Wednesday, June 18, 1997

Urbano Lazzaro: "Così arrestai Mussolini"

L'ULTIMO PARTIGIANO DI DONGO: "VI RACCONTO COME HO ARRESTATO IL DUCE"

Il mitico "Bill" che bloccò Mussolini in fuga: "Su quella vicenda, mezzo secolo di menzogne. Io volevo la rappacificazione già nel '45"

dal nostro inviato Mauro Suttora

San Germano (Vercelli), 18 giugno 1997

Non capita spesso di arrestare e uccidere un dittatore. Anzi, non succede quasi mai: soltanto Benito Mussolini e Nicolae Ceausescu, fra tutti i (numerosi) tiranni del nostro secolo, sono stati giustiziati. Così, in questo paesino fra le risaie vicino a Vercelli, vive un pezzo di Storia. Quella con la S maiuscola, che rimarrà scritta nei libri anche fra duecento anni.

Nel nostro caso la Storia si chiama Urbano Lazzaro, ha 72 anni, e una faccia simpatica a metà tra Frank Sinatra e papa Wojtyla. È lui il famoso «partigiano Bill", che alle tre e mezzo del pomeriggio del 27 aprile 1945 salì su un camion di soldati tedeschi in fuga a Dongo, sul lago di Como, riconobbe Mussolini che indossava una divisa dell'esercito di Hitler, lo disarmò, lo strappò ai nazisti incaricati di proteggerlo e lo arrestò "in nome del popolo italiano".

Lazzaro è l'ultimo sopravvissuto di quegli eventi drammatici e ancora misteriosi. Perché in realtà nessuno sa bene cosa sia successo nelle ore successive, fino alla fucilazione del dittatore e della sua amante Claretta Petacci.

Soltanto nel gennaio dell'anno scorso, infatti, il Pds ha messo a disposizione degli storici le carte del cosiddetto "memoriale Lampredi" conservate negli archivi del Pci.
E sempre nel '96, poco prima di morire, lo storico del fascismo De Felice avanzò l'ipotesi che siano stati gli inglesi ad ammazzare Mussolini, perché temevano che rendesse pubbliche le lettere segrete di plauso che gli aveva mandato Winston Churchill.

È materia che scotta, quindi, sulla quale sono stati scritti decine di libri. Quattro portano la firma di Lazzaro: il primo negli anni '60, l'ultimo (Dongo, mezzo secolo di menzogne) pubblicato appena due mesi fa negli Oscar Mondadori.

Ma solo adesso, 52 anni dopo quei tragici giorni, gli animi si sono placati al punto che perfino i post-fascisti di Alleanza nazionale hanno chiamato il partigiano Bill a tenere una conferenza, venerdì 13 giugno, nella loro sede di Vercelli.

«Ho invitato Lazzaro", ci spiega Lodovico Ellena, 40 anni, dirigente di An, professore di filosofia e vicepreside di un liceo scientifico a Torino, "perché erano anni che volevamo sentire la sua voce. Per la verità non pensavamo che accettasse. Invece, eccolo qui. Sono emozionato nel vederlo per la prima volta in faccia".
Siamo stati noi di Oggi, infatti, a combinare il primo incontro fra Ellena e Lazzaro nella casa di quest'ultimo, prima dell'evento di Vercelli.

L'imbarazzo è palpabile. Soprattutto da parte di Ellena, il quale non rinnega di avere militato nel Msi fin dai caldi anni '70, quando la politica fra estremisti di destra e sinistra si faceva a colpi di spranga e manganello. E quando per i giovani neofascisti come lui Mussolini era un mito.

Ellena non nasconde che la decisione di invitare il partigiano che distrusse il Mito, impedendogli di scappare in Svizzera o in Germania, e comunque di salvare in qualche modo la pelle, è stata sofferta: "Non tutti i soci del nostro circolo erano d'accordo. Curiosamente, però, a opporsi non sono stati i più anziani, che ricordano direttamente quei giorni, ma alcuni dei più giovani. Però la maggioranza è d'accordo con quest'atto di riappacificazione..."

Il vecchio partigiano Bill interrompe Ellena sul divano di casa sua, lo guarda fisso negli occhi e gli dice: "Il primo che ha voluto la pace sono stato io. E sa quando? Nel maggio 1945. Al funerale di un mio compagno partigiano ucciso dai fascisti, del quale avevamo riesumato la salma per dargli una normale sepoltura, io dissi queste solenni parole: 'Adesso che la guerra è finita, di fronte al mio compagno morto per la libertà chiedo a tutti di perdonare'. Ma molti non furono d'accordo con me".

Non solo molti non furono d'accordo con Urbano Lazzaro, il quale a soli vent'anni era stato eletto vicecommissario della Cinquantaduesima brigata Garibaldi, ma per il partigiano Bill che non ha mai voluto conformarsi alle 'verità di partito' i guai cominciarono allora.

"Già quando mi portarono via Mussolini, che era sotto la mia custodia, sentii puzza di bruciato", dice Lazzaro. "L'avevamo arrestato noi, e assieme a lui avevamo preso anche un tale che diceva di essere console della Spagna, sua moglie, i due figlioletti e una donna che non conoscevo. Poi mi dissero che il 'console' era Marcello Petacci, e che la donna era sua sorella Claretta. Ma mentre noi eravamo occupati a controllare che la colonna di nazisti non aprisse il fuoco, e che non piombassero su di noi reparti di camicie nere, Mussolini e la sua amante furono portati via dal municipio di Dongo, prima a Germasino e poi a Bonzanigo, dove passarono l'ultima notte".

I partigiani avrebbero dovuto consegnare Mussolini agli alleati, per un pubblico processo. Ma i capi milanesi dei partiti di sinistra (Sandro Pertini per i socialisti, Luigi Longo per i comunisti e Leo Valiani per gli azionisti) temevano che così Mussolini l'avrebbe in qualche modo fatta franca, e decisero di portarlo a piazzale Loreto per fucilarlo.

A Milano, però, arrivò solo il cadavere del duce. Non solo, ma secondo alcuni Mussolini e la Petacci furono ammazzati prima dell'esecuzione ufficiale a Giulino di Mezzegra. Ormai, mezzo secolo dopo, questi possono sembrare particolari irrilevanti. Ma può darsi che i partigiani siano stati preceduti dagli inglesi. Oppure che abbiano voluto giustificare l'uccisione di una donna, la Petacci, che aveva l'unica colpa di amare Mussolini.

"In ogni caso", ribadisce Lazzaro, "l'alto dirigente del Pci giunto da Milano col nome di battaglia di 'colonnello Valerio' per eseguire la condanna a morte non era Walter Audisio, ma Luigi Longo. Io l'ho visto, e la sua faccia me la ricordo bene".

Longo non avrebbe potuto ammettere la sua partecipazione, perché questo avrebbe pregiudicato la sua carriera politica: fu segretario nazionale del Pci dal '64, dopo la morte di Palmiro Togliatti, al '72, quando gli subentrò Enrico Berlinguer.

L'altro grande mistero è quello dell'"oro di Dongo": l'equivalente di 60 miliardi di oggi che il duce e i gerarchi avevano con sé. Lazzaro ripete di avere depositato le borse sequestrate a Mussolini alla Cariplo di Domaso (Como), e d'altra parte sia lui sia altri accusati di avere trafugato il tesoro sono stati assolti in un processo a Padova nel '57.

Buona parte di quella cifra finì probabilmente nelle tasche del Pci, che la investì fra l'altro per acquistare palazzi come quello dove oggi sta il cinema Arlecchino in via San Pietro all'Orto a Milano, o la tipografia romana dell'Unità.
Adesso il partigiano Bill ha detto la sua verità anche agli ex nemici. Ma i libri di storia aspettano ancora la versione ufficiale.

Mauro Suttora

Saturday, May 10, 1997

Passante di Milano

Schiaffo passante

Grandi opere. come Zurigo ha battuto Milano

Identica lunghezza. stessa data d'inizio dei lavori. Ma il tunnel che collega le stazioni della citta' svizzera funziona da sette anni. ed e' costato un decimo di quello lombardo. Che non vede la fine

Il Mondo, 10 maggio 1997

di Mauro Suttora

"La prima esplosione per lo scavo dell'Hirschengrabentunnel la fissammo, per scaramanzia, alle ore 11 e 11 dell'11.11.1987", ricorda sorridendo l'ingegner Bernhard Wust, capoprogetto del passante di Zurigo. "Ando' tutto bene, e come previsto la S - Bahn (Stadt - Bahn, ferrovia cittadina, e' il nome tedesco dei passanti, ndr) venne inaugurata nel maggio 1990".

Che tristezza, sentir raccontare la storia del passante di Zurigo. Perche' paragonandolo con quello di Milano, lungo esattamente gli stessi chilometri (12) e iniziato nello stesso anno (1983), si tocca con mano la distanza che separa l'Italia dall'Europa. Il passante milanese, se andra' bene, sara' pronto nel 2002. Se andra' bene, costera' 7 mila miliardi invece dei 400 previsti inizialmente (ma erano soltanto 80 nel 1978, quando la Regione Lombardia approvo' il primo progetto). Quindi, i contribuenti lo pagheranno dieci volte piu' di quello svizzero, oppure il 50 % in piu' del tunnel sotto la Manica, in proporzione alla lunghezza: infatti il costo a chilometro di Milano ha ormai raggiunto i 580 miliardi.

Per non limitarsi alla lamentela, conviene andare a Zurigo e cercare di capire perche' gli svizzeri ce l'hanno fatta e i milanesi no. Almeno per non ripetere con le grandi opere dei prossimi anni (Giubileo, Olimpiadi, Alta velocita') gli stessi errori del recente passato.

Ricchi e parsimoniosi.

"L'idea del passante ferroviario nasce a Berlino nel 1930", spiega Reto Corman, portavoce delle Ferrovie svizzere, "quando i tratti urbani di binario vengono utilizzati come metropolitana a cielo aperto, moltiplicando le stazioni". Da allora molte citta' tedesche costruiscono la propria S - Bahn, da non confondere con le U - Bahn (Unter - Bahn), ovvero le metropolitane sotterranee. A Zurigo negli anni 70 si scarta l'idea della U - Bahn: troppo costosa.

I ricchi ma parsimoniosi svizzeri optano invece per un collegamento sotterraneo nel centro della citta': unira' tutte le direttrici ferroviarie, creando cosi' un reticolo di otto linee che dall'Hauptbanhof, la stazione centrale, porta in ogni direzione.

E' lo stesso progetto che, sull'esempio di Monaco di Baviera, in quegli anni avvince anche gli urbanisti del Pim (Piano intercomunale milanese), i quali gia' nel 1967 propongono il primo schema di passante per Milano. L'idea e' semplice: collegare le ferrovie in entrata a Milano da Bergamo, Treviglio, Lodi - Piacenza, Pavia, Vigevano, Novara, Varese e Como. Cosi' i treni regionali usati dai pendolari, invece di finire la corsa alla stazione Centrale oppure a Lambrate, Rogoredo, Cadorna o Garibaldi, vanno sottoterra all'altezza di quest'ultima stazione, percorrono il centro con le fermate Repubblica, Venezia e Dateo, e risalgono in superficie a Porta Vittoria. O viceversa. Lo stesso convoglio, quindi puo' collegare da Ovest a Est Novara a Bergamo, oppure da Nord a Sud Varese a Pavia. Un treno ogni mezz'ora su ciascuna direttrice, e quindi, nel tratto centrale sotterraneo, una corsa ogni tre minuti nelle ore di punta. Trentaseimila viaggiatori all'ora, 300 mila pendolari al giorno.

Ma fra il dire e il fare c'e' di mezzo la burocrazia. Il primo si' della Regione Lombardia risale al settembre 1978, pero' l'accordo a tre con Comune di Milano e Ferrovie dello Stato arriva solo due anni dopo. Intanto la spesa ipotizzata e' gia' salita da 80 a 200 miliardi. Dev'essere divisa in parti eguali fra i tre enti, ma la Regione non ha una lira, le casse del Comune sono prosciugate dalla costruzione del metro' e le Fs sono in deficit. Cosi' nel dicembre 1982, quando Giovanni Spadolini inaugura il primo cantiere in piazza Repubblica, ci sono solo 50 miliardi disponibili. Mentre il preventivo, complice l'inflazione, e' arrivato a 400 miliardi.

Referendum.

Gli svizzeri fanno l'esatto contrario. Calcolati i costi al centesimo (700 miliardi in lire italiane, l'80 % a carico del cantone di Zurigo e il resto dalle Ferrovie federali), il cantone di Zurigo gia' dagli anni 70 comincia ad accantonare 40 miliardi all'anno in previsione della grossa spesa. Con un referendum nel 1981 il 73 % degli abitanti di Zurigo approva l'esborso dei 560 miliardi di competenza cantonale, cancellando pero' la prevista stazione dell'Universita', ritenuta non valida in termini di costi / benefici. Cosi' nel 1983, quando i lavori partono, i ritmi di scavo vanno al massimo perche' i finanziamenti sono garantiti.

Il calvario del passante milanese, invece, e' soltanto agli inizi. Nel 1984 arriva il si' definitivo del Comune, che pero' nel marzo 1986 cambia in extremis il progetto: due stazioni (Lancetti e Dateo) vengono spostate. Poco male: i lavori procedono a singhiozzo, i cantieri aperti sono pochi. Anzi, proprio in quell'anno si fermano del tutto perche' alle imprese costruttrici non arriva piu' una lira. In realta' il metodo apparentemente garibaldino del "Partiamo alla cieca, poi si vedra" e' giustificato dall'inerzia del governo centrale. Infatti, poiche' in Italia al contrario che in Svizzera gli enti locali non hanno autonomia finanziaria, Milano e' sempre riuscita a farsi dare controvoglia soldi da Roma per il proprio metro' mettendo i ministeri di fronte al fatto compiuto. Questa volta pero' il giochetto non funziona, anche perche' negli anni 80 la quota di Fondo trasporti destinata a Milano viene assorbita dalla costruzione della terza linea metropolitana.

Nel 1988 l'ex sindaco milanese Carlo Tognoli, diventato ministro delle Aree urbane, riesce a far stanziare dalla legge finanziaria 476 miliardi per il passante. Comune e Regione ne hanno gia' spesi 485, ma ormai i costi sono lievitati a 1.700 miliardi: ne mancano quindi piu' di 700. Da quel momento sara' una rincorsa fra fondi elargiti col contagocce (216 miliardi con le finanziarie dal 1990 al '92) e cantieri costretti a lavorare a singhiozzo.

Storia infinita.

Il 27 maggio 1990 e' una giornata triste per la fanfara dei bersaglieri del secondo battaglione Governolo di Legnano: va in trasferta a Zurigo per suonare all'inaugurazione del passante ferroviario, ma la banda svizzera che avrebbe dovuto allietare una cerimonia simile a Milano resta a casa perche' da noi i lavori sono in alto mare. Salta quindi il gemellaggio stabilito nel 1983, all'inizio contemporaneo dei lavori. Poi arriva Tangentopoli, e si scopre che le imprese costruttrici gonfiavano le spese a suon di tangenti. "Abbiamo ridotto di un terzo il costo a chilometro", annuncia orgoglioso il nuovo sindaco leghista Marco Formentini nel 1994, un anno dopo essere stato eletto. Pero' i soldi da "Roma ladrona" non arrivano neppure a lui, anche perche' nel frattempo tutte le opere pubbliche sono bloccate: un po' per la questione morale, un po' per i tagli di bilancio. Nel frattempo i costi sono esplosi a 6 mila miliardi, ma alla fine si arrivera' a 7 mila con la sistemazione della stazione di Porta Vittoria e l'acquisto del materiale rotabile.

Pero' la storia del Passante milanese non e' finita. Anzi, nell'ultimo tratto non e' neppure cominciata. Nonostante l'enorme buco che ormai da anni blocca viale Piceno in prossimita' della stazione Porta Vittoria, per questa non esiste neppure il progetto. Intanto le autorita' hanno deciso di inaugurare almeno il primo tratto Garibaldi - Repubblica - Venezia. Servira' a poco o nulla: un passante che non passa, bloccandosi a meta', e' una contraddizione in termini. Comunque la cerimonia era stata fissata per questo aprile. Poi e' slittata, perche' Fs e Ferrovie Nord hanno scoperto in extremis che manca la cosa piu' importante: i treni. Adesso tutto e' rimandato al prossimo 28 settembre. Ma si accettano scommesse.

Svizzeri felici.

E a Zurigo? Il passante macina passeggeri: 230mila al giorno (per un'area urbana di poco piu' di un milione di abitanti, contro i quattro che gravitano su Milano). Tutti sottratti all'auto: i pendolari che usano i mezzi pubblici sono cresciuti dal 50 al 59 % , l'inquinamento da gas di scarico e' diminuito. Certo, le spese sono notevoli: biglietti e abbonamenti coprono soltanto il 60 % dei costi dei trasporti pubblici zurighesi. Ma i 14 comuni del Cantone si accollano i 450 miliardi (in lire italiane) di deficit annuo, in cambio di molto: ogni frazione con piu' di 300 abitanti ha 12 corse giornaliere garantite, in metro, tram o bus.

Insomma, l'esatto contrario di Milano, dove dall'hinterland e' scomodissimo raggiungere il centro con i mezzi pubblici. Risultato: ogni mattina un milione di auto private da' l'assalto ai viali di accesso alla citta', causando code chilometriche, ritardi di ore, ricerche snervanti di un parcheggio e nuvole di monossido di carbonio.

Mauro Suttora


lettera al Mondo n.22, 07/06/1997, pag. 129

passante di Milano, le ragioni dello scandaloso ritardo

In merito all'articolo apparso sul numero 18 dal titolo "Schiaffo Passante" a firma di Mauro Suttora, la scrivente Societa', quale incaricata del Project Management, della progettazione e della realizzazione delle opere e degli impianti civili del Passante Ferroviario, precisa:

1. Per quanto riguarda Zurigo, al progetto non e' stata attribuita la funzione di trasporto urbano anche perche' a Zurigo non esiste una vera rete di linee di forza quali quelle di Milano con le 3 linee metropolitane. Il Passante di Zurigo infatti e' piu' simile all'interramento di una ferrovia extra urbana, avendo una sola vera stazione interrata paragonabile alle 6 di Milano, oltre le 2 fermate di porta alla tratta in galleria. Mentre i costi per tratte omogenee sono comparabili se rapportati all'epoca della costruzione e riferiti a modalita' costruttive analoghe, sui tempi di realizzazione hanno ovviamente molto influito le diverse modalita' di finanziamento che nel caso italiano non sono state in grado di garantire neppure la continuita' dei finanziamenti e nel caso svizzero hanno consentito la totale disponibilita' delle somme necessarie con l'inizio dei lavori.

2. Il Passante Ferroviario di Milano consiste di una tratta urbana e di una serie di interventi di adeguamento sulle reti e sulle infrastrutture esterne.

3. I committenti sono due: Regione Lombardia e Comune di Milano, i quali concorrono alla spesa nella misura del 50 % ciascuno

4. Le ferrovie dello Stato realizzano a loro cura e spese tutti i necessari interventi esterni alla "tratta urbana", nonche' gli impianti elettroferroviari della "tratta urbana".

5. Gli accordi, le procedure e gli strumenti per la realizzazione dell'opera, unica nel suo genere in Italia per importanza strategica, sono stati formalizzati in una Convenzione Generale (1983) tra ben quattro soggetti: Regione Lombardia, Comune di Milano, Fs e Fnm.

6. I lavori sono iniziati alla fine del 1984 sulla base del progetto originario che prevedeva 8,5 km circa di linea e n. 4 stazioni sotterranee per un costo complessivo di 437 miliardi di lire. La rivalutazione monetaria di quest'importo e l'adeguamento dell'Iva dal 2 al 10 % corrispondono ad un valore attuale di 1.367 miliardi di lire.

7. Nel corso degli anni sono state concordate tra Regione Lombardia, Comune di Milano, Fs e Fnm importanti varianti al progetto originario. Tutto cio' premesso, la situazione, alla data odierna, valutata in lire correnti e' cosi' sintetizzabile: costo dell'intera opera1.673 miliardi di lire (Iva inclusa), di cui finanziamenti attivati 1.447 miliardi di lire; somme impegnate 1.430 miliardi di lire; opere gia' eseguite 1.330 miliardi di lire (93 % ); opere ancora da eseguire 343 miliardi di lire.

Risponde Mauro Suttora.

La stima dei costi per il Passante Ferroviario di Milano e' ricavata da uno studio dell'Irer (l'Ufficio di ricerche istituzionale della Regione Lombardia) del 1994. Il professor Renato Pugno ha calcolato una cifra totale di 7.952 miliardi, comprensiva di 3.146 miliardi di interessi al 6 % , ovvero il "costo di opportunita' del capitale immobilizzato" durante la costruzione.

A questa stima conservativa (nel caso di interessi al 10 % il rapporto ufficiale della Regione Lombardia indica un costo totale di ben 9.874 miliardi) abbiamo sottratto il costo del materiale rotabile, che ci e' stato indicato da fonti autorevoli in circa mille miliardi (cento convogli da dieci miliardi l'uno). Settemila miliardi, quindi, e nel dettaglio: 685 a carico di MM (Metropolitana Milanese), la quale peraltro nella sua lettera conferma piu' o meno questa cifra, che pero' secondo l'Irer sale a 2.600 miliardi con gli interessi al 6 % , piu' 2.500 miliardi a carico delle Ferrovie Nord, e circa 2.000 a carico delle Fs.

Saturday, May 03, 1997

Futuro: parlano Negroponte e Vacca


AIUTO, È IN ARRIVO IL FUTURO

di Mauro Suttora

3 maggio 1997

Io Donna (Corriere della Sera)
 
«Volate in faccia al modo di pensare tradizionale. Rinnovatevi in continuazione. Coltivate un sano disprezzo per l’autorità». Ormai Nicholas Negroponte, fondatore e direttore del Medialab al Mit (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, parla come un guru: non argomenta più, si limita a inviare messaggi. E la principale preoccupazione del massimo futurologo mondiale, oggi, sembra essere quella di propagandare l’anarchia: «La sfida più importante che abbiamo davanti è quella di non diventare noi stessi l’establishment», ci fa sapere, ermetico, nell’intervista (rigorosamente in e-mail) che gli facciamo.

L’autore di 'Essere digitali' (insuperata Bibbia del cyberpensiero) è polemico contro «i burocrati di ogni governo che vorrebbero controllare tutto e imbrigliare il futuro». Sullo sfondo, le roventi polemiche su Internet: come punire i siti pedofili e la pornografia on-line? Ma, più concretamente: come faranno gli Stati a riscuotere le tasse sugli scambi - di merci, di capitali - via computer?

Di questo (e di molto altro) si parlerà al Futurshow di Bologna dal 9 al 12 aprile. Quello che è diventato ormai un appuntamento obbligato per tutti i cybermaniaci italiani (l’anno scorso i visitatori sono stati 350mila) quest’anno festeggia i trent’anni dallo sbarco sulla Luna. Ma, ovviamente, lo sguardo al passato della fiera bolognese servirà soltanto come trampolino verso il futuro. E nei padiglioni verranno esposte tutte le più importanti novità tecnologiche che ci stanno cambiando la vita. Eccone alcune, accompagnate dalle riflessioni di Negroponte e del nostro Roberto Vacca.

1) LA CASA TECNOLOGICA
Ogni stanza avrà almeno uno schermo. O quello di un televisore, o quello di un computer. Fissi e portatili, grandi e piccoli, non importa: saranno le nostre finestre verso il mondo. Questi terminali video potranno collegarsi indifferentemente con tv, Internet, giochi, telefono, programmi di scrittura o di lettura. È questo il significato della parola «multimedia»: vedere la tv sullo schermo di un personal, oppure usare il televisore per collegarsi con Internet, sarà indifferente.

Squilla il telefono? Se ci troviamo in bagno, schiacciamo un bottone e sullo schermo apparirà la nonna che ci vuole parlare. Se non siamo proprio nudi in vasca, potremo attivare una delle tante telecamerine (anch’esse in ogni stanza) e farci vedere anche noi dalla nonna. Le telecamere servono anche per controllare cosa succede a casa quando siamo fuori, con una semplice videotelefonata sul cellulare, o cliccando sul computer dall’ufficio.

Azzardiamo un necrologio? Morirà prima il ventenne videoregistratore del cinquantenne televisore. Spariranno novità relativamente recenti come le videocassette e le catene di negozi che le noleggiano. Questo perché dagli schermi di casa ci collegheremo direttamente a cataloghi, cineteche e banche dati con centinaia di migliaia film, documentari, concerti e archivi tv, che al costo di pochi euro invieranno istantaneamente il programma prescelto. E poiché anche le canzoni si possono trasformare in bit, pure dischi e cassette diventeranno obsoleti.

2) OCCUPAZIONE, SCUOLA, LAVORO
Roberto Vacca, il nostro massimo «futurologo» (è in uscita il suo ultimo libro, 'Consigli a un giovane manager', ed. Einaudi), è però pessimista: «L’Italia sta perdendo la partita della cultura, che è alla base di tutta l’economia. Dovremmo creare valore aggiunto, cioè prodotti sofisticati, e invece che cosa esportiamo? I soliti vestiti, piastrelle, marmo, macchine per il legno. Nell’export di software siamo superati perfino dall’India, che ha venti politecnici contro i nostri due, e dall’Ungheria, che ha scuole migliori delle nostre.

«Le aziende di Modena e Piacenza, che vantavano successi nelle macchine per la meccanica, ora vengono spiazzate dai concorrenti malesi. La merce del futuro è l’intelligenza, ma i due terzi degli italiani hanno frequentato solo la scuola dell’obbligo. Gli Stati Uniti, a parità di popolazione, hanno dodici volte più università di noi. I giornali non veicolano più il sapere, sono pieni di stupidaggini, radio e tv ancora peggio. E il nostro primato mondiale in fatto di telefonini significa solo che la merce che gira di più è la chiacchiera».

Un quadro fosco. Quali le vie d’uscita? Scuole professionali di modello tedesco, con apprendistati pratici presso artigiani e aziende; meno materie umanistiche e più scienza nei licei, ma anche laboratori di chimica e fisica che funzionino sul serio (meno formule da imparare a memoria sui libri, e più esperimenti); informatica e inglese già dalle elementari, ribaltando però il metodo di insegnamento delle lingue straniere: molta conversazione, e poca letteratura.

3) TECNOLOGIA, DEMOCRAZIA, EUTANASIA
Nel 1976 Erich Fromm in 'Avere o essere' ipotizzava l’uso della telematica per allargare la democrazia: ad esempio, organizzando referendum via computer ogni anno sui dieci maggiori argomenti di dibattito pubblico. «Ma partecipare senza sapere rischia di essere il grande equivoco del prossimo secolo», avverte Vacca. Già oggi, infatti, grazie alla forza di sondaggi telematici effettuati sull’onda dell’emotività (come i programmi tv che domandano «Siete favorevoli agli immigrati?» subito dopo aver trasmesso documentari raccapriccianti in un senso o nell’altro), si ottengono risultati facilmente manipolabili da qualsiasi demagogo.

L’eutanasia diventerà uno degli argomenti più scottanti della politica, perché nei Paesi ricchi si vivrà fino a 90-100 anni, ma i lavoratori saranno sempre più riluttanti a finanziare l’assistenza agli anziani. Questo problema assumerà fatalmente toni razzisti in Paesi come l’Italia, dove il crollo demografico degli autoctoni bianchi verrà compensato soltanto dall’afflusso di immigrati.

Infine: sopravviveranno gli Stati? «Neanche per sogno», risponde sicuro Negroponte, «perché non sono né abbastanza grandi per essere globali, né abbastanza piccoli per essere locali. La vita evolutiva dello Stato-nazione così come lo conosciamo oggi risulterà perfino più corta di quella di uno pterodattilo. Si svilupperanno al suo posto governi locali, di comunità. E alla fine si arriverà a un pianeta unito».

4) GIOCHI
Come evolveranno i videogiochi? La battaglia è tutta fra i produttori giapponesi: stiamo assistendo proprio in questi mesi all’incredibile successo della Playstation Sony. Ma la vera scommessa, per l’industria, è quella di coinvolgere anche le femminucce, rimaste finora refrattarie davanti al joystick.

Dice Justine Cassell, docente al Medialab del Mit di Boston: «Alle bambine piace giocare parlando, raccontando storie, e quindi non sono attratte dai videogiochi. Ebbene, stiamo mettendo a punto programmi che assecondino la naturale preferenza delle femminucce per l’esplorazione delle relazioni sociali. Viceversa, spingiamo i maschietti a una maggiore elaborazione sfruttando la loro passione per le nuove tecnologie». Sfuma così il pericolo di sfornare generazioni di alienati cresciuti davanti allo schermo della tv o di un computer?

«Di fronte a reazioni come quella di una bambina che, dopo ore di videogioco, ha detto a un suo amichetto “Non mi piace essere tua amica, voglio solo fare la regina!”, è naturale che i genitori si preoccupino», spiega la Cassell. «Ma ora si sta formando una strana alleanza fra creative femministe e industriali - i quali vogliono vendere anche alle bambine - per “femminilizzare” i videogiochi, attenuandone le caratteristiche distruttrici e misantrope».

5) CITTÀ SENZA ORARI
«Vivremo vite completamente asincroniche, non ci dovremo più alzare tutti assieme per andare al lavoro al mattino, e poi di corsa a fare la spesa alla sera», promette Negroponte, «la sveglia e gli ingorghi stradali saranno solo un ricordo della stupidità del passato. Ci sarà un rinascimento della vita in campagna. E nel giro di qualche decennio non avremo più bisogno neanche delle grandi città».

Ma poiché cibo, vestiti e mobili non sono trasformabili in bit e trasportabili via cavo, rifioriranno i piccoli negozi artigianali specializzati. «Sopravviverà soltanto il minuscolo e il molto grande, ma per le aziende l’unico valore dell’essere enormi sarà la possibità di perdere miliardi di dollari prima di guadagna ».

«Qualsiasi negozio che non rimanga aperto 24 ore su 24 fallirà», profetizza Negroponte. Commercianti suicidatevi, allora? Tranquilli. Anzi, il negozio come luogo fisico potete anche chiuderlo. O tenerlo aperto soltanto nelle ore che preferite. L’importante, è aprire un sito Internet con un catalogo attraente e un efficientissimo servizio di consegne a domicilio.

Per il resto, la bottega servirà soltanto come luogo d’incontro, di socializzazione. Lo shopping per sentirsi meno soli. Verso il 2030 chiuderanno molti super e ipermercati: non sarà più conveniente tenere aperte strutture così mastodontiche, dopo che il commercio elettronico avrà conquistato i due terzi del mercato.
Mauro Suttora

Friday, April 04, 1997

Pannella e l'Ordine dei giornalisti

CINQUANT'ANNI DI ROSE E PUGNI TRA PANNELLA E I GIORNALISTI

IL REFERENDUM CONTRO L'ORDINE È L'ULTIMA FASE Dl UN RAPPORTO CONTRASTATO. L'ANTAGONISMO CON SCALFARI

Il leader radicale si innamorò della stampa a quindici anni. Comprava due copie al giorno di Risorgimento liberale, il quotidiano del Pli da dove Einaudi attaccava la corporazione. Gli anni del Mondo, del Giorno, e la comune militanza politica con il direttore di Repubblica

Di Mauro Suttora

Il Foglio, 4 aprile 1997

Milano. I milioni di italiani che andranno a votare per il referendum sull'Ordine dei giornalisti lo ignorano, ma quel voto è il risultato finale di un intenso rapporto di amore-odio: quello che da più di mezzo secolo lega Marco Pannella a giornali e giornalisti, e in particolare al più ricco (di gloria e di miliardi) fra loro, Eugenio Scalfari. 

I giornali Marco li ha sempre amati. Da quando, studente 15enne al liceo classico Giulio Cesare di Roma nel '45, si imbatte in Risorgimento liberale, il quotidiano del Pli. Già eccessivo allora, non si limita a comprarne una copia: "Mi interessò talmente, che da quel giorno ne ho sempre prese due: una per me e una per i miei compagni di scuola". 
Proprio su Risorgimento liberale Luigi Einaudi sferrava quelli che a oggi rimangono i più lucidi attacchi alla corporazione dei giornalisti. 

Marco nel '49 viene folgorato da un secondo giornale: il Mondo, appena fondato da Mario Pannunzio. Pannella si affaccia sempre più spesso nella redazione a Campo Marzio. Ma non è l'unico giovane a essere attratto da quel cenacolo di galantuomini i quali, oltre a confezionare il settimanale più sofisticato dell'epoca, trasformano la redazione in un salotto intellettuale perenne. 
In concorrenza con Marco per farsi notare dagli 'anziani' della cultura liberale italiana infatti c'è Scalfari. E come Marco anche Eugenio, più vecchio di sei anni, è un attivista della corrente di sinistra del Pli.

La competizione fra i due giovani galli nel troppo affollato (d'ingegni) pollaio liberal-radicale è inevitabile. Pannella negli anni 50 diventa il capo degli universitari italiani. Scalfari invece va a lavorare nella banca Commerciale a Milano, scrive articoli per l'Europeo di Arrigo Benedetti e sposa la figlia del direttore della Stampa. Nel 1955 fonda sia l'Espresso con Benedetti, sia il partito radicale con Valiani, Carandini e tanti altri. Compreso Pannella. 

Intanto anche Marco nel '59 debutta nel giornalismo con una lettera aperta a Palmiro Togliatti su Paese Sera. Però esagera, calca troppo i toni e viene bocciato: dal Migliore, che lo liquida tre giorni dopo, sempre sul Paese ("Non accettiamo queste polemiche"), ma soprattutto da Scalfari che emette addirittura un comunicato pubblico per sconfessarlo, e perfino dal Mondo che gli dà del "cretino". 

Disgustato, Marco lascia l'Italia. Approda a Parigi dove, a corto di soldi, si presenta alla redazione del Giorno in rue Saint Simon, 7° arrondissement. Comincia a collaborare con la corrispondente in carica Elena Guicciardi. Copre il turno di notte. 
"Era già polemico - ricorderà l'allora caporedattore Angelo Rozzoni - invece di mandare il servizio richiesto inviava tre-quattro cartelle di 'controinformazione'. Era molto bravo e diligente, gli avrei dato un sette, ma aveva l'inveterata abitudine di fare a modo suo".

Nel dicembre '62, dopo i rituali 18 mesi di praticantato, Marco diventa giornalista professionista. Poi contesterà sempre l'Ordine e rifiuterà gli sconti su aerei, treni e autostrade. Il suo stipendio a Parigi è di 20 mila lire il mese. 

Di politica non si può occupare, c'è già la Guicciardi. Ma nelle pagine di cronaca riesce a infilare un'intervista a Jean-Paul Sartre sulla tortura, viene inviato a Cannes al festival del cinema, va a Tolosa per un'inchiesta sulle caserme, si occupa di Dalida.

Una volta, da Milano lo incaricano di cercare Gina Lollobrigida a Parigi. "Le ho lasciato un messaggio in albergo", risponde sbrigativo con un telex che trasuda disinteresse. 

Nel gennaio '63 Pannella si dimette dal Giorno. "Mi licenziarono dopo un'inchiesta sull'Eni e Mattei - è la sua versione - dopodiché fui messo all'indice. Ero vietato da tutti, sia come firma che come notizia". 

Iniziano così 30 anni di giustificata paranoia, con giornali e tv sempre ossessivamente nel mirino. All'interno del Pr, Pannella guida l'opposizione a Scalfari con la propria corrente "Sinistra radicale", di cui fanno parte gli ex goliardi Massimo Teodori (futuro editorialista di Messaggero e Giornale), Gianfranco Spadaccia (giornalista dell'agenzia Italia) e Angiolo Bandinelli, collaboratore del Mondo.

Nel '63 Pannella conquista il partito radicale. Vuoto, però. In quegli anni l'attività ruota attorno a una battagliera agenzia di notizie, visto che la maggior parte del gruppo dirigente è formata da giornalisti. Memorabili le campagne contro l'Eni di Eugenio Cefis e il sindaco di Roma Petrucci (che finirà in galera), oltre a quelle per l'obiezione di coscienza (vinta nel '72) e per il divorzio (vinta nel '70 con la legge, e quattro anni dopo col referendum). 

Ma quest'ultima, iniziata nel '65, ottiene solo l'appoggio del settimanale plebeo-erotico Abc, e anche le altre iniziative radicali vengono snobbate dalla grande stampa. Così lievita il livore di Pannella verso i "colleghi".

La direzione di Lotta continua

La situazione non migliora negli anni 70. Il Pci vede come il fumo negli occhi il referendum sul divorzio, perché rischia di "spaccare le masse" e ostacolare il "compromesso storico" con la Dc. Invece Pannella accentua il suo impegno anticlericale e si riavvicina a Scalfari. 

Nel '71 fondano assieme la Lega per l'abrogazione del Concordato (cui aderiscono Leonardo Sciascia, Eugenio Montale, Ignazio Silone, Ferruccio Parri, Alessandro Galante Garrone) e tengono comizi anticoncordatari in giro per l'Italia. 

Sarà anche a causa di questa eccessiva vicinanza al libertario Pannella, oltre che per l'ostilità di Craxi, che nel 72 Scalfari perderà il seggio di deputato socialista conquistato nel '68 (per sottrarsi al processo sul caso Sifar). 

Intanto a Pannella arrivano una ventina di denunce per avere diretto il giornale sessantottino Lotta continua. Lui concedeva la propria firma a qualsiasi pubblicazione avesse bisogno di un direttore responsabile. Unica condizione: "Non voglio vedere una riga di quel che pubblicate".

Per Lotta continua vengono incriminati anche Pier Paolo Pasolini e Marco Bellocchio. Umberto Eco, Lucio Colletti, Giovanni Raboni, Paolo Mieli, Natalia Ginzburg e altri intellettuali firmano un appello a favore degli imputati. 

Ma il bastian contrario Pannella prende le distanze anche da loro: "Dubito che di 'pensiero', marxista o no, ce ne sia molto in chi pensa di 'fare la rivoluzione impugnando le armi contro lo Stato' [una delle frasi incriminate, ndr]. Questo non un reato: è un'imbecillità, coeva più alle spedizioni fiumane di D'Annunzio che alla lotta politica odierna". 

Nel '73 Pannella torna alla professione di giornalista. Segue per l'Espresso le elezioni in Francia. Ma si arrabbia per i tagli e alcune censure subite dai suoi articoli. Due anni dopo l'Espresso aiuterà il partito radicale a raccogliere le firme per il referendum sull'aborto, e affiderà una rubrica settimanale a Pannella. Ma Marco la interrompe per protesta dopo il licenziamento da via Po del suo amico Lino Jannuzzi. 

Nella seconda metà del '73, in vista del referendum sul divorzio, Pannella fonda il quotidiano Liberazione, sull'esempio del neonato Libération parigino diretto da Sartre (vent'anni dopo cederà la testata a Rifondazione). 
Ma il compito è sovrumano, perché la redazione è composta soltanto da Pannella stesso, da Vincenzo Zeno-Zencovich (poi docente universitario, editorialista sul Sole 24 Ore, avvocato e autore del pamphlet 'Contro la libertà di stampa'), Rolando Parachini e Roberto della Rovere (poi al Corriere della Sera).
Dopo un mese Liberazione diventa bisettimanale, ma nel febbraio '74 chiude. 

Le dimissioni del presidente della Rai 

Nel 1974, sull'onda del referendum vittorioso che conferma la legge sul divorzio, i radicali propongono otto referendum. Uno di questi è contro l'Ordine dei giornalisti. Aderiscono Norberto Bobbio, Arrigo Benedetti, Adele Cambria, Gigi Ghirotti, Adriano Sofri, Giovanni Russo. Ma le firme raccolte si fermano a 170 mila.

In compenso, quell'estate Pannella è il primo a pronunciare alla tv italiana le parole "aborto", "lesbiche" e "omosessuali". Nonostante gli sforzi del capufficio stampa Rai Giampaolo Cresci (poi direttore del Tempo), lo scandalo è enorme. Alla fine il potentissimo presidente Rai Ettore Bernabei si deve dimettere.

Sul caso Pannella intervengono sul Corriere della Sera Pasolini, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Spadolini e Maurizio Ferrara, sull'Espresso Sciascia, Alberto Moravia e Giorgio Bocca. Il leader radicale diventa un personaggio nazionale, e nel '76 deputato. 

Nelle liste del Pr abbondano i giornalisti: Enzo Marzo, Massimo Alberizzi, Riccardo Chiaberge e Cesare Medail del Corsera, Valter Vecellio (oggi inviato del Tg2) e Marco Taradash (per anni al mensile Prima Comunicazione), inventori delle rassegne stampa su Radio radicale. 

Stefano Rodotà, allora editorialista della neonata Repubblica, simpatizza. Ma è l'attuale commentatore di punta del Corriere della Sera Angelo Panebianco, assieme a Teodori, Piero Ignazi (poi editorialista di Repubblica) e al docente universitario Lorenzo Strik Lievers, il teorico più raffinato del radicalismo.

I1 culmine dello scontro tra Marco ed Eugenio

Nelle politiche del '79 alla pattuglia radicale si aggiungono sul versante giornalistico Maria Antonietta Macciocchi, Gigi Melega, Gianni Vattimo, Alfredo Todisco, Fernanda Pivano e Barbara Alberti. Scalfari appoggia Pannella nella battaglia contro la fame nel mondo.

Ma l'ennesima rottura (mai più ricomposta) fra i due avviene nel 1981, sulla "linea della fermezza" durante il sequestro Br del magistrato D'Urso. Pannella scatena i militanti radicali, i quali mandano in tilt i centralini di Repubblica che rifiuta di pubblicare i comunicati brigatisti, condizione per la liberazione. Svela perfino i numeri di casa di Scalfari. 

"I brigatisti hanno definito Pannella 'sciocco demagogo' - risponde furibondo Scalfari in un editoriale - demagogo lo è certamente, sciocco assolutamente no, come può testimoniare chi lo conosce da trent'anni. (...) Pannella è un sovversivo, ne più ne meno delle Br. Le Br usano le pistole, Pannella le parole e lo psicodramma di massa". 

"Da Almirante a Valiani, da Scalfari a Berlinguer, si è ricostituito il partito della forca, come ai tempi di Moro. Hanno bisogno di un cadavere per fare un golpe", replica Pannella da Radio radicale mobilitata giorno e notte dal direttore Jannuzzi. 

Nell'84 Scalfari viene condannato a risarcire Pannella con 70 milioni per un articolo diffamatorio sul caso Cirillo. Il direttore di Repubblica si vendica tre anni dopo, attaccando Pannella per la candidatura di Cicciolina. 

Ma è soprattutto su Bettino Craxi che i due hanno posizioni opposte: Pannella lo corteggia; Scalfari, innamorato del segretario dc Ciriaco De Mita, lo detesta. 
Il culmine dello scontro fra Marco ed Eugenio viene raggiunto nel '93, quando Pannella organizza addirittura un convegno ad hoc contro Scalfari, Caracciolo e De Benedetti: "Sono associati per delinquere - spara - Scalfari è un libertino mascherato da tartufo, che con una mano indica il dio della democrazia e con l'altra tocca le cosce dell'autoritarismo e della corruzione. Ha fornicato per anni con coloro che attaccava". 

Finirà mai la rivalità fra il politico 67enne che non è riuscito a fare il giornalista e il giornalista 73enne che non è riuscito a fare il politico (anche se il primo si illude di distruggere i giornalisti con il referendum, e il secondo spera in un posto da ministro o da senatore a vita)?
Mauro Suttora

Saturday, February 08, 1997

Hollywood a Milano

Cinema e computer: la rivoluzione digitale sbarca in Italia

CHIP, SI GIRA

Il film Nirvana di Gabriele Salvatores apre il nuovo filone. E alcune società milanesi scoprono il business degli effetti speciali, dando vita a una Hollywood sui Navigli

di Mauro Suttora
Il Mondo, 8 febbraio 1997

Passera' alla storia indipendentemente dai successi di critica e di incasso Nirvana, il nuovo film del regista Gabriele Salvatores (premio Oscar 1992 per Mediterraneo) uscito nelle sale venerdi' 24 gennaio. E' infatti la prima pellicola italiana che fa un massiccio uso di effetti speciali. E non quelli tradizionali, del genere mostri, pupazzi o sangue finto. Qui gli interventi sono elettronici, o piu' precisamente digitali, proprio come nelle megaproduzioni tecnologicamente piu' avanzate di Hollywood, da Forrest Gump a Jurassic Park

La neve, per esempio, e' tutta finta. Addio macchine che sputavano fiocchi bianchi nascoste sopra la cinepresa: adesso la neve si inserisce direttamente sulla pellicola con il computer. Ma c'e' di piu'. All'inizio Salvatores voleva girare un film itinerante, ed era gia' andato in Marocco e in India per individuare le location. Poi, anche per problemi di budget, ha deciso di concentrare tutte le riprese nella fabbrica abbandonata dell'Alfa Romeo al Portello di Milano. Ma non per questo mancano le scene ambientate a Marrakech o a Bombay: la realta' virtuale, infatti, aiuta a spostare anche i set dei film. 

Salvatores e' entusiasta: "Questo e' il mio primo lavoro subliminale, psichedelico, in cui vengono fuori i miei sogni e i miei riferimenti, da Jerry Garcia a Timothy Leary", dice. "Grazie al computer invento ogni trucco, creo paesaggi, pianto un cristallo nella fronte di un'attrice, aggiungo o tolgo un personaggio. La possibilita' di scegliere direttamente su video i ciac e di controllare subito gli effetti mi ha permesso liberta' espressiva e un gran risparmio di tempo e denaro".

Milano come Hollywood. 
Ma cosa c'e' dietro allo sforzo culminato con Nirvana? Davvero si puo' ormai parlare di "Hollywood sui Navigli", visto che tutti gli effetti digitali del film sono stati creati a Milano? A che punto e' lo stato dell'arte tecnologico ed economico in questo campo? 

"Quello di cui pochi si sono accorti", spiega Franco Gaieni, amministratore delegato della societa' di effetti digitali milanese Chinatown, "e' che proprio negli ultimi mesi sono arrivate in Italia delle nuove macchine che ci hanno permesso di colmare il gap con Londra e gli Stati Uniti. Ormai siamo allineati al meglio che c'e' nel mondo".

 Prodotti leader sono le piattaforme Onyx della Silicon graphics e i vari software Inferno, Flame, Flint o Fire della canadese Discreet Logic, che crea programmi in esclusiva per la Silicon graphics. Inoltre, e' presente sul mercato italiano la societa' inglese Quantel che vende prodotti proprietari che integrano hardware e software. Risultato? "Fino a qualche anno fa le agenzie pubblicitarie italiane andavano a produrre all'estero il 40 % dei loro spot, adesso la percentuale e' scesa al dieci", dice Stefano Raina, direttore della Digitalvideo di Milano.

 Il ritmo del progresso tecnologico e' impressionante. Ancora nel giugno scorso Salvatores ha dovuto spedire a Londra la sua pellicola per prepararla al trattamento elettronico. Ma adesso anche a Roma, negli studi di Cinecitta', e' arrivato lo scanner Cineon Kodak che archivia in forma digitale su supporto magnetico Dlt (Digital linear tape) il negativo originale della pellicola in 35 millimetri: grazie a questo processo la qualita' del film viene interamente preservata. 

Il costo degli investimenti tecnologici e' notevole: basti dire che un'altra delle maggiori societa' milanesi, la Interactive, che ha fatto camminare in cielo Zucchero nel video della sua ultima canzone Menta e rosmarino, e che ha assistito Roman Polanski nel filmato su Vasco Rossi, ha dovuto sborsare piu' di quattro miliardi per assicurarsi, unica in Italia, i sistemi Domino e Inferno. 

Pochi studi specializzati. 
E' difficile stimare il valore del mercato degli effetti speciali oggi in Italia: quello della produzione di spot pubblicitari si aggira intorno ai 250 miliardi annui, e all'interno di questa cifra la "post - produzione" (ovvero tutto cio' che avviene dopo che la scena e' stata girata, dal montaggio all'inserimento del suono, fino alle sigle) assorbe il 20 - 25%. Una sessantina di miliardi, quindi, che coprono anche i costi degli effetti digitali. 

Gli studi specializzati si contano sulle dita di una mano (a Milano, oltre a quelli citati, ci sono anche 2 Kappa, Media Cube e Imaginaction, mentre a Roma operano Eta Beta, Sbp, Frame by Frame e Sergio Stivaletti), e la loro dimensione medio - piccola rende assai onerosi gli investimenti.

 "Come ogni cosa nel mondo dei computer", spiega Stefano Marinoni di Digitalia, la societa' milanese che ha realizzato gli effetti speciali del film di Salvatores, "anche le nostre macchine hanno tempi di obsolescenza rapidissimi: dopo un anno e mezzo, al massimo due anni, sono gia' vecchie, superate da altre novita'. Ma la legge italiana prevede tempi di ammortamento di tre anni, e per noi questo e' assurdo: una sola piattaforma Onyx della Silicon graphics, infatti, costa mezzo miliardo".

 Leader del mercato hardware e' la Silicon graphics: l'anno scorso, dopo la fusione con Cray research, la multinazionale californiana con sede a Mountain View ha toccato i cinquemila miliardi di fatturato in lire, con utili per 180 miliardi. Da dieci anni opera anche una filiale italiana con sede a Rozzano (Milano) e 75 dipendenti: nel 1996 ha fatturato una sessantina di miliardi, con un balzo del 70 % rispetto all'anno precedente. 

"Il grande pubblico associa il nostro nome agli effetti speciali di Hollywood", dice il direttore marketing Paolo Vitali, "ma in realta' le macchine per video e film rappresentano solo il 15 per cento del nostro giro d'affari, anche se questo e' un segmento che controlliamo quasi totalmente". Il vero business, per la Silicon, e' quello del Caid (Computer aided industrial design): dal Centro ricerche Fiat all'Agip, a Benetton, non c'e' ormai visual designer che possa fare a meno delle proiezioni bi e tridimensionali dei computer Silicon o dei suoi concorrenti Sun e Hewlett Packard. "Il mercato dell'entertainment invece in Italia e' estremamente ridotto e verticale", nota sconsolato Vitali. 

Tutti i professionisti del settore fanno spot e documentari industriali per guadagnare, ma sognano il cinema. Pero', fino a quando in Italia si produrranno soltanto poche decine di film all'anno (70 nel 1995, 90 l'anno scorso), e' difficile pensare a sbocchi significativi per gli effetti digitali sul grande schermo. 

Know how senza industria. 
Fra l'altro, c'e' un problema di costi: un solo spot pubblicitario di trenta secondi ha spesso a disposizione un budget da un miliardo, cioe' la meta' del costo medio di un intero film italiano lungo un'ora e mezzo. Insomma, esistono in Italia attrezzature paragonabili a quelle di Hollywood; gli operatori, siano italiani che si sono specializzati a Londra, New York e Los Angeles, o tecnici anglosassoni che si sono stabiliti a Milano, garantiscono lo stesso livello di professionalita' dei "maghi" americani; non mancano giovani registi in gamba e i costi sono competitivi. 

Peccato che, per i film, manchi tutto il resto. Cioe' un'industria del cinema nazionale cosi' com'e' esistita fino a vent'anni fa, che grazie al numero dei film girati garantisca la massa critica necessaria al ritorno degli investimenti. Finche' non rinascera', le meraviglie digitali si troveranno solo negli spot. Oppure nei film made in Hollywood.
Mauro Suttora 

Saturday, November 16, 1996

Spot delle calze Sanpellegrino

Spot bocciati. Ma la polemica fa vendere

Per il giurì il carosello con Banderas denigra i rivali. Ma per l'azienda è pubblicità gratuita. E il fatturato...

di Mauro Suttora

Il Mondo, 16 novembre 1996

Tutta pubblicità!" Ostentano tranquillità nella sede di Ceresara, in provincia di Mantova, i dirigenti della Csp (Calze San Pellegrino) international. Il loro spot con Antonio Banderas e Valeria Mazza è stato censurato giovedi' 31 ottobre dal giuri' di autodisciplina pubblicitaria con l'accusa di essere "ingannevole" perche' mostra un collant che non si rompe neanche rimanendo impigliato a un gemello, e "denigratorio" perche' offenderebbe le altre calze vantando la resistenza delle Sanpellegrino.

Lo spot, almeno nella versione italiana, verrà ritoccato e rimesso nel circuito ma senza drammatizzare. In fondo anche una bocciatura può diventare un'opportunita'. La polemica si trasforma in pubblicita' gratuita per una industria che cresce a ritmo elevato senza problemi di recessione: terza in Italia dopo Golden lady e Filodoro, settima in Europa, decima nel mondo, ha fatturato 111 miliardi nel 1993, 130 l'anno dopo, 191 nel 1995 e ne prevede per questo bilancio 215. Quanto all'utile, e' schizzato dal mezzo miliardo di tre anni fa agli 11 miliardi del 1995. "Non posso rivelare il costo dello spot, che comunque abbiamo pagato un occhio della testa visto che era diretto da Giuseppe Tornatore, prodotto da Gianni Nunnari e Quentin Tarantino con la musica di Ennio Morricone e la fotografia di Tonino Delli Colli", dichiara Gianfranco Bossi, 53 anni, da sei direttore della Csp dopo esperienze in Henkel, Beyersdorf e Mondadori.

Socio svizzero.
La Csp, come le altre grandi aziende della calza italiana, quasi tutte concentrate nel triangolo mantovano, investe in pubblicita' il 10 % del fatturato: una ventina di miliardi, quindi, quest'anno. Lo stesso spot viene trasmesso in alcuni dei 40 paesi dove l'azienda mantovana esporta i suoi tre marchi: Sanpellegrino (fascia media), Oroblu (fascia alta) e New opportunity (discount ed est europeo). Il carosello incriminato Banderas - Mazza, che in Italia va in onda dal primo ottobre, aveva gia' debuttato un mese prima in Russia, dove Csp nel giro di tre anni ha conquistato la leadership di mercato con vendite per 20 miliardi di lire: ogni settimana partono da Ceresara per Mosca due tir con 200 mila paia di calze.

Fondata nel 1972 dai fratelli Enzo e Francesco Bertoni, rispettivamente presidente e amministratore delegato, la Csp l'anno scorso ha accolto come socio di minoranza l'Ubs, Unione di banche svizzere, che e' subentrata agli altri due fondatori decisi a disimpegnarsi. Il boom dell'azienda ha tre ragioni: l'export, il marketing e l'innovazione. Negli anni Novanta la quota di esportazione e' cresciuta dal 15 al 45 % e c'e' ancora spazio per migliorare: l'export nazionale di calze e collant e' del 64 % . Tanto più che lo sbocco estero e' una necessita' visto il ristagno del mercato nazionale.

"La causa, in Italia come nel resto del mondo e' della lycra", spiega Bossi, "il materiale che ha fatto aumentare di un terzo la durata di calze e collant e quindi diminuire di una percentuale corrispondente le vendite". Per stimolare i consumi, allora, la Csp ha spinto al massimo il marketing. L'anno scorso ha lanciato i collant Shock up, ovvero la "calza che alza", provvista di una banda avvolgente per sollevare i glutei. Successo immediato: 30 miliardi di vendite (il prezzo di fabbrica rappresenta il 50 % di quello finale). Quest'anno la replica. "Poiche' nella classifica dei problemi delle donne la cellulite e' al terzo posto dopo i rapporti familiari e i soldi", dice Bossi, "abbiamo inventato le calze Excell oroblu con lo slogan cellulite ko".

Meglio Mantova del Far east.
La via dell'innovazione paga: oggi Csp realizza piu' della meta' del fatturato con prodotti nati negli ultimi tre anni. Nei due nuovi stabilimenti di Ceresara e della vicina Rivarolo i 650 dipendenti diretti, per due terzi donne, confezionano ogni anno 70 milioni di paia di calze. Anzi, di collant, che ormai coprono il 90 % del mercato, per il resto composto da calze classiche da giarrettiera, autoreggenti e gambaletti. Il tasso di automazione e' elevato. Il costo del lavoro rappresenta soltanto il 25 % del prezzo finale, contro il 50 % degli altri capi di abbigliamento, e questo è il motivo per cui la produzione non e' emigrata nel sud-est asiatico. Un panel di 60 dipendenti riceve ogni lunedì un paio di nuove calze, le usa, le lava e il venerdi' compila una scheda col giudizio. Per la distribuzione Csp dispone di 80 agenti in Italia pagati a provvigione e di 40 distributori per l'estero. "Avevamo filiali a Parigi, Londra e Bruxelles ma le abbiamo chiuse: i costi erano eccessivi", spiega Bossi. Solo il 5 % della produzione va alle private label, ma almeno una di queste e' prestigiosa: l'azienda mantovana e' fra i pochi fornitori non britannici della catena Marks & Spencer.

Saturday, June 04, 1994

eurodeputati, affare miliardario



LA DOLCE VITA DEGLI EUROPRIVILEGIATI

"Non contiamo niente. Ma che stipendi, ragazzi"

di Mauro Suttora

Europeo, 1 giugno 1994

La sua sigla è MEP V-I. Significa Membro del Parlamento europeo, verde, italiano. Si chiama Virginio Bettini, è nato a Nova Milanese (Milano) 51 anni fa, è docente universitario a Venezia, è stato eletto a Strasburgo nel 1989. Detiene il record di presenze all'Europarlamento: 68 sedute su 68 quest'anno, en plein anche l'anno scorso (60 su 60). Mai una malattia, mai una distrazione. Abbiamo quindi passato una giornata assieme a lui per capire com'è il lavoro di un eurodeputato.

«Bettini sempre presente? La politica non si fa con il sedere»: riferiamo all'interessato questa velenosa battuta rifilatagli da un collega. Lui non si scompone: «Ma io non mi limito affatto a stare seduto e a riscaldare la sedia come fa la maggioranza degli italiani quando è presente. In questi cinque anni ho presentato sei rapporti, e ne avrei fatti altri due se i socialisti non me lo avessero impedito».

Cosa sono i "rapporti", onorevole Bettini? «Sono le relazioni che si preparano prima di discutere in aula un determinato argomento. Bisogna seguirle dall'inizio alla fine, anche nelle varie commissioni parlamentari, e soprattutto difenderle nei confronti del governo comunitario, cioè la Commissione, e del Consiglio, cioè in ministri dei 12 Paesi membri. Un lavoraccio che dura mesi, a volte anni. Tant'è vero che ogni deputato in una legislatura in media ne fa due o tre».

L'onore - e l'onere di preparare un rapporto viene assegnato in proporzione alla consistenza numerica di ciascun gruppo politico. I verdi sono pochi, 30 su 518, quindi si dovevano mettere d'accordo con gli altri partiti della sinistra (i 180 socialisti, soprattutto) per ottenerli. Bettini, da buon ecologista, si è accaparrato quelli sulla conversione a produzioni civili dell'industria bellica e sulle energie pulite (sole, vento, biomasse).

Poi però sono entrato in rotta di collisione con alcuni socialisti, per i quali la "conversione" delle fabbriche d'armi si sarebbe dovuta risolvere semplicemente dando ad esse più quattrini», racconta Bettini, «e così nel '94 la mia commissione, sulle politiche regionali e la pianificazione, importante perché distribuisce molti finanziamenti, ha assegnato nove rapporti ma nessuno ai verdi».

A Strasburgo Bettini ha una stanza all'hotel Terminus, di fronte alla stazione. «Non è caro per i prezzi di qui: 500 franchi francesi a notte, 140 mila lire. Ci sto una settimana al mese. Il calendario delle sessioni viene fissato all'inizio di ogni anno: sono un prenotato fisso».

I soldi. Ne parliamo subito, Bettini? Come mai voi verdi, così attenti agli sprechi, non alzate la voce contro gli stipendi scandalosamente alti degli eurodeputati?
«Attenzione, non voglio difendere nessuno, ma lo scandalo nasce a Roma. Per legge, infatti, le nostre indennità sono agganciate a quelle dei Parlamenti nazionali. Gli inglesi, per esempio, prendono meno della metà di noi. Spagnoli e greci un terzo, un quarto».

C'E' CHI FA ASSUMERE LA MOGLIE O I FIGLI

Sì, ma metà dei 45 milioni al mese che guadagnate ve li dà l'Europa, e con scarsi controlli. «È vero. Qualche collega, specie i democristiani, si è preso come "assistente" parenti, figli, mogli, lasciandoli poi in eredità al Parlamento dopo averli fatti assumere come funzionari. Però anche qui, attenti: chi fa l'eurodeputato a tempo pieno, e quindi sta tre settimane al mese a Bruxelles e una a Strasburgo, spende parecchio».

Bettini è un eurodeputato atipico. Dal suo albergo al Parlamento sono vari chilometri, bisogna attraversare tutta Strasburgo. Lui usa la bici. La mette nel parcheggio sotterraneo, vicino alle Mercedes degli eurodeputati tedeschi. Per tutti gli eletti sono comunque sempre a disposizione le auto del Parlamento: li scarrozzano gratis all'aeroporto, a pranzo, dall'amante. Una ventina di autisti in divisa, aspettando di essere chiamati, ammazza il tempo guardando la tv in una saletta al piano terra.

Un altro benefit sono gli sconti di Air France e della belga Sabena: anche sugli aerei Parigi e Bruxelles si fanno concorrenza, sperando di vincere l'eterna battaglia sulla sede del parlamento. Finora ha prevalso la follia: due sedi lussuosissime, una nella francese Strasburgo, l'altra nella capitale belga. Più una terza (per gli uffici permanenti di migliaia di funzionari e traduttori) a metà strada, a Lussemburgo.

Per non scontentare nessuno, due giorni al mese di seduta plenaria sono stati trasferiti a Bruxelles, dove si riuniscono anche le commissioni (due settimane al mese) e i gruppi parlamentari (una settimana mensile, tranne il prossimo luglio quando si distribuiranno tutti gli incarichi del nuovo Parlamento).

La giornata dell'eurodeputato inizia prestissimo. Alle otto si riuniscono i vari gruppi, che mettono a punto la strategia per la seduta in aula, dove i lavori iniziano alle nove. Per risultare presenti basta firmare un foglio all'entrata dell'aula. Di lunedì la seduta dura fino a mezzanotte. «Così qualcuno arriva verso le undici di sera, firma, va a dormire e si è guadagnato il gettone di presenza da 400 mila lire», commenta perfido Bettini.

In aula cominciano i dolori. Perché a Strasburgo non c'è un Parlamento: c'è una catena di montaggio. Ogni deputato può parlare al massimo un minuto e mezzo, poi si passa al voto. Se ha già parlato uno del proprio partito, si ha diritto a 45 secondi. Dietro al banco della presidenza c'è un enorme tabellone elettronico rosso che fa il conto alla rovescia in secondi al malcapitato che osa prendere la parola.

Di solito sono i greci a sforare. Continuano a parlare, gesticolando e sudando, per due o tre minuti anche dopo che è stato levato loro l'audio, per cui nessuno li può sentire né dal vivo né in cuffia. Incredibile, per i disciplinati deputati tedeschi. I quali hanno proposto di installare una sirena tipo Corrida per zittire i logorroici.

Ai numerosi visitatori dell'Europarlamento (ogni deputato può invitare a spese dell'Europa una ventina di persone l'anno, molti optano per le scolaresche) l'attività in aula, così frenetica, risulta incomprensibile. Gli stessi deputati, che non riescono a passare ogni mezz'ora dalla politica vitivinicola alla Macedonia, per poi planare sulle diagnosi prenatali e i trasporti della Vallonia, votano mansueti seguendo alla cieca la mano alzata del proprio capogruppo.

E IN  OGNI UFFICIO C'È il PIED-A-TERRE...

Pausa di pranzo: Bettini torna nel suo ufficietto moquettato di quattro metri per cinque con bagno e letto (tutti gli eurodeputati ne hanno uno), si cambia, mette la tuta e va a fare jogging. Quando piove scende in sauna (sconti anche lì, ma fra qualche mese, quando la Finlandia entrerà in Europa, diventerà sovraffollata). Il palazzo offre anche due self-service e un ristorante (quest'ultimo riservato agli eletti e ai loro ospiti).

Dalle 15 alle 19 (spesso anche dalle 21 alle 24) di nuovo votazioni in aula. Bettini fa anche parte dell'intergruppo animali, che riunisce tutti gli eurodeputati animalisti. È l'unica commissione alla quale gli inglesi partecipano con impegno, si riunisce una volta al mese per due-tre ore. Uno dei più assidui è un lepenista francese. Su un banco sonnecchia uno spagnolo: «È lì solo per controllare che non si vietino le corride», sorride Bettini.

Al venerdì tutti partono. Pochi per Bruxelles, dove bisognerebbe continuare a lavorare. Molti eletti italiani prendono l'aereo per Roma o Milano. E nessuno li rivede più fino al mese dopo. Riescono così a guadagnare 10 milioni al giorno.
Mauro Suttora

Friday, April 29, 1994

Nasce il tribunale Onu

CRIMINALI DI GUERRA, ARRENDETEVI
COME NASCE ALL’AIA IL TRIBUNALE ONU

dal nostro inviato in Olanda
Mauro Suttora

SOMMARIO: Undici giudici internazionali, guidati da un italiano, processeranno gli assassini dell’ex Jugoslavia. Se funzionerà, la corte diventerà permanente.

L’EUROPEO, 13-20 Aprile 1994

Sopra c’è Dio, che è il giudice universale. Ma subito sotto c’è lui Antonio Cassese, 57 anni fratello del ministro Sabino, docente di Diritto Internazionale all’istituto universitario di Fiesole (Firenze). E’ toccato a un italiano, infatti, il prestigioso compito di dirigere il Tribunale internazionale dell’Onu che giudicherà i criminali di guerra dell’ex Jugoslavia.

Il professor Cassese è una specie di frate trappista, schivo, riservato: a pranzo mangia in mensa, di sera cena con le due banane che si è portato in albergo dalla mensa. E’ imbarazzato perchè il suo ufficio di presidente del Tribunale, all’Aia, gli sembra troppo grande: »Che bisogno c’era di tanto spazio? Con tutti quelli che accusano l’Onu di sprechi, meglio non largheggiare…»

Inorridirà quindi il professor Cassese, uomo di squisita modestia nonostante (o forse grazie a) i suoi insegnamenti a Cambridge a Oxford, al College de France, all’Accademia dell’Aja e all’Istituto di alti studi internazionali di Ginevra, di fronte all’ardito paragone con il Creatore.

Fatto sta che, per la prima volta nella storia, l’umanità si sta dando un sistema giudiziario accettato da tutti per colpire i crimini di guerra. E che il Tribunale di Cassese si occuperà di Jugoslavia, ma può essere in »nuce una Corte Permanente per giudicare tutti i responsabili dei conflitti che insanguinano il pianeta. Niente a che fare, insomma, con il processo di Norimberga, che fu celebrato dai vincitori contro i vinti. La Corte dell’Onu è quanto di più vicino ci sia al sogno che fece duecento anni fa Emanuel Kant, quando immaginò gli strumenti per arrivare alla »Pace perpetua .

Ma, al di là delle speranze e delle dichiarazioni roboanti, come funzionerà in concreto questo tribunale ?

Per la bisogna, l’Onu ha affittato all’Aja il palazzo delle assicurazioni Aegon, in Piazza Churchill. A poche centianaia di metri c’è un’altro edificio caro a tutti i pacifisti: quello della Corte Internazionale di Giustizia, donato al mondo dal miliardario americano Andrew Carnagie. Ma quella serve per gli arbitrati volontari fra nazioni, non per mandare in galera governanti assassini e aguzzini sanguinari.

Al piano terra del Tribunale ci sono le guardie delle Nazioni Unite. Fra queste, due italiani fatti venire apposta dal Palazzo di vetro di New York. Gli uffici degli undici giudici sono al primo piano. E al primo piano verrà ricavata anche l’aula per i processi: ci sono ancora dei lavori da fare, per ragioni di sicurezza il pubblico sarà separato da un vetro antiproiettile da giudici, imputati e avvocati. Sempre per ragioni di sicurezza, Cassese, che sta cercando casa all’Aja ( i giudici sono stati eletti con un mandato di quattro anni rinnovabili per altri quattro) ha dovuto rinunciare ad una villetta: la polizia olandese gli ha imposto di trovare un appartamento ad un piano alto.

Dalla nascita del tribunale, quattro mesi fa, i giudici hanno lavorato senza sosta per mettere a punto il codice di procedura. Non è stato facile armonizzare i due principali sistemi in uso nel mondo, quello inglese di tipo accusatorio e il latino, con i suoi riti inquisitori.

»Non ci saranno procedimenti in contumacia, anche se io personalmente sarei stato favorevole , annuncia Cassese. E non è prevista neanche la pena di morte per i reati più gravi: ci si fermerà all’ergastolo. Funzioneranno due Corti di primo grado con tre giudici ciascuno (presiedute da una americana e da un nigeriano), mentre Cassese guiderà la Corte di appello con cinque giudici.

Ma quando inizieranno i primi processi? E soprattutto: chi saranno gli imputati? »Spero di cominciare entro luglio dice Cassese, il sindaco di Sarajevo ha detto »che ogni giorno è prezioso per mostrare che una giustizia internazionale punisce i criminali . Quanto agli imputati, individuarli non sarà un problema: il Tribunale verrà sommerso dalle testimonianze delle vittime, in gran parte profughi in Europa occidentale.

Milosevic e Karadzic finiranno sotto accusa?

Certo, sarà difficile veder finire sotto accusa Slobodan Milosevic, presidente della Serbia, o Radovad Karadzic capo dei serbo-bosniaci: il Tribunale si trasformerebbe in una corte di tipo politico. Questo è esattamente ciò che non vogliono Paesi dalla coscienza sporca come Birmania o Cina, i cui dittatori temono di finire un giorno di fronte a un tribunale internazionale e che quindi si appellano in continuazione alla »non intromissione negli affari interni di uno Stato membro dell’Onu . Il Tribunale dipenderà quindi dalla disponibilità della Serbia ad estradare i suoi criminali di guerra ormai tristemente famosi in tutto il mondo come il comandante Arkan, il capo ultranazionalista Vojslav Seseli, o anche Jovanka »la jena , famigerata responsabile di stupri di ruppo. Ma anche in altri Paesi le prigioni si vanno riempiendo di pesci piccoli e medi. In febbraio in Germania è stato per esempio arrestato il serbo-bosniaco Dusan Tadic, 38 anni, con l’accusa di aver compiuto sevizie atroci nel lager di Omarska. Lo inchiodano le testimonianze di 145 profughi ospiti nel campo tedesco di assistenza di Tralskirchen.

Il Tribunale dell’Onu avocherà a se tutti i processi per fatti commessi nella ex Jugoslavia dopo il gennaio ‘91. Naturalmente chi è già stato processato non lo sarà una seconda volta. La publlica accusa, nel palazzo dell’Aja, sarà tenuta completamente separata dai giudici. Anche fisicamente i suoi uffici saranno al secondo piano. Il pubblico ministero nominato dal segretario generale Boutros Ghali si è però dimesso, perhcè in febbraio è diventato ministro dell’Interno del suo Paese, il Venezuela. L’accusa, come in America, sarà tenuta allo stesso livello della difesa, e potrà contare su un centinaio di investigatori.

In una prigione dell’Aja, intanto, sono state già preparate numerose celle da sette metri quadri ciascuna per ospitare gli imputati. Altre celle verranno ricavate nel sotterraneo del Tribunale per le pause del processo. L’Olanda si sobbarcherà i costi del trasporto dei prigionieri. Quanto alle trenta guardie penitenziarie previste, costeranno un miliardo e mezzo di lire all’anno. I costi: ecco il punto dolente del Tribunale. Boutros Ghali aveva chiesto all’Assemblea dell’Onu 32 milioni di dollari per un anno. Li sta ottenendo a fatica, ma per due anni. Ciascun Paese, inoltre, può finanziare autonomamente il Tribunale. L’Italia si è comportata bene: nella Finanziaria ‘94 ha stanziato tre miliardi di lire.

»Avremo addosso gli occhi di tutto il mondo»

E una volta condannati, dove sconteranno la loro pena i criminali di guerra? Nei Paesi dell’Onu che metteranno a disposizione le proprie prigioni. »Ma sarebbe meglio che i detenuti stessero per quanto possibile vicini ai loro familiari , dice Cassese, »perchè l’impossibilità di ricevere visite rappresenta una forma di pena supplementare, quasi una tortura… .

E quì si riconosce il giurista che nel ‘79 fu nominato dall’Italia suo rappresentante nel Comitato per i diritti umani, e che negli ultimi quattro anni aveva presieduto il Comitato per la prevenzione e la tortura del Consiglio europeo. »Io personalmente sono contrario anche all’ergastolo, perchè scopo della pena è la rieducazione , dice Cassese. »In ogni caso, è importante che riusciamo a fare giustizia in modo sereno e imparziale, perchè avremo addosso gli occhi di tutto il mondo .

Durante il processo sono previste pene pecuniarie o detentive per due reati: falsa testimonianza e oltraggio alla Corte. Dopo i giudici del Tribunale potrebbero fare anche i magistrati di sorveglianza, seguendo la detenzione dei condannati. Sono previsti perfino gli arresti domiciliari per buona condotta e la grazia.

Insomma, sta nascendo un vero e proprio diritto penitenziario internazionale e molte università del mondo sono in fermento per le novità teoriche e pratiche introdotte dal Tribunale Onu.

C’è da scommettere però, che le varie parti in causa (serbi, croati, bosniaci) cercheranno di strumentalizzare il processo, in cerca di propaganda. »Ma noi perseguiremo singoli individui per gli atti che hanno commesso precisa Cassese, »e questo servirà anche per non colpevolizzare interi gruppi etnici . Pagheranno solo gli esecutori o anche i mandanti? »Il procuratore può mettere sotto accusa anche i dirigenti politico-militari .

E se uno Stato si rifiuterà di consegnare gli incriminati? »Il Tribunale ha il potere di pronunciare ordinanze di arresto o comparizione direttamente vincolanti, e il Consiglio di sicurezza dell’Onu potrà adottare sanzioni contro i governi che si rifiutassero di cooperare , spiega Cassese. E’ previsto proprio tutto. Ma la battaglia sarà egualmente dura. Perchè applicare la legge a una guerra è difficile. »Ma dobbiamo farlo , conclude Cassese, »sia come deterrente per altri crimini sia perchè abbiamo il dovere di reagire sempre contro le atrocità e i massacri.

Mauro Suttora



CHI SONO I GIUDICI DEL TRIBUNALE DELL'ONU PER LA EX JUGOSLAVIA

L'Europeo - 20 aprile 1994

Odio Benito e gli altri giudici

(2) - La vicepresidente, Elizabeth ODIO BENITO, è ministro della Giustizia nel suo Paese, il Costarica, e docente universitario di Legge. Rappresenta l’America latina nel Fondo Onu per le vittime della tortura.

(3) - Jules DESCHENCS, 70 anni, canadese, è stato presidente della Corte suprema del Québec. Ha scritto una dozzina di libri, fra cui uno sui criminali di guerra. Fra il 1989 e il ‘91 ha presieduto una commissione d’inchiesta internazionale sul lavoro in Romania.

(4) - L’egiziano George Michel ABI-SAAB, 60, è di religione copta. Professore di Diritto internazionale a Ginevra, ha risolto varie dispute di frontiera come arbitro alla Corte di giustizia dell’Aja (Libia/Ciad, Egitto/Israele).

(5) - Adolphus Godwin KARIBI-WHYTE, 62 anni, nigeriano, studi a Londra, è giudice della Corte suprema di Lagos. Ha scritto cinque libri e 52 saggi di argomento giuridico.

(6) - Li HAOPEI, 87 anni, cinese, è consulente legale del ministero degli Esteri di Pechino. Professore di Diritto internazionale dal 1939, parla nove lingue fra cui l’italiano e il latino. Ha tradotto in cinese gli atti del processo di Norimberga.

(7) - Gabrielle KIRK MCDONALD, 51 anni, americana, è stata avvocato, giudice e professore di Legge all’università di Houston (Texas).

(8) - Rustam SIDHWA, 66 anni, pachistano ma non musulmano: è di religione parsi (zoroastriano). Giudice della Corte suprema del Pakistan, ha insegnato Legge all’Università del Punjab a Lahore. In precedenza era avvocato di Corte Suprema.

(9) - Sir Ninian STEPHEN, 70 anni, australiano, giudice della High Court of Australia dal 1972 all’82. Presiede vari organismi governativi australiani, e dal ‘92 guida un comitato anglo-irlandese per le trattative sull’Ulster.

(10) - Lai Chand VOHRAH, 59 anni, malese, laureato in Diritto internazionale a Cambridge, specializzatosi all’Accademia di Diritto internazionale dell’Aja, è giudice della Corte suprema della Malaysia.

(11) - Claude JORDA, 56 anni, francese, è procuratore generale presso la Corte d’appello di Parigi. In precedenza è stato un alto funzionario ministeriale arrivando a dirigere i servizi giudiziari francesi. Unico suo difetto: non parla inglese.

Mauro Suttora

Wednesday, January 12, 1994

Pannella svolta a destra

Oplà: Pannella fa un altro giro di valzer

Europeo, 12 gennaio 1994

E BRAVO MARCO CHE SORRIDE A DESTRA

Con Berlusconi e Bossi. Per rinviare le elezioni. E opporsi alla sinistra vincente. Dove vuole arrivare il leader radicale?

di Mauro Suttora

Un tempo la sua arma preferita era il digiuno. Ne ha fatti 16 per le cause più diverse: Cecoslovacchia invasa, divorzio, fame nel mondo. Oggi, invece, ha il telefonino. E alla fine, tempestato per giorni dalle sue chiamate, anche Silvio Berlusconi ha ceduto: è andato in piazza Duomo a Milano a a firmare per i suoi nuovi referendum, lo ha ricevuto nella propria villa di Arcore.

“Rieccolo”. Il soprannome che Fortebraccio aveva appioppato all’eterno Amintore Fanfani oggi si attaglia bene a Marco Pannella. In politica da 48 anni (la prima tessera, liberale, la prese quindicenne nel ‘45), sempre all’opposizione (tranne cento giorni nel ‘92 al Comune di Ostia), il leader radicale sembrava definitivamente tramontato.

Il colpo di grazia gliel’avevano dato le riunioni alle sette del mattino che aveva organizzato lo scorso maggio per difendere il Parlamento degli inquisiti. “Continuate ad essere irriconoscibili, scandalizzate, bestemmiate”: così Pier Paolo Pasolini esortò i radicali prima di morire, nel ‘75. Consiglio preso fin troppo alla lettera, in questi anni, da Pannella.

Invece, per l’ennesima volta, “il nostro Marco nazionale” (come lo chiama il suo peggior nemico, Eugenio Scalfari) è risorto. E’ lui, di nuovo, l’uomo del giorno, il protagonista di queste ultime settimane di vita politica. Il 12 gennaio la Camera è convocata per discutere la sua mozione di sfiducia al governo di Carlo Azeglio Ciampi: è riuscito a farla firmare a ben 150 deputati, quasi tutti della maggioranza.

Perché questa mossa? Il dibattito in Parlamento è un atto dovuto, come ritiene il presidente Oscar Luigi Scalfaro sempre rispettosissimo delle prerogative parlamentari, o è soltanto un espediente degli onorevoli indagati (“i carcerandi”, come li dileggia Gianfranco Miglio) per guadagnar tempo e rimandare ancora di un po’ le inevitabili elezioni?

E Pannella che fa? Di nuovo, forse solo per il gusto autolesionista di apparire al centro dell’attenzione, si mette alla testa del “partito degli inquisiti”, oppure la sua è una strategia lucida con precisi obiettivi?

“Ciampi deve scegliere da che parte stare”

“Pannella è soltanto uno specialista nell’intorbidare le acque, è un politichese fra i più consumati”, taglia corto Scalfari sulla prima pagina di Repubblica. E quasi accusa Scalfaro di essersi fatto plagiare dal capo radicale, visto che il presidente avrebbe potuto sciogliere le Camere già dal 20 dicembre.

Replica Pannella: “Anche votando a marzo, l’attuale governo resterebbe in carica fino a giugno. Ma Ciampi è ormai delegittimato: lui stesso ha dichiarato di aver esaurito il proprio compito dopo la riforma elettorale e la legge Finanziaria. E l’Italia non può certo permettersi di stare per mezzo anno senza un vero governo. Occorre quindi una nuova compagine, guidata dallo stesso Ciampi e con Mario Segni vicepresidente. Io mi propongo ministro degli Esteri”.

Questa è la spiegazione ufficiale, istituzionale. Ma c’è anche un secondo movente, squisitamente politico, nella mossa di Pannella. E’ lui stesso a confessarlo: “Ciampi deve scegliere: o sta con il Pds e il partito di Repubblica, o prende Segni e me. Così gli elettori potranno decidere subito fra due schieramenti”.

Figurarsi se quel vecchio volpone di Ciampi cadrà nella trappola di Marco. Il presidente del Consiglio sa che, se la sinistra vincerà, potrà continuare a stare al suo posto: Achille Occhetto gli ha già offerto quella poltrona. D’altra parte, Ciampi aveva già inserito ministri di area pidiessina in questo governo: soltanto l’assoluzione della Camera a Bettino Craxi provocò le loro immediate dimissioni.

Il terzo motivo, inconfessabile, della mozione Pannella, è infine quello di prender tempo. Non tanto per rinviare le elezioni (“Mi vanno bene ad aprile”), quanto per guadagnare giorni preziosi alla raccolta di firme sui suoi referendum. “Siamo a 100mila, più le 60mila che finora ha preso la Lega”, dicono al club Pannella a Roma. Tutte firme che rischiano di essere buttate.

Lega incinta di liberaldemocrazia.

E’ probabile che ciò accada. Ma i referendum sono serviti a Pannella per allearsi alla Lega Nord. Com’è scoppiato questo nuovo, improvviso amore? Il leader radicale è stato l’unico ospite esterno (applauditissimo) al congresso leghista del 12 dicembre. Pannella, per la verità, si dichiara federalista da sempre. Seguace di Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e del loro Manifesto di Ventotene per un’Europa unita e federale, nell’87 ha fatto anche cambiar nome al gruppo radicale della Camera, che da allora si chiama “federalista europeo”.

“Pannella sta mettendo incinta la Lega”, scherza Valerio Zanone. “Le sta inoculando il seme della liberaldemocrazia, e la Lega gode”, precisa Ottavio Lavaggi, deputato pri, anch’egli nuovo fan del Carroccio. Ma c’è anche un dato umano: molti leghisti hanno votato radicale prima di sposare Umberto Bossi.

Pannella ha sempre scelto i propri alleati con pragmatismo spregiudicato: chi ci sta, ci sta. Il divorzio lo conquistò in compagnia del socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini. Contro la fame nel mondo si alleò con i democristiani, per difendere Enzo Tortora con i socialisti.

Questa volta, sui referendum lanciati da lui e da illustri politologi come Angelo Panebianco e Saverio Vertone (Corriere della Sera), Marcello Pera (La Stampa), dal filosofo Giulio Giorello e dall’economista Antonio Martino (preside della Luiss, l’università della Confindustria), c’è stata soltanto la Lega. Ma lui li aveva proposti a tutti i partiti.

Non più tardi di un mese fa, d’altronde, Pannella ha appoggiato, assieme al Pds, il radicale Francesco Rutelli a Roma, Adriano Sansa a Genova e vari altri nuovi sindaci di sinistra. Adesso invece passa il suo tempo ad attaccare Occhetto. Perché? “La sinistra può vincere solo con me e Segni, come a Roma. Altrimenti è un bidone”, risponde lui. Pannella l’indispensabile. Pannella il salvifico. “Ha una concezione tolemaica di se stesso”, è la descrizione ironica di Scalfari, “è lui l’asse della verità gravitazionale, misconosciuto però da tutti. Di qui la sua paranoia vittimista”.

Con Scalfari l’odio è profondo. I due si conoscono da 40 anni: bazzicavano entrambi la corrente di sinistra del Pli. Insieme hanno fondato il partito radicale nel ‘55. Poi però Scalfari ne divenne il vicesegretario, si volle alleare con il Psi (nel ‘60), e cacciò Pannella (allora filo-comunista) all’opposizione.

“Marco è un esibizionista logorroico”, dice Scalfari. E Pannella ricambia: “Scalfari è un libertino mascherato da tartufo: con una mano indica il Dio della democrazia, con l’altra tocca le cosce della corruzione. Ha fornicato per anni con coloro che attaccava”.

Fra Pannella e Silvio Berlusconi, invece, c’è simpatia. Al Cavaliere il leader radicale piace perché è l’uomo politico più spettacolare d’Italia. Una sua intervista a Mixer lo scorso maggio ha conquistato otto milioni di spettatori. E alle comunali di Roma Pannella è stato il più votato (dopo il missino Teodoro Buontempo) fra tutti i capilista: 14mila preferenze, il doppio di Enrico Montesano (il più gradito fra i pidiessini).

Le Tv Fininvest hanno aiutato molto il partito radicale sia nell’86 sia nel ‘92, quando Pannella minacciava di chiudere il Pr se non si fossero raggiunti 10mila e 30mila iscritti. Il leader radicale è un assiduo di tutti i programmi berlusconiani, dall‘“Uno contro tutti” di Maurizio Costanzo fino a “Scherzi a parte”. In questi giorni il Tg di Paolo Liguori (ex redattore di Radio radicale) su Italia Uno lo coccola, intervistandolo spesso.

Amore per Bossi, ostilità con Scalfari, sintonia con Berlusconi. Alle elezioni Pannella finirà nel blocco moderato? Con Mariotto Segni il rapporto è agrodolce: il capo del Pr si vanta di essere stato il primo a proporre, nell’86, il maggioritario uninominale, e di aver convinto lui Segni. Perfino con Gianfranco Fini c’è qualche punto di contatto: vent’anni fa Pannella fu l’unico a difendere il Msi dalla campagna per metterlo fuorilegge: “I veri fascisti oggi sono i democristiani”, sosteneva assieme a Pasolini. E nell’82 fu il primo segretario di partito che parlò a un congresso missino.

“Il Pds è l’erede della partitocrazia”.

Quel che è certo, è che Pannella non è catalogabile. E’ di destra o di sinistra? Domanda antica quanto lui stesso. Negli Anni ‘50, da liberale gobettiano, fece entrare il Pci nel parlamentino degli universitari italiani che presiedeva. Nel ‘59, assieme a Occhetto, cacciò Bettino Craxi dalla guida dell’Unione goliardica. Poi scrisse una lettera aperta a Palmiro Togliatti su Paese Sera, proponendo l’alternativa di sinistra.

Trent’anni fa Giancarlo Pajetta gli offrì un seggio da deputato (rifiutato) come indipendente di sinistra. Poi i rapporti si guastarono, perchè il Pci su divorzio e aborto non voleva attaccare troppo la Dc, mentre Pannella era un anticlericale acceso. “Furgone di immondizia”, lo apostrofò Fortebraccio, il corsivista dell’Unità.

Dopo che Occhetto ha cambiato nome al partito, Pannella è stato un interlocutore attento e speranzoso del nuovo Pds, che però oggi considera come “l’erede principale del regime partitocratico”. E’ stato anche uno dei fondatori di Alleanza democratica, “che adesso non mi invita neanche più alle sue riunioni”, si lamenta. E Leoluca Orlando? “Un piccolo Peron”, taglia corto. Insomma, la deriva a destra di Pannella sembra essere causata soprattutto da dissapori personali.

Dal ‘92 Pannella è il primo politico al mondo a farsi eleggere in liste con il proprio nome. Neanche il generale Charles De Gaulle era arrivato a tanto narcisismo. “Ma questa è la politica del futuro, basata sulle persone e non sugli apparati burocratici di partito. Si vota il singolo candidato, come in America”, si difende Marco. Che però è stato abbandonato da molti dei suoi compagni di un tempo: Massimo Teodori, Gianfranco Spadaccia, Mauro Mellini, Adelaide Aglietta.

In ogni caso, quello di Pannella è l’unico partito, assieme ai Verdi, a non essere mai stato indagato per tangenti. Anche Lega, Rifondazione e Msi hanno dirigenti inquisiti. I radicali no. Pannella l’incorruttibile vive solo per la politica, abita in una soffitta al quinto piano senza ascensore dietro la fontana di Trevi. Passa i Ferragosti a visitare prigioni, e Natali e Capodanni a concionare da Radio Radicale. Riuscirà a far parlare di sè anche dopo il Duemila, c’è da scommetterlo.

Mauro Suttora

Monday, November 01, 1993

Marie Louise Rescia Pellegrin: Les Travaillants

I DISOCCUPATI? IN REALTA' SONO BABY SITTER

Risultano senza lavoro 12 europei su cento. Problema insolubile? No, rispondono a Parigi. Perché l'importante è il loro ruolo sociale

di Mauro Suttora

Europeo, 1 novembre 1993
























Disoccupazione: è il nuovo mostro da combattere nei Paesi industrializzati dell’Ocse, dove i senza lavoro sono ormai 35 milioni. In novembre a Washington si terrà addirittura un vertice mondiale su questo problema. Gli Stati Uniti, però, stanno molto meglio dell’Europa: i disoccupati sono al 7%, contro il 12% della Cee. La Francia, in particolare, soffre la peggior crisi di mancanza di lavoro dagli anni ’30.

Ma è proprio in Francia che si stanno sviluppando le idee più interessanti e innovative per affrontare il fenomeno. A Parigi Marie-Louise Pellegrin, docente di Antropologia e presidente del seminario di Psicologia sociale all’università della Sorbona, ha pubblicato un libro che fa discutere: ‘Des inactifs aux travaillants’. Letteralmente: ‘Dagli inattivi ai lavoranti’. È un gioco di parole: il neologismo ‘lavorante’ prende il posto del classico ‘travailleur-lavoratore’.

“In tutt’Europa ormai”, spiega la professoressa Pellegrin, “la maggioranza degli abitanti, fra giovani, pensionati, donne e disoccupati, è catalogata come ‘inattiva’. È questa oggi la categoria predominante, e non più quella del ‘maschio adulto produttivo’. Eppure ancora adesso tutta la nostra società ruota attorno alla figura del ‘lavoratore’. Così chi perde il lavoro perde status, oltre che lo stipendio, e un problema che dovrebbe essere solo economico diventa anche politico e sociale”.

“Gli ‘inattivi’ svolgono in realtà ruoli preziosissimi anche se non retribuiti”, sostiene la Pellegrin, “dalle casalinghe ai parenti che fanno da baby sitter, dai volontari ai lavoratori ’sommersi’. Definiamoli ‘lavoranti’, riconosciamo la loro importanza. Altrimenti il problema ‘disoccupazione’ rimarrà insolubile. Oggi non siamo attrezzati culturalmente per affrontarlo, proprio come nel '700, quando erano considerati ‘produttivi’ soltanto gli agricoltori, e ci volle Adam Smith per definire ‘lavoratori’ anche quelli delle fabbriche”.

Insomma, il nostro modo di pensare non si è ancora adeguato alla nuova realtà. E questa ‘rivoluzione culturale’ iniziata a Parigi oltre agli economisti coinvolge antropologi, linguisti e psicanalisti.

Friday, December 11, 1992

Eurocrati Ue

Europeo, 11 dicembre 1992

 Ma che faccia ha un tecnocrate Cee?

Sette uomini d'oro. Vengono dall'Italia, ma ormai si considerano europei. Ecco chi sono

di Mauro Suttora