Friday, April 27, 2001

Lo strano anticlericalismo radicale

ANGIOLO BANDINELLI SPIEGA PERCHE' PANNELLA IN REALTA' È RELIGIOSO

di Mauro Suttora
Il Foglio, 27 aprile 2001

Dalla mezzanotte di stasera Emma Bonino smetterà di bere. Lo sciopero della sete, al contrario di quello della fame, può andare avanti solo per poche decine di ore. Poi si muore per disidratazione. Cosa vuole la Bonino? Che il presidente Carlo Azeglio Ciampi riconosca pubblicamente che in Italia c’è disinformazione. 

Assieme a lei Luca Coscioni, capolista radicale in Lazio, Umbria ed  ed Emilia-Romagna, attuerà un nuovo tipo di sciopero: quello delle cure. «Ridurrò progressivamente le mie terapie», annuncia Coscioni, reso immobile e muto dalla sclerosi laterale amiotrofica.

Coscioni non è l’unico simbolo della nuova lotta radicale, quella per la «libertà della scienza». In Puglia, nel collegio di Putignano (Bari), è candidato Camillo Colapinto, anch’egli malato di sclerosi. A Vittorio Veneto (Treviso) il distrofico Marco Zardetto così motiva la sua candidatura: «La ricerca genetica in Italia è un settore in cui non mancano i cervelli ma, purtroppo, non mancano nemmeno i tribunali della Santa Inquisizione». 

Il riferimento è ai divieti cattolici sull’uso di cellule staminali di embrioni «sovrannumerari» per la cura di malattie con origine genetica (Parkinson, Alzheimer, diabete, ecc.), e sulla clonazione terapeutica.

Sempre in Veneto, corre per la lista Bonino a Padova Emiliano Vesce. Suo padre Emilio (caso 7 aprile, poi deputato radicale) è in coma irreversibile da sei mesi. Questa tragedia rimanda a un’altra grande questione di cui i pannelliani sono alfieri solitari in Italia: quella dell’eutanasia. 

E a Torino il candidato sindaco radicale è Silvio Viale, ginecologo verde che propugna la pillola del giorno dopo e l’aborto farmaceutico (grazie alla pillola Ru 486 che permette di evitare l’intervento chirurgico).

Sono tutti temi che, assieme al sì della lista Bonino alla fecondazione assistita, alle biotecnologie e alla ricerca sugli Ogm (Organismi geneticamente migliorati) fanno dei radicali l’unico partito in urto frontale con la Chiesa oggi in Italia. E infatti il loro principale slogan elettorale è: «Decidi tu o il Vaticano? Libera il sesso, la scienza, la vita».

Insomma, i pannelliani sono tornati a uno dei loro primi grandi amori: l’anticlericalismo.
«Togliamo innanzitutto ogni significato negativo a questa parola», commenta Angiolo Bandinelli, già segretario e parlamentare radicale, oggi candidato della Lista Bonino a sindaco di Roma. «Io per esempio apprezzo molto l’anticlericalismo dell’Ottocento, che per la prima volta dopo mille anni permise ai ceti subalterni di conquistare un’educazione senza passare per le parrocchie. C’erano i circoli socialisti e quelli del mutuo soccorso, ma perfino i circoli ginnastici, pieni di magliette a strisce orizzontali e baffi a manubrio, contribuirono a quella che fu una vera e propria liberazione».

Sì, ma oggi che senso ha opporsi a una Chiesa in declino? 
«Da troppo tempo si fingeva di credere che tra Stato e Chiesa tutto potesse essere ricondotto alle idilliache formule spadoliniane del “Tevere più largo”», risponde Bandinelli, «e invece grazie ai radicali si è riaperto non un “vulnus” laicista né una “piaga” rosminiana, ma un tema su cui l’attenzione non dovrebbe mai scemare. Soprattutto in un paese così peculiarmente di frontiera, in bilico tra Stato e Chiesa-Stato».

Secondo Ernesto Galli della Loggia si può essere laici senza essere anticlericali. 
«E invece l’anticlericalismo», obietta Bandinelli, «è un dovere essenziale per l’uomo di fede. Il quale non può non avvertire un dissidio, quando non una lacerazione, tra il suo credere, che è un fatto appartenente all’intimità della coscienza, e l’istituzione che mondanamente governa questa fede e ne detta le norme per i suoi affiliati. Non c’è istituzione sacra che non debba fare i conti con l’anticlericalismo dei suoi adepti, come suo unico, possente e indispensabile correttivo».
 
«La riforma protestante», continua Bandinelli, «riteneva che il dissidio fosse incolmabile e che la fede del singolo dovesse liberarsi dalle pastoie dell’istituzione. I cattolici ritennero che il nodo non dovesse invece essere sciolto. Ma anche fra i cattolici non sono mancati possenti richiami a un forte, irresolvibile anticlericalismo. A nostro avviso, questo “segnale di pericolo” dovrebbe oggi, per loro, essere ancor più fortemente sentito. C’è quindi da sperare che il dibattito di questi giorni apra nuovi sbocchi alla attiva consapevolezza degli “anticlericali” di fede...»

Lontano dagli accenti truci dell’anticlericalismo garibaldino e anarchico («Con le budella dell’ultimo papa/impiccheremo l’ultimo re»), il pur laicissimo Partito radicale si definisce fin dalla sua fondazione, nel 1955, «partito dei credenti e dei non credenti». 

«Per me è stato importante un numero di Esprit, la rivista del filosofo cattolico Emmanuel Mounier che trovai nella stazione di Modane nel '47 aspettando un treno», ricorda Marco Pannella nel libro «Pannella & Bonino spa», appena pubblicato per le edizioni Kaos. Dove si scopre che il leader radicale deve perfino il proprio vero nome - Giacinto - a un sacerdote: glielo inflissero in onore di uno zio monsignore e letterato (al quale Teramo ha dedicato una via), che ospitò su una sua rivista articoli di Benedetto Croce e Giovanni Gentile. 

«Può darsi che io non abbia animosità anticlericali perché la persona migliore della mia famiglia fu questo prete, che era stato liberale e non popolare sturziano», spiega Pannella.

La sponda cattolica ricercata dai radicali era quella dei tormentati seguaci di Jacques Maritain e Georges Bernanos. Ma dopo il sì di Palmiro Togliatti al Concordato fascista e la continua ricerca da parte del Pci (ingraiani compresi) dell’«incontro fra le masse cattoliche e quelle comuniste», nell’Italia democristiana degli anni ‘50 e ‘60 c’era poco spazio per l’illuminismo radicale. 

Perfino all’interno del Pr l’indomabile Ernesto Rossi (autore degli sferzanti «Sillabo» e «Manganello e aspersorio», ristampati l’anno scorso sempre da Kaos) era considerato un «enfant terrible» dai sussiegosi «Amici del Mondo».

In questo clima paludoso Pannella recuperò l’anticlericalismo e l’antimilitarismo dei socialisti libertari di inizio secolo, e nel 1965 lanciò due campagne di legalizzazione: per il divorzio, e per l’obiezione di coscienza al servizio militare. Le considerava due chiavi per perforare il regime dc, ma a sinistra trovò scarsi consensi. 

Gli unici dirigenti Pci a dichiararsi pubblicamente divorzisti furono infatti Luciana Castellina, Vittorio Vidali, Umberto Terracini, Fausto Gullo e Massimo Caprara: tutti, per un verso o per l’altro, eretici. I sessantottini liquidarono le lotte per i diritti civili come «piccoloborghesi». E anche dal mondo cattolico i consensi arrivarono col contagocce: i cristiani di base, del dissenso e del no (dom Giovanni Franzoni) vennero subito egemonizzati dal Pci.

Nel '70 e nel '72, dopo due digiuni di Pannella, «passarono» le leggi su divorzio e obiezione. Il Vaticano raccolse immediatamente le firme per il referendum contro lo scioglimento del matrimonio, e i radicali risposero fondando la Liac (Lega italiana abolizione Concordato). Le adesioni erano prestigiose: Leonardo Sciascia, Eugenio Montale, Ignazio Silone, Ferruccio Parri, Alessandro Galante Garrone, Eugenio Scalfari, Lino Jannuzzi, Livio Labor (presidente Acli).

Esattamente come oggi, anche nel ‘74 la sinistra e i laici «perbene» (Pri, Pli, Psdi) aborrivano il conflitto con i cattolici, proponendo fino all’ultimo al segretario dc Amintore Fanfani un compromesso per evitare il referendum sul divorzio. 

La vittoria divorzista del 13 maggio ‘74 va quindi interamente ascritta ai radicali. I quali subito raddoppiarono, e raccolsero le firme per il referendum sull’aborto con l’Espresso di Scalfari. L’abrogazione del Concordato fascista fu invece impedita nel '78 dalla Corte costituzionale, che considerò l’intesa Mussolini-Vaticano un trattato internazionale, e quindi non sottoponibile a referendum.

«A questo punto Pannella ha un problema», spiega Bandinelli, «perché con la legge sull’aborto si è inimicato l’intero mondo cattolico. E vuole ristabilire un dialogo sui temi della difesa della vita. Contribuisce a questo obiettivo innanzitutto la campagna contro la fame nel mondo». 

Quando viene eletto papa Wojtyla, il leader radicale lo saluta affettuosamente: «Dio ce lo ha dato, guai a chi ce lo tocca». Simpatia ricambiata: Bandinelli va in Vaticano con il consiglio comunale di Roma (di cui fa parte) e viene presentato come esponente del «partito radicale di Pannella». Giovanni Paolo II gli sorride: «Ah, il nostro amico Pannella!»

Evidentemente le marce radicali contro la fame nel mondo (1979-1985) fecero breccia nel cuore del Papa, che nell’82 si spinse fino a salutare i manifestanti pannelliani giunti in piazza san Pietro. Che differenza rispetto alla Pasqua del ‘67, quando i radicali avevano srotolato davanti alla basilica uno striscione con la scritta «Divorzio, aborto, pillola», e si facevano infiammare dalle conferenze del fondatore dell’Aied Luigi De Marchi su «Sessuofobia e clericalismo».

L’ultimo conflitto Pannella-Vaticano si consuma nell’81, quando l’Italia vota i due referendum contrapposti sull’aborto: quello liberalizzatore dei radicali, e quello abrogativo del Movimento per la vita. 

Perdono entrambi, e rimane la legge sull’aborto di stato. Ma anche in quell’occasione Pannella tiene a precisare: «Gli unici veri credenti siamo noi e quelli del Movimento, perché ambedue crediamo nei valori e non nel potere. Onore al papa che va al macello col suoi referendum, meglio lui della sinistra fascista e golpista».

Dopodiché, vent’anni di armistizio, se non di pace. Sì, vari screzi sulla droga, ma niente di più. Tanto che Gianni Baget Bozzo nel ‘96 può sentenziare: «Il profeta Pannella, come il prete radicale Romolo Murri a inizio secolo, è in realtà una figura interna alla cristianità italiana, perché mira a una riforma del cattolicesimo». 

Ancora un anno fa sui depliant elettorali di Emma Bonino campeggiava la foto dell’udienza che lei e Pannella ottennero dal Papa nel 1986. Compunti e commossi, i due leader radicali gli illustravano i risultati della loro campagna contro la fame nel mondo.

Oggi Pannella si scaglia contro le gerarchie ecclesiastiche «che sacralizzano embrioni invisibili perfino al microscopio più potente della Terra, così come in passato sacralizzavano i cadaveri vietando le autopsie». 

«Ma anche Marco è un prete», provoca l’editorialista Massimo Fini, «basta contare tutte le volte che usa parole come “vita”, “verità”, “testimonianza”, “scandalo”, “dar corpo a...”»
Mauro Suttora
   

Wednesday, April 25, 2001

Spazzatura di Napoli in Germania

Abbiamo seguito il treno che porta in Germania l'immondizia campana

Così i tedeschi trasformano in oro la spazzatura di Napoli
   «Bruciando i vostri rifiuti ricaviamo energia elettrica che poi rivendiamo», dicono nell'inceneritore di Krefeld, dove stiamo mandando 40 mila tonnellate provenienti dalle pattumiere dei paesi vesuviani. «E dire che, per smaltirli, pagate 300 lire al chilo!» Replica il commissario governativo: «Siamo costretti a spedirle all'estero perché molte regioni italiane non le vogliono»
       dal nostro inviato Mauro Suttora
  Krefeld (Germania), 25 aprile 2001 
  Chissà che cosa sarebbe successo se l'ingegnere tedesco Ludwig Ramacher in marzo non fosse andato per lavoro a Crispiano, in Puglia, dove la ditta Intini sta collaborando con la Trienekens di Krefeld (Germania) nella costruzione di un impianto che smaltisce frigoriferi vecchi. «Ero lì in quei giorni, e sui giornali leggevo delle rivolte scoppiate per la spazzatura in Campania», racconta lui, «quando a Gianluca Moro, titolare delle società Magico e Unità di Misura di Milano, col quale siamo in rapporti da tempo, è venuta l'idea: perché quei rifiuti non ve li prendete voi?»
   Detto fatto. Nel giro di pochi giorni l'inceneritore della città di Krefeld ha presentato un'offerta ad Antonio Bassolino, presidente della regione Campania: 185 lire per ogni chilo smaltito. È stato firmato un contratto, e sono già cominciati i primi trasporti con i treni che vanno e vengono da Napoli alla Germania.
   Sembra un'assurdità, l'immondizia che dev'essere impacchettata in sacchi verdi neanche fosse materiale di valore, e spedita a duemila chilometri di distanza solo per essere bruciata in un forno. Ma è stata l'unica soluzione per smaltire le montagne di spazzatura (centomila tonnellate, ormai) che si sono accumulate nelle province di Napoli e Salerno, e che avevano provocato quasi la rivoluzione fra gli abitanti vicini alle discariche che non li volevano più.
  Sembra anche una barzelletta, o uno scherzo del destino, che i napoletani vadano a svuotare le loro pattumiere nella ricca e meticolosa Germania. Vi immaginate quante proteste ci sarebbero state se i rifiuti fossero stati accolti da un Paese solo un po' meno sviluppato? «Ecco, ora andiamo a inquinare anche il Terzo mondo», avrebbero strillato molti italiani. 
  Invece, niente. Neanche i tedeschi hanno storto il naso di fronte a queste importazioni puzzolenti: soltanto qualche articolo sui giornali della Renania (il Land dove si trova Krefeld, vicino a Dusseldorf) in cui ci si preoccupa solo per l'eventualità che mischiati alla spazzatura urbana siano nascosti anche rifiuti tossici provenienti da qualche industria, e per la mafia. Sì, perché anche in Germania è arrivata la notizia che i problemi della spazzatura in Campania sono causati dal controllo camorristico sul lucroso business dello smaltimento rifiuti.
    Che sulla spazzatura si possano far soldi, d'altra parte, ce lo dimostrano anche i dirigenti dell'inceneritore Trienekens, in una saletta dei loro (pulitissimi) uffici accanto all'impianto. «Ogni anno bruciamo circa 350 mila tonnellate», spiega il dirigente Ulrich Schafer, «cioè la spazzatura sia domestica che industriale prodotta dall'equivalente di sei milioni di abitanti. Ma i rifiuti sono un buon combustibile, e producono calore, il quale a sua volta genera vapore. Con il vapore muoviamo turbine che generano energia elettrica: un megawatt ogni due tonnellate di spazzatura. E vendiamo l'elettricità al prezzo di 50 mila lire al megawatt».

Insomma, i tedeschi trasformano la spazzatura in oro. In questo caso, si può ben dire, «l'oro di Napoli», perché dalla Campania ne stanno arrivando almeno 40 mila tonnellate. Il che, facendo due calcoli, significa un incasso di quasi sette miliardi e mezzo. Più un altro miliardo tondo tondo grazie all'elettricità prodotta. Fra l'altro, se la stessa elettricità venisse prodotta da un forno italiano l'introito sarebbe di cinque miliardi, perché da noi il prezzo dell'energia elettrica è quintuplo. Ma l'ingegner Ramacher non pone limiti alla provvidenza: «Con la Campania non abbiamo fissato una quantità di spazzatura precisa da smaltire, la nostra disponibilità arriva fino a 250 mila tonnellate».

Possibile che in tutta Italia non sia stato possibile trovare un posto dove buttare la spazzatura napoletana? L'emergenza rifiuti, infatti, sta costando decine di miliardi alla Campania. Al costo dell'incenerimento (185 lire al chilo, come si è detto) vanno aggiunte le spese di trasporto: altre 120 lire al chilo. Totale: più di 300 lire, le quali alla fine verranno pagate dai contribuenti con un aumento delle tasse sui rifiuti (pagate in base alla superficie delle abitazioni: si va dalle due alle oltre quattromila lire al metro quadro, che significa quasi mezzo milione all'anno per un appartamento di cento metri quadrati).

«Le centomila tonnellate dell'emergenza», ci spiega da Napoli il subcommissario Giulio Facchi, «verranno mandate per un quaranta per cento in Germania e per un venti per cento in altre regioni italiane. Il resto, cioè 40 mila tonnellate, lo stiamo smaltendo qui in Campania. Ma avevamo l'esigenza di far presto, perché con i primi caldi non si può tenere la spazzatura in strada. E purtroppo alcune regioni, come la Lombardia e il Lazio, si sono rifiutate di aiutarci».

Infatti, sembra incredibile, ma anche sull'immondizia si è scatenato un litigio politico: le regioni governate dalla destra non hanno accettato quella proveniente da una regione di sinistra come la Campania di Sassolino. E quindi le uniche discariche disposte ad accogliere i rifiuti di Napoli sono tutte in zone rosse: Marche, Umbria, Emilia, Toscana.

Precisiamo che fra i prezzi praticati in Germania e quelli delle discariche italiane non c'è una grande differenza: si viaggia sempre sulle 300 lire al chilo. «I tedeschi infatti hanno costruito i loro impianti vicino alle ferrovie», spiega Facchi, «cosicché a spazzatura può arrivare in treno e i costi diminuiscono. In Italia, invece, dobbiamo sempre utilizzare i camion, che sono più cari dei vagoni ferroviari».

Un'altra grande differenza fra noi e la Germania sono gli inceneritori: in Italia bruciamo appena il 6 per cento della spazzatura, contro il 35 per cento nel resto d'Europa. Nella trentina di impianti funzionanti da noi si smaltiscono appena due milioni di tonnellate di rifiuti urbani, cioè la stessa quantità che da sola la Trienekens tratta nei suoi dieci impianti. In totale, la Germania (con 80 milioni di abitanti) incenerisce 12 milioni di tonnellate: sei volte più dell'Italia (60 milioni di abitanti).

In Italia impazza ancora, dopo un quarto di secolo, la «sindrome di Seveso»: tutti gli inceneritori sono bloccati dalle popolazioni dei luoghi in cui dovrebbero essere costruiti perché si pensa che producano diossina, come successe nel 1976. «Ma con le tecnologie di oggi la diossina è un problema inesistente», sorride l'ingegner Ramacher mentre ci fa visitare l'impianto di Krefeld, «in Germania abbiamo un limite massimo di 0,1 nano-grammi per metro cubo d'aria, ma le nostre emissioni non raggiungono neanche il dieci per cento di quella quantità: è cosi poca che non riusciamo neanche a misurarla».

L'altro grande scandalo, che ci tiene lontani dall'Europa, è la raccolta differenziata. La Germania ormai ha ridotto quasi della metà la spazzatura da smaltire, perché recupera quasi tutto: non solo carta, vetro, lattine e plastica, come da noi, ma anche tutti gli scarti alimentari umidi, che trasforma in concime. «È per questo che nel nostro forno abbiamo trovato lo spazio per i vostri rifiuti», dice Ramacher, «perché grazie al riciclaggio quelli tedeschi stanno diminuendo». 

Così, oltre che dall'Italia, l'impianto di Krefeld può bruciare immondizia proveniente pure da Belgio e Olanda, che però distano poche decine di chilometri. Viene riciclata perfino la cenere che rimane dopo la termodistruzione: il 5 percento, ovvero cinquanta chili ogni tonnellata, che sono utilizzati per la pavimentazione stradale.

In Italia, invece, la percentuale della raccolta differenziata è appena dell'1l per cento, un quarto rispetto alla Germania. Ma, a sua volta, l'Italia è divisa in due. La Lombardia, infatti, ricicla oltre il 30 per cento (a livelli europei, quindi), mentre la Campania è all'1,5 per cento, e nell'intero Sud il recupero è quasi inesistente: finisce tutto in discarica.

Visitando l'impianto di Krefeld ci accorgiamo che le puzze tanto temute (dagli abitanti che in Italia si oppongono a ogni apertura di discariche, inceneritori e impianti di riciclaggio) non esistono: le montagne di spazzatura, prima di essere gettate nei tre forni Babcock, vengono conservate in un enorme locale chiuso e sigillato. Soltanto quando un addetto alza per qualche secondo una saracinesca (per farci curiosare dentro), esce una zaffata insopportabile. Attorno all'impianto (dal nome impossibile: «Mullundklarschlammverbrennungsanlage») ci sono boschi, giardini e ville immerse nel verde.

I cinquemila operai che lavorano negli impianti Trienekens guadagnano in media quattro milioni di lire netti al mese. Gli inceneritori sono società miste: il 49 per cento alla famiglia Trienekens, il 51 ai Comuni o al Land. Ma gli abitanti di Krefeld, quanto pagano lo smaltimento della loro spazzatura? Sorpresa: «Ogni chilo, 324 lire». Quasi il doppio dei napoletani? Ci spiegano che la spazzatura italiana è un'«utilità marginale», che sene solo a saturare l'impianto. Ma alla fine non capiamo se siamo noi a fare un favore a loro, o loro a noi.
Mauro Suttora

Thursday, April 12, 2001

parla Della Vedova

INTERVISTA A DELLA VEDOVA

di Mauro Suttora
Il Foglio, 12 aprile 2001

«Ogni giorno che passa, questa campagna elettorale dimostra che i radicali sono rimasti l’unica zeppa liberale fra i due poli. Se ne sono accorti, e lo hanno scritto, commentatori prestigiosi come Angelo Panebianco e Piero Ostellino. Ora però se ne de ve accorgere anche la gran massa degli elettori. È per questo che sembriamo ossessionati dal problema informazione. Ma purtroppo è dimostrato che per noi tutto si gioca per poche decine di minuti televisivi in più o in meno».

Benedetto Della Vedova è il più pacato fra i sette eurodeputati della lista Bonino eletti appena due anni fa con l’otto per cento (ma con punte del 18 in molte zone del Nord). Per stile personale, è lontano dai toni apocalittici di Marco Pannella. 

Però la sostanza non cambia: «Silvio Berlusconi è stato chiaro: da Vespa ha dichiarato che sulle questioni bioetiche la sua posizione è quella della Chiesa. Quanto all’economia, davanti agli industriali a Parma ha pronunciato un ottimo discorso. Ma non ha detto una parola sulle pensioni, né sulla libertà del lavoro. Anzi, ha tenuto a precisare che il suo non è più il modello Thatcher, ma quello dell’economia sociale di mercato. Cioè, esattamente la politica economica attuata per mezzo secolo dalla Dc. E il mio amico Giulio Tremonti non fa che ribadirlo: col sindacato la Casa della libertà è pronta all’accordo. Ma così si colpiscono le generazioni più giovani, sacrificate due volte: sia dalla mancata riforma delle pensioni, sia dalla mobilità sul lavoro, che riguarderà soltanto i nuovi assunti».

Vaticano e sindacato: ecco i due avversari che i radicali si sono scelti per questa campagna elettorale. Un colpo a destra e uno a sinistra, insomma, con il risultato di apparire allo stesso tempo attraenti e indigesti per entrambi gli elettorati, a seconda che si enfatizzino le libertà civili o quelle economiche. 

Con effetti a sorpresa, come l’appoggio dei premi Nobel (ormai arrivati a quota 40) per il capolista in carrozzella Luca Coscioni, che sarà con Emma Bonino al Raggio Verde santoriano anticipato a giovedì sera. Tema: la libertà della scienza. Interlocutori: Rosy Bindi e Rocco Buttiglione, ovvero il cattolicesimo di sinistra e di destra. 

Quest’ultimo, intervistato da Donatella Poretti per Radio radicale, si diverte a provocare i libertari riducendoli a «libertini», e sancendo che per loro fra i liberali del Polo non c’è posto, perché non accettano i valori di «Dio, patria e famiglia».

«Con avversari così andiamo a nozze», mormorano soddisfatti i radicali, che nel collegio di Milano centro dov’è candidata la Bonino incassano anche la candidatura suicida, da parte dell’Ulivo, dell’ex Dc e Fi Onofrio Amoruso Battista, oggi mastelliano, che se la vedrà con Marcello Dell’Utri: «Così si aprono grossi spazi per Emma», prevedono i pannelliani.

Ma, come sempre, è dall’estero che giungono gli aiuti più grossi. Il massimo dissidente cinese, Wei Jingsheng, sarà a Roma sabato per appoggiarli, e così il ministro della sanità ceceno Omar Kambiev, che i radicali hanno appena fatto parlare all’Onu a Ginevra, ma che la Russia ha obbligato a tacere dopo soli due minuti. Ne è nato un caso diplomatico di proporzioni internazionali, registrato da Le Monde in seconda pagina e come sempre ignor ato dai media italiani. 

Sia il cinese che il ceceno aderiscono all’«Osservatorio internazionale sulla legalità in Italia» al quale i boniniani vogliono affidano la sorveglianza sulle nostre elezioni. Vi troveranno un compagno inaspettato: Fausto Bertinotti, il quale con i governi russo e cinese va invece d’accordo, ma che appoggia i radicali nella loro lotta contro il predominio dei due poli in tv.

C’è da giurare che i fuochi d’artificio di Pannella per queste elezioni siano solo all’inizio. Per i radicali sarà un voto decisivo, dopo il trionfo delle europee 1999 e il doloroso ridimensionamento alle regionali 2000. 

«Ma questa volta, contrariamente al ‘94 e al ‘96, siamo riusciti a presentare candidati in tutta Italia», dice Della Vedova, «così non capiterà più di mancare il 4 per cento solo perché non avevamo liste in Veneto». 

Nel frattempo, continua la polemica politica quotidiana. La questione del giorno, per i pannelliani, è la censura a Internet, contenuta nella nuova legge dell’editoria appena approvata dalla maggioranza di centrosinistra: «Vogliono costringere tutti i siti che danno informazioni a registrarsi in tribunale e assumere giornalisti: è un’assurdità burocratica, senza eguali al mondo se non in Cina, che verrà spazzata via dalla libertarietà intrinseca della Rete», assicura Della Vedova.
Mauro Suttora

Friday, April 06, 2001

I noglobal battono McDonald's

I NOGLOBAL BATTONO MCDONALD’S

di Mauro Suttora
Il Foglio, 6 aprile 2001

Gli antiglobalizzatori di Seattle sconfiggono McDonald’s. È successo a Milano, dove la multinazionale americana temeva che un proprio nuovo ristorante in fase di apertura fosse preso di mira dagli autonomi. E allora, invece di battezzarlo con la celeb re insegna rosso-gialla dell’hamburger planetario, hanno preferito ripiegare su un più tranquillo e anonimo «Pizzamia». Così da pochi giorni in corso San Gottardo, proprio di fronte all’Auditorium della musica, ecco scintillare il logo verde della nuova catena di pizza pronta.

Fino a tre anni fa in quel locale del quartiere Ticinese era ospitato un Burghy, la prima catena paninara tutta made in Italy (gruppo Cremonini) che dagli anni Ottanta aveva preceduto (e anche impedito, o almeno ritardato) lo sbarco di McDonald’s nella penisola. Ma dopo l’acquisto dei ristoranti Burghy da parte dei re della polpetta statunitense, avvenuto nel 1997, piano piano tutte le insegne sono state rinnovate. 

Per la verità non c’è stato un gran cambiamento, perché il logo Burghy aveva gli stessi colori di McDonald’s, e anche gli interni erano stati copiati dall’America. Comunque, nel giro di un paio d’anni tutti i Burghy sono scomparsi, per far posto ai nuovi padroni.

In alcuni casi, quando i ristoranti Burghy e McDonald’s si trovavano vicinissimi, gli americani hanno preferito chiuderne uno: è quel che è successo, per esempio, in piazza Cordusio a Milano, dove la concorrenza fra hamburger italiani e americani è ormai un ricordo. 

In altri casi, invece, McDonald’s ha mantenuto aperti sia i propri locali, sia quelli acquisiti da Burghy: è il caso, sempre a Milano, dei ben quattro punti vendita presenti in corso Buenos Aires, tre dei quali distanti pochi metri l’uno dall’altro (piazza Loreto, piazza Argentina, angolo via Pergolesi).

Uno dei motivi di questo affollamento sta nel timore, da parte di McDonald’s, di lasciare spazi liberi ai concorrenti della catena (anch’essa multinazionale) Burger King, sbarcata in Italia soltanto alla fine degli anni Novanta. 

In piazza Duomo, per esempio, grazie a un accordo con Autogrill, Burger King è riuscita a fare lo sgambetto a McDonald’s: ha conquistato le due postazioni migliori (angoli con via Torino e con la Galleria), lasciando un solo ristorante ai rivali.

Nel novembre ‘99, però, è nato il movimento di Seattle. E uno dei bersagli preferiti dei teppisti dei centri sociali sono le vetrine di McDonald’s. La zona milanese dei Navigli è abbastanza calda per la presenza di vari centri, fra cui il Conchetta nella via omonima, a poche decine di metri dall’ex Burghy di corso San Gottardo. Più di un raid ha danneggiato il McDonald’s più vicino, quello di piazza XXIV Maggio, e gli antiglobalizzatori avevano già preso di mira, con qualche vetro rotto intimidatorio, anche il nascituro. 

Per questo, dopo un’attesa durata molti mesi, i prudenti dirigenti della McDonald’s Italia hanno preferito non correre rischi, e hanno riaperto il ristorante utilizzando per la prima volta a Milano (esiste già un altro punto vendita a Cinisello Balsamo) il marchio Pizzamia. Anche perché nel frattempo è scoppiata la crisi di Mucca pazza, e la carne tritata non tira più come una volta.

Un curiosità: il piccolo centro sociale Conchetta, che ha sconfitto la multinazionale McDonald’s, convive pacificamente da anni con il ristorante di lusso Sadler (all’angolo con via Troilo), dal quale lo separa soltanto un muro. Di qua gli «antagonisti» arrabbiati, di là i ricchi clienti del Sadler, dove un solo antipasto costa 50mila lire. 

Mai un incidente, mai un vetro spaccato, neanche un graffio alle scintillanti Mercedes parcheggiate vicino al centro sociale. Due mondi opposti che si fronteggiano in totale e tollerante indifferenza. Ma guai a McDonald’s, con i suoi hamburger a duemila lire divorati da giovani, extracomunitari e gente a corto di soldi. I proletari politicizzati detestano i ristoranti per proletari. Chissà se sopporteranno la pizza.
Mauro Suttora  

Wednesday, April 04, 2001

Satyagraha radicale

LA CENSURA DEL 'CASO ITALIA' FINISCE A GINEVRA

di Mauro Suttora
Il Foglio, 4 aprile 2001

«Come in piazza Rossa sotto Stalin e in piazza Tien an men, anche davanti al Quirinale è proibito manifestare». Marco Pannella attacca ancora il presidente Carlo Azeglio Ciampi dopo che il capolista radicale Luca Coscioni (malato di sclerosi laterale in carrozzella) è stato sfrattato dalla piazza romana. Motivazione della questura: mancava il permesso di occupazione del suolo pubblico.

«Ormai l’Italia è come il Tibet, Cuba, la Cecenia, la Cina. Può sembrare incredibile, ma nel nostro Paese, che il mondo conosce come una democrazia matura e sviluppata, si vanno deteriorando i principi stessi della libertà e della democrazia». Con queste parole lunedì l’eurodeputato Olivier Dupuis, segretario del partito radicale, ha sollevato il “caso Italia” davanti alla Commissione diritti umani dell’Onu a Ginevra. 

Esagerazioni? «Roma nell’ultimo anno è stata condannata 367 volte dalla Corte europea dei diritti umani», spiega Dupuis, «cioè una condanna al giorno. L'Italia è uno Stato in cui la Corte Costituzionale ha una giurisprudenza così arbitraria da attentare ai diritti che dovrebbe tutelare. Non lo diciamo noi, ma vari ex presidenti della Corte stessa. L'Autorità giudiziaria copre la violazione delle regole fondamentali del processo elettorale, 'autorizzando' la presentazione di liste e candidature con firme false e irregolari. Luca Coscioni ha lanciato un appello internazionale contro i veti clericali alla ricerca medica, raccolto da 33 premi Nobel e centinaia d'illustri scienziati. Ma questo evento non è stato nemmeno 'registrato' dall’informazione scritta e televisiva pubblica e privata».

Nei rari casi in cui Emma Bonino appare in tv («Telecamere», domenica sera), un ritardo la fa slittare a notte fonda: il programma è finito alle due meno venti. Così i radicali, esulcerati, adottano i metodi estremi della nonviolenza. Il 5 aprile 1930 Mohandas Gandhi fu arrestato vicino a Bombay perché, con la Marcia del sale, violò il monopolio inglese sull’estrazione. Riuscirà oggi Pannella a infrangere il duopolio Rai-Mediaset sull’informazione? 

La Bonino annuncia un «satyagraha» (sciopero della fame, con minaccia di passare a quello della sete): «Non chiediamo spazi per il nostro movimento, ma dibattito sui temi politici d’attualità: libertà della scienza, libertà economiche, libertà sessuali». 

Anche Radio radicale ha sospeso le trasmissioni per tre giorni. Ora i pannelliani dalla fantasia inesauribile immaginano una marcia a piedi, «dagli studi Rai di Saxa Rubra a Roma fino a quelli Mediaset a Milano: un po’ Gandhi e un po’ Marcos», propone Dario Russo sul forum del sito www.radicali.it.

Intanto, sui muri d’Italia sono affissi gli unici due poster della lista Bonino. Uno liberista: «Decidi tu o il sindacato? Libera il lavoro, l’impresa, la vita». L’altro anticlericale: «Decidi tu o il Vaticano? Libera il sesso, la scienza, la vita». 

Scienziati da tutto il mondo inondano Coscioni (33 anni, docente universitario umbro) di solidarietà. «Appoggio completamente la sua causa», gli scrive sir Godfrey Hounsfield, Nobel per la medicina del ‘79, «perché gli argomenti contro l’uso degli embrioni si basano sulla superstizione. Naturalmente lei ha un antico sostenitore: Galileo».

E Kenneth Arrow, Nobel ‘72 dell’Economia: «Anche negli Usa l’uso delle cellule staminali per la ricerca contro la sclerosi laterale amiotrofica viene attaccato dalla nuova amministrazione Bush. Sono totalmente con lei». Così altri 16 Nobel per la Chimica, otto della Medicina, sette della Fisica. 

Noam Chomsky del Mit di Boston: «Le barriere contro la ricerca sugli embrioni umani devono essere distrutte». In Italia le liste radicali sono zeppe di candidati scienziati e ricercatori. Prestigiosa l’adesione del professor Edoardo Boncinelli (il più noto genetista italiano dopo Renato Dulbecco, collaboratore del Corriere della Sera), che pure lavora nel cattolico centro San Raffaele di Milano. 

Avverte Giulio Cossu, presidente dell’Associazione italiana biologia cellulare: «Sta tornando l’inquisizione. È raccapricciante pensare agli embrioni distrutti senza motivo, ma negati alla scienza». Da Roma, aderiscono l’ex rettore Giorgio Tecce e il matematico Alessandro Figà Talamanca.

Ma, alla fine, tutta questa mobilitazione farà superare alla lista Bonino la soglia del 4 per cento? Gli ultimi sondaggi sorridono ai radicali: La Stampa li dà al tre, Datamedia al quattro. Loro, comunque, sono riusciti a presentare liste in tutte le regioni: compreso il Veneto, dove avevano subìto una grossa emorragia di iscritti, critici per certi metodi centralisti dei gandhiani romani.
Mauro Suttora

Sunday, March 25, 2001

I candidati di Di Pietro

Elezioni politiche per l'Italia dei Valori

di Mauro Suttora
Il Foglio, marzo 2001

Il cognato. La segretaria. Adesso anche i cugini. Antonio Di Pietro candida alle elezioni Nicola Veltri, parente del suo braccio destro (Corn)Elio, ed Eugenio Ronchi, cugino dell’ex ministro verde dell’Ambiente Edo. 

Dimenticato il cognato bergamasco Gabriele Cimadoro, deputato ribaltonista passato disinvoltamente da Silvio Berlusconi all’Ulivo seguendo Clemente Mastella, sistemata la fedele segretaria Silvana Mura come tesoriera del partito nonché capolista in Toscana ed Emilia-Romagna, il diffidente Tonino prosegue sulla sua strada familista e si affida a parenti eccellenti.

Il Veltri-bis è stato piazzato nell’ottimo collegio senatoriale lombardo di Cinisello Balsamo: rischia di essere eletto. Ronchi è fra i capilista sia a Milano che a Bergamo-Brescia-Como, e un mese fa è stato nominato commissario regionale lombardo di una gogoliana «Commissione nazionale per l’abbattimento della burocrazia». 

Ma accanto alla solidarietà del sangue c’è anche l’amicizia, e così i tre segretari organizzativi di Italia dei Valori sono tutti fedelissimi di Tonino: al Nord il bergamasco Ivan Rota (probabile deputato in Lombardia Due o Liguria), al Centro l’abruzzese Mario Di Domenico (capolista anche in Emilia e a Roma), e nel Sud il molisano Gaetano Di Niro.

I sondaggi danno la lista Di Pietro appena oltre il 4 per centro: gli altri deputati dovrebbero quindi essere il Veltri vero (capolista a Torino e Napoli), Elio Lannutti dell’Adusbef (Roma) e Giorgio Calò, sondaggista di Directa (Milano e Puglia). 

Nella circoscrizione Campania Due guida la lista Giovanni Aliquò, capo di un sindacato di destra dei poliziotti, nel Lazio (Roma esclusa) il giornalista Rai Bruno Mobrici, in Veneto l’illustre sconosciuto Massimo Donadi. 

A dare una mano in Basilicata e Puglia c’è Pietro Mennea, che però è già eurodeputato (l’unico rimasto fedele a Di Pietro fra i sei Democratici dell’Asinello eletti nel '99).

Tonino si candida in Emilia-Romagna, Puglia e Sicilia Due (Catania), ma a Milano conquisterà comunque visibilità come candidato sindaco. Qui la situazione è in movimento. Il disfacimento della sinistra dà a Tonino qualche speranza di arrivare al secondo turno delle comunali, superando i candidati dell’Ulivo (Sandro Antoniazzi) e dei Verdi (Milly Moratti). 

Anche perché questi ultimi si sono dispersi in altri due tronconi: i rossoverdi del consigliere comunale Basilio Rizzo che restano nell’Ulivo, mentre gli animalisti dell’ex deputato Stefano Apuzzo e di Carlo Ripa di Meana guardano a Di Pietro. Il quale presenterà a sua volta, come probabili capilista, l’ex verde Adriano Ciccioni e l’ex Società Civile Armando Sandretti.
 
Se il sindaco Gabriele Albertini non riuscisse a raggiungere il 50 per cento al primo turno e fosse quindi costretto al ballottaggio, sarebbe proprio Di Pietro - molto più di Antoniazzi, troppo targato a sinistra - l’unico candidato in grado di impensierirlo, pescando fra i voti di destra. 

È questo il machiavellico ragionamento che si sta facendo strada in alcuni settori dell’Ulivo milanese, e che rendono rosee le prospettive dei fan di Tonino a Milano. 

Fra l’altro, si stanno riavvicinando all’ex pm anche i suoi ex colleghi del Pool di Mani Pulite Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, che parteciperanno il prossimo sabato a un convegno dipietrista a Milano con l’ex pretore e sindaco di Genova Adriano Sansa e il direttore di Micromega Paolo Flores D’Arcais. 

Quest’ultimo ha litigato con Di Pietro, ma il suo dissidio si limita alla presentazione solitaria nel maggioritario della Camera, che a suo avviso danneggerà la sinistra in molti collegi di frontiera. Viceversa, parecchi nell’Ulivo sono convinti che Tonino pescherà più a destra, e che quindi non valga la pena proporgli accordi di desistenza dell’ultima ora.

L’Italia dei Valori, in ogni caso, sta riuscendo nella non facile impresa di presentare candidati in tutti i collegi uninominali di Camera e Senato. La raccolta di firme autenticate (quasi mezzo milione) è a buon punto, contrariamente a quella dei radicali (che hanno finora coperto solo un terzo dei collegi) e a Sergio D’Antoni, che le sottoscrizioni non ha neppure cominciato a raccoglierle.

Di Pietro si assicurerà così spazi tv uguali a quelli di Polo e Ulivo, che spettano a qualsiasi coalizione presenti candidati in più della metà dei 475 collegi. 

Per ottenere un’adeguata copertura televisiva e per protestare contro le liste-civetta il senatore del Mugello si è fatto ricevere il 2 marzo dal presidente Carlo Azeglio Ciampi, e pochi giorni dopo ha incassato una delibera della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai che invita la tv di Stato a una maggiore attenzione nei confronti di radicali e dipietristi.

Nelle ultime settimane l’ex pm, che è anche un ex commissario di polizia, è stato quasi adottato da Bruno Vespa, che l’ha invitato più volte nel suo «Porta a Porta» in qualità di esperto per il caso Vacca Agusta. 

Viceversa, è stata sospesa la rubrica che Di Pietro teneva su Oggi, il settimanale familiare Rizzoli che gli garantiva un contatto diretto con quattro milioni di lettori appartenenti esattamente al suo target popolare. 

Ma Tonino in campagna elettorale continuerà a insistere sui suoi cavalli di battaglia: legalità, pulizia, sicurezza, e difesa dei consumatori contro i soprusi di banche (su mutui e interessi), telefoni e assicurazioni.
Mauro Suttora

Saturday, March 24, 2001

«Busoni, culatoni», disse Prosperini

GAYPRIDE A MILANO: SINDACO ALBERTINI IMBARAZZATO

di Mauro Suttora
Il Foglio, marzo 2001

«I busoni stiano al loro posto, al massimo diamogli dei paracarri per divertirsi. Meno male che il sindaco Albertini ha avuto un’impennata di orgoglio maschio: nessun patrocinio del Comune per il gay Pride a Milano, e se proprio vogliono sfilare in corteo mandiamoli in una miniera abbandonata, o in una contrada deserta... Le sfilate dei culatoni sono una roba schifosa, quelli tirano fuori l’uccello e se lo piantano nel didietro di fronte a tutti... Certe cose le facciano nelle loro alcove, con la vaselina e al buio, senza pretendere di venire a mimare amplessi nel centro della città, dove passano donne e bambini!»

Basta pronunciare la parola «gay» e il vicepresidente del consiglio regionale lombardo, Piergianni Prosperini (An, ex Lega), esplode in una serie incontenibile di insulti. Scusi, ma lei non fa parte della Casa delle libertà? «Certo, ma non Casa dell’indecenza. Quelli di Forza Italia fanno tanto i liberali, i libertari, i libertoidi, e poi finiscono con queste pulsioni busonesche. La verità è che noi siamo un partito virile, loro no...» 

Guardi che neanche Ignazio La Russa, dirigente milanese del suo partito, è d’accordo con lei. «Peggio per lui, io sono un lombardo-veneto mentre La Russa è un siciliano, un borbonico. A me non va che si permetta di offendere la religione per strada. Che provino a farle nei Paesi musulmani, le loro sfilate. A Roma si sono travestiti da Madonna, che si travestano da Maometto. Gli omosessuali devono vivere la loro diversità in dignitoso silenzio, senza sbattercela di fronte. Sono scandalosi loro, non io. Io sono in sintonia col cardinale Biffi. Un po’ meno col cardinale Martini...»

Così parla Prosperini all’indomani di un ambiguo comunicato del sindaco Gabriele Albertini, che inizia con un «Appoggio le richieste degli omosessuali», ma non condivide «la loro scelta di organizzare un corteo». Perché? «È una manifestazione che, oltre a poter creare disagio agli altri cittadini, ha una carica di ostentazione e di sfida che ritengo inutile se non addirittura controproducente».

«Così adesso Albertini pretende anche di farci la lezione, spiegandoci cos’è meglio per noi», commenta Roberto Schena, direttore della rivista gay Guide Magazine. Che con le altre riviste (Babilonia e Pride) e l’Arcigay ha scelto Milano per la sfilata annuale di giugno. Risultato: un replay delle polemiche dell’anno scorso. 

«Noi c'eravamo opposti ferocemente al Gay Pride del 2000», spiega La Russa (An), «per due motivi: la cristianità della città di Roma, e la coincidenza col Giubileo. Poiché ora questi due ostacoli vengono meno, si faccia pure il gay Pride a Milano, anche se mi stupisco della necessità che qualcuno avverte di mostrare orgoglio per il proprio essere gay. Io ho tanti amici omosessuali che non lo nascondono, ma non hanno bisogno di esibirlo, né tantomeno di andarne orgogliosi».

Così, eccoci arrivati all’appuntamento annuale con le nostre intolleranze. Gli omosex hanno trovato questo bel termometro, il gay Pride, e lo utilizzano per misurare il grado delle libertà che siamo disposti a conceder loro. 

«Le marce dell’orgoglio gay sono una risposta a secoli di vergogna», spiega Sergio Lo Giudice, dal 1998 presidente dei 90 mila iscritti all’Arcigay «Quando abbiamo sfilato a Napoli, Venezia o Bologna, i sindaci Bassolino, Cacciari e Vitali sono sempre scesi in piazza assieme a noi, e hanno parlato dal palco. A New York perfino il ‘duro’ della destra Rudolph Giuliani ha marciato in prima fila nei nostri cortei».

Non farà così Albertini, al quale i gay avevano chiesto di «partecipare non passivamente ma attivamente, con la sua fascia tricolore», al corteo del 23 giugno. Invito respinto, e imbarazzo anche da parte del vicesindaco di Milano Riccardo De Corato (An), che declina ogni commento. 

«Un sindaco non ha certo l’obbligo di aderire a qualunque manifestazione»: così La Russa difende Albertini. «Tutti fanno finta di dimenticare che il sindaco di Milano ha anche centomila omosessuali fra i suoi cittadini».

Così adesso lo spartiacque dell’intolleranza si sposta sul percorso del corteo: gay Pride in piazza Duomo? «Perché no», concede La Russa, «magari non proprio sul sagrato. Ma se la piazza è vietata a tutti tranne che in campagna elettorale, non bisogna discriminare per i gay neanche in senso a loro favorevole». 

L’anno scorso, a Roma, la giunta Rutelli di sinistra se la cavò confinando gli omosessuali fuori dal centro storico. «I cattolici di entrambi gli schieramenti riescono a esercitare un’egemonia culturale di tipo quasi gramsciano sulla questione», constata mesto Sergio Scalpelli, ex assessore di Albertini, «anche se tutti sanno che ormai sono largamente minoritari nel Paese».

«Ma la vera partita», rivela Marco Volante, vicepresidente di Gaylib, organizzazione degli omosessuali liberali, «si gioca all’interno di Forza Italia, di gran lunga il primo partito a Milano e in Lombardia. In Comune si fronteggiano i laici guidati da Fabrizio De Pasquale e l’ala oscurantista di Massimo De Carolis e dell’ex maoista Aldo Brandirali». 

Quanto ad An, fra i suoi iscritti c’è il bolzanino Enrico Oliari, presidente di Gaylib. Fra i Ds, invece, fatica a trovare un collegio sicuro Franco Grillini, fondatore di Arcigay. Mentre Rifondazione candida Titti De Simone di Arcilesbica e garantisce la rielezione a Nichi Vendola. 

Tutto questo nel trentennale dell’esordio pubblico omosex in Italia: era l’aprile ‘71, infatti, quando il radicale torinese Angelo Pezzana protestò per un articolo de «La Stampa», e fondò il Fuori.
Mauro Suttora

Friday, March 23, 2001

Rutelli rifiuta i radicali

CAMPAGNA ELETTORALE DEI RADICALI

di Mauro Suttora
Il Foglio, 23 marzo 2001

Centinaia di volontari radicali sono scesi sui marciapiedi di tutta Italia con i loro banchetti: stanno raccogliendo le firme per partecipare elle elezioni. E’ uno sforzo notevole per un partito totalmente d’opinione, privo di funzionari e clienti locali, nonché di consiglieri comunali che autentichino le sottoscrizioni.

A Fiumicino, nel collegio dove si candida Marco Pannella (presente nel proporzionale della Camera anche in tutta la provincia di Roma, in Emilia e in Toscana), i "tavolinari” della lista Bonino hanno sorpreso alcuni dipietristi che facevano firmare senza autenticatore.

Questo delle firme false è uno scandalo sollevato l’anno scorso dai radicali, e che sta dando i primi frutti: elezioni annullate in Molise, inchieste aperte a Napoli, il vicepresidente della Provincia di Milano Dario Vermi (An) rinviato a giudizio per falso in atto pubblico e violazione delle leggi elettorali. Per Pannella, è la conferma dello “stato di illegalità” in cui versa il Paese, da lui denunciato un mese fa nell’appello a Carlo Azeglio Ciampi (“Presidente, ti uccido”).

Le accuse pannelliane riguardano soprattutto l’informazione tv: “Gli accadimenti di questi giorni alla Rai confermano che è questo il problema centrale della politica italiana”, spiega il dirigente radicale Angiolo Bandinelli, il quale sta preparando per il Comune di Roma una lista “civica, laica e antiproibizionista” simile a quelle promosse a Torino (con il verde Silvio Viale candidato sindaco) e ad Ancona.

L’Autorità garante delle comunicazioni ha dato ragione ai radicali, invitando la Rai a dare più spazio alla lista Bonino, vittima di uno “squilibrio editoriale”. “Ma l’azzeramento nei nostri confronti è continuato pure nei primi 70 giorni del 2001“, avverte Daniele Capezzone, “anche se il presidente Rai Roberto Zaccaria tenta di nascondere i dati sui radicali accorpandoci a Di Pietro, D’Antoni e Bertinotti, la cui presenza viene invece fatta esplodere”.

Pannella è convinto che sull’onda di qualche bel dibattito tv i radicali supererebbero agevolmente la barriera del 4 per cento. Altrimenti, l’unica eletta rischia di essere Emma Bonino, candidata al Senato in Lombardia (dove basta il 3 per cento ottenuto dalla sua Lista alle regionali).

Intanto, i radicali raccolgono adesioni prestigiose alla candidatura di Luca Coscioni (capolista in Umbria, Lazio ed Emilia davanti a Pannella), malato di sclerosi e simbolo della lotta per “la libertà della scienza”: per lui hanno firmato dodici premi Nobel e cento personalità del mondo accademico e scientifico internazionale (fra cui Ilya Prigogine, Noam Chomsky, l’ex rettore dell’università di Roma Giorgio Tecce e il matematico Alessandro Figà-Talamanca).

Un altro appello è rivolto al candidato premier dell'Ulivo Francesco Rutelli da Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, Michele Salvati e Gianfranco Spadaccia, affinché “apra” ai radicali. Domenica scorsa il vertice dell’Ulivo sembrava avere accolto questo tentativo di dialogo in extremis (concretizzabile in qualche desistenza), ma poi Rutelli ha per l’ennesima volta snobbato i suoi ex compagni.

“I radicali sono alternativi a entrambi i poli, ma l’andata a casa del centrosinistra dovrebbe comunque essere una priorità per loro”, avverte l’intellettuale d’area Iuri Maria Prado, editorialista di Libero. Continua, infatti, la polemica liberista e antisindacale dell’eurodeputato boniniano Benedetto Della Vedova: l’ultima sua denuncia riguarda sei miliardi di fondi per la formazione Ue usati invece per un congresso di 120 dirigenti Cisl in una hotel a 4 stelle a Nizza.

Intanto la Bonino gira come una trottola: prima è andata in Africa per sollecitare adesioni al Tribunale Onu sui crimini di guerra; poi ha organizzato a Roma un convegno contro le infibulazioni delle donne africane; ha presentato a Milano un libro di Sergio Romano; è corsa a Napoli al Global Forum e a Torino per presentare le liste; ha partecipato ad Amman a un summit dell’International Crisis Group; ha condannato gli attacchi albanesi in Macedonia (“con la stessa fermezza con cui ho difeso gli albanesi kosovari dai serbi”); si è complimentata con Mary Robinson, che lascerà l’Alto commissariato Onu sui diritti umani in settembre (la Bonino è candidata a quel posto).

Emma ha incassato infine i complimenti dell’(autorevole) editorialista de “La Stampa” Barbara Spinelli: “Bonino e Rutelli sono personaggi di grande statura, usciti dalla scuola di alta politica, antisettarismo, rigore, laicità, senso di responsabilità individuale e interesse vero per il mondo circostante e per i diritti umani violati, che è la scuola di Pannella”.

Eppure le manca ancora il 'tocco magico' che aveva mostrato alle elezioni europee del 1999. I piu' malevoli commentatori, che affollano le file degli ex radicali, dicono che il successo della Bonino avvenne malgrado Pannella. E ora il vecchio leader è tornato in campo finendo per soffocarla. Ma gli 'amori gelosi di Marco' sono una leggenda che si ripete, si ripete, si ripete...
Mauro Suttora

Sunday, March 04, 2001

Le modelle dell'Est

Net.tv, marzo 2001

di Mauro Suttora

La capostipite è stata Paulina Porizkova, che quindici anni fa conquistò oltre 400 copertine di riviste di moda nel mondo, e diventò il volto della pubblicità Estée Lauder. Nata in Cecoslovacchia, sua madre la portò via da Praga nel ‘68, quando i carri armati sovietici invasero il Paese. Così la stupenda Paulina crebbe in Svezia, e lì fu facile farsi notare come modella. Dopodiché, anche la carriera di attrice le ha dato soddisfazioni («Alibi seducente» con Tom Selleck, «Arizona Dream» con Johnny Depp).

Rotto il ghiaccio - e crollato il Muro di Berlino - negli anni Novanta le passerelle sono state invase dalle affascinanti figlie dell’ex Impero del Male (come il presidente americano Ronald Reagan aveva soprannominato il blocco sovietico). L’ucraina Milla Jovovich, diventata poi moglie del regista francese Luc Besson; Eva Herzigova, prima testimonial del reggiseno Wonderbra e trionfatrice a Sanremo; Daniela Pestova, amata dai grandi stilisti e anche dall’imprenditore fiorentino Tommaso Buti. Infine, nel '98, ecco arrivare dalla Slovacchia Adriana Sklenarikova con i suoi 127 centimetri di gamba, Guinness dei primati.
Senza dimenticare l’ingegnere metallurgico Natasha Stefanenko, nata sui monti Urali e impostasi ormai in Italia come conduttrice televisiva, né Karmen Kass, 21enne estone, già pupilla di Donatella Versace.

«Le ragazze dell’Est sono bellissime, intelligenti e professionali», assicura Bruno Pauletta, manager dell’agenzia Riccardo Gay che dopo la caduta delle dittature ha girato in lungo e in largo i Paesi dell’Est alla ricerca di nuove bellezze da lanciare: «L’Europa orientale è vicina all’Italia, per cui le ragazze sono anche più semplici da gestire».

Purtroppo il caso recente di una sedicenne slovena drogata e «usata» sessualmente nel giro della Milano modaiola notturna dimostra che il confine fra il lusso delle sfilate e il sesso a pagamento sta diventando più labile. Ma le silfidi dell’Est sono spesso assai colte, a volte reduci da studi universitari, e non si faranno facilmente sorpassare dalle sudamericane, nuova moda nel mondo della moda.

Il ritorno delle ciccione

Net.tv, marzo 2001

di Mauro Suttora

Si chiama Sophie Dahl, ed è la nuova donna immagine del profumo Opium di Yves Saint Laurent. Americana, 23 anni, alta un metro e 80, taglia 48, incanta il mondo tutta nuda e burrosa, con la sua pelle bianco latte e gli occhi chiusi nell’estasi. La supera Barbara, 24 anni, taglia 52: di reggiseno porta la settima misura, e ha posato per il calendario 2001 di Elena Mirò, la linea di moda del gruppo Miroglio destinata alle taglie forti, che fa concorrenza a Max Mara e a Marina Rinaldi.

Poi c’è Ali Stuhlreyer, la grassa modella che è stata immortalata in copertina poche settimane fa da «Amica»: lo sciccoso settimanale ha dedicato un intero numero al «sovrappeso è bello», così come il supplemento femminile «D di Repubblica». Quanto a Kate Moss, un tempo magra da far paura, ultimamente ha mostrato fianchi insolitamente tondi sfilando in costume per Gucci.

Megan Gale, infine: sì, la più concupita dagli italiani è in realtà pure lei bella pienotta, con gambe muscolose (ammirabili mentre si arrampica sulla torre dell’ultimo spot Omnitel) e curve pronunciate, che a ogni sfilata fanno inorridire gli ultimi stilisti rimasti schiavi del mito dell’anoressica. Per non parlare di Gwyneth Paltrow, la secca attrice che nel suo ultimo film si fa ingrassare fino a 150 chili dal computer.

Insomma, grasso è di nuovo bello? E, comunque, sta tramontando l’era delle modelle magrissime, visto che di anoressia lle nostre adolescenti cominciano perfino a morire?
«Andiamoci piano», risponde Gabriella Galluccio Canevari, giornalista di Amica, «perché anche alle ultime sfilate di Milano, Parigi e New York la media delle modelle era, ancora e sempre, sulla misura grissino. È vera piuttosto un’altra cosa: che mentre un tempo la ciccia era completamente out, oggi rappresenta un’alternativa accettabile e presentabile».

E perfino simpatica: anche perché, diciamolo francamente, al di là dei modelli (e delle modelle) imposti dall’industria della moda e dai gusti sovente omosex (e quindi sottilmente ginofobi) degli stilisti, nella realtà di tutti i giorni il trionfo delle maggiorate non è mai cessato. Al cinema, per esempio, sono sempre loro a dettar legge. E non soltanto in Italia, con le sue più che paffute Valeria Marini e Sabrina Ferilli, o con le pettoralmente superdotate Maria Grazia Cucinotta, Manuela Arcuri e Anna Falchi, ma anche nella Francia della quasi omonima di Sophie Dahl, Béatrice Dalle, nell’Inghilterra di Elizabeth Hurley dai garretti sostanziosi, e negli Stati Uniti delle quadratissime Cameron Diaz e Sandra Bullock.

Ma prendiamo anche la più divina e conturbante, Sharon Stone: le avete mai guardato attentamente le gambe? Non assomigliano a quelle di un onesto centromediano di spinta? Nicole Kidman è in perenne lotta con la dieta. Quanto a Kate Winslet, prima e dopo «Titanic» è tutta un tripudio di rotolini.

A difendere lo stendardo del clangore di ossa sembra rimasta soltanto Julia Roberts: per il resto, se non si può dire che il muscolo più o meno flaccido faccia tendenza, certo ha conquistato tolleranza. E quindi, care donne, non angustiatevi più di tanto con le consuete diete primaverili: può darsi che la verità stia nel titolo dell’ultimo libro scritto da Richard Klein per Feltrinelli: «È tutto grasso che vola».

Tuesday, February 13, 2001

La censura si abbatte sui radicali

PANNELLA: "CIAMPI, ORA TI UCCIDO"

di Mauro Suttora

Il Foglio, 13 febbraio 2001

I dati sono impressionanti. Perfino un antipatizzante radicale di antica data, il consigliere d’amministrazione Rai Alberto Contri, lo ammette: «Li confronteremo con quelli dell’Osservatorio di Pavia, e se verranno confermati prenderemo provvedimenti». 

Negli ultimi cinque mesi, dal primo settembre al 20 gennaio, i radicali sono scomparsi dalla tv. Se si eccettua il due per cento di «Porta a Porta» (40 minuti su un totale di 26 ore di interviste politiche), in tutti gli altri programmi Rai e Mediaset (da Santoro a Costanzo, da Biagi a Primo piano) la percentuale è zero. E l’ospitata di Emma Bonino per Mucca pazza a «Raggio verde», a fine gennaio non cambia di molto le cose.

Il problema è che i radicali vengono censurati da trent’anni. E da trent’anni, invece di subire o protestare urbanamente, Marco Pannella reagisce con veemenza, utilizzando aggettivi pantagruelici e toni tremendissimi. L’ultima volta l’altro ieri: «Ciampi, ora ti uccido», ha sintetizzato in prima pagina Vittorio Feltri sul suo «Libero». 

Ragionamento paradossale ma logico, quello pannelliano: se davvero in Italia c’è un regime che impedisce ai cittadini di «conoscere per deliberare», distorcendo l’informazione che è il pane della democrazia, allora scatta il diritto (e forse perfino il dovere) alla ribellione. «Da gandhiano so bene che uno sparo non salverà il mondo», ammette il leader radicale, precisando però che la sua scelta nonviolenta è a questo punto solo di opportunità, non di principio.

Ragionamenti fragorosi, forse inutili, in questo Paese narcotizzato dai soldi e solo lievemente infastidito dalla rinuncia alla bistecca con l’osso. Ma sufficienti a far scattare la trappola dentro la quale, da un terzo di secolo, Pannella  viene abitualmente inghiottito ogni volta che si permette di denunciare la censura. 

Anche ieri l’imbecille il quale, occupandosi del dito invece che del problema, ha trasformato la vittima in esibizionista da dileggiare, è stata la «Repubblica» del suo nemico eterno Eugenio Scalfari (ex radicale con il veleno degli ex), tramite un corsivo in cui è stato compilato l’elenco dei «penultimatum» e delle invettive pannelliane, dai primi scioperi della fame (1968 per la Cecoslovacchia, 1969 per il divorzio, 1972 per l’obiezione di coscienza) a oggi.

Anche l’ultimo dei 17 digiuni del leader radicale (autunno ‘97) fu causato dal medesimo problema di oggi: lo zero quasi assoluto riservato dai media alle iniziative radicali. E anche allora «si aprì il dibattito»: ma sugli eccessi del «mouse that roars» (il «topolino che ruggisce», come l’Economist ha soprannominato l’indomito Marco), e non su quelli del silenzio tv. 

In questi quattro anni, poi, sono successe due cose: il settantenne Pannella si è beccato due ischemie, quattro by-pass e un’infezione iatrogena che hanno quasi «risolto» il problema; la sua fedelissima Emma Bonino ha preso l’8 per cento alle europee (con punte del 20 per cento in Lombardia e Veneto), dimostrando che i radicali possono essere popolari, e quindi pericolosi.

Così, l’Ulivo ha subito vietato gli spot grazie ai quali la lista Bonino era diventata il terzo partito al Nord. E la saracinesca dell’indifferenza si è richiusa sui pannelliani. L’ultimo episodio sabato scorso: nelle stesse ore in cui Pannella vergava la sua invettiva-appello a Ciampi, la Bonino teneva una conferenza stampa su una certa pillola che permette di abortire senza il trauma dell’intervento chirurgico, assieme a una professoressa francese invitata apposta in Italia in quanto massima esperta mondiale del problema. Che è sicuramente controverso, sia perché l’Italia è uno dei soli tre Paesi europei in cui i cattolici impediscono l’uso della suddetta pillola, sia perché in questi giorni il dibattito sulla «libertà della scienza» è rovente.

Ebbene: neanche una riga, neanche dieci secondi di tg. Stesso esito per un interessantissimo convegno radicale all’università di Roma giovedì scorso, zeppo di dati sui «costi del proibizionismo». Niente. E che il capolista radicale alle prossime elezioni si chiami Luca Coscioni, un malato di sclerosi curabile con le cellule staminali ma condannato a morte (lui sì, sul serio) dal no verde-vaticano alla clonazione terapeutica, finora lo ha scritto solo il Foglio.

Pazienza. Tanto, l’Italia democratica un’opposizione ce l’ha già: Fausto Bertinotti. Lui sì che può parlare in tv, come dimostrano i dati radicali: «Perché piace alla regina: sa stare a tavola, parla di tutto, fa manicure e pedicure...», sibila Pannella. Anche geloso, oltreché cialtrone?
Mauro Suttora

Wednesday, February 07, 2001

I coloni israeliani a Gaza

I COLONI ISRAELIANI A GAZA

di Mauro Suttora

Il Foglio, 7 febbraio 2001

Gaza. Se non stesse lì, ma appena cinque chilometri più a Est, o quindici a Nord, sarebbe un posto bellissimo: una location ideale per un qualsiasi club Mediterranée o Valtur. Invece, è l’inferno dentro all’inferno. Nezarim, infatti, è uno dei 140 insediamenti ebraici in territorio palestinese, e sopravvive soltanto perché è sorvegliato giorno e notte da blindati e carri armati dell’esercito d’Israele.

Morire per Nezarim? È quello che si chiedono gli israeliani dopo il voto. Nezarim è una «goccia» di tre chilometri quadri in riva al Mediterraneo, ficcata proprio in mezzo alla striscia di Gaza. Fino al 1984 era una base militare. Poi, dopo la restituzione del Sinai all’Egitto, ci arrivarono i coloni religiosi sfrattati dai kibbutz che avevano impiantato nella penisola desertica. Oggi sono in 170: lavorano come insegnanti, fanno gli agricoltori, hanno una cava di ghiaia. Coltivano mango, vite, patate dolci e pomodori. Ma vivono assediati dal nemico. 

Ai professori e agli altri pendolari che lavorano in Israele tocca infatti passare ogni giorno per sei chilometri di strada in territorio palestinese, che da quattro mesi sono diventati un incubo. Devono attraversare l’unica superstrada che collega la striscia di Gaza da Nord a Sud, e lì stazionano le autoblindo israeliane. Ma ad ogni metro potrebbe partire l’attacco improvviso, con le pietre e i proiettili.

Per rendere sicure le strade che conducono gli insediamenti, a Gaza come in Cisgiordania, i soldati non hanno esitato a far tabula rasa: hanno abbattuto tutti gli alberi e le case circostanti, dalle quali potrebbero partire gli agguati. Risultato: gli israeliani, un tempo famosi per piantare alberi (la forestazione era diventata quasi una religione civile), ora li sradicano. Secondo il Centro palestinese per i diritti umani, sono ben 400 gli ettari di campi coltivati con alberi da frutta rasati a zero accanto alle strade, da quando è scoppiata la seconda intifada.

L’ultimo piano di pace Clinton, abortito in gennaio, prevedeva il ritiro da tutti gli insediamenti ebraici a Gaza. In Cisgiordania, invece, gli israeliani speravano di poterne salvare parecchi. Ma adesso, con la vittoria di Ariel Sharon, i 200 mila coloni si sentono al sicuro. La destra, infatti, è disposta a tutto per difendere gli insediamenti. Anche quelli situati nelle posizioni meno difendibili, come Nezarim. 

Ma, paradossalmente, ora è proprio l’esercito ad avanzare le perplessità più solide contro l’abbarbicarsi a oltranza nelle enclaves in territorio palestinese. La domanda, assai concreta, è: «Quanto ci costa, in termini di soldi e di vite umane, assecondare l’orgoglio messianico e spesso fanatico dei coloni?»

In realtà, la situazione degli insediamenti in Palestina è assai diversificata fra loro. A Gaza, per esempio, ce ne sono di tre tipi. All’estremo nord i tre villaggi di Dugit, Alei Sinai e Nissanit sono in continuità territoriale con Israele. I coloni, quasi mille, hanno a disposizione una dozzina di chilometri quadri con tanto di stabilimento balneare (la spiaggia di Shikma, tranquilla e affollata di ombrelloni fino all’estate scorsa), un porticciolo per le barche da pesca, un allevamento di ostriche. 

Si raggiunge facilmente la città israeliana di Ashkelon, i pendolari vanno e vengono liberamente. Non sarà difficile praticare uno scambio territoriale: questi dodici chilometri quadri a Israele in cambio di una superficie analoga ai palestinesi, magari per farci scorrere quella famosa strada-corridoio fra Gaza e la Cisgiordania che gli uomini di Yasser Arafat reclamano dal ‘93.

Ci sono poi i quasi trenta chilometri quadri di Gush Katif, all’estremo Sud della striscia di Gaza, proprio al confine con l’Egitto. Qui vivono seimila coloni suddivisi in una dozzina di paesi, due stazioni balneari, un villaggio turistico, una pista d’aeroporto, decine di ettari di serre che esportano primizie in Israele, a Cipro e (clandestinamente) perfino nelle capitali arabe. 

L’insalata di Gush Katif è famosa in tutta Israele perché è garantita l’assenza di vermi, grazie a sapienti incroci genetici. I fiori vengono spediti in tutta Europa, soprattutto in Olanda. Un allevamento modello in mezzo alle dune del deserto ricava tonnellate di latte da un centinaio di mucche, anche queste trasportate ogni mattina a Tel Aviv in autobotte (e di nascosto anche al Cairo). Nel capoluogo, Neve Dekalim, ci sono asili, scuole elementari e medie, licei, due sinagoghe (una sefardita, l’altra aschenazita), officine industriali.
 
I coloni di Gush Katif, che dal 1970 a oggi hanno trasformato il deserto in una specie di Beverly Hills con palme, prati all’inglese e villette in stile Lego, hanno subìto duri colpi dall’intifada-bis, con tanto di attentati agli autobus, bombe, agguati e vendette. Da ottobre i pendolari palestinesi sono stati licenziati, e per sostituire la manodopera arrivano in turni da una settimana studenti da altri insediamenti in zone più tranquille. 

È il caso delle sedicenni Netta Dahari, che viene da Hadera (vicino a Netanya), Avital Moscovich e Leah Meller, provenienti da Ramat Golan: «Ci ospitano nei cottage del villaggio turistico che d’inverno è chiuso, ma per andare a lavorare nelle serre dobbiamo usare gli autoblindo dell’esercito».

A poche decine di metri, dall’altra parte di un muro di cemento, ci sono infatti i campi profughi palestinesi di Khan Yunis e Rafah. Da lì arrivano periodicamente sassi e pallottole, e sarebbe perfino strano che ciò non accadesse. È troppo stridente, infatti, la differenza fra il tenore di vita californiano di questi insediamenti e la povertà da terzo mondo dei palestinesi che li circondano. Ma almeno l’insediamento di Gush Katif possiede una stazza territoriale tale che per i soldati è relativamente semplice difenderlo.

Diverso e disperato è invece il futuro per il terzo tipo di colonie ebraiche che punteggiano il martoriato territorio palestinese di Gaza: le «gocce» come Nezarim, appunto, e altri isolatissimi microinsediamenti come Kefar Darom (200 membri) e Morag (100). Questi sembrano veramente «un insulto al buon senso e alla giustizia», come ha scritto il corrispondente del Corriere della Sera da Gerusalemme, Guido Olimpio, due settimane fa. 

Per arrivare a Kefar Darom, per esempio, i soldati israeliani hanno dovuto subire l’umiliazione di dividere in due con un muro di cemento vari chilometri dell’unica autostrada di Gaza: una carreggiata agli israeliani, l’altra ai palestinesi. È un apartheid insensato e onerosissimo: perfino Arafat, ogni volta che deve prendere l’aereo, è costretto a passare attraverso queste forche caudine per raggiungere il suo aeroporto. Per di più, gli israeliani bloccano la circolazione civile durante giorni interi come rappresaglia dopo ogni attacco palestinese. 

Quindi la striscia di Gaza, lunga neanche 50 chilometri, risulta divisa ulteriormente in tre compartimenti stagni che non possono comunicare tra loro: lavoratori impediti dal tornare a casa la sera e costretti a dormire da amici, ambulanze bloccate, perfino i convogli dell’Agenzia per i rifugiati dell’Onu non possono circolare. Sarebbe come se venisse bloccato tutto il traffico fra Milano e Monza, o fra Roma e Fiumicino.

I coloni, tuttavia, sono riusciti in questi ultimi mesi a togliersi di dosso la nomea di provocatori, perlomeno agli occhi di fette consistenti dell’opinione pubblica israeliana. Il punto di svolta è stata l’imponente manifestazione dell’8 gennaio a Gerusalemme, organizzata dall’ex dissidente russo Nathan Sharanski (anni di gulag comunista sulle spalle). 

Con i loro canti e balli e la loro solidarietà tranquilla e gioiosa, i coloni accorsi in massa hanno incantato perfino alcune fasce della sinistra, che vedono in loro gli eredi dello spirito socialista e pionieristico dei kibbutz. Così oggi, nella nuova Israele di Sharon, i coloni hanno smesso di essere un problema da risolvere, e qualcuno li considera una bandiera da sventolare.

Gli insediamenti nel deserto di Samaria e Giudea hanno almeno una giustificazione storica, perché coprono a pois il territorio di quello che tremila anni fa era il regno di Davide. Ma le mini-enclaves ebraiche dentro a Gaza saranno difficili da difendere perfino per Sharon, che quando era ministro della Difesa e poi dei Lavori pubblici ne favorì la costruzione. In ogni caso, dalle poche centinaia di metri di Nezarim, oltre che da quelle del monte del Tempio a Gerusalemme, dipende la pace in Medio Oriente.
Mauro Suttora  

Candidati di Bonino e di Di Pietro

POLITICHE 2001: I CANDIDATI DI BONINO E DI DI PIETRO

di Mauro Suttora

Il Foglio, 7 febbraio 2016

Nelle strade d’Italia sono apparsi i tavoli delle liste Bonino e Di Pietro: le uniche che hanno già iniziato la raccolta di firme per presentarsi alle politiche. Quest’anno sarà più difficile farlo, perché ci vogliono quasi mezzo milione di sottoscrizioni autenticate: mille per collegio. 

Più semplice sarebbe limitarsi al proporzionale della Camera (bastano centomila firme), ma boniniani e dipietristi vogliono correre anche al maggioritario per due motivi: conquistare spazi in tv e poter contrattare desistenze dell’ultima ora (come quella col Polo che nel ‘96 permise l’elezione dell’unico senatore radicale Piero Milio in Sicilia).

La raccolta firme è costosa: né Emma Bonino né Antonio Di Pietro hanno consiglieri comunali che convalidino le sottoscrizioni, e i cancellieri si fanno pagare 50 mila lire l’ora. «Per presentarci alle regionali l’anno scorso abbiamo speso tre miliardi», spiega il tesoriere radicale Danilo Quinto, «ma questa raccolta firme è più difficile sia per quantità che per qualità: costerà almeno quattro miliardi».

Nel ‘94 il numero delle firme venne dimezzato perché «era la prima volta», nel ‘96 perché si trattava di elezioni anticipate. Quest’anno, per la pr ima volta da quando è in vigore il Mattarellum, niente sconti. E dolori per le liste minori. Il trucco cui ricorrono quasi tutti i partiti è quello di far firmare moduli in bianco cui vengono aggiunti i nomi dei candidati all’ultimo momento. I radicali l’anno scorso hanno denunciato questa vera e propria truffa in tutte le procure d’Italia, ma senza esito.

Boniniani e dipietristi sono quindi gli unici che hanno già i candidati. Emma Bonino corre per il Senato in Lombardia, il posto dove ha le migliori chances: per un seggio le basta il tre per cento delle regionali ottenuto l'anno scorso. Dietro di lei, viene paracadutato in Lombardia il tesoriere pugliese Quinto. 

Altri funzionari di partito catapultati al Nord sono l’ambizioso Daniele Capezzone e Sergio D’Elia (segretario dell'associazione «Nessuno tocchi Caino» contro la pena di morte, ex terrorista rosso e vedovo della scrittrice radicale Maria Teresa Di Lascia, premio Strega ‘95). L’eurodeputato Marco Cappato è spedito in Piemonte, il toscano Gianfranco Dell’Alba in Sicilia. In Calabria una sorpresa: Franco Corbelli, già segretario di Vittorio Sgarbi e fino a pochi giorni fa dipietrista.

Capolista alla Camera in Lombardia il valtellinese eurodeputato Benedetto Della Vedova (l’unico con un suo ancoraggio geografico), mentre la Campania 2 va all'ex dirigente Publitalia ed eurodeputato forzista Ernesto Caccavale. E Marco Pannella? Guida la lista in Toscana, ma si limita al secondo posto a Roma e in Emilia Romagna. Primo in queste due circoscrizioni (oltre che in Umbria), sarà infatti Luca Coscioni, giovane malato di sla (sclerosi laterale amiotrofica) in carrozzella, che parla soltanto attraverso il computer, e che il leader radicale ha tirato fuori dal cilindro un mese fa come candidato-simbolo dell’antiproibizionismo «sulla scienza».

Nel difficile tentativo di emulare le imprese di Leonardo Sciascia nel ‘79, di Toni Negri nell’83, di Enzo Tortora nell’84 e di Domenico Modugno e Cicciolina nell’87, Coscioni rappresenta l’attuale cavallo di battaglia radicale: la polemica contro l’oscurantismo cattolico che impedisce la ricerca scientifica sulle cellule staminali, le biotecnologie, la clonazione a scopo terapeutico e l’eutanasia. Messo in sordina, invece, il liberismo economico che fece raggiungere l'8,5 per cento alla Bonino nel ‘99. Oggi i sondaggi indicano i radicali sotto la soglia del 4 per cento, mentre i dipietristi stanno sopra. Ma gli indecisi sono ancora molti.

Di Pietro rinuncia a presentarsi a Milano, dov’è comunque candidato sindaco: corre per la Camera a Roma, Napoli e in Abruzzo. Guidano la lista milanese Giorgio Calò, sondaggista della Directa, ed Eugenio Ronchi, cugino dell’ex ministro verde Edo. Sempre a Milano vorrebbe riciclarsi con Di Pietro per le comunali l’ex assessore Letizia Gilardelli, prima Psi e poi Pds, ma oggi scaricata dai Ds. 

In Puglia capolista è il pretore filo-Di Bella Carlo Madaro. Elio Veltri corre in Emilia-Romagna, ma cercherà di farsi rieleggere nel suo collegio uscente di Massa, contrattando una desistenza con l’Ulivo. Possibile un accordo con la sinistra anche per Tonino nel collegio di Termoli (Campobasso), che comprende la sua Montenero di Bisaccia. Altri candidati dipietristi: Mario Capanna, l’eurodeputato fascista Roberto Bigliardo ed Elio Lannutti, l’anti-mutui usurari di Adusbef.
Mauro Suttora

Thursday, January 25, 2001

Arlacchi al capolinea

IL DIRETTORE ITALIANO DELL'AGENZIA ONU ANTIDROGA SOTTO ACCUSA

di Mauro Suttora

Il Foglio, 25 gennaio 2001

Chissà se l’onnipotente Enzo Biagi riuscirà a salvare il posto a uno dei suoi innumerevoli datori di lavoro: Pino Arlacchi. Il sociologo calabrese, infatti, sta per perdere la carica di direttore dell’Ufficio antidroga dell’Onu a Vienna.
Nominato quattro anni fa dall’Ulivo (anche per far posto a Tonino Di Pietro come senatore del Mugello), Arlacchi è in scadenza a settembre, ma difficilmente il suo mandato verrà rinnovato. Gran Bretagna, Francia, Germania e Svezia lo hanno già scaricato, e i governi di Parigi e Berlino si sono perfino rifiutati di presentare il Rapporto della sua Agenzia.

Così Arlacchi ha ripiegato mesto su Milano, dove stamane il suo Rapporto 2000 viene esibito in pompa magna nella sala più prestigiosa del palazzo comunale. Presiede Enzino, assieme al suo cardinale pret-à-porter Ersilio Tonini, al ministro dell’Interno Enzo Bianco (che sotto sotto mira alla poltrona di Arlacchi) e alla lobby antidroga di San Patrignano rappresentata da due signore: la giudice dei minori Livia Pomodoro e Letizia Moratti. Anche quest’ultima, come Biagi, è stata «nominata» da Arlacchi «civic ambassador to Italy»: un titolo antidroga tanto vacuo quanto altisonante.

Giornata di gloria per il povero Pino, quindi, che si consola per le sberle che ormai gli piombano addosso quasi ogni giorno. Dopo la sua prima scivolata in dicembre al vertice di Palermo («Ormai la mafia è vinta», disse), è arrivata la denuncia di undici pagine in cui Michael von Schulenburg, numero due dell’Ufficio di Vienna, rimprovera al suo capo una «politica personale» caratterizzata da «indifferenza e disprezzo» per i suoi collaboratori, «programmi annunciati e mai realizzati» e «un grande dispendio di denaro».

Poi i grandi giornali europei si sono scatenati sul caso dei 60 milioni di lire che l’ufficio di Mosca dell’agenzia di Arlacchi ha regalato a Dennis Oren, un simpatico svedese residente nelle isole Canarie. Questo tizio avrebbe dovuto girare il mondo su una barca a vela dispensando ai giovani «informazione sulla droga», argomento sul quale però non possedeva alcuna competenza professionale. Il rappresentante Onu a Mosca non voleva finanziarlo, ma poi è arrivato l’ordine direttamente da Pino. Il quale ora si difende: «No, Oren non è mio amico, l’ho solo incontrato due o tre volte. Ho semplicemnte pensato che la sua fosse una buona idea, e il mio staff ha condiviso la valutazione».

Peccato che lo stesso staff sia trattato da Arlacchi col capriccio del satrapo mesopotamico: «Non riceve il personale, non risponde alle lettere, non si fida di nessuno, ha il culto della segretezza, accentra tutto su di sè», accusa Von Schulenburg. Così ormai siamo arrivati a sette direttori fatti fuori in tre anni.

Uno degli ultimi è l’inglese Tony White, già capo dell’Agenzia Onu per l’applicazione della legge, ed ex dirigente di Scotland Yard: «In 33 mesi sono riuscito a vedere Arlacchi solo una volta. Il suo ufficio privato è un buco nero che si espande sempre più, e ha ridotto la politica delle risorse umane a livelli vergognosi». Tradotto: si fa carriera non per merito, ma solo se si è amici di Pino.

Il trattamento riservato a White ha irritato a tal punto il governo britannico che ora Londra mette in dubbio la prosecuzione del suo finanziamento all’Agenzia di Vienna. Critico anche Jean-François Thony, magistrato francese che doveva organizzare un «Programma globale contro il riciclaggio finanziario». Se n’è andato sbattendo la porta e accusando un consulente italiano nominato da Arlacchi di avere cercato di piazzare una relazione copiata, che l’Onu avrebbe dovuto pagare diecimila dollari.

Infine, perfino l’autore del Rapporto mondiale presentato oggi in Italia ha mollato Pino: il coordinatore Francisco Thaomi si è dissociato dal testo finale, perché Arlacchi lo ha voluto «purgare» pesantemente. Sono stati rimaneggiati soprattutto i capitoli sulle anfetamine e la marijuana, nel tentativo di esagerare i risultati ottenuti da Arlacchi.

In realtà, com’è noto, i principali produttori di oppio (eroina) e coca, cioè Afghanistan, Birmania e Colombia, continuano indisturbati ad aumentare la produzione e la raffinazione. Con i 50 miliardi regalati da Arlacchi i talebani afghani hanno comprato armi. Quanto alla canapa indiana (hashish, marihuana), la stessa Agenzia Onu stima in quasi due milioni di ettari i campi coltivati in ben 120 Paesi, con 144 milioni di consumatori.

Commenta Franco Corleone, sottosegretario alla giustizia: «Arlacchi non perde occasione per glorificare le sorti della “guerra alla droga” e soprattutto per attribuirsi i meriti di successi straordinari nel mondo intero. Ma in tutta Europa le politiche sulla droga si stanno indirizzando verso la depenalizzazione».

Marco Pannella accusa: «Un ex collaboratore russo-georgiano di  Arlacchi è sospettato di avere avuto rapporti non chiari con la criminalità: era presente nello stesso albergo di Tblisi nei giorni in cui si teneva una riunione della potentissima mafia georgiana». Antonio Russo, giornalista di Radio radicale che indagava in loco, è stato assassinato misteriosamente tre mesi fa.

Intanto, con una norma inserita alla chetichella nell’ultima finanziaria, l’Italia destina all’Agenzia Onu antidroga il 25 per cento dei beni confiscati ai mafiosi: una boccata d’ossigeno per Arlacchi nel caso che gli altri Paesi europei gli taglino i fondi. Ma che rischia di arrivare quando a Vienna Pino non ci sarà più.
Mauro Suttora

Tuesday, January 23, 2001

Di Pietro arruola il segretario di Sgarbi

di Mauro Suttora

Il Foglio, gennaio 2001

L’ex braccio destro di Vittorio Sgarbi è passato alla corte di Antonio Di Pietro. Franco Corbelli, 43 anni, professore di economia aziendale all’istituto commerciale di Paola (Cosenza), ma soprattutto fondatore del rumoroso Movimento diritti civili, ha detto ciao al critico d’arte del quale per anni è stato il fedelissimo factotum, e si è imbarcato con il suo peggior nemico: Tonino, che sta tuttora duellando con Sgarbi nei tribunali di tutta Italia in una decina di cause per diffamazione.

È successo tutto in un baleno: il 15 dicembre 2000 i capi calabresi di Italia dei Valori lo contattano, e prima di Natale Corbelli incontra Di Pietro a Roma. Arruolato all’istante assieme al suo Movimento che, assicura lui, «ha sedi a Bari, Napoli, in Sicilia, con quasi 500 aderenti». 
E Sgarbi? 
«Ho per lui una stima indissolubile ed eterna. Gli ho telefonato, Vittorio di primo acchito è rimasto un po’ sorpreso. Ma poi si è convinto anche lui che Di Pietro in realtà negli ultimi tempi è diventato uno dei più grandi garantisti del Paese: ha difeso Nichi Grauso dalla condanna a 18 mesi di carcere per diffamazione contro i magistrati di Palermo sul suicidio Lombardini, ha preso le parti di quell’assessore lombarda del Ccd accusata di tangenti...» 
E con logica un po’ tolemaica, l’entusiasta Corbelli aggiunge: «Non escludo che un giorno Sgarbi si unisca a noi».
Nessuna contraddizione, quindi? 
«Macché. Io mi sono sempre alleato con quelli che ho combattuto. Contro Sgarbi dieci anni fa scrissi addirittura un intero libro, l’Antisgarbi. Poi nel ‘93 gli telefonai, lui mi convocò a Roma e mi assunse dal giorno dopo». 
E con Di Pietro, dove si candiderà? 
«Beh, vorrei essere il numero due, subito dopo di lui. So che si candiderà nel collegio di Termoli, in Molise, che comprende il suo paese Montenero di Bisaccia. E nel proporzionale a Milano, a Napoli e in Abruzzo. A me va benissimo una qualsiasi di queste tre circoscrizioni, più la Calabria e un’altra. E, naturalmente, il collegio di Cosenza, la mia città».

L’anno scorso Corbelli si candidò presidente della Calabria alle regionali: prese il due per cento. Adesso vorrebbe fare alleare Di Pietro con i radicali, forse memore della lista (poi abortita) Sgarbi-Pannella del ‘96: «Sia Tonino che Emma Bonino sono alternativi ai due poli, inutile disperdere energie. Elio Veltri (il luogotenente di Di Pietro, ndr) si è già incontrato coi radicali per raccogliere le firme assieme». 
Smentisce il radicale Daniele Capezzone, che lo liquida: «Corbelli è un simpaticissimo e bravissimo venditore di tappeti. Anzi, di un tappeto solo: il suo».

Chissà se il tappeto magico di Corbelli contribuirà a far volare Tonino oltre la soglia del 4 per cento. L’esuberante one-man-band calabrese è da anni famoso presso i giornalisti di tutta Italia per la tenacia con cui inonda quotidianamente le redazioni di suoi comunicati. L’ultimo l’altroieri: chiede dieci miliardi di risarcimento a Umberto Veronesi, a nome dei prof e degli studenti che secondo il ministro si spinellano in massa.

Ma più che sui «diritti civili» di Corbelli, Di Pietro per acchiappare voti conta sui diritti dei consumatori difesi da Elio Lannutti, che con la sua Adusbef sta conducendo una titanica lotta contro gli interessi usurari dei mutui. Piccoli risparmiatori, piccoli azionisti, tartassati da banche, assicurazioni e società telefoniche: è questo il nuovo target di Tonino, sapientemente coltivato anche sulla pagina che gli concede ogni settimana Oggi, il familiare Rcs forte di quattro milioni e mezzo di lettori. 

È il bacino popolare ideale per Di Pietro che, dopo il «colpo» a effetto dell’arruolamento simultaneo del capo sessantottino Mario Capanna e dell’eurodeputato fascista Roberto Bigliardo, prosegue nei discretissimi contatti con il centrosinistra per contrattare qualche desistenza. Quasi sicure quelle a Termoli per se stesso e a Massa nel collegio uscente di Veltri. 

Tutto ora è affidato ai sondaggi e alla difficile raccolta di firme per la presentazione delle liste: ci vorranno 4-500 mila sottoscrizioni in tutta Italia, collegio per collegio. Domenica i dipietristi saranno i primi a partire, con mille tavoli per strada. «Ma forse riusciamo a organizzarne duemila», annunciano orgogliosi.
 
Quanto ai sondaggi, gli ultimi variano dal 3% dell’Swg al 5 della Cirm. Più ottimisti quelli della Directa di Giorgio Calò, numero tre del partito. Se supera la ghigliottina del 4%, Di Pietro elegge sette deputati: tutti quelli in più, nel maggioritario, dovranno essere graziosamente concessi dall’Ulivo.    

Saturday, January 20, 2001

Reportage da Gaza per la seconda Intifada

COME VIVONO I PALESTINESI DA 53 ANNI NEI CAMPI PROFUGHI

dall'inviato a Gaza (Palestina) Mauro Suttora

Oggi, 20 gennaio 2001

Nazir Abdel Fattah ha 36 anni e sei figli: le femminucce Ghadir, Nahil, Hadil, Abir, Hannil, e l’unico maschio Abid, di sei anni. Vive da quand’è nato nel campo profughi Sciatt («spiaggia») a Gaza. Suo padre c’è finito in esilio nel 1948, quando gli arabi attaccarono il neonato stato di Israele e persero la guerra. 

La casa di famiglia a Esdud (Ashdod in ebraico) non c’è più. La città di Ashdod (sulla costa, poche decine di chilometri a nord di Gaza) era stata assegnata a Israele nel piano Onu di spartizione della Palestina nel ‘47, che i Paesi arabi rifiutarono. 

Alla fine della guerra soltanto 160 mila palestinesi accettarono di rimanere sotto Israele. Gli altri 900 mila finirono in esilio: mezzo milione in Cisgiordania, centomila in Libano, 90 mila in Siria. E ben 200 mila qui, nella piccola striscia di Gaza che venne data all’Egitto.

«Nei primi anni la mia famiglia visse sotto una tenda», racconta Nazir, «perché c’era ancora la speranza di tornare a casa entro breve tempo. Solo dopo la seconda guerra contro Israele, nel ‘56, furono costruite le case». 

Quelle che Nazir chiama «case» sono catapecchie di un piano addossate l’una all’altra e separate da stretti vicoli senza asfalto, con la sabbia che si trasforma in fango dopo le piogge. 

In questa baraccopoli vivono da più di mezzo secolo 50 mila profughi palestinesi. I quali nel frattempo, figliando, da 900 mila sono aumentati fino a tre milioni e mezzo. 
Solo Nazir, per esempio, ha sei fratelli. Lui è l’unico rimasto a Gaza con la vecchia mamma, la moglie e i figli. Gli altri si sono trasferiti in Egitto, Libia, Giordania ed Emirati Arabi.

Per questi tre milioni e mezzo di «figli di profughi» i Paesi arabi continuano a reclamare, 53 anni dopo, il «diritto di ritorno» in Israele. Il quale, a sua volta, grazie a massicce immigrazioni ha decuplicato la propria popolazione ebraica: dai 650 mila del 1948 agli attuali sei milioni. 

Difficile, quindi, che questo «diritto» possa essere esercitato. Anche perché molti palestinesi, in realtà, non hanno alcuna intenzione di tornare in posti dove non sono nati.

Lei, Nazir, tornerebbe ad Ashdod? 
«No, non voglio vivere sotto gli israeliani. Anche se lì guadagnerei sette volte di più. Sono meccanico, e qui a Gaza prendo mille shekel al mese [500 mila lire italiane, ndr]. Facendo lo stesso lavoro in Israele arriverei a settemila shekel. Pensate che perfino gli arabi disoccupati, se sono cittadini israeliani, prendono un sussidio di tremila shekel... Ma io voglio stare qui, con la mia famiglia».

È il mezzogiorno del venerdì. Siamo seduti sotto un albero, nel giardino della casetta di Nazir. 
«Io sono fortunato: abbiamo questo spazio di pochi metri quadri, circondato dai muri delle case dei vicini, ma sufficiente a far giocare le mie bambine senza costringerle a stare in strada. Però gli altri abitanti di questo campo vivono in condizioni peggiori. Venite, venite a guardare». 

E Nazir ci porta in «tour» nei tuguri dei profughi, fra bambini cenciosi, donne che stendono i panni nei vicoli e ragazzotti nullafacenti. In questa povertà, è facile per gli estremisti della Jihad («Guerra santa») e di Hamas reclutare adepti.

Viene spontaneo pensare ai ricchissimi emiri arabi miracolati dal petrolio che scorrazzano ogni estate fra Cannes e Porto Cervo sui loro megayacht dal lusso sfrenato. E scandaloso, se paragonato alla miseria in cui sono costretti questi loro «fratelli arabi». 

Possibile che nessun filantropo saudita pensi a costruire qualche centinaio di case dove sistemare decentemente questa povera gente?

In fondo, è la stessa cosa che fanno i miliardari ebrei americani, assai generosi nei confronti di Israele. Ma il tremendo sospetto è che i satrapi arabi giochino al «tanto peggio, tanto meglio», facendo rimanere apposta i palestinesi nella disperazione per meglio aizzarli contro gli odiati israeliani.

«Guardate, questo muro pochi giorni fa è caduto da solo», ci mostra Nazir, «era fatto di mattoni di sabbia pressata, paglia e fango, come tutte le case qui. Solo per miracolo non c’è rimasto sotto qualche bimbo». 

L’unico edificio lussuoso in mezzo alla bidonville è una moschea, costruita quattro anni fa. È l’ora della preghiera, e dagli altoparlanti esce la voce assordante di uno sceicco che predica. Chiediamo di tradurci: «Il profeta Maometto dice che la forza sta nello stare assieme, non separati...»

Non è un mistero che Gaza sia diventata, in questi ultimi sette anni di «autonomia» palestinese, una roccaforte dei fondamentalisti islamici. Con quasi due milioni di abitanti ammassati in pochi chilometri quadri e la disoccupazione al 60 per cento, questo è un terreno fertile per gli integralisti. 

Quando siamo arrivati alla frontiera abbiamo chiesto a un doganiere qual è il migliore albergo della città. «Il Tahuna», ci risponde. Così chiediamo al tassista di portarci lì.

Mentre siamo in viaggio, lo chauffeur dice che anche altri hotel sono belli come il Tahuna... Sospettando che ci voglia portare nell’albergo di qualche suo parente, insistiamo per il Tahuna. «Ma è bruciato», ci annuncia. 

Arriviamo: è vero, tutto distrutto. Ma chi è stato? «L’Intifada». Come, il proprietario era un collaborazionista degli israeliani? «No». Il tassista non va oltre con le spiegazioni. Domandiamo ad altri notizie sul disastro del Tahuna, ma c’è imbarazzo e omertà. È stata la mafia? «Nooo, a Gaza non c’è mafia», spara un poliziotto.

Alla fine, la triste verità: i fondamentalisti hanno bruciato due mesi fa l’albergo perché osava vendere alcolici nel bar (anche se i clienti erano quasi tutti stranieri). 

Insomma, ormai a Gaza è in vigore la legge islamica. Fortunatamente, invece, nell’altra parte della Palestina autonoma (la Cisgiordania) gli integralisti musulmani non sono ancora così forti, anche perché un buon venti per cento dei palestinesi è di religione cristiana.

Dopo gli ultimi scontri, i soldati israeliani hanno bloccato i palestinesi dentro ai loro territori: la frontiera con Israele è chiusa per loro. In più, la striscia di Gaza al suo interno è stata divisa in tre compartimenti stagni che non possono comunicare tra loro. 

Così Montasser El-Tilbani, 27 anni, che lavora a Gaza città ma vive dieci chilometri più a sud, non può neanche tornare a casa la sera e deve dorm ire da amici. E, come lui, centinaia di migliaia di palestinesi hanno la vita privata sconvolta dai tre mesi di «Intifada numero due» (la prima ebbe luogo nell’87/’88).

Montasser parla italiano: due anni fa ha frequentato un corso alla Dante Alighieri di Alessandria d’Egitto, dov’è nato da padre palestinese e madre egiziana. Poi ha lavorato a Sharm el Sheikh, dove ha perfezionato la nostra lingua parlando con turisti italiani. 

Ora lavora a Gaza, ma fra tre mesi dovrà tornarsene in Egitto: «Non ho il passaporto, sono “apolide”, senza identità, perché sono nato in Egitto e neanche qui riconoscono i miei diritti». 

La sua è una storia tipica di quanto i palestinesi siano vittime, oltre che degli israeliani, anche delle dittature arabe che li «usano» a seconda delle convenienze politiche. 
Montasser, infatti, nel 1994 è stato espulso assieme a tutti i palestinesi dalla Libia, dove studiava, perché Gheddafi era contrario all’accordo di pace di Oslo che Arafat aveva firmato con gli israeliani. 

La stessa sorte è capitata nel ‘91 ai molti palestinesi che lavoravano nei ricchi Emirati Arabi, perché Arafat appoggiò Saddam nella guerra del Golfo, mentre gli Emirati stavano con gli americani.

Insomma, alla fine le vittime dei giochi politici sono solo i poveri abitanti dei campi profughi come Nazir, e anche i giovani che si danno da fare come Montasser. 

Un altro giovane palestinese lo troviamo, in divisa, davanti a un palazzo bombardato, vuoto e imbandierato. Si chiama Mohamed Riad Rohmy, ha 24 anni. «Questa è la sede di Fatah, il partito di Arafat», ci spiega, «in ottobre sono arrivati gli elicotteri di Israele, si sono abbassati e hanno lanciato missili».

Non ci furono vittime solo perché gli israeliani avevano avvertito di evacuare pochi minuti prima. È stata un rappresaglia per il linciaggio dei due poliziotti ebrei a Ramallah, quello in cui la Tv italiana mostrò il corpo di uno degli sventurati che veniva gettato dalla finestra, e l’esultanza isterica di un giovane assassino palestinese che mostrava le proprie mani grondanti del sangue del nemico.

Quanto sia difficile risolvere il conflitto Palestina-Israele lo capiamo subito, appena entrati nella dogana palestinese di Erez. Notiamo appesa al muro una grande cartina: Israele non c’è, tutto è considerato Palestina. Ma il riconoscimento non doveva essere reciproco? 

La stessa inquietante cartina campeggia nella hall del nostro albergo sul lungomare, con la poetica scritta «A quelli che sono stati martirizzati per la Terra delle arance tristi», e una promessa di violenza per il futuro: «A quelli che non sono stati ancora martirizzati».

Nell’entrata dell’hotel c’è un ospite straniero sulla cinquantina, con i capelli bianchi. A un certo punto arriva una jeep militare, scendono in fretta quattro soldati palestinesi e lo portano via: «È il pilota personale di Arafat, un austriaco», ci tranquillizza il portiere. 

Ma c’è poco da stare tranquilli, in questi giorni a Gaza. Due ore prima che passassimo, alla frontiera gli israeliani hanno freddato un palestinese che si stava arrampicando sulla rete del confine, gridando «Allah ahbar!» (Dio è grande). 
E nei due giorni che abbiamo trascorso a Gaza, ci sono state altre due vittime dell’Intifada numero due: ormai il conto dei morti, in tre mesi di conflitto, si avvicina a 400 (in grande maggioranza palestinesi). 

I piani di pace crollano uno dopo l’altro. Tutti aspettano le elezioni in Israele, il 6 febbraio. E intanto la famiglia di Nazir Fattah continua a vivere, come da 53 anni, nella catapecchia del campo profughi «Spiaggia» di Gaza.
Mauro Suttora