Friday, December 31, 1999

Elda Lunelli: la regina degli spumanti compie 90 anni

LA CAPOSTIPITE DELLA FAMIGLIA DEGLI SPUMANTI FERRARI CI RACCONTA LA SUA STORIA

dal nostro inviato a Trento Mauro Suttora

Oggi, 17 dicembre 1999

Ha appena festeggiato i 90 anni, ma da 65 ogni giorno va a lavorare nella sua enoteca, saluta i clienti, controlla la cassa, firma i documenti (ha la carica di amministratrice unica) e porta l’incasso in banca. È Elda Prada Lunelli, la matriarca della dinastia (cinque figli e sei nipoti: «Ne ho fatti più io di loro», scherza) famosa perché produce lo spumante Ferrari, il più venduto in Italia con Berlucchi fra quelli a metodo classico (champenois). E fra i primi dieci in Europa, ormai: nulla più da invidiare agli champagne, dei quali il Ferrari non può usare il nome soltanto per la Denominazione di origine controllata (Doc) che protegge i francesi.

Quattro milioni e 300 mila bottiglie vendute nel 1999, con ritmi di aumento del 20 per cento annuo: «La crescita potrebbe essere anche maggiore, ma preferiamo garantire la qualità piuttosto che inseguire la quantità», ci spiega il primogenito Franco Lunelli, 64 anni, nella sede in stile californiano delle cantine Ferrari accanto all’autostrada del Brennero, all’altezza di Trento. Nel centro della città, in largo Carducci, sua mamma segue l’enoteca di famiglia: ogni mattina e ogni pomeriggio si reca in negozio assistita dalla figlia Carla e dalla nipote Alessandra, diciannovenne universitaria di Economia e commercio. E tutti gli altri figli (Giorgio, Mauro, Gino) dirigono l’azienda.

Appena sposata con Bruno Lunelli, nel 1934, la signora Elda si dedica alla bottega, che allora si chiamava «mescita». Durante la guerra rimane sola con i figli, suo marito finisce a combattere sul mar Baltico, ma lei non si arrende: «C’era poca roba da vendere, da comprare e da mangiare, ma il negozio l’ho voluto tenere aperto lo stesso».

La svolta arriva nel 1952, quando Bruno Lunelli fa la pazzia di acquistare il marchio dello spumante Ferrari di Trento, soffiandolo a concorrenti come la grande Motta di Milano, per una cifra allora enorme: 30 milioni di lire (due-tre miliardi di oggi).
 
«È stata la scommessa più importante della nostra vita», ricorda la signora Elda, «perché quei soldi in realtà mio marito non li aveva: metà se li fece prestare dalle banche, per l’altra metà firmò cambiali. E in cambio di nulla: soltanto il ‘nome’ Ferrari, aveva comprato. Ma il mio Bruno possedeva un dono: ovunque toccava faceva affari. Così, già il primo anno aumentò la produzione da ottomila bottiglie a ventimila. E dopo due anni i debiti erano pagati».

Negli anni Sessanta le bottiglie Ferrari diventarono 80mila all’anno, negli anni Settanta 300mila, nel 1982 si toccò il milione, nel ‘91 tre milioni e oggi, oltre allo spumante, la famiglia Lunelli produce anche l’acqua minerale Surgiva, la grappa Segnana e il vino Lunelli. 

La signora Elda festeggia ogni anno il Natale radunando i parenti nella sua casa in centro, dove dopo la morte del marito (quasi trent’anni) fa vive con la sorella 87enne: «Quest’anno, però, eravamo in troppi, così siamo andati in una sala dell’azienda».

Hanno brindato con le bottiglie della Riserva Ferrari, otto anni d’invecchiamento: le stesse con cui festeggeranno per primi il nuovo millennio il re di Tonga e il presidente di Kiribati, le isole del Pacifico dove l’alba del Duemila anticiperà tutto il mondo. Gliele hanno spedite i Lunelli da Trento, che per diplomazia hanno declinato l’invito del re di Tonga a brindare assieme a lui: sarebbe stato uno sgarbo per Kiribati, che contende all’altra isola il primato geografico.

Sono molto attenti alle relazioni internazionali, i Lunelli. Così lo spumante Ferrari è finito su tutte le tavole che contano al mondo, da Reagan a Gorbaciov, da Mitterrand alla Thatcher e a ogni summit internazionale. 

Un’altra particolarità: il Ferrari non si è mai fatto réclame. Niente pagine pubblicitarie sui giornali, niente spot in Tv: «Ci basta il passaparola», dicono sornioni a Trento. E nonna Elda brinda con la «schiava», un calice di spumante allungato con acqua.

Mauro Suttora

Monday, December 06, 1999

Hanno paura del presepe

Una scuola elementare di Milano lo vuole abolire

Il Foglio, 6 dicembre 1999

di Mauro Suttora

Duemila anni esatti dopo la nascita di Gesù Bambino, stiamo uccidendo il presepe. Siamo diventati così politicamente e religiosamente "corretti", che ci vergogniamo perfino delle tradizioni più gioiose e inoffensive della cultura italiana. Anche a casa nostra.

Succede che in una scuola elementare comunale dell'evolutissima Milano (via Pallanza, quartiere Maggiolina, zona benestante) maestre e direttrice rifiutano di fare il presepe per Natale. Dicono che "è un simbolo troppo nostro, cristiano, occidentale: i bimbi di altre religioni potrebbero sentirsi esclusi". Dopo le proteste di diverse mamme, viene convocata un'assemblea. Partecipano 40 madri su 80. In questo asilo i bambini extracomunitari, contrariamente ad altre zone di Milano, sono pochissimi: cinque o sei. Due cattolici (un sudamericano e un filippino). Due cinesini di due anni, che frequentano il "raccordo" fra asilo nido e scuola materna: i loro genitori non partecipano all'assemblea, presumibilmente non gliene importa assolutamente nulla del nostro delirante buonismo.

La direttrice ribadisce: "Il Natale lo festeggiamo, però all'insegna del 'dono' e del 'fare'". Quindi l'albero (simbolo pagano) sì, ma il presepe no. Una mamma azzarda: "Ma per i bimbi è soltanto un gioco, facciamo portare a ciascuno di loro una statuina da casa..." Un'altra, timidamente sconcertata: "Ma la festa si chiama Natale appunto perché è nato qualcuno, no?" Un'altra ancora: "Il presepe è un'invenzione di San Francesco, è un'usanza popolare: non mi sembra propaganda religiosa. Possiamo festeggiare anche le ricorrenze di altre religioni, se qualche genitore lo chiederà". Niente da fare. Meglio nessuno che tutti.

Prende la parola la madre più decisa: "Io ho vissuto all'estero, in Paesi di religione diversa dalla nostra, e non ho mai visto una tale rinuncia alle proprie tradizioni. Né io mi sono sentita offesa dalle manifestazioni di religiosità locale: al contrario, ne ero attratta per curiosità".

Ma a questo punto si alza una mamma che si autodefinisce "cattolica e praticante", e sentenzia: "Non so neanche se il regolamento permetta di mettere gli allievi di una scuola pubblica a contatto con il simbolo di una religione ben precisa, com'è il presepe. Fatevelo a casa. Oppure iscrivete i vostri figli in istituti privati. Non dobbiamo mettere in imbarazzo gli altri bambini con feste che non sono le loro, alle quali non sono in grado di partecipare tutti". Coro: "Ma il Natale si festeggia comunque! Lo vogliamo ridurre soltanto a una questione di regali, consumistica, all'americana, di business?"

Qualcuno propone di votare. Altolà della direttrice: "Manca la metà dei genitori, e poi bisogna comunque rispettare le minoranze. Lo stesso fatto che ne stiamo parlando da così a lungo dimostra che questo del presepe è un argomento delicato, non condiviso da tutti". Le povere mamme si fanno piccole e timide come le pecorelle del presepe che desidererebbero: meglio non contestare troppo le maestre e la "dirigente", è fastidioso mettersi contro chi tiene in mano i propri figli tutto il giorno. Qualcuno la butta sulla scherzo: "Vabbè, pazienza, poi magari qualcuno ci potrebbe accusare anche di propaganda politica per la presenza dell'asinello..."

Da questa surreale vicenda nell'asilo milanese non ci permettiamo di estrarre conclusioni importanti, anche se l'impressione è quella di un'intera civiltà che pratichi l'harakiri. E che lo faccia inconsapevolmente, in nome di una demenziale tolleranza non richiesta, è un po' agghiacciante. Certo che, dopo il libro di storia fazioso, ci mancava solo il presepe pericoloso. Sono queste, purtroppo, le buffe cronache dall'Italia nell'era dell'Ulivo (oddio, presto, cambiate nome, qualcuno potrebbe offendersi...)

Wednesday, December 01, 1999

Siamo antiamericani?


Dibattito tv a "Tout le monde en parle", France 2

di Mauro Suttora

Il Foglio, 1 dicembre 1999

Sul vertice di Seattle è stato detto di tutto, ma il canale France 2 l’altra sera ha preso il toro per le corna e ha posto la vera domanda: «Non è che siamo antiamericani?» A rispondere, un piccolo parterre des rois. Jack Lang, indimenticato ministro della Cultura di François Mitterrand, cade subito nella trappola e (ri)comincia a prendersela con gli Usa, protestando perché «gli americani hanno installato una loro enorme multisala proprio nel cuore di Cinecittà, a Roma, dove sono stati girati i film più belli del dopoguerra». «Non c’è alcuno scandalo», lo rintuzza subito lo scrittore Jean Yanne, «sono stati gli stessi italiani a chiamare gli americani, e adesso tutti sembrano contenti».

Sì, il cinema statunitense ha grandi idee, audacia e innovazione, concede (bontà sua) il grand protecteur dei registi europei, però «noi dobbiamo incoraggiare positivamente la nostra creazione originale, sono inquieto per la crisi del nostro cinema».

Fa bene a inquietarsi, Lang: nonostante le centinaia di miliardi regalate a produttori e registi francesi (o probabilmente proprio a causa di questo finanziamento statale, che incoraggia l’onanismo tendenziale del metteur en scene gallico affrancandolo dal giudizio del pubblico), ormai soltanto due francesi su dieci accettano di farsi tediare dal cinema nazionale. «Questo crollo al 20 per cento mi preoccupa», ammette Lang, «però a Seattle sono tutti d’accordo: la cultura non dev’essere considerata una merce».
 
È questa la magica, attraente parola d’ordine dei protezionisti: non riduciamo tutto a merce. E quei pescecani delle majors americane non protestino troppo per i soldi che Parigi preleva sui biglietti dei loro film, girandoli ai produttori francesi. I quali, a detta del regista Pierre Jolivet, sarebbero nientemeno che benefattori continentali: «La Francia coproduce i film di Pedro Almodovar e Nanni Moretti, siamo l’ultimo polo sfuggito all’egemonia americana, tutti i cineasti d’Europa sognano un sistema come il nostro. Perfino il regista americano David Lynch, che ha problemi a casa sua, ci ha chiesto aiuto. La verità è che gli Usa riducono tutto a mercato, non gliene frega niente della cultura. Lo sostiene anche Robert Redford, che proprio per difendere il cinema di qualità ha creato il Sundance film festival».

L'altra parola chiave, quindi, è "eccezione culturale". Ovvero: libera circolazione mondiale per merci e capitali, ma non per le opere artistiche. "Dobbiamo proteggere le nostre culture nazionali dall'invadenza americana", è stato il ritornello dei francesi sia negli ultimi negoziati Gatt del 1994, sia oggi a Seattle. Tasse sui film, allora, e anche quote contro serial e canzoni americane in tv e alla radio.

"Ma non serve a niente, con le linee Maginot abbiamo sempre perso", attacca il musicista rock Jean-Louis Murat, "l'80 per cento della musica che i giovani francesi ascoltano è anglosassone. Anche perché il risultato del nostro protezionismo è che dopo 40 anni ci dobbiamo beccare ancora Johnny Halliday, mentre negli Stati Uniti la vetta della hit parade cambia ogni tre mesi, c'è più movimento e alla fine vince il migliore. Anche in altri campi siamo invasi, è vero, oggi ci sono più McDonald's a Parigi che a New York. Ma nei ristoranti francesi con meno di 500 franchi si mangia merda".

Aggiunge il liberale Laurent Dominati: "Gli spettatori americani rifiutano i film francesi, e i nostri cineasti sostengono che questo accadrebbe perché non sono doppiati in inglese. Ma in Italia, dove il doppiaggio c'è, il cinema francese langue egualmente al due per cento. E noi, nonostante l’’eccezione culturale’ di cui andiamo così fieri, siamo invasi dai film Usa". Tocca all'americano Harvey Feigenbaum, timido professore della Georgetown university, concludere lapalissianamente: "E' giusto difendere la cultura, ma se continuate a girare film che nessuno vuole vedere, non difenderete niente. E da parte nostra non c'è alcun pregiudizio: gli americani in realtà sono innamorati della Francia, che è il Paese più visitato dai turisti Usa".

La parola in collegamento da Seattle a José Bové, contadino del Larzac diventato famoso la scorsa estate per avere assaltato un McDonald's: "Non sono antiamericano, anzi: i consumatori statunitensi guidati da Ralph Nader sono nostri alleati, perché anch'essi non vogliono ingurgitare alimenti manipolati geneticamente e carne agli ormoni. Pure gli agricoltori Usa sono in crisi, se continua così il 25 per cento di loro sparirà entro pochi anni, quelli del Texas e dell'Alaska sono con noi, c'è un'altra America che non conosciamo, un'America profonda..."

La Francia profonda, invece, è perfettamente rappresentata da Philippe de Villiers, ex gollista diventato poujadista antieuropeo: "Gli Stati Uniti hanno l'idea della cultura unica, invece bisogna combattere per la diversità, e salvaguardare la nostra agricoltura di qualità con un sistema legittimo di preferenze nazionali". Poi, l'inevitabile stoccata contro Bruxelles: "La Francia, quarta potenza economica ed esportatrice mondiale, contrariamente a paesi come le Maldive o le Grenadine, a Seattle è assente. Ci dovrebbe difendere l'Unione europea, ma anch'io non voglio i cibi transgenici e la carne agli ormoni".

Più a destra di De Villiers rimane soltanto Le Pen, ciononostante Jack Lang non si imbarazza a fargli eco da sinistra: "Sì, non si può separare l'agricoltura dalla cultura! Cinque anni fa eravamo in pochi a batterci contro l'ideologia del mercantilismo, ma oggi la ribellione si è estesa a molti paesi". Niente libero mercato, quindi, anche se per Lang "questa partita non si gioca in opposizione agli Usa, ma salvaguardando la nostra identità giorno dopo giorno".

Identità francese oggi significa anche, nei cartoni animati, Asterix contro Topolino. Chi sta vincendo? Sette anni fa, dopo brusche polemiche, si apriva Eurodisney vicino a Parigi. È stato un successo clamoroso: dodici milioni di visitatori, nonostante il prezzo medio per una famiglia di quattro persone sia di 300mila lire. I francesi si consolano perché gli americani hanno acconsentito ad aggiungere anche uno spazio per l’europeo Pinocchio, e hanno dedicato a Jules Verne il percorso sulla conquista dello spazio. Ma sembrano orgogliosi soprattutto per il vino (bandito da Disneyland in California e da Disneyworld in Florida), che alla fine è stato affiancato alla Coca Cola nel parco d’attrazioni europeo. «All’epoca ero segretario alla Cultura», rivendica patetico De Villiers, «e ottenni che le strade di Eurodisney fossero almeno sottotitolate in francese». Insomma: una dêbacle.

«La verità è che siamo stati noi europei incapaci di creare un’alternativa a questo topo Usa», ammette il gollista Pierre Lellouche, presidente della Commissione esteri dell’Assemblée nationale. «Lo confesso: anch’io pensavo che Eurodisney non avrebbe funzionato, invece mi sono completamente sbagliato. Ora perfino i comunisti cinesi vogliono Disney! Ma la risposta non sono le barriere nazionaliste. Oltretutto, la liberalizzazione degli scambi è un fattore di pace: quando commerciano, i popoli non si fanno la guerra».

Anche dal regista di sinistra Romain Goupil arriva, a sorpresa, un elogio della globalizzazione: «Mi ritengo cittadino del mondo, nato in Francia per caso, e sono convinto che la mondializzazione sia un bene. Un esempio? Il tribunale penale internazionale che sta per nascere, permettendo di punire dittatori e stragi commesse in tutto il pianeta. E questa tanto vituperata Organizzazione mondiale del commercio può fare da arbitro fra 132 nazioni, evitando conflitti di ogni tipo».
Scusi, ma lei si definisce liberale?, domanda incredula la conduttrice di France 2.
«No, libertario. Non ho territorio, non voglio frontiere, vinca il migliore. Nessuno obbliga i francesi a mangiare da McDonald’s, a bere Coca Cola e ad andare a Eurodisney». «Viceversa», aggiunge Yanne, «gli americani sono felici di farsi invadere dalla cucina messicana, dalla pizza italiana, dalla nostra acqua minerale Perrier e da Danone».

E il foie gras cui gli Usa hanno proibito l’importazione? Assieme al roquefort (il formaggio di cui gli Usa hanno proibito l’importazione per vendicarsi del protezionismo europeo sulle banane), il paté di fegato d’oca negli anni scorsi è stato un argomento caldo in mano agli antiamericani francesi: imponendo un dazio del 100 per cento, gli Stati Uniti ne hanno limitato enormemente il consumo.
Ma qui sono i verdi francesi, nemici giurati dell’Omc nonché degli Usa in quanto manipolatori genetici, consumisti e spreconi di energia, a difendere una volta tanto Washington: «Quel provvedimento è stato adottato sotto pressione degli animalisti americani, choccati dalle immagini tv che mostrano come ingozziamo le nostre povere oche del Perigord».

Dalle stalle alle stelle: «I missili Ariane e gli aerei Airbus sono due esempi di come possiamo sfidare con successo gli americani», dice Lellouche, «basta abbandonare i complessi d’inferiorità e riacquistare fiducia in noi stessi».
«Ma quale fiducia può avere quella vecchia signora un po’ stanca che è diventata l’Europa?», gli domanda Yanne.
«È vero», risponde Lellouche, «mezzo milione di francesi hanno lasciato la Francia perché non ne possono più degli ostacoli, della burocrazia e delle imposte che esistono qui».
«Sì, ma molti di quelli che si rifugiano in Inghilterra per motivi fiscali lasciano la famiglia a Parigi, e ogni week-end tornano a casa con il treno Eurostar», ribatte Jolivet. «Così godono contemporaneamente delle tasse basse inglesi, e della maggiore assistenza sociale francese».

Inevitabilmente, però, il dibattito torna sull’Omc (nessuno in Francia si sogna di chiamarla Wto, acronimo inglese, così come la Nato è Otan e l’Ocse a Parigi si chiama Oecd) e su Seattle: «Chi la disprezza perché la ritiene ostaggio delle multinazionali sappia che invece i paesi in via di sviluppo fanno la fila per entrarvi: ce ne sono 50 in lista d’attesa. Per loro, il libero mercato rappresenta la salvezza», sostiene Lellouche. «Però oggi come oggi il libero mercato non esiste, c’è il monopolio e la conseguente mercificazione del mondo», ribatte il contadino Bové. Dimenticando che «laissez-faire» è una parola francese.
Mauro Suttora

Friday, September 17, 1999

Beatles: Abbey Road

I BEATLES, O DELLA CAPACITA’ SUBLIME DI SAPER SCOMPARIRE AL MOMENTO GIUSTO

di Mauro Suttora

Il Foglio, settembre 1999

Trent’anni fa, il 26 settembre 1969, usciva nei negozi di tutto il mondo “Abbey Road”, l’ultimo disco dei Beatles. Sulla copertina, una foto di loro quattro che attraversano in fila indiana le strisce pedonali. Quelle di Abbey Road, appunto, una strada del quartiere londinese chic di Saint John’s Wood dove si trovano ancor oggi gli studi della casa discografica Emi. E dove tuttora, ogni giorno, centinaia di fans si esercitano nella discutibile operazione di farsi fotografare sulle stesse strisce pedonali, come souvenir. Risultato: code di macchine, perché in Gran Bretagna le zebre vengono rispettate, e in teoria se il flusso dei pedoni su di esse fosse continuo (come lo è quando ad Abbey Road transitano mandrie di beatlemaniaci) il traffico si bloccherebbe completamente.

Molti sono convinti che l’ultimo disco dei Beatles sia “Let it be”. Ciò è vero e falso assieme. Vero, perché effettivamente “Let it be” fu pubblicato nel maggio 1970. Ma le sue canzoni erano state registrate già nel gennaio ‘69, prima di “Abbey Road”. Che si può quindi fregiare del titolo di canto del cigno del complesso più famoso del secolo.

Stesso dilemma per la vera data di scioglimento del gruppo. Gli esegeti più rigorosi la fanno risalire al 10 aprile ‘70, quando Paul McCartney annunciò pubblicamente di non voler più incidere con i Beatles. Ma, come in tutte le coppie che scoppiano, il dissidio fra lui e John Lennon era esploso assai prima. Già nel 1968 si poteva parlare di «separati in casa», visto che grazie alle nuove tecniche di incisione ognuno dei membri del quartetto andava in studio a registrare la propria parte di canzone indipendentemente dagli altri.

Non è arbitrario, quindi, fissare al settembre ‘69 la data di scioglimento dei Beatles, facendola coincidere con l’ultima traccia della loro produzione artistica. Pochi giorni fa sono stati ben 300 mila i fans accorsi a Liverpool per commemorare il trentennale con la riedizione del cartone animato “Yellow Submarine”. Ma cosa facevano i Fab Four in quell’epoca? Intanto, erano giovanissimi. George Harrison aveva 26 anni, McCartney 27, Lennon 28 e Ringo Starr 29. È incredibile pensare che musicisti paragonati a Bach e Mozart, o perlomeno a Duke Ellington e George Gershwin (per restare nel Novecento), abbiano deciso di sciogliere un sodalizio così proficuo a un’età così precoce. Se poi si calcola che fino a metà 1963 erano degli sconosciuti, si scopre che tutta la loro arte si è concentrata in appena sei anni di attività: un prodigio anche questo. Ma, soprattutto, va riconosciuta ai Beatles (e a loro soltanto) la capacità sublime di saper scomparire al momento giusto.

Il 1969, infatti, rappresenta un anno cardine nella storia del rock. Soltanto il 1967 può eguagliarlo come ricchezza musicale. In quel periodo di grandi cambiamenti, la musica e il costume evolvevano di mese in mese. Naturalmente erano i Beatles a dettare il passo. Ma, in qualche modo, nel ‘69 si era spezzato qualcosa. Era stato raggiunto un apice insuperabile, e tutti i musicisti più avveduti se ne rendevano conto. In California quell’estate con la strage di Charles Manson a Bel Air (vittima Sharon Tate, bellissima moglie di Roman Polanski) era finita l’era degli hippies peace&love.

I festival di Woodstock e dell’isola di Wight (a quest’ultimo tutti i Beatles tranne Paul parteciparono il 31 agosto ‘69, come spettatori dell’esibizione di Bob Dylan) rappresentavano anch’essi uno zenit, seguìto a poche settimane dal disastro di Altamont, dove a un concerto dei Rolling Stones fu ucciso uno spettatore. Perfino l’uso della droga fra i musicisti delineava una parabola fatale: innocua marijuana nel ‘66, lsd nel ‘67, cocaina nel ‘68, eroina nel ‘69. Come nella guerra del Vietnam, era un’escalation senza ritorno. Lo stesso Lennon diventò eroinomane assieme alla sua Yoko Ono nel ‘69, ma riuscì a disintossicarsi quasi subito e raccontò il tremendo tunnel della crisi d’astinenza nel 45 giri “Cold Turkey”, che uscì in ottobre.

I Beatles fiutarono la fine del periodo d’oro dei favolosi anni Sessanta e chiusero bottega in bellezza, evitando l’agonia di tutti gli altri complessi, compreso l’attuale gerontorock degli Stones. Non hanno mai accettato le offerte favolose per riunirsi anche solo una volta, e ciò ha reso eterno il loro mito. «Meglio bruciare che arrugginire/ma il rock&roll non morirà mai», canterà Neil Young. I Beatles non sono né bruciati né arrugginiti: grazie ad “Abbey Road”, si sono semplicemente congedati con un coloratissimo capolavoro. Nel quale, pochissimi lo sanno, c’è lo zampino della nostra Sardegna. In Costa Smeralda, infatti, era scappato Ringo Starr dopo una lite con McCartney che pretendeva di costringerlo a suonare la batteria in un certo modo. Lì, folgorato dalla bellezza dei fondali durante un’immersione, compose il suo unico capolavoro: “Octopus’s Garden” (“Il giardino delle piovre”). Ringo raccontò a George quant’era bella Porto Cervo, e così anche Harrison ci passò tre settimane nel giugno ‘69 con la moglie Patty.

Al suo ritorno cominciarono le sedute di registrazione ad Abbey Road. Andarono avanti per due mesi, ma per gli inglesi è naturale lavorare d’estate. Tanto, a Londra piove anche in agosto. La prima canzone a essere registrata fu “Something” di Harrison. Il povero George era sempre stato snobbato dal duo Lennon-McCartney: era considerato il cucciolo del gruppo, e in ogni disco gli lasciavano spazio per un suo solo brano. Questa volta però Harrison si presentò negli studi Emi con due capolavori: “Something” e “Here comes the sun”. «“Something” è la più grande canzone d’amore degli ultimi cinquant’anni», sentenziò nientemeno che Frank Sinatra, e in effetti è stata superata soltanto da “Yesterday”, fra tutte le canzoni beatlesiane, come numero di versioni registrate da altri cantanti.

“Here comes the sun“ (“Ecco che torna il sole“) ha invece una genesi piccante. Harrison la compose, estasiato per il ritorno della primavera in un pomeriggio di pallido sole britannico, nel giardino della villa del suo grande amico Eric Clapton. Il quale però nel frattempo seduceva e gli rubava sua moglie Patty, alla quale l’anno dopo avrebbe dedicato il proprio capolavoro “Layla”. George, obnubilato dalla filosofia indiana, commentò rassegnato: «Meglio che Patty stia con un ubriacone come Eric, piuttosto che con qualche eroinomane». E gliela lasciò volentieri, rimanendogli amico (i due suonarono assieme nel memorabile Concerto per il Bangladesh dell’agosto ‘71, padre di tutti i Live Aid della futura carità rock).

La canzone più famosa di “Abbey Road” è “Come together” di John Lennon. Il ritornello sporcaccione («Vieni assieme/proprio adesso/su di me») è un inno all’orgasmo simultaneo, ma i fans più politici andarono in visibilio per la frase «One thing I can tell you is you got to be free» («L’unica cosa che posso dirti è che devi essere libero»). Purtroppo la musica è completamente copiata da “You can’t catch me” di Chuck Berry, i cui avvocati citarono Lennon e lo obbligarono, per risarcirlo, a incidere tre sue canzoni - pagando i relativi diritti d’autore - nell’album “Rock’n’roll” del ‘75. Ma John in quel periodo era così preso dall’eroina e da Yoko (due droghe per lui egualmente letali) che non si peritò neppure di celare il plagio, e anzi lasciò proprio all’inizio della canzone una frase del testo di Berry (“Here comes old flat-top, he come”). Lennon come Mauro Pili, il forzista sardo «ispirato» da Roberto Formigoni?

Il particolare più inquietante di “Come together”, però, risiede nel sussurro di John dopo i battiti di mani nelle prime quattro battute: «Shoot me» («Sparami»), dice, consiglio preso alla lettera dal suo assassino pazzo Mark Chapman nel 1980.

“Abbey Road“ nasconde dentro sé una miriade di gioielli semisconosciuti, canzoncine lunghe neanche un minuto cucite assieme in un «medley» confezionato sapientemente da McCartney e dal produttore George Martin. Sul modello di “A day in the life” del 1967, in cui 40 secondi composti da Paul erano incastonati in un brano di John, questa volta alla notevole “Because” di Lennon segue “You never give me your money” di McCartney (allusione acida contro il manager Allen Klein accusato di lucrare sui proventi miliardari del gruppo), e poi tre frammenti bizzarri di Lennon (“Sun king”, “Mean Mr. Mustard”, “Polythene Pam”, che esibiscono raffinati coretti con sovrapposizioni di voci in quarta, quinta e undicesima tonalità), per poi sfociare nella ”She came in through the bathrooom window” (“Entrò dalla finestra del bagno”) di McCartney, che racconta un episodio realmente accaduto di una fan penetrata a casa sua, canzone resa celeberrima dalla versione di Joe Cocker.

Rauco come Cocker Paul volle diventarlo per esibirsi in "Oh! Darling", una parodia di canzone anni Cinquanta splendidamente riuscita. Poiché da tre anni non si esibiva più in pubblico (tranne il concerto sul tetto dell’edificio Apple nel gennaio ‘69), dovette arrivare in studio il mattino presto e urlare come un ossesso, finché la sua ugola non fu riallenata allo stile Little Richard. Un’altra chicca è la brevissima canzone “Her majesty”, sottile presa in giro di qualche misteriosa principessa reale un po’ stupidina. Dice il testo: «Sua maestà è una ragazza proprio carina/ ma non ha molto da dire/ Sua maestà è proprio carina, ma cambia da un giorno all’altro...» Nessuna reazione dalle parti di Buckingham Palace, ma i sudditi britannici trovarono il brano deliziosamente «naughty», impertinente.

Anche “Abbey Road”, come tutti gli Lp dei Beatles, contiene delle vere e proprie schifezze. È il caso di “Maxwell’s silver hammer”, imputabile a Paul, e di “I want you”, rumoroso obbrobrio di John dedicato alla nociva Yoko. Lennon e McCartney continuavano a firmare assieme i loro brani per forza d’inerzia, ma ciascuno detestava queste due canzoni: John si rifiutò perfino di incidere la sua chitarra su “Maxwell’s...”

La fine di “Abbey Road”, invece, è entusiasmante. Perfettamente consci di essere giunti al capolinea della loro carriera di complesso, i Beatles titolarono la loro ultima canzone “The end”. E il loro verso conclusivo è scolpibile nel marmo o incartabile in un bacio Perugina, a seconda dei gusti: «And in the end/the love you take/ is equal to the love you make» («Alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che dai»). Per i cantori del decennio della libertà, della gioventù, della pace e dell’amore, l’unico sorridente epitaffio possibile. Il sogno era finito. Addio anni Sessanta. Addio, Beatles.

Mauro Suttora

Sunday, August 01, 1999

Vivere di rendita

Personaggi famosi contrari a vivere di rendita

Capital, 01/08/1999

Che cosa fareste con un conto in banca garantito ? Niente. C'e' chi non ama sedersi sugli allori. Parola di Capanna, Mussolini & gli altri

di Mauro Suttora

Ma davvero vivere di rendita e' il sogno degli italiani ? O c' e' qualcuno che preferisce la carriera per dire ai figli: "Guarda che cosa ho costruito" ? La parola ai vip.

E' ora, e' ora, i soldi a chi lavora
Mario Capanna (leader del ' 68, scrittore, gia' eurodeputato)

"Vivere di rendita non mi piacerebbe. Anzi, la troverei una cosa schifosa. Non in base all' antico concetto del lavoro che nobilita l' uomo, ma perche' penso che ogni persona abbia il diritto a un' occupazione dignitosa e a una remunerazione equa. Considero i rentier, i benestanti che non devono lavorare per guadagnarsi da vivere, come dei mezzi uomini, e la rendita come una forma di parassitismo. Per questo a mio avviso le eredita' dovrebbero essere tassate in modo pesantissimo: non e' giusto che dei beni piovano addosso a chi non ha alcun merito.

Io guadagno quanto basta per vivere bene, e penso che se dovesse capitarmi una fortuna economica improvvisa questa si rivelerebbe piu' una fonte di preoccupazione che di gioia. Lo dimostrano d' altronde le vite dei ricchi: non sono quasi mai felici. Non riesco quindi a rispondere alla domanda "Di quanto avrebbe bisogno per vivere di rendita ?", perche' sono totalmente estraneo a questo modo di ragionare.

Se voglio fare un bel viaggio o togliermi qualche altra soddisfazione, cerco di farlo con i soldi che guadagno: queste cose perderebbero immediatamente di sapore se dovessi realizzarle grazie al regalo di uno zio d' America. Anche per questo non gioco mai a stupidaggini come il Lotto o il Totocalcio: proprio non mi interessano".


La barca ? Meglio una villa n' coppa a Posillipo
Alessandra Mussolini, deputata di An

"Per vivere di rendita mi basterebbe un miliardo e mezzo, perche' non ho un tenore di vita elevato. Amo le comodita' , ma per vivere bene mi bastano un aiuto in casa e un' auto normale. Non sono una di quelle che hanno bisogno di comprarsi l' auto di lusso o la barca: allora veramente i soldi non basterebbero mai. Invece a me non piace viaggiare, odio l' aereo. E dubito anche che smetterei di lavorare, perche' non lavoro per il guadagno. Dato il mio carattere, non riuscirei proprio a starmene passiva senza far nulla.

Con questi chiari di luna, pero' , per vivere di rendita da gran signore credo ci vorrebbe una cifra spropositata. Altrimenti sarebbe soltanto un' illusione, perche' ormai i tassi sono cosi' bassi che i soldi svanirebbero subito. Se improvvisamente mi arrivassero 10 miliardi, sarebbero troppi: mi troverei in difficolta' , dovrei affidarmi a una persona per gestirli, avrei paura di perderli. Insomma, comincerebbero i problemi. Forse li investirei nel mattone. E se proprio dovessi togliermi uno sfizio, comprerei una bella casa con vista a Roma o a Napoli: ci sono certe ville, a Posillipo...".


Meglio ricco in elicottero o famoso con il Ciao?
Andrea Pinketts, scrittore

"Per un certo periodo ho gia' vissuto di rendita. A 18 anni ereditai delle azioni di mio padre, ma soprattutto a 16 ero gia' entrato in possesso del patrimonio di una vecchia zia ottantenne, Olghina, proprietaria di uno dei piu' grossi vigneti di sangiovese in Romagna. Cosi' , nonostante abbia fatto duemila mestieri, fra i quali lo scrittore, per anni ho attinto a piene mani a una fonte che sembrava inesauribile. D' altra parte anche il protagonista autobiografico dei miei libri, Lazzaro Sant' Andrea (ultima uscita, Il conto dell' ultima cena, Mondadori), e' un dilapidatore di capitali agli sgoccioli.

Comunque, nonostante a causa della mia imprevidenza quell' eredita' sia ormai svanita, il mio tenore di vita non e' molto cambiato: prima ero ricco e potevo affittare un elicottero, ora sono famoso e posso affittare un Ciao. Per una buona rendita adesso chiederei una ventina di miliardi. Meta' li investirei seguendo i consigli di qualche amico fidato, ma con il resto non farei niente di speciale: continuerei a scrivere. Magari potrei permettermi qualche buona azione, che d' altra parte gia' faccio: per esempio, meta' dei diritti di uno dei miei ultimi libri, Un saluto ai ricci (Minotauro), li devolvo a un' associazione per la tutela dei ricci, nel senso di porcospini.

Quello che invece non farei piu' , perche' ho smesso di essere uno sprovveduto, e' aprire un locale come feci con i soldi dell' eredita' di zia Olghina: stava in via Savona a Milano, si chiamava Todo Modo, sarebbe dovuto diventare il tempio del cabaret ben prima dello Zelig. Invece falli' , e cosi' lo soprannominai Topo morto".


Dolce far niente ? Ma io mi annoio!
Martina Colombari, attrice

"Non so se mi piacerebbe vivere di rendita, perche' associo la parola "rendita" al far niente, mentre io sono una persona attivissima. Dopo due settimane di vacanza, comincio gia' ad annoiarmi. Sono sempre stata cosi' , anche da piccola: non stavo mai ferma, mai calma un attimo. Comunque, se ricevessi improvvisamente una grossa eredita' la prima cosa che farei sarebbe sistemare bene tutti i miei familiari, dai nonni ai genitori. Non che attualmente abbiano problemi: mio padre due anni fa ha venduto il ristorante che aveva, perche' si era stufato. Pero' mi piacerebbe fare qualcosa per loro, non terrei tutto per me. Poi aiuterei i bimbi in difficolta' per la guerra nel Kosovo o qualche associazione che segue i piccoli malati negli ospedali.

L' unico vero sfizio che vorrei togliermi: fare un bel viaggio al caldo d' inverno. Non riesco a quantificare una cifra mensile di cui avrei bisogno per vivere di rendita: certo e' che sono una spendacciona, anche se cerco di controllarmi. Pero' da cinque anni, cioe' da quando a 18 anni ho vinto il concorso di Miss Italia e ho cominciato a lavorare, mi mantengo da sola. La verita' e' che non seguo molto le faccende di soldi: e' mio padre a farlo per me, anche se mi tiene informata e mi fa capire. Io una volta al mese vado a Riccione a trovarlo, e lui mi aggiorna. Comunque, d' istinto risparmierei la meta' di quello che guadagno".


Attenzione a non perdere la voglia di vivere
Stefano Tacconi, ex portiere della Juventus

"Sono uno che non sta mai fermo, cerco sempre nuove emozioni. Come potrei fermarmi e vivere di rendita ? In realta' , con tutto quello che ho guadagnato finora, lo potrei anche fare. Ma continuerei comunque a lavorare, a muovermi, per il piacere di costruire qualcosa. Se si accetta il concetto della rendita si perde ogni stimolo per vivere, mi sentirei come una candela che si spegne.

Quale cifra vorrei per vivere di rendita ? Dico 10 milioni al mese, ma mentre lo dico mi vergogno nei confronti di chi lavora otto ore al giorno e porta a casa un milione e quattro. Pero' continuerei a fare la stessa vita che conduco adesso, perche' mi considero fortunato".


Datemi soltanto una fattoria con due cavalli
Mandala Tayde, attrice

"Se mi offrissero una rendita, chiederei 5 milioni al mese. Non ho bisogno di tanti soldi per vivere: vestiti, per esempio, ne comprerei pochi, perche' la cosa che preferisco e' andare in giro in maglietta e jeans. Ma devo farlo per la mia professione, dopo il successo di Fuochi d' artificio con Pieraccioni. E se c' e' qualche serata o qualche trasmissione tv devo mettermi il vestito adatto.

Anche se diventassi improvvisamente ricca, continuerei comunque a lavorare, perche' mi piace. Ma diminuirei il tempo che dedico al lavoro, e ne dedicherei di piu' ad altre attivita' , come fotografare o dipingere, che mi sono sempre piaciute ma che negli ultimi tre anni ho dovuto trascurare. In media ogni anno lavoro quattro mesi per le riprese, ma a questo bisogna aggiungere il tempo per provare, per leggere i copioni, per partecipare ai provini... E poi le serate in televisione, che per me che sono timida rappresentano sempre una certa fatica.

Piuttosto che vivere di rendita, spenderei tutto subito per realizzare il mio sogno: ristrutturare una vecchia fattoria in campagna e avere almeno due cavalli (cosi' si tengono compagnia). E poi comprare altre case in giro per il mondo".

Mauro Suttora

Sunday, May 30, 1999

Bombe Usa feriscono i pescatori di Chioggia

INCREDIBILE: GLI AEREI CHE BOMBARDANO LA SERBIA SCARICANO ORDIGNI INESPLOSI NELL'ADRIATICO

dal nostro inviato a Chioggia (Venezia)
Mauro Suttora

Oggi, 30 maggio 1999

Andatelo a dire a Gino Ballarin, 42 anni, che le bombe degli aerei Nato scaricate nel mare Adriatico sono innocue. Lui, all’alba di lunedì 10 maggio, se n’è vista una scoppiare addosso. Gli ha completamente aperto la pancia: «Aveva le budella insanguinate che gli penzolavano per di fuori, uno spettacolo tremendo», raccontano i suoi colleghi marinai del peschereccio «Profeta» di Chioggia.
Ha rischiato di morire, lo hanno salvato per miracolo all’ospedale Umberto Primo di Mestre, ma i medici ci hanno messo parecchi giorni prima di dichiararlo fuori pericolo. E adesso, mezzo mese dopo, si trova ancora lì in corsia, con il ventre ricucito alla bell’e meglio.

«Eravamo partiti come sempre dal porto di Chioggia ch’era ancora notte fonda», ci racconta Gimmi Zennaro, 38 anni, comandante del «Profeta», «e abbiamo pescato con reti a strascico in parallelo con il peschereccio “Gurra”. Verso le sette abbiamo tirato su le reti. Impigliati fra i pesci c’erano dei barattoli gialli, grandi più o meno come le lattine della Coca cola. Pensavamo fossero contenitori di fumogeni, eravamo curiosi, li osservavamo girandoceli fra le mani. Ma all’improvviso uno è scoppiato, con un’esplosione violentissima».

Assieme a Ballarin sono stati colpiti anche il comandante Zennaro, che si trovava vicino a lui, e il marinaio Vanni Bellemo. Alle sette e un quarto dal peschereccio è partito l’allarme via radio per la Capitaneria di porto di Venezia: «Esplosione a bordo, abbiamo dei feriti gravi!».
In quel momento il «Profeta» si trovava a circa venti miglia (35 chilometri) al largo della città lagunare. Sono subito scattate le operazioni di soccorso: una motovedetta della Guardia costiera ha raggiunto i due pescherecci chioggiotti, e così hanno fatto anche due elicotteri, uno dei Vigili del fuoco e l’altro dell’Aeronautica.

Il povero Ballarin è stato caricato su un elicottero e trasportato all’ospedale di Mestre, dov'è stato operato immediatamente all’addome. Anche il comandante Zennaro ha trascorso vari giorni in ospedale, mentre Bellemo, colpito a una coscia, se l’è cavata più in fretta. 
Il peschereccio, che appartiene alla Cooperativa San Marco di Chioggia, non ha subìto gravi danni, ed è riuscito a rientrare in porto. 

«Ma i miei marinai», continua a raccontare il comandante del «Profeta», «hanno avvisato subito carabinieri e polizia che c’erano ancora altri ordigni impigliati nelle reti. Li avevamo notati prima dell’esplosione, si notavano facilmente perché erano gialli». Così i Vigili del fuoco hanno allertato gli artificieri dell’Esercito, che infatti hanno trovato altre tre bombe fra il pesce. Gli ordigni sono stati portati nel forte San Felice di Chioggia, e fatti esplodere lì in sicurezza.

Ma da dove venivano, quelle bombe pescate in mezzo all’Adriatico? 
Qui incomincia una storia incredibile. Per vari giorni, infatti, la versione ufficiale è stata che si trattasse di vecchi ordigni a frammentazione sganciati a grappolo durante la Seconda guerra mondiale. Avevano un bell’obiettare, i pescatori di Chioggia, che se così fosse stato gli involucri delle bombe avrebbero dovuto presentarsi ricoperti di alghe vecchie più di mezzo secolo, e non di un giallo fiammante.

La verità viene a galla giovedì 13 maggio, quando i pescherecci «Gurra» e «Annarita» pescano altre 200 bombe. Tutti pensano alle decine di aerei che da due mesi partono dalle basi Nato in Italia per bombardare la Jugoslavia. Già a metà aprile, infatti, un aereo americano aveva sganciato una manciata di bombe inutilizzate nel lago di Garda, prima di un atterraggio di emergenza. Ma dal comando Nato di Vicenza arriva una risposta sconcertante: «Non possiamo escludere che le bombe siano nostre, ma per saperlo dobbiamo aspettare i risultati di un’inchiesta interna», balbettano le gerarchie militari.

Apriti cielo. I pescatori di Chioggia entrano immediatamente in sciopero, rifiutano di riprendere il mare fino a quando il governo non darà loro una risposta certa. E quando si dice Chioggia, si dice la più grande flotta peschereccia d’Italia assieme a quella di Mazara del Vallo (Trapani): 600 imbarcazioni. 

Il mare Adriatico, infatti, nonostante l’inquinamento (ma anche grazie ad esso, perché le stesse sostanze che provocano l’eutrofizzazione nutrono anche i pesci) è uno dei più ri cchi del mondo: è grande solo un ventesimo del Mediterraneo, ma regala un quinto del pesce pescato fra Gibilterra e Suez.

Chioggia, con i suoi 60mila abitanti che parlano un dialetto stranissimo, differente dal veneziano, è la seconda città della provincia di Venezia: le 30mila casse al giorno che si vendono al mercato ittico fanno vivere gran parte della popolazione, dai pescatori all’indotto. Ma per due settimane si è fermato tutto, con danni enormi. 

«Noi perdiamo cinque milioni al giorno», spiega a Oggi Sauro Ranzato, 35 anni, presidente dei 42 facchini della Cooperativa braccianti del mercato ittico. Ma troppo grande è stata la paura di pescare morte, troppo forte la rabbia per essersi sentiti presi in giro dalla Nato e dal governo.

«Non ci soddisfa neanche la risposta data dalla Nato a Massimo D’Alema il 20 maggio», ci dichiara Enzo Fornaro, leader veneto di Federcopesca, «perché sapere che le bombe Nato sganciate nei fondali dell’Adriatico sono in tutto 143 non cambia molto le cose. Ben sette di queste, infatti, sono a grappolo, e tutte buttate nel golfo di Venezia. Ebbene, in ciascuno di questi sette contenitori ci sono ben 200 bombe. Quindi, poiché è probabile che diversi di questi contenitori si siano aperti all’impatto con il fondale, oppure perché le nostre reti li hanno trascinati e fatti sbattere, il numero totale delle bombe non è 143, ma più di 1.500».

Scusi, Fornaro, ma la pesca a strascico, che «ara» i fondali, non era stata proibita? 
«No di certo. È stata soltanto regolamentata, per esempio con il periodo di fermo pesca che inizierà fra un mese per permettere alle uova di schiudersi e ai piccoli di crescere. Ma lo strascico è l’unico modo di pescare molte specie. Le sogliole, per esempio, che si acquattano sui fondali».

Ma le bombe inesplose della Nato sono pericolose anche per i bagnanti?
«Non c’è bisogno di fare allarmismo», dichiara a Oggi Giulio Silenzi, assessore al Turismo della regione Marche, diessino, «perché i bagnanti che frequentano le spiagge non sono assolutamente minacciati da queste bombe, che si trovano a grandi profondità e a trenta-quaranta miglia al largo. Insomma, il turismo balneare non c’entra niente con questa faccenda, e noi siamo fiduciosi. A Pasqua abbiamo registrato il record storico di arrivi e presenze». 

Ma adesso? Dopo gli allarmi dei giornali tedeschi, avete registrato qualche disdetta? 
«È ancora presto per fare i conti, perché le prenotazioni per giugno, luglio e anche agosto arrivano all’ultimo momento. Se si verificheranno dei problemi, lo sapremo soltanto fra due-tre settimane. Certo è che per il turismo delle Marche i tedeschi sono molto importanti, ne arrivano mezzo milione ogni anno».
Mauro Suttora

RIQUADRO
Le bombe «pescate» a Chioggia sono gli ordigni a grappolo sganciati dalla Nato sulla Serbia. Lunghe 2,33 metri, pesano 430 chili. Ciascuna contiene oltre 200 granate di tre tipi: a penetrazione, a frammentazione e incendiarie. 

Quelle a penetrazione distruggono fino a 12 centimetri di corazza dei carri armati. Le granate a frammentazione esplodono invece a pochi metri dal suolo, gettando attorno una pioggia di schegge: possono ferire una persona anche a 150 metri di distanza. Le granate incendiarie, infine, sviluppano un calore elevatissimo, che getta fiamme su una vasta area e incendia la benzina contenuta nei serbatoi dei mezzi nemici.

Se un aereo non sgancia il suo carico sull’obiettivo fissato, per evitare di compiere un atterraggio pericoloso al ritorno (perché è stato danneggiato, per avaria, per maltempo) può «alleggerirsi» degli ordigni disinnescati, gettandoli in sei aree previste e sicure nelle acque internazionali del mare Adriatico. 

È quello che è successo 35 volte (su 21mila missioni) in questi due mesi di bombardamenti Nato. «Non innescare una bomba, però, non significa renderla totalmente innocua», spiega l’esperto militare Michele Lastella, «perché essa, contenendo esplosivo, può ancora esplodere a un qualsiasi urto meccanico. Solo gli artificieri possono disattivarla completamente». 


Per questo la Nato ha promesso di aiutare i dragamine italiani che stanno bonificando l’Adriatico dalle 143 bombe gettate finora nei suoi fondali. Quanto agli ordigni trovati fuori dalle sei aree previste, Lastella spiega: «Può darsi che in condizioni di  emergenza, com’è successo sul lago di Garda, un pilota non abbia potuto rispettare la procedura».