offrì a Pannella un posto da deputato come indipendente di sinistra. Ma due anni dopo, quando i radicali iniziarono la campagna per il divorzio, fra i comunisti soltanto Luciana Castellina, Vittorio Vidali e Massimo Caprara aderirono. Per il Pci ( e per i sessantottini ) era una questione "piccoloborghese", una "fuga in avanti " che metteva in pericolo i rapporti con le "masse cattoliche". E nel '74, a 40 giorni dal referendum, il Pci cercava ancora un compromesso con Fanfani per evitarlo.

Non parliamo dell'aborto: i radicali proposero di legalizzarlo già nel '67, il Pci fu costretto ad accettarlo solo undici anni dopo, sotto minaccia referendaria. E così per tutto il resto: dal femminismo all'obiezione di coscienza, dagli omosessuali all'ambiente, il Pci ha sempre deglutito le iniziative radicali con 10-20 anni di ritardo. E spesso vergognandosene, per cui delegava alle varie Arcigay e Legambiente il furbo compito di raccogliere dove i radicali avevano seminato con il loro Mld, Loc, Fuori o Amici della terra.

Allora il rimprovero della sinistra a Pannella ed a Emma Bonino era: "Non vi occupate di economia". Oggi che se ne occupano, da liberali quali sono sempre stati, sono diventati "nemici dei diritti umani"."Nemici borghesi delle masse proletarie": così Togliatti liquidò i fratelli Rosselli negli anni '30. "Ma avevano ragione loro" deve ammettere oggi Massimo D'Alema. E giù convegni di riabilitazione fuori tempo massimo.

Fortunatamente Pannella e Bonino non hanno figli, ai quali fra qualche decennio i futuri dirigenti diessini possano offrire l'iscrizione a un loro partito "rinnovato". Ma scommettiamo che già l'anno prossimo i referendum sociali verranno inghiottiti dai diessini, ritardatari cronici?

Mauro Suttora

Friday, December 31, 1999

Elda Lunelli: la regina degli spumanti compie 90 anni

LA CAPOSTIPITE DELLA FAMIGLIA DEGLI SPUMANTI FERRARI CI RACCONTA LA SUA STORIA

dal nostro inviato a Trento Mauro Suttora

Oggi, 17 dicembre 1999

Ha appena festeggiato i 90 anni, ma da 65 ogni giorno va a lavorare nella sua enoteca, saluta i clienti, controlla la cassa, firma i documenti (ha la carica di amministratrice unica) e porta l’incasso in banca. È Elda Prada Lunelli, la matriarca della dinastia (cinque figli e sei nipoti: «Ne ho fatti più io di loro», scherza) famosa perché produce lo spumante Ferrari, il più venduto in Italia con Berlucchi fra quelli a metodo classico (champenois). E fra i primi dieci in Europa, ormai: nulla più da invidiare agli champagne, dei quali il Ferrari non può usare il nome soltanto per la Denominazione di origine controllata (Doc) che protegge i francesi.

Quattro milioni e 300 mila bottiglie vendute nel 1999, con ritmi di aumento del 20 per cento annuo: «La crescita potrebbe essere anche maggiore, ma preferiamo garantire la qualità piuttosto che inseguire la quantità», ci spiega il primogenito Franco Lunelli, 64 anni, nella sede in stile californiano delle cantine Ferrari accanto all’autostrada del Brennero, all’altezza di Trento. Nel centro della città, in largo Carducci, sua mamma segue l’enoteca di famiglia: ogni mattina e ogni pomeriggio si reca in negozio assistita dalla figlia Carla e dalla nipote Alessandra, diciannovenne universitaria di Economia e commercio. E tutti gli altri figli (Giorgio, Mauro, Gino) dirigono l’azienda.

Appena sposata con Bruno Lunelli, nel 1934, la signora Elda si dedica alla bottega, che allora si chiamava «mescita». Durante la guerra rimane sola con i figli, suo marito finisce a combattere sul mar Baltico, ma lei non si arrende: «C’era poca roba da vendere, da comprare e da mangiare, ma il negozio l’ho voluto tenere aperto lo stesso».

La svolta arriva nel 1952, quando Bruno Lunelli fa la pazzia di acquistare il marchio dello spumante Ferrari di Trento, soffiandolo a concorrenti come la grande Motta di Milano, per una cifra allora enorme: 30 milioni di lire (due-tre miliardi di oggi).
 
«È stata la scommessa più importante della nostra vita», ricorda la signora Elda, «perché quei soldi in realtà mio marito non li aveva: metà se li fece prestare dalle banche, per l’altra metà firmò cambiali. E in cambio di nulla: soltanto il ‘nome’ Ferrari, aveva comprato. Ma il mio Bruno possedeva un dono: ovunque toccava faceva affari. Così, già il primo anno aumentò la produzione da ottomila bottiglie a ventimila. E dopo due anni i debiti erano pagati».

Negli anni Sessanta le bottiglie Ferrari diventarono 80mila all’anno, negli anni Settanta 300mila, nel 1982 si toccò il milione, nel ‘91 tre milioni e oggi, oltre allo spumante, la famiglia Lunelli produce anche l’acqua minerale Surgiva, la grappa Segnana e il vino Lunelli. 

La signora Elda festeggia ogni anno il Natale radunando i parenti nella sua casa in centro, dove dopo la morte del marito (quasi trent’anni) fa vive con la sorella 87enne: «Quest’anno, però, eravamo in troppi, così siamo andati in una sala dell’azienda».

Hanno brindato con le bottiglie della Riserva Ferrari, otto anni d’invecchiamento: le stesse con cui festeggeranno per primi il nuovo millennio il re di Tonga e il presidente di Kiribati, le isole del Pacifico dove l’alba del Duemila anticiperà tutto il mondo. Gliele hanno spedite i Lunelli da Trento, che per diplomazia hanno declinato l’invito del re di Tonga a brindare assieme a lui: sarebbe stato uno sgarbo per Kiribati, che contende all’altra isola il primato geografico.

Sono molto attenti alle relazioni internazionali, i Lunelli. Così lo spumante Ferrari è finito su tutte le tavole che contano al mondo, da Reagan a Gorbaciov, da Mitterrand alla Thatcher e a ogni summit internazionale. 

Un’altra particolarità: il Ferrari non si è mai fatto réclame. Niente pagine pubblicitarie sui giornali, niente spot in Tv: «Ci basta il passaparola», dicono sornioni a Trento. E nonna Elda brinda con la «schiava», un calice di spumante allungato con acqua.

Mauro Suttora

Monday, December 06, 1999

Hanno paura del presepe

Una scuola elementare di Milano lo vuole abolire

Il Foglio, 6 dicembre 1999

di Mauro Suttora

Duemila anni esatti dopo la nascita di Gesù Bambino, stiamo uccidendo il presepe. Siamo diventati così politicamente e religiosamente "corretti", che ci vergogniamo perfino delle tradizioni più gioiose e inoffensive della cultura italiana. Anche a casa nostra.

Succede che in una scuola elementare comunale dell'evolutissima Milano (via Pallanza, quartiere Maggiolina, zona benestante) maestre e direttrice rifiutano di fare il presepe per Natale. Dicono che "è un simbolo troppo nostro, cristiano, occidentale: i bimbi di altre religioni potrebbero sentirsi esclusi". Dopo le proteste di diverse mamme, viene convocata un'assemblea. Partecipano 40 madri su 80. In questo asilo i bambini extracomunitari, contrariamente ad altre zone di Milano, sono pochissimi: cinque o sei. Due cattolici (un sudamericano e un filippino). Due cinesini di due anni, che frequentano il "raccordo" fra asilo nido e scuola materna: i loro genitori non partecipano all'assemblea, presumibilmente non gliene importa assolutamente nulla del nostro delirante buonismo.

La direttrice ribadisce: "Il Natale lo festeggiamo, però all'insegna del 'dono' e del 'fare'". Quindi l'albero (simbolo pagano) sì, ma il presepe no. Una mamma azzarda: "Ma per i bimbi è soltanto un gioco, facciamo portare a ciascuno di loro una statuina da casa..." Un'altra, timidamente sconcertata: "Ma la festa si chiama Natale appunto perché è nato qualcuno, no?" Un'altra ancora: "Il presepe è un'invenzione di San Francesco, è un'usanza popolare: non mi sembra propaganda religiosa. Possiamo festeggiare anche le ricorrenze di altre religioni, se qualche genitore lo chiederà". Niente da fare. Meglio nessuno che tutti.

Prende la parola la madre più decisa: "Io ho vissuto all'estero, in Paesi di religione diversa dalla nostra, e non ho mai visto una tale rinuncia alle proprie tradizioni. Né io mi sono sentita offesa dalle manifestazioni di religiosità locale: al contrario, ne ero attratta per curiosità".

Ma a questo punto si alza una mamma che si autodefinisce "cattolica e praticante", e sentenzia: "Non so neanche se il regolamento permetta di mettere gli allievi di una scuola pubblica a contatto con il simbolo di una religione ben precisa, com'è il presepe. Fatevelo a casa. Oppure iscrivete i vostri figli in istituti privati. Non dobbiamo mettere in imbarazzo gli altri bambini con feste che non sono le loro, alle quali non sono in grado di partecipare tutti". Coro: "Ma il Natale si festeggia comunque! Lo vogliamo ridurre soltanto a una questione di regali, consumistica, all'americana, di business?"

Qualcuno propone di votare. Altolà della direttrice: "Manca la metà dei genitori, e poi bisogna comunque rispettare le minoranze. Lo stesso fatto che ne stiamo parlando da così a lungo dimostra che questo del presepe è un argomento delicato, non condiviso da tutti". Le povere mamme si fanno piccole e timide come le pecorelle del presepe che desidererebbero: meglio non contestare troppo le maestre e la "dirigente", è fastidioso mettersi contro chi tiene in mano i propri figli tutto il giorno. Qualcuno la butta sulla scherzo: "Vabbè, pazienza, poi magari qualcuno ci potrebbe accusare anche di propaganda politica per la presenza dell'asinello..."

Da questa surreale vicenda nell'asilo milanese non ci permettiamo di estrarre conclusioni importanti, anche se l'impressione è quella di un'intera civiltà che pratichi l'harakiri. E che lo faccia inconsapevolmente, in nome di una demenziale tolleranza non richiesta, è un po' agghiacciante. Certo che, dopo il libro di storia fazioso, ci mancava solo il presepe pericoloso. Sono queste, purtroppo, le buffe cronache dall'Italia nell'era dell'Ulivo (oddio, presto, cambiate nome, qualcuno potrebbe offendersi...)

Wednesday, December 01, 1999

Siamo antiamericani?


Dibattito tv a "Tout le monde en parle", France 2

di Mauro Suttora

Il Foglio, 1 dicembre 1999

Sul vertice di Seattle è stato detto di tutto, ma il canale France 2 l’altra sera ha preso il toro per le corna e ha posto la vera domanda: «Non è che siamo antiamericani?» A rispondere, un piccolo parterre des rois. Jack Lang, indimenticato ministro della Cultura di François Mitterrand, cade subito nella trappola e (ri)comincia a prendersela con gli Usa, protestando perché «gli americani hanno installato una loro enorme multisala proprio nel cuore di Cinecittà, a Roma, dove sono stati girati i film più belli del dopoguerra». «Non c’è alcuno scandalo», lo rintuzza subito lo scrittore Jean Yanne, «sono stati gli stessi italiani a chiamare gli americani, e adesso tutti sembrano contenti».

Sì, il cinema statunitense ha grandi idee, audacia e innovazione, concede (bontà sua) il grand protecteur dei registi europei, però «noi dobbiamo incoraggiare positivamente la nostra creazione originale, sono inquieto per la crisi del nostro cinema».

Fa bene a inquietarsi, Lang: nonostante le centinaia di miliardi regalate a produttori e registi francesi (o probabilmente proprio a causa di questo finanziamento statale, che incoraggia l’onanismo tendenziale del metteur en scene gallico affrancandolo dal giudizio del pubblico), ormai soltanto due francesi su dieci accettano di farsi tediare dal cinema nazionale. «Questo crollo al 20 per cento mi preoccupa», ammette Lang, «però a Seattle sono tutti d’accordo: la cultura non dev’essere considerata una merce».
 
È questa la magica, attraente parola d’ordine dei protezionisti: non riduciamo tutto a merce. E quei pescecani delle majors americane non protestino troppo per i soldi che Parigi preleva sui biglietti dei loro film, girandoli ai produttori francesi. I quali, a detta del regista Pierre Jolivet, sarebbero nientemeno che benefattori continentali: «La Francia coproduce i film di Pedro Almodovar e Nanni Moretti, siamo l’ultimo polo sfuggito all’egemonia americana, tutti i cineasti d’Europa sognano un sistema come il nostro. Perfino il regista americano David Lynch, che ha problemi a casa sua, ci ha chiesto aiuto. La verità è che gli Usa riducono tutto a mercato, non gliene frega niente della cultura. Lo sostiene anche Robert Redford, che proprio per difendere il cinema di qualità ha creato il Sundance film festival».

L'altra parola chiave, quindi, è "eccezione culturale". Ovvero: libera circolazione mondiale per merci e capitali, ma non per le opere artistiche. "Dobbiamo proteggere le nostre culture nazionali dall'invadenza americana", è stato il ritornello dei francesi sia negli ultimi negoziati Gatt del 1994, sia oggi a Seattle. Tasse sui film, allora, e anche quote contro serial e canzoni americane in tv e alla radio.

"Ma non serve a niente, con le linee Maginot abbiamo sempre perso", attacca il musicista rock Jean-Louis Murat, "l'80 per cento della musica che i giovani francesi ascoltano è anglosassone. Anche perché il risultato del nostro protezionismo è che dopo 40 anni ci dobbiamo beccare ancora Johnny Halliday, mentre negli Stati Uniti la vetta della hit parade cambia ogni tre mesi, c'è più movimento e alla fine vince il migliore. Anche in altri campi siamo invasi, è vero, oggi ci sono più McDonald's a Parigi che a New York. Ma nei ristoranti francesi con meno di 500 franchi si mangia merda".

Aggiunge il liberale Laurent Dominati: "Gli spettatori americani rifiutano i film francesi, e i nostri cineasti sostengono che questo accadrebbe perché non sono doppiati in inglese. Ma in Italia, dove il doppiaggio c'è, il cinema francese langue egualmente al due per cento. E noi, nonostante l’’eccezione culturale’ di cui andiamo così fieri, siamo invasi dai film Usa". Tocca all'americano Harvey Feigenbaum, timido professore della Georgetown university, concludere lapalissianamente: "E' giusto difendere la cultura, ma se continuate a girare film che nessuno vuole vedere, non difenderete niente. E da parte nostra non c'è alcun pregiudizio: gli americani in realtà sono innamorati della Francia, che è il Paese più visitato dai turisti Usa".

La parola in collegamento da Seattle a José Bové, contadino del Larzac diventato famoso la scorsa estate per avere assaltato un McDonald's: "Non sono antiamericano, anzi: i consumatori statunitensi guidati da Ralph Nader sono nostri alleati, perché anch'essi non vogliono ingurgitare alimenti manipolati geneticamente e carne agli ormoni. Pure gli agricoltori Usa sono in crisi, se continua così il 25 per cento di loro sparirà entro pochi anni, quelli del Texas e dell'Alaska sono con noi, c'è un'altra America che non conosciamo, un'America profonda..."

La Francia profonda, invece, è perfettamente rappresentata da Philippe de Villiers, ex gollista diventato poujadista antieuropeo: "Gli Stati Uniti hanno l'idea della cultura unica, invece bisogna combattere per la diversità, e salvaguardare la nostra agricoltura di qualità con un sistema legittimo di preferenze nazionali". Poi, l'inevitabile stoccata contro Bruxelles: "La Francia, quarta potenza economica ed esportatrice mondiale, contrariamente a paesi come le Maldive o le Grenadine, a Seattle è assente. Ci dovrebbe difendere l'Unione europea, ma anch'io non voglio i cibi transgenici e la carne agli ormoni".

Più a destra di De Villiers rimane soltanto Le Pen, ciononostante Jack Lang non si imbarazza a fargli eco da sinistra: "Sì, non si può separare l'agricoltura dalla cultura! Cinque anni fa eravamo in pochi a batterci contro l'ideologia del mercantilismo, ma oggi la ribellione si è estesa a molti paesi". Niente libero mercato, quindi, anche se per Lang "questa partita non si gioca in opposizione agli Usa, ma salvaguardando la nostra identità giorno dopo giorno".

Identità francese oggi significa anche, nei cartoni animati, Asterix contro Topolino. Chi sta vincendo? Sette anni fa, dopo brusche polemiche, si apriva Eurodisney vicino a Parigi. È stato un successo clamoroso: dodici milioni di visitatori, nonostante il prezzo medio per una famiglia di quattro persone sia di 300mila lire. I francesi si consolano perché gli americani hanno acconsentito ad aggiungere anche uno spazio per l’europeo Pinocchio, e hanno dedicato a Jules Verne il percorso sulla conquista dello spazio. Ma sembrano orgogliosi soprattutto per il vino (bandito da Disneyland in California e da Disneyworld in Florida), che alla fine è stato affiancato alla Coca Cola nel parco d’attrazioni europeo. «All’epoca ero segretario alla Cultura», rivendica patetico De Villiers, «e ottenni che le strade di Eurodisney fossero almeno sottotitolate in francese». Insomma: una dêbacle.

«La verità è che siamo stati noi europei incapaci di creare un’alternativa a questo topo Usa», ammette il gollista Pierre Lellouche, presidente della Commissione esteri dell’Assemblée nationale. «Lo confesso: anch’io pensavo che Eurodisney non avrebbe funzionato, invece mi sono completamente sbagliato. Ora perfino i comunisti cinesi vogliono Disney! Ma la risposta non sono le barriere nazionaliste. Oltretutto, la liberalizzazione degli scambi è un fattore di pace: quando commerciano, i popoli non si fanno la guerra».

Anche dal regista di sinistra Romain Goupil arriva, a sorpresa, un elogio della globalizzazione: «Mi ritengo cittadino del mondo, nato in Francia per caso, e sono convinto che la mondializzazione sia un bene. Un esempio? Il tribunale penale internazionale che sta per nascere, permettendo di punire dittatori e stragi commesse in tutto il pianeta. E questa tanto vituperata Organizzazione mondiale del commercio può fare da arbitro fra 132 nazioni, evitando conflitti di ogni tipo».
Scusi, ma lei si definisce liberale?, domanda incredula la conduttrice di France 2.
«No, libertario. Non ho territorio, non voglio frontiere, vinca il migliore. Nessuno obbliga i francesi a mangiare da McDonald’s, a bere Coca Cola e ad andare a Eurodisney». «Viceversa», aggiunge Yanne, «gli americani sono felici di farsi invadere dalla cucina messicana, dalla pizza italiana, dalla nostra acqua minerale Perrier e da Danone».

E il foie gras cui gli Usa hanno proibito l’importazione? Assieme al roquefort (il formaggio di cui gli Usa hanno proibito l’importazione per vendicarsi del protezionismo europeo sulle banane), il paté di fegato d’oca negli anni scorsi è stato un argomento caldo in mano agli antiamericani francesi: imponendo un dazio del 100 per cento, gli Stati Uniti ne hanno limitato enormemente il consumo.
Ma qui sono i verdi francesi, nemici giurati dell’Omc nonché degli Usa in quanto manipolatori genetici, consumisti e spreconi di energia, a difendere una volta tanto Washington: «Quel provvedimento è stato adottato sotto pressione degli animalisti americani, choccati dalle immagini tv che mostrano come ingozziamo le nostre povere oche del Perigord».

Dalle stalle alle stelle: «I missili Ariane e gli aerei Airbus sono due esempi di come possiamo sfidare con successo gli americani», dice Lellouche, «basta abbandonare i complessi d’inferiorità e riacquistare fiducia in noi stessi».
«Ma quale fiducia può avere quella vecchia signora un po’ stanca che è diventata l’Europa?», gli domanda Yanne.
«È vero», risponde Lellouche, «mezzo milione di francesi hanno lasciato la Francia perché non ne possono più degli ostacoli, della burocrazia e delle imposte che esistono qui».
«Sì, ma molti di quelli che si rifugiano in Inghilterra per motivi fiscali lasciano la famiglia a Parigi, e ogni week-end tornano a casa con il treno Eurostar», ribatte Jolivet. «Così godono contemporaneamente delle tasse basse inglesi, e della maggiore assistenza sociale francese».

Inevitabilmente, però, il dibattito torna sull’Omc (nessuno in Francia si sogna di chiamarla Wto, acronimo inglese, così come la Nato è Otan e l’Ocse a Parigi si chiama Oecd) e su Seattle: «Chi la disprezza perché la ritiene ostaggio delle multinazionali sappia che invece i paesi in via di sviluppo fanno la fila per entrarvi: ce ne sono 50 in lista d’attesa. Per loro, il libero mercato rappresenta la salvezza», sostiene Lellouche. «Però oggi come oggi il libero mercato non esiste, c’è il monopolio e la conseguente mercificazione del mondo», ribatte il contadino Bové. Dimenticando che «laissez-faire» è una parola francese.
Mauro Suttora

Friday, September 17, 1999

Beatles: Abbey Road

I BEATLES, O DELLA CAPACITA’ SUBLIME DI SAPER SCOMPARIRE AL MOMENTO GIUSTO

di Mauro Suttora

Il Foglio, settembre 1999

Trent’anni fa, il 26 settembre 1969, usciva nei negozi di tutto il mondo “Abbey Road”, l’ultimo disco dei Beatles. Sulla copertina, una foto di loro quattro che attraversano in fila indiana le strisce pedonali. Quelle di Abbey Road, appunto, una strada del quartiere londinese chic di Saint John’s Wood dove si trovano ancor oggi gli studi della casa discografica Emi. E dove tuttora, ogni giorno, centinaia di fans si esercitano nella discutibile operazione di farsi fotografare sulle stesse strisce pedonali, come souvenir. Risultato: code di macchine, perché in Gran Bretagna le zebre vengono rispettate, e in teoria se il flusso dei pedoni su di esse fosse continuo (come lo è quando ad Abbey Road transitano mandrie di beatlemaniaci) il traffico si bloccherebbe completamente.

Molti sono convinti che l’ultimo disco dei Beatles sia “Let it be”. Ciò è vero e falso assieme. Vero, perché effettivamente “Let it be” fu pubblicato nel maggio 1970. Ma le sue canzoni erano state registrate già nel gennaio ‘69, prima di “Abbey Road”. Che si può quindi fregiare del titolo di canto del cigno del complesso più famoso del secolo.

Stesso dilemma per la vera data di scioglimento del gruppo. Gli esegeti più rigorosi la fanno risalire al 10 aprile ‘70, quando Paul McCartney annunciò pubblicamente di non voler più incidere con i Beatles. Ma, come in tutte le coppie che scoppiano, il dissidio fra lui e John Lennon era esploso assai prima. Già nel 1968 si poteva parlare di «separati in casa», visto che grazie alle nuove tecniche di incisione ognuno dei membri del quartetto andava in studio a registrare la propria parte di canzone indipendentemente dagli altri.

Non è arbitrario, quindi, fissare al settembre ‘69 la data di scioglimento dei Beatles, facendola coincidere con l’ultima traccia della loro produzione artistica. Pochi giorni fa sono stati ben 300 mila i fans accorsi a Liverpool per commemorare il trentennale con la riedizione del cartone animato “Yellow Submarine”. Ma cosa facevano i Fab Four in quell’epoca? Intanto, erano giovanissimi. George Harrison aveva 26 anni, McCartney 27, Lennon 28 e Ringo Starr 29. È incredibile pensare che musicisti paragonati a Bach e Mozart, o perlomeno a Duke Ellington e George Gershwin (per restare nel Novecento), abbiano deciso di sciogliere un sodalizio così proficuo a un’età così precoce. Se poi si calcola che fino a metà 1963 erano degli sconosciuti, si scopre che tutta la loro arte si è concentrata in appena sei anni di attività: un prodigio anche questo. Ma, soprattutto, va riconosciuta ai Beatles (e a loro soltanto) la capacità sublime di saper scomparire al momento giusto.

Il 1969, infatti, rappresenta un anno cardine nella storia del rock. Soltanto il 1967 può eguagliarlo come ricchezza musicale. In quel periodo di grandi cambiamenti, la musica e il costume evolvevano di mese in mese. Naturalmente erano i Beatles a dettare il passo. Ma, in qualche modo, nel ‘69 si era spezzato qualcosa. Era stato raggiunto un apice insuperabile, e tutti i musicisti più avveduti se ne rendevano conto. In California quell’estate con la strage di Charles Manson a Bel Air (vittima Sharon Tate, bellissima moglie di Roman Polanski) era finita l’era degli hippies peace&love.

I festival di Woodstock e dell’isola di Wight (a quest’ultimo tutti i Beatles tranne Paul parteciparono il 31 agosto ‘69, come spettatori dell’esibizione di Bob Dylan) rappresentavano anch’essi uno zenit, seguìto a poche settimane dal disastro di Altamont, dove a un concerto dei Rolling Stones fu ucciso uno spettatore. Perfino l’uso della droga fra i musicisti delineava una parabola fatale: innocua marijuana nel ‘66, lsd nel ‘67, cocaina nel ‘68, eroina nel ‘69. Come nella guerra del Vietnam, era un’escalation senza ritorno. Lo stesso Lennon diventò eroinomane assieme alla sua Yoko Ono nel ‘69, ma riuscì a disintossicarsi quasi subito e raccontò il tremendo tunnel della crisi d’astinenza nel 45 giri “Cold Turkey”, che uscì in ottobre.

I Beatles fiutarono la fine del periodo d’oro dei favolosi anni Sessanta e chiusero bottega in bellezza, evitando l’agonia di tutti gli altri complessi, compreso l’attuale gerontorock degli Stones. Non hanno mai accettato le offerte favolose per riunirsi anche solo una volta, e ciò ha reso eterno il loro mito. «Meglio bruciare che arrugginire/ma il rock&roll non morirà mai», canterà Neil Young. I Beatles non sono né bruciati né arrugginiti: grazie ad “Abbey Road”, si sono semplicemente congedati con un coloratissimo capolavoro. Nel quale, pochissimi lo sanno, c’è lo zampino della nostra Sardegna. In Costa Smeralda, infatti, era scappato Ringo Starr dopo una lite con McCartney che pretendeva di costringerlo a suonare la batteria in un certo modo. Lì, folgorato dalla bellezza dei fondali durante un’immersione, compose il suo unico capolavoro: “Octopus’s Garden” (“Il giardino delle piovre”). Ringo raccontò a George quant’era bella Porto Cervo, e così anche Harrison ci passò tre settimane nel giugno ‘69 con la moglie Patty.

Al suo ritorno cominciarono le sedute di registrazione ad Abbey Road. Andarono avanti per due mesi, ma per gli inglesi è naturale lavorare d’estate. Tanto, a Londra piove anche in agosto. La prima canzone a essere registrata fu “Something” di Harrison. Il povero George era sempre stato snobbato dal duo Lennon-McCartney: era considerato il cucciolo del gruppo, e in ogni disco gli lasciavano spazio per un suo solo brano. Questa volta però Harrison si presentò negli studi Emi con due capolavori: “Something” e “Here comes the sun”. «“Something” è la più grande canzone d’amore degli ultimi cinquant’anni», sentenziò nientemeno che Frank Sinatra, e in effetti è stata superata soltanto da “Yesterday”, fra tutte le canzoni beatlesiane, come numero di versioni registrate da altri cantanti.

“Here comes the sun“ (“Ecco che torna il sole“) ha invece una genesi piccante. Harrison la compose, estasiato per il ritorno della primavera in un pomeriggio di pallido sole britannico, nel giardino della villa del suo grande amico Eric Clapton. Il quale però nel frattempo seduceva e gli rubava sua moglie Patty, alla quale l’anno dopo avrebbe dedicato il proprio capolavoro “Layla”. George, obnubilato dalla filosofia indiana, commentò rassegnato: «Meglio che Patty stia con un ubriacone come Eric, piuttosto che con qualche eroinomane». E gliela lasciò volentieri, rimanendogli amico (i due suonarono assieme nel memorabile Concerto per il Bangladesh dell’agosto ‘71, padre di tutti i Live Aid della futura carità rock).

La canzone più famosa di “Abbey Road” è “Come together” di John Lennon. Il ritornello sporcaccione («Vieni assieme/proprio adesso/su di me») è un inno all’orgasmo simultaneo, ma i fans più politici andarono in visibilio per la frase «One thing I can tell you is you got to be free» («L’unica cosa che posso dirti è che devi essere libero»). Purtroppo la musica è completamente copiata da “You can’t catch me” di Chuck Berry, i cui avvocati citarono Lennon e lo obbligarono, per risarcirlo, a incidere tre sue canzoni - pagando i relativi diritti d’autore - nell’album “Rock’n’roll” del ‘75. Ma John in quel periodo era così preso dall’eroina e da Yoko (due droghe per lui egualmente letali) che non si peritò neppure di celare il plagio, e anzi lasciò proprio all’inizio della canzone una frase del testo di Berry (“Here comes old flat-top, he come”). Lennon come Mauro Pili, il forzista sardo «ispirato» da Roberto Formigoni?

Il particolare più inquietante di “Come together”, però, risiede nel sussurro di John dopo i battiti di mani nelle prime quattro battute: «Shoot me» («Sparami»), dice, consiglio preso alla lettera dal suo assassino pazzo Mark Chapman nel 1980.

“Abbey Road“ nasconde dentro sé una miriade di gioielli semisconosciuti, canzoncine lunghe neanche un minuto cucite assieme in un «medley» confezionato sapientemente da McCartney e dal produttore George Martin. Sul modello di “A day in the life” del 1967, in cui 40 secondi composti da Paul erano incastonati in un brano di John, questa volta alla notevole “Because” di Lennon segue “You never give me your money” di McCartney (allusione acida contro il manager Allen Klein accusato di lucrare sui proventi miliardari del gruppo), e poi tre frammenti bizzarri di Lennon (“Sun king”, “Mean Mr. Mustard”, “Polythene Pam”, che esibiscono raffinati coretti con sovrapposizioni di voci in quarta, quinta e undicesima tonalità), per poi sfociare nella ”She came in through the bathrooom window” (“Entrò dalla finestra del bagno”) di McCartney, che racconta un episodio realmente accaduto di una fan penetrata a casa sua, canzone resa celeberrima dalla versione di Joe Cocker.

Rauco come Cocker Paul volle diventarlo per esibirsi in "Oh! Darling", una parodia di canzone anni Cinquanta splendidamente riuscita. Poiché da tre anni non si esibiva più in pubblico (tranne il concerto sul tetto dell’edificio Apple nel gennaio ‘69), dovette arrivare in studio il mattino presto e urlare come un ossesso, finché la sua ugola non fu riallenata allo stile Little Richard. Un’altra chicca è la brevissima canzone “Her majesty”, sottile presa in giro di qualche misteriosa principessa reale un po’ stupidina. Dice il testo: «Sua maestà è una ragazza proprio carina/ ma non ha molto da dire/ Sua maestà è proprio carina, ma cambia da un giorno all’altro...» Nessuna reazione dalle parti di Buckingham Palace, ma i sudditi britannici trovarono il brano deliziosamente «naughty», impertinente.

Anche “Abbey Road”, come tutti gli Lp dei Beatles, contiene delle vere e proprie schifezze. È il caso di “Maxwell’s silver hammer”, imputabile a Paul, e di “I want you”, rumoroso obbrobrio di John dedicato alla nociva Yoko. Lennon e McCartney continuavano a firmare assieme i loro brani per forza d’inerzia, ma ciascuno detestava queste due canzoni: John si rifiutò perfino di incidere la sua chitarra su “Maxwell’s...”

La fine di “Abbey Road”, invece, è entusiasmante. Perfettamente consci di essere giunti al capolinea della loro carriera di complesso, i Beatles titolarono la loro ultima canzone “The end”. E il loro verso conclusivo è scolpibile nel marmo o incartabile in un bacio Perugina, a seconda dei gusti: «And in the end/the love you take/ is equal to the love you make» («Alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che dai»). Per i cantori del decennio della libertà, della gioventù, della pace e dell’amore, l’unico sorridente epitaffio possibile. Il sogno era finito. Addio anni Sessanta. Addio, Beatles.

Mauro Suttora

Sunday, August 01, 1999

Vivere di rendita

Personaggi famosi contrari a vivere di rendita

Capital, 01/08/1999

Che cosa fareste con un conto in banca garantito ? Niente. C'e' chi non ama sedersi sugli allori. Parola di Capanna, Mussolini & gli altri

di Mauro Suttora

Ma davvero vivere di rendita e' il sogno degli italiani ? O c' e' qualcuno che preferisce la carriera per dire ai figli: "Guarda che cosa ho costruito" ? La parola ai vip.

E' ora, e' ora, i soldi a chi lavora
Mario Capanna (leader del ' 68, scrittore, gia' eurodeputato)

"Vivere di rendita non mi piacerebbe. Anzi, la troverei una cosa schifosa. Non in base all' antico concetto del lavoro che nobilita l' uomo, ma perche' penso che ogni persona abbia il diritto a un' occupazione dignitosa e a una remunerazione equa. Considero i rentier, i benestanti che non devono lavorare per guadagnarsi da vivere, come dei mezzi uomini, e la rendita come una forma di parassitismo. Per questo a mio avviso le eredita' dovrebbero essere tassate in modo pesantissimo: non e' giusto che dei beni piovano addosso a chi non ha alcun merito.

Io guadagno quanto basta per vivere bene, e penso che se dovesse capitarmi una fortuna economica improvvisa questa si rivelerebbe piu' una fonte di preoccupazione che di gioia. Lo dimostrano d' altronde le vite dei ricchi: non sono quasi mai felici. Non riesco quindi a rispondere alla domanda "Di quanto avrebbe bisogno per vivere di rendita ?", perche' sono totalmente estraneo a questo modo di ragionare.

Se voglio fare un bel viaggio o togliermi qualche altra soddisfazione, cerco di farlo con i soldi che guadagno: queste cose perderebbero immediatamente di sapore se dovessi realizzarle grazie al regalo di uno zio d' America. Anche per questo non gioco mai a stupidaggini come il Lotto o il Totocalcio: proprio non mi interessano".


La barca ? Meglio una villa n' coppa a Posillipo
Alessandra Mussolini, deputata di An

"Per vivere di rendita mi basterebbe un miliardo e mezzo, perche' non ho un tenore di vita elevato. Amo le comodita' , ma per vivere bene mi bastano un aiuto in casa e un' auto normale. Non sono una di quelle che hanno bisogno di comprarsi l' auto di lusso o la barca: allora veramente i soldi non basterebbero mai. Invece a me non piace viaggiare, odio l' aereo. E dubito anche che smetterei di lavorare, perche' non lavoro per il guadagno. Dato il mio carattere, non riuscirei proprio a starmene passiva senza far nulla.

Con questi chiari di luna, pero' , per vivere di rendita da gran signore credo ci vorrebbe una cifra spropositata. Altrimenti sarebbe soltanto un' illusione, perche' ormai i tassi sono cosi' bassi che i soldi svanirebbero subito. Se improvvisamente mi arrivassero 10 miliardi, sarebbero troppi: mi troverei in difficolta' , dovrei affidarmi a una persona per gestirli, avrei paura di perderli. Insomma, comincerebbero i problemi. Forse li investirei nel mattone. E se proprio dovessi togliermi uno sfizio, comprerei una bella casa con vista a Roma o a Napoli: ci sono certe ville, a Posillipo...".


Meglio ricco in elicottero o famoso con il Ciao?
Andrea Pinketts, scrittore

"Per un certo periodo ho gia' vissuto di rendita. A 18 anni ereditai delle azioni di mio padre, ma soprattutto a 16 ero gia' entrato in possesso del patrimonio di una vecchia zia ottantenne, Olghina, proprietaria di uno dei piu' grossi vigneti di sangiovese in Romagna. Cosi' , nonostante abbia fatto duemila mestieri, fra i quali lo scrittore, per anni ho attinto a piene mani a una fonte che sembrava inesauribile. D' altra parte anche il protagonista autobiografico dei miei libri, Lazzaro Sant' Andrea (ultima uscita, Il conto dell' ultima cena, Mondadori), e' un dilapidatore di capitali agli sgoccioli.

Comunque, nonostante a causa della mia imprevidenza quell' eredita' sia ormai svanita, il mio tenore di vita non e' molto cambiato: prima ero ricco e potevo affittare un elicottero, ora sono famoso e posso affittare un Ciao. Per una buona rendita adesso chiederei una ventina di miliardi. Meta' li investirei seguendo i consigli di qualche amico fidato, ma con il resto non farei niente di speciale: continuerei a scrivere. Magari potrei permettermi qualche buona azione, che d' altra parte gia' faccio: per esempio, meta' dei diritti di uno dei miei ultimi libri, Un saluto ai ricci (Minotauro), li devolvo a un' associazione per la tutela dei ricci, nel senso di porcospini.

Quello che invece non farei piu' , perche' ho smesso di essere uno sprovveduto, e' aprire un locale come feci con i soldi dell' eredita' di zia Olghina: stava in via Savona a Milano, si chiamava Todo Modo, sarebbe dovuto diventare il tempio del cabaret ben prima dello Zelig. Invece falli' , e cosi' lo soprannominai Topo morto".


Dolce far niente ? Ma io mi annoio!
Martina Colombari, attrice

"Non so se mi piacerebbe vivere di rendita, perche' associo la parola "rendita" al far niente, mentre io sono una persona attivissima. Dopo due settimane di vacanza, comincio gia' ad annoiarmi. Sono sempre stata cosi' , anche da piccola: non stavo mai ferma, mai calma un attimo. Comunque, se ricevessi improvvisamente una grossa eredita' la prima cosa che farei sarebbe sistemare bene tutti i miei familiari, dai nonni ai genitori. Non che attualmente abbiano problemi: mio padre due anni fa ha venduto il ristorante che aveva, perche' si era stufato. Pero' mi piacerebbe fare qualcosa per loro, non terrei tutto per me. Poi aiuterei i bimbi in difficolta' per la guerra nel Kosovo o qualche associazione che segue i piccoli malati negli ospedali.

L' unico vero sfizio che vorrei togliermi: fare un bel viaggio al caldo d' inverno. Non riesco a quantificare una cifra mensile di cui avrei bisogno per vivere di rendita: certo e' che sono una spendacciona, anche se cerco di controllarmi. Pero' da cinque anni, cioe' da quando a 18 anni ho vinto il concorso di Miss Italia e ho cominciato a lavorare, mi mantengo da sola. La verita' e' che non seguo molto le faccende di soldi: e' mio padre a farlo per me, anche se mi tiene informata e mi fa capire. Io una volta al mese vado a Riccione a trovarlo, e lui mi aggiorna. Comunque, d' istinto risparmierei la meta' di quello che guadagno".


Attenzione a non perdere la voglia di vivere
Stefano Tacconi, ex portiere della Juventus

"Sono uno che non sta mai fermo, cerco sempre nuove emozioni. Come potrei fermarmi e vivere di rendita ? In realta' , con tutto quello che ho guadagnato finora, lo potrei anche fare. Ma continuerei comunque a lavorare, a muovermi, per il piacere di costruire qualcosa. Se si accetta il concetto della rendita si perde ogni stimolo per vivere, mi sentirei come una candela che si spegne.

Quale cifra vorrei per vivere di rendita ? Dico 10 milioni al mese, ma mentre lo dico mi vergogno nei confronti di chi lavora otto ore al giorno e porta a casa un milione e quattro. Pero' continuerei a fare la stessa vita che conduco adesso, perche' mi considero fortunato".


Datemi soltanto una fattoria con due cavalli
Mandala Tayde, attrice

"Se mi offrissero una rendita, chiederei 5 milioni al mese. Non ho bisogno di tanti soldi per vivere: vestiti, per esempio, ne comprerei pochi, perche' la cosa che preferisco e' andare in giro in maglietta e jeans. Ma devo farlo per la mia professione, dopo il successo di Fuochi d' artificio con Pieraccioni. E se c' e' qualche serata o qualche trasmissione tv devo mettermi il vestito adatto.

Anche se diventassi improvvisamente ricca, continuerei comunque a lavorare, perche' mi piace. Ma diminuirei il tempo che dedico al lavoro, e ne dedicherei di piu' ad altre attivita' , come fotografare o dipingere, che mi sono sempre piaciute ma che negli ultimi tre anni ho dovuto trascurare. In media ogni anno lavoro quattro mesi per le riprese, ma a questo bisogna aggiungere il tempo per provare, per leggere i copioni, per partecipare ai provini... E poi le serate in televisione, che per me che sono timida rappresentano sempre una certa fatica.

Piuttosto che vivere di rendita, spenderei tutto subito per realizzare il mio sogno: ristrutturare una vecchia fattoria in campagna e avere almeno due cavalli (cosi' si tengono compagnia). E poi comprare altre case in giro per il mondo".

Mauro Suttora