Saturday, December 24, 2016

Politici non laureati

di Mauro Suttora

settimanale Oggi, 24 dicembre 2016

Probabilmente Valeria Fedeli sarà una brava ministra dell’Istruzione, perché ha l’esperienza più preziosa per quel posto: è una sindacalista, quindi andrà d’accordo con il turbolento mondo dei professori. Non è laureata, ma è finita nei guai per non averlo detto, più che per non averlo fatto. Aveva spacciato come dottorato un corso triennale di assistenti sociali. In più ora si scopre che non ha neanche la maturità: i suoi tre anni di scuola magistrale non gliel’hanno fatta raggiungere.

Ma la simpatica signora bergamasca si trova in folta e ottima compagnia. La metà dei capi dei quattro principali partiti italiani, infatti, non ha la laurea: Beppe Grillo è ragioniere, Matteo Salvini ha la maturità classica. Così come illustri premier del passato: Bettino Craxi si iscrisse a ben tre università (Milano, Perugia, Urbino) senza cavare un ragno dal buco e facendo arrabbiare suo padre; Massimo D’Alema fu ammesso alla prestigiosa Normale di Pisa ma anche lui abbandonò gli studi per la politica a tempo pieno.

La precoce attività di partito ha amputato anche gli studi di Walter Veltroni (diploma di una scuola professionale per la cinematografia), del presidente del Pd Matteo Orfini (pochi esami di archeologia) e di tre ministri colleghi della Fedeli: alla Sanità Beatrice Lorenzin, 50/60 alla maturità classica, al Lavoro l’agrotecnico Giuliano Poletti, e alla Giustizia Andrea Orlando, liceo classico.

Francesco Rutelli si è da poco reiscritto a 62 anni ad Architettura: gli mancano due esami e la tesi, «mi laureo come voleva mio padre». Anche la senatrice grillina Paola Taverna vuole recuperare: si è iscritta a Scienze politiche. Esigenza non condivisa da Umberto Bossi, che per anni fece finta di andare all’università di Medicina a Milano, mentre in realtà andava ad attaccare manifesti della Lega Nord. 
A Giorgia Meloni basta il diploma di liceo linguistico, a Maurizio Gasparri il liceo classico, e anche Francesco Storace non è laureato. Così come il suo successore alla presidenza della regione Lazio, Nicola Zingaretti (Pd, fratello dell’attore Luca), e l’assessore Lidia Ravera, scrittrice.

Michela Vittoria Brambilla ha portato a casa molti randagi, ma solo qualche esame di filosofia. Sempre nel centrodestra, anche l’ex sottosegretaria Michaela Biancofiore si è accontentata del diploma magistrale. Hanno agguantato una laurea triennale Stefania Prestigiacomo a 40 anni nel 2006 (Scienza dell’amministrazione alla Lumsa, Libera università Maria Santissima Assunta), Gianni Alemanno a 46 (Ingegneria dell’ambiente a Perugia), Alessandra Mussolini a 32 (Medicina).

Ma il record della laurea attempata va agli ex ministri Claudio Scajola, Legge a Genova a 53 anni, e Mario Baccini, 110 e lode in Lettere a 52 anni alla Lumsa con tesi su Amintore Fanfani.

Daniela Santanchè, dottore in Scienze politiche a Torino a 26 anni, è scivolata su un «master» alla Bocconi che esibiva sul sito ufficiale del governo: in realtà era un corso serale di 24 giorni per diplomati con licenza media inferiore. Peggio di lei è capitato al giornalista Oscar Giannino, che si è ritirato dalla politica per aver millantato lauree in Legge ed Economia e Master a Chicago. Anche l’ex Fratello d’Italia Guido Crosetto ha sbandierato una finta laurea in Economia.

Marco Pannella si laureò in legge a 25 anni (come Silvio Berlusconi), ma per farlo nel ’55 dovette emigrare da Roma a Urbino e sfangò un 66 grazie a una tesi sul Concordato scritta da amici. La sua collega radicale Emma Bonino invece è bocconiana come Mario Monti e Corrado Passera. Ma è stata una delle ultime a laurearsi nel corso in Lingue straniere, soppresso nel 1972.

Gianfranco Fini ha una laurea in Pedagogia ottenuta a 23 anni con pieni voti a Roma, ma senza frequentare le lezioni: nel 1975 i neofascisti del Msi venivano picchiati se osavano mostrarsi a Magistero, feudo dell’ultrasinistra. Non sono laureati i grillini Luigi Di Maio (otto esami in cinque anni fra Ingegneria e Legge) e Vito Crimi (fuoricorso in Matematica).
Mauro Suttora

Friday, December 23, 2016

Sopra la panca, Ivanka



IL PRESIDENTE TRUMP SCEGLIE LA FIGLIA COME SUO NUMERO DUE

di Mauro Suttora

settimanale Oggi, 23 dicembre 2016 

Il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump sostituirà la First Lady con la First Daughter? Sua moglie Melania non si trasferirà con lui alla Casa Bianca il 20 gennaio. Ufficialmente perché non vuole far interrompere al figlio l’anno scolastico a New York. Ma in realtà tutti sanno che all’ex modella slovena, terza moglie di Trump, la politica interessa poco. E quando ha cercato di aiutare il marito spesso ha combinato disastri. Come alla Convention democratica della scorsa estate, quando ha copiato un discorso di Michelle Obama.

La figlia Ivanka Trump, invece, è sempre accanto al presidente da quando, 40 giorni fa, è stato eletto. Addirittura partecipa assieme a lui a vertici internazionali come quello con il premier giapponese Shinzo Abe.

Finta bionda come mamma Ivana, naso e seno rifatti, tre figli, la 35enne Ivanka non si limita a presenziare. L’arrembante daughter, infatti, è capace di organizzare scherzi orrendi a politici e vip che, dopo aver insultato il padre, ora si recano in mesta processione a baciargli la pantofola nella Trump Tower di Manhattan.

La prima vittima è stato l’ex vicepresidente Al Gore, premio Nobel e Oscar. Dopo un colloquio di mezz’ora con lei e cinque minuti col padre è sceso nell’atrio magnificando le idee “ecologiste” di Ivanka. Risultato: tre giorni dopo Trump ha nominato ministro dell’Ambiente un tizio che nega il cambiamento climatico.

Poi è stato Leonardo DiCaprio a finire nella rete della furba figlia. Anche lui democratico e ambientalista militante, è andato a Canossa senza ottenere alcun risultato.

L’ultimo incredibile voltafaccia propiziato da Ivanka col marito Jared Kushner è stato quello dei big del computer. Bill Gates di Microsoft e i capi di Apple, Google e Amazon, tutti supporter di Hillary Clinton fino a novembre, si sono lanciati in un coro di adulazioni per il «nuovo John Kennedy» (così lo sprovveduto Gates ha definito Trump). «Dobbiamo collaborare con chiunque sia al potere», si giustificano i neopatrioti.

«Mio padre mi ha insegnato a colpire per prima gli avversari, così capiscono subito con chi hanno a che fare»: parola di Ivanka a David Letterman nel suo show tv pochi anni fa. La ragazza non è cambiata. E ora si appresta a trasferirsi a Washington con il “first genero” Jared per essere la principale scudiera di Donald.

Dribbleranno la legge del 1967 contro il nepotismo che vieta al presidente dinominare parenti (come fece Kennedy col fratello Bob procuratore generale), evitando di percepire compensi. A Ivanka basterà incassare i 4 milioni di dollari del suo appartamento su Park Avenue messo in vendita a New York per rientrare nelle spese.

Lei non è stupida: ha frequentato il liceo di Jackie Kennedy a Manhattan, si è laureata a 23 anni in Economia nella stessa università del padre, la Wharton business school in Pennsylvania. E il marito Kushner continuerà a fare l’eminenza grigia on line di Trump, con la sua strategia di bufale per bypassare gli odiati giornalisti.
Mauro Suttora


I POTENTI IN GINOCCHIO DAVANTI A LORO

Questa foto fa capire subito il nuovo clima che si è instaurato negli Stati Uniti verso il nuovo presidente Donald Trump. Osteggiato e insultato durante la campagna elettorale, quando nessuno pensava potesse vincere, ora i potenti di Wall Street (finanza) e Silicon Valley (computer) fanno a gara per ottenere un incontro con i Trump nella sua Tower di New York. E a tutti i vertici c’è Ivanka (qui sotto indicata dalla freccia, accanto al fratello Eric), che spesso promuove in prima persona gli incontri.

Questo, in particolare, ha visto presenti i big californiani di Apple (Tim Cook, fuori dall’inquadratura), Facebook e Amazon (Jeff Bezos, quinto da sinistra). La California ha votato contro Trump al 70 per cento, e New York all’80, ma adesso i cosiddetti “poteri forti” mettono le vele al vento, e si rassegnano a collaborare con quello che ritenevano soltanto un personaggio folkloristico. La Borsa sembra approvare: da quando Trump è stato eletto, è ai massimi storici.
Mauro Suttora


Friday, December 09, 2016

Gli scandali Vatileaks

di Mauro Suttora

dicembre 2016 - speciale Oggi per gli 80 anni di papa Francesco

Il 19 maggio 2012 Gianluigi Nuzzi, giornalista del quotidiano Libero, pubblica il libro Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI. È il suo secondo volume sugli intrighi della Santa Sede, dopo Vaticano S.p.A. (2009).

Il libro rivela lotte di potere attorno alla banca del Vaticano, lo Ior (Istituto per le opere di religione). Viene scritto grazie a una fuga di documenti interni riservati su irregolarità finanziarie che coinvolgono l'allora segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone. Altri documenti rivelano addirittura un presunto piano per uccidere papa Benedetto XVI.

Lo scandalo prende il nome «Vatileaks» dall’inglese leaks (fughe di notizie), per assonanza con le rivelazioni di Wikileaks, l’organizzazione di Julian Assange che dal 2007 aveva pubblicato un’enorme quantità di documenti segreti di governi occidentali.

Papa Benedetto XVI istituisce una Commissione d’inchiesta composta da tre cardinali per individuare la spia interna. Il 24 maggio la Gendarmeria vaticana arresta per furto aggravato Paolo Gabriele, aiutante di camera del Papa da sei anni, uno dei suoi uomini di maggior fiducia: aveva carteggi riservati personali del Papa. Nello stesso giorno viene allontanato Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior.

Un “corvo” (termine ripreso dalla “stagione dei veleni” di vent’anni prima a Palermo, che aveva nel mirino il magistrato Giovanni Falcone) rivela che le persone coinvolte nello scandalo sarebbero una ventina.

Il 30 maggio Benedetto XVI, al termine della sua udienza settimanale, definisce «esagerate» le rivelazioni, che «hanno offerto una falsa immagine della Santa Sede. Gli eventi degli ultimi giorni riguardo alla Curia e ai miei collaboratori hanno portato tristezza nel mio cuore». L’amarezza è tale che nove mesi dopo si dimetterà (non solo per Vatileaks, naturalmente).
  
Nell’autunno 2012 Paolo Gabriele e l’informatico Claudio Sciarpelletti, dipendente della segreteria di Stato, vengono processati dal tribunale della Città del Vaticano. Dopo una settimana Gabriele è condannato a tre anni di carcere, ridotti a un anno e mezzo. Il 22 dicembre Benedetto XVI lo visita e lo grazia. Sciarpelletti viene condannato a 4 mesi, ridotti a 2 e infine condonati.

Un secondo scandalo Vatileaks avviene nel novembre 2015. Vengono arrestati due “corvi”: monsignor Lucio Angel Vallejo Balda, 54enne spagnolo che papa Francesco aveva nominato nel 2013 segretario di una commissione per la riforma della struttura economica-amministrativa della santa Sede, e Francesca Immacolata Chaouqui, 34enne calabro-marocchina, sua collaboratrice nella stessa commissione. La Chaouqui, soprannominata “la papessa”, viene rilasciata perché collabora alle indagini.

L’accusa è ancora di sottrazione di informazioni riservate dello stato del Vaticano, e sempre per un libro di Nuzzi: Via Crucis. Da registrazioni e documenti inediti la difficile lotta di Papa Francesco per cambiare la Chiesa. Un altro beneficiario dalle rivelazioni è il giornalista del settimanale Espresso Emiliano Fittipaldi, che sullo stesso argomento scrive il libro Avarizia.  Le informazioni riguardano le spese della Santa Sede, già messe sotto indagine da papa Francesco.

I due giornalisti vengono processati dal Vaticano e assolti nel luglio 2016 per «difetto di giurisdizione»: la consegna dei documenti segreti non è avvenuta nel territorio della Santa Sede. E comunque il tribunale afferma che «il diritto divino garantisce la manifestazione del pensiero e la libertà di stampa nell’ordinamento giuridico vaticano».

Nello stesso processo monsignor Vallejo Balda è stato invece condannato a un anno e mezzo di carcere che sta scontando, nella speranza di un perdono papale; la Chaouqui a dieci mesi, con pena sospesa. Non sono mancati particolari piccanti, come una relazione fra la Chaouqui e il monsignore smentita da quest’ultimo.
Mauro Suttora