Thursday, August 18, 2022

La tragica attualità della strage di Pola

Era il 18 agosto 1946, è stata la prima strage della Repubblica. Fu un atto di terrore. Quello che oggi accomuna Putin a Tito e rende così tragico, antico e inattuale l'ormai mezzo anno della sua guerra ucraina

di Mauro Suttora

Huffpost, 18 agosto 2022


È stata la prima strage della Repubblica. Alle due di pomeriggio del 18 agosto 1946 a Pola, sulla spiaggia di Vergarolla, 65 persone (per un terzo ragazzi sotto i 18 anni) morirono nello scoppio di una ventina di mine antinave. Come per Piazza Fontana, gli autori della strage sono rimasti sconosciuti.

Era una calda domenica d'estate, sulla spiaggia si divertivano centinaia di famiglie. Le mine giacevano inerti senza detonatore in un angolo dell'arenile, disinnescate dagli artificieri dopo la fine della guerra. Pola era sotto amministrazione britannica, ma molti temevano che sarebbe stata scambiata con Gorizia per finire sotto la Jugoslavia comunista di Tito. Il 90% dei suoi 31mila abitanti erano italiani. 

Improvvisamente, il boato. Una nuvola di fumo fu vista a chilometri di distanza. Decine di corpi rimasero polverizzati. Centinaia i feriti. Chi aveva innescato il tritolo delle mine? Qualcuno parlò di incidente, magari causato dal fornelletto di una grigliata. 

La verità si è saputa solo nel 2008, all'apertura degli archivi di Londra: "Gli ordigni furono deliberatamente fatti esplodere da persone sconosciute". Con tutta probabilità agenti dell'Ozna, la polizia segreta del dittatore Tito. Che così raggiunse il suo scopo: terrorizzati, 28mila polesani nell'anno seguente scapparono, arrivando esuli in Italia. 

Ecco, il terrore. Quello che oggi accomuna Putin a Tito e rende così tragico, antico e inattuale l'ormai mezzo anno della sua guerra ucraina. Sono tante le similitudini fra l'occupazione russa di Mariupol e Kherson, e quella jugoslava di Trieste e Istria 76 anni fa. 

Ora come allora, i dittatori seminano paura in pochi per disfarsi di tanti. Tito infoibò 6mila civili italiani per farne fuggire 300mila. Specifichiamo: infoibare significa gettare persone spesso vive in un buco profondo cento metri. Personalmente, avrei preferito morire gasato in pochi minuti invece di agonizzare per giorni crepando di sete coi vermi nelle ferite.  

A Pola, invece delle foibe, furono le mine a falciare ragazzi che nuotavano. A Bucha sono state le pistole di ragazzi russi,  arruolati alla vigliacca, a finire alla tempia prigionieri ucraini. Il risultato è lo stesso: la pulizia etnica. Il 90% degli italiani lasciarono l'Istria perdendo tutto; decine di migliaia ucraini stanno lasciando Donbass e le altre zone occupate dai soldati di Putin.

Nel 1945-47 la pulizia fu quadrupla. Non solo etnica contro gli italiani, ma anche politica contro i non comunisti, economica contro i borghesi, religiosa contro i cattolici. In Ucraina conosceremo solo fra qualche anno il profilo sociologico dei profughi o deportati in Siberia, ma la comune fede ortodossa non impedisce al patriarca putiniano Cirillo di applaudire i massacri. 

Altra analogia: Putin, come Tito, attua la politica del fatto compiuto. Il dittatore jugoslavo preferì lanciare i suoi partigiani alla conquista dell'italiana Trieste prima ancora di liberare la slovena Lubiana. Pretendeva tutta la Venezia Giulia fino all'Isonzo, inglobando Carso, Gorizia, Monfalcone. 

Anche il despota russo conosce la forza del fait accompli, come dicono i diplomatici. Sa che quasi sempre la linea di armistizio si trasforma in confine definitivo, oppure dà diritto a compensazioni territoriali. Così il 24 febbraio si è scagliato avventatamente contro Kiev e Kharkiv, che niente hanno a che fare con il Donbass rivendicato appena il giorno prima. Lì ha dovuto ritirarsi, come Tito da Trieste. Ma Kherson e tutto il retroterra della Crimea sono ancora suoi: è il fiume Dniepr la nuova esagerata frontiera sperata da Putin, il suo Isonzo. 

Oggi come nel 1947, sono americani e inglesi a difendere i popoli che si battono per la libertà e la democrazia. Allora ci riuscirono solo in parte, perché il nuovo confine fra Italia e Jugoslavia, quello attuale, fu tracciato sulla 'linea francese' per pressione di Stalin; mentre la loro linea Morgan avrebbe salvato la costa orientale dell'Istria (Parenzo, Rovigo, Pirano, Umago), veneziana e italiana da sempre.

In Ucraina, vedremo. Ma quella strage di Pola, vicino alle fantastiche isole Brioni, si affianca a nomi di altri massacri europei diventati tristemente famosi quest'anno, dopo quelli di Sarajevo e Srebrenica trent'anni fa: Bucha, Mariupol, Severodonetsk. 

Wednesday, August 17, 2022

Quando Berlusconi fa il garantista, un garantista muore



Ogni volta che apre bocca in tema di giustizia il buon Silvio precipita in conflitto d'interessi. Il suo garantismo risulta sempre un po' peloso. E anche noioso, perché è da trent'anni che la faccenda va avanti, fra lodi Alfano e leggi Cirielli. Ci prenderà per stanchezza

di Mauro Suttora

Huffpost, 17 Agosto 2022  

Tutte le volte che Berlusconi fa il garantista, per noi garantisti è dilaniante. Questa mattina ha scritto su Facebook: "Quando governeremo noi, le sentenze di assoluzione non saranno appellabili".

Suona ragionevole. L'abolizione degli appelli eviterebbe accanimenti delle procure e taglierebbe i tempi della giustizia. Come dice Berlusconi, "il processo è già una pena, che colpisce l'imputato ma anche la sua famiglia, i suoi amici, il suo lavoro".

Gli abolizionisti degli appelli citano l'esempio degli Usa, dove vige il principio latino ne bis in idem: non si può essere giudicati due volte per lo stesso reato. Dimenticano però che lì sono inappellabili tutte le sentenze, anche quelle di condanna (tranne che per rari errori di procedura). E questo non sarebbe stato certo conveniente per i processi del Cavaliere. Il quale proprio grazie agli appelli ha ridotto la cifra da risarcire a De Benedetti da 750 a 500 milioni di euro (lodo Mondadori), ma soprattutto se l'è cavata parecchie volte con la prescrizione. 

Insomma, come si usa dire: il garantismo del buon Silvio risulta sempre un po' peloso. E anche noioso, perché è da trent'anni che la faccenda va avanti, fra lodi Alfano e leggi Cirielli. Ci prenderà per stanchezza. 

Lui ha tutto il diritto di concionare pro domo sua, noi giornalisti tutto il dovere di evidenziare che ogni volta che apre bocca in tema di giustizia precipita in conflitto d'interessi. 

Non c'è bisogno di essere Travaglio o Barbacetto, ad esempio, per replicare a un'altra sua affermazione odierna, apparentemente indiscutibile: "In Italia migliaia di persone ogni anno vengono arrestate e processate pur essendo innocenti". Migliaia magari no, facciamo centinaia. Ma è egualmente grave. Tuttavia, in un Paese devastato da mafia, camorra e 'ndrangheta, è vero anche il contrario: "Centinaia di persone NON vengono arrestate e processate, pur essendo colpevoli".

Perché Davigo e Gratteri sono quello che sono, ma i referendum sui magistrati risultano ahinoi miserevolmente naufragati poche settimane fa: nell'80% di astenuti l'odore del garantismo capzioso ha prevalso sul profumo del garantismo disinteressato. Lo sanno bene Salvini e Meloni, i cui elettori sono per metà forcaioli quanto i grillini. E quindi difficilmente aboliranno gli appelli solo per gli assolti. Non lo sanno invece gli aficionados di Silvio, che si apprestano a regalargli ancora un consenso non indifferente: può darsi che attorno al 10% Forza Italia batta Conte, e probabilmente supererà Calenda.  

Per loro Berlusconi resta un perseguitato, e lo sarà per sempre. Se verrà condannato nei processi ancora aperti per subornazione di testimoni, perfino peggio: ecco l'ennesima prova della persecuzione giudiziaria che lo colpisce da un terzo di secolo. Eternamente vittima, eternamente pittima. Come il suo collega populista Trump, d'altronde: più ne fa, più strilla. 

Friday, August 12, 2022

Che bisogno c'è di Fratoianni, quando abbiamo i frati comunisti di Padova?

Sul loro Messaggero di Sant'Antonio questo mese l'economista Luigino Bruni si scaglia contro il "mercato capitalistico", liquidato come "imbroglio e grande bluff" con la stessa apoditticità di un Rizzo del partito comunista

di Mauro Suttora

HuffPost, 12 Agosto 2022 

Che bisogno c'è di Fratoianni, quando abbiamo i frati di Padova? Sul loro Messaggero di Sant'Antonio questo mese l'economista Luigino Bruni si scaglia contro il "mercato capitalistico", liquidato come "imbroglio e grande bluff" con la stessa apoditticità di un Rizzo del partito comunista.

"Per quarant'anni ci siamo ubriacati di privatizzazioni, abbiamo smantellato beni pubblici e beni comuni e li abbiamo affidati al mercato, convinti che il movente del profitto privato fosse l'unico per far impegnare lavoratori e imprenditori", tuona Bruni. Che elenca: "Ferrovie, energia, acqua, autostrade, e sempre più sanità, scuole e università sono gestite da capitalisti privati, e i profitti finiscono in pochissime mani già molto ricche". 

Per la verità la stagione delle privatizzazioni si è in gran parte conclusa un quarto di secolo fa, quando il cattolico Prodi dovette far cassa per entrare nell'euro. Aveva venduto anche aziende statali che non producevano certo 'beni pubblici': dai pomodori pelati ai panettoni, fino ai vetri per le auto della fabbrica Siv (oggi Pilkington) a San Salvo (Chieti).

Sui carrozzoni di stato e l'inefficienza clientelare del pubblico, che in Italia si traduce in politico/partitico, sono state scritte biblioteche. Ma Bruni obietta: "Ci hanno convinti che il privato è il paradiso della nuova economia, il pubblico è l'inferno, e il non-profit il purgatorio. Non capisco come questa idea malsana e sbagliata si sia potuta affermare. Conosco le ideologie e i demagoghi, ma qualcuno mi dimostri perché i beni comuni sono gestiti meglio da privati che dal pubblico". 

La saggezza popolare risponde a Bruni che "l'occhio del padrone ingrassa il vitello", e la nostra esperienza quotidiana ne è purtroppo piena di esempi concreti. Anche oggi ho telefonato all'Istituto Besta di Milano, eccellenza pubblica della neurologia, per fissare la visita annuale di controllo della mia neuropatia degenerativa, prescrittami un anno fa dal loro medico che mi cura. Mi hanno risposto per la decima volta che le visite sono esaurite fino a fine anno, e che non sanno quando si apriranno le prenotazioni per il 2023 ("Richiami ogni settimana"). 

Ma poiché conosciamo anche le speculazioni di certi privati sui beni in concessione o convenzione, dalle autostrade alla sanità, non ci metteremo certo a tessere lodi a prescindere del privato. Ricordiamo solo all'ottimo Bruni che 'in medio stat virtus': fra il neoliberismo selvaggio e il suo benecomunismo c'è uno spazio enorme per sistemi misti come i nostri europei, che contemperano l'interesse pubblico con l'efficienza privata.

Bruni ricorda che proprio l'Italia ha inventato, con i Romani e poi nel medioevo con i liberi Comuni, la gestione ("comune", appunto) delle risorse collettive: "Abbiamo fatto autentici miracoli economici, civili e artistici perché le città erano forme di cooperative, consorzi di cittadini che gestivano insieme molte attività politiche e anche molte imprese". 

Obiettiamo che il massimo splendore economico e artistico di Firenze e Milano fu raggiunto sotto banchieri privati (i Medici) o signorie (Visconti, Sforza); Venezia e Genova erano splendide repubbliche per nulla democratiche, bensì oligarchiche in mano all'aristocrazia borghese del denaro; quanto a Roma, il mecenatismo papale era anch'esso agli antipodi del 'benecomunismo'. Che funzionava al massimo per gestire il legname di qualche bosco e i pascoli di pecore e mucche. 

Poteva mancare, infine, un po' di antiamericanismo dal sorprendente giornale dei frati minori conventuali? 

"Il capitalismo delle privatizzazioni è prodotto d'importazione, da Paesi come gli Usa e l'Olanda", accusa Bruni. "I figli delle business school, con poca cultura umanistica e molto inglese, hanno deciso che il privato è la Terra promessa". Non si salva nessuno: "Hanno convinto praticamente tutti, anche i politici della sinistra, che era nata da una critica al capitalismo e al profitto, e persino le Chiese". 

Povero Bruni. Siamo circondati, anche se l'Italia non ha avuto alcun Reagan o Thatcher, colossi statali come Eni o Leonardo macinano miliardi di utili, e spesa pubblica, tasse, deficit e debito galoppano. Ma la colpa è sempre e solo dei capitalisti privati, come ci ha insegnato Marx. E pazienza se il Muro di Berlino è crollato 33 anni fa, seppellendo le illusioni socialiste. 

Tre anni fa i conti non tornavano neanche per il Messaggero di Sant'Antonio, i fraticelli padovani volevano licenziare otto giornalisti. Poi la crisi è rientrata. La Divina provvidenza proteggerà anche l'economia italiana? Non resta che affidarci a lei. Con l'intercessione del Santo di Padova.

Friday, August 05, 2022

Che vita da cani. I soldi nella cuccia della Cirinnà diventano un legal thriller

La telenovela dei 24mila euro sembrava esaurita quando il pm di Grosseto ha archiviato le indagini. Ecco ora la nuova richiesta della Cirinnà: poiché il tesoro è stato scoperto in un terreno di sua proprietà, spetta a lei

di Mauro Suttora

HuffPost, 5 agosto 2022


Era stato il giallo dell'estate scorsa: i 24mila euro in banconote da 500 ritrovati in una cuccia di cane nell'azienda agricola della senatrice pd Monica Cirinnà a Capalbio (Grosseto). Un malloppo ritrovato per caso fra le assi abbandonate in un angolo dei cento ettari di proprietà della senatrice e di suo marito Esterino Montino, anch'egli Pd, ex senatore e da nove anni sindaco di Fiumicino (Roma).

La coppia lo consegnò alle autorità, ma la singolare scoperta scatenò i commenti sui social. Niente infatti irrita gli 'odiatori' di destra più della parole Cirinnà e Capalbio. La prima perché, oltre a essere verde e animalista, ha firmato la legge sulle unioni civili gay ed è quindi amata dal mondo lgbt; la seconda in quanto simbolo delle élite radical chic.

Da dove venivano quei soldi? Probabilmente dimenticati da qualche banda di malviventi che li aveva nascosti in un luogo accessibile dalla strada. I tagli da 500 euro sono fuori corso dal 2019 e i numeri di serie di molte banconote risultano illeggibili. Roba vecchia, quindi. Ma il mistero eccita i complottisti, e così la cuccia di cane della politica animalista divenne bersaglio di insulti.

La telenovela sembrava esaurita quando il pm di Grosseto ha archiviato le indagini, data l'impossibilità di rintracciare l'origine dei soldi. E invece, ecco ora la nuova richiesta della Cirinnà: poiché il tesoro è stato scoperto in un terreno di sua proprietà, spetta a lei. E lo devolverà all'associazione Olympia De Gouges (femminista ghigliottinata nel 1793 in place de la Concorde a Parigi), che assiste le donne vittime di violenza a Grosseto.

Per la gioia dei burini misogini, i quali ora possono rinfacciare alla Cirinnà e al marito la dichiarazione di un anno fa: "Siamo felici che quel denaro sarà nella disponibilità del Fondo unico per la giustizia, e che verrà utilizzato per fini di pubblica utilità".

Il giudice penale ha detto no alla nuova richiesta della senatrice: deciderà il giudice civile. La surreale vicenda quindi proseguirà a colpi di fioretto legale, con disquisizioni fra avvocati sul destino della "res inventa". La legge prevede che le cose ritrovate spettino solo per metà al proprietario del terreno, e per l'altra metà allo scopritore. Ma restiamo sempre in famiglia: la cuccia del cane infatti fu ispezionata dal figlio del sindaco Montino, assieme a un operaio. Quest'ultimo, magari, preferirà tenersi il suo 25%, piuttosto che regalare seimila euro alle donne grossetane.

In questi giorni, comunque, la 59enne Cirinnà è impegnata in una lotta ben più sostanziosa di quella per i soldi della cuccia del cane. Il Pd sta definendo le candidature per il voto del 25 settembre: non è detto che lei, dopo due legislature e con il taglio dei parlamentari, riesca a mantenere la poltrona. Se dovesse soccombere, potrà consolarsi con l'indennità di fine mandato. La liquidazione dei politici nel suo caso, dopo quasi dieci anni di mandato, ammonta a un'ottantina di migliaia di euro. Altro che la cuccia. 

Sunday, July 31, 2022

I due mandati grillini sono una barzelletta. Imparino dai radicali

Da sempre nelle democrazie il divieto di ricandidarsi è considerato il principale antidoto alle incrostazioni di potere. Gli ultimi che in Italia hanno provato a limitare la durata dei politici, prima di Grillo, li facevano ruotare a metà mandato

di Mauro Suttora

Huffpost, 31 Luglio 2022  


Altro che due mandati. Gli ultimi che in Italia hanno provato a limitare la durata dei politici al potere, prima di Grillo, li facevano ruotare a metà mandato. Due anni e mezzo, e poi via. 

Dieci anni è troppo, inutile e crudele. Troppo, perché due lustri sono un'eternità; inutile, perché come dimostrano i grillini quasi tutti trovano trucchi per continuare; crudele, perché dopo un tempo così lungo è un'agonia tornare al precedente lavoro (Vito Crimi era dovuto emigrare da Palermo a Brescia per fare fotocopie in tribunale) o reperirne uno nuovo. 

Una suora divorzista, un obiettore antimilitarista, un intellettuale omosessuale e un avvocato garantista: questi furono i deputati che nel 1976 i radicali scelsero per subentrare a metà mandato ai loro primi quattro eletti (Pannella, Bonino, Mellini e Adele Faccio). Erano arrivati secondi nelle preferenze: suor Marisa Galli, Roberto Cicciomessere, Angelo Pezzana e Franco De Cataldo. Cominciarono da subito a frequentare Montecitorio come deputati supplenti: aiuto prezioso che raddoppiava le forze, visto che non esistevano ancora i portaborse.

La mossa dei radicali ebbe particolare risonanza, perché già allora montava la polemica contro l'inamovibilità dei politici di carriera: in particolare dei democristiani, da trent'anni al governo senza interruzione. Le turnazioni radicali a metà mandato proseguirono nelle legislature successive, tanto che Pannella alla fine si ritrovò una pensione notevolmente decurtata.

Anche i verdi all'inizio promisero la rotazione a metà mandato. Ma dei consiglieri regionali e comunali eletti nel 1985 pochi mantennero l'impegno: fra gli altri Michele Boato in Veneto e Nanni Salio a Torino (dopo un solo anno). Spesso i verdi, per dimostrare il loro disinteresse verso le poltrone, si candidavano in ordine alfabetico. Quindi quasi sempre ottenevano più preferenze quelli con cognome A o B. I quali però alla scadenza dei due anni e mezzo non lasciavano la carica, nonostante l'assoluta casualità della loro elezione. 

Uno dei casi più spiacevoli avvenne a Milano. Non solo i consiglieri comunali Antoniazzi e Barone nel 1987 non si dimisero, ma vennero nominati assessori dal furbo sindaco socialista Pillitteri, che formò così la prima giunta rossoverde d'Italia.

Erano tempi duri per gli eletti di movimenti 'alternativi' che cedevano alle lusinghe del potere: vidi un assessore verde lasciare la sua auto blu a un isolato dall'assemblea di partito cui doveva partecipare, e arrivare a piedi per non farsi notare. I grillini odierni invece ci hanno messo poco ad adeguarsi.

Da sempre nelle democrazie il divieto di ricandidarsi è considerato il principale antidoto alle incrostazioni di potere. 2500 anni fa Atene e Roma stabilirono in un anno la durata di arconti e consoli, oggi i presidenti Usa e francesi hanno limiti di otto e dieci anni. Ma il record di velocità appartiene ai priori della repubblica di Firenze: a casa dopo soli due mesi.

Mauro Suttora


Friday, July 29, 2022

Il problema di Berlusconi non sono i traditori. È che sono finiti

Da Urbani fino a Carfagna, Forza Italia ha finito pure i transfughi. Ora non c'è più nessuno che se ne possa andare

di Mauro Suttora

HuffPost, 29 Luglio 2022 

Magari ha ragione Valentina Vezzali. La campionessa di scherma, sottosegretaria allo Sport, va controcorrente e aderisce a Forza Italia proprio nel momento della grande fuga. Brunetta, Carfagna, Gelmini, Cangini, Elio Vito: tutti i ministri e molti altri abbandonano Berlusconi, Vezzali furba riempie il vuoto e verrà promossa se ci sarà un governo di centrodestra.

Scappare dalla barca che affonda è buona regola in politica, alla faccia di fedeltà, gratitudine o coerenza. Soprattutto quando quest'ultima è semmai rivendicata dai transfughi, in nome del liberalismo. Tuttavia è impressionante scorrere la lista di tutti gli addii che Silvio ha incassato nei suoi 28 anni di vita politica. 

Lo sterminio è sterminato. I radicali scapparono subito: bastarono sei mesi a Pannella e Bonino per capire che la "rivoluzione liberale" promessa nel 1994 era una chimera. Poi fu la volta del prestigioso battaglione di professori arruolati da Forza Italia: Urbani, Melograni, Colletti, Marzano, Vertone. Sopravvissero solo Pera, premiato con la presidenza del Senato, e Brunetta. Durarono poco anche gli avvocati Dotti e Della Valle (Tortora). 

Nel 2001-11 Berlusconi governa otto anni su dieci, quindi nessuno lo molla. Poi, la diaspora. Silvio fa fuori tutti i suoi presunti delfini (Alfano, Toti) e i portavoce (Bondi, Bonaiuti). Tremonti va con la Lega, Quagliariello, Romani e Biancofiore con Toti. Via anche Pisanu, Frattini, Cicchitto, Lorenzin, Crosetto, Sanza, Albertini, Verdini, Fitto, Capezzone, Ravetto, Elisabetta Gardini, un anno fa Malan. 

Silvio però è buono, riaccoglie figliol prodighi come Schifani, Polverini e Miccichè che lo avevano tradito. Ora è circondato dagli ultimi fedelissimi. Tajani, innanzitutto, socio fondatore di Forza Italia con Antonio Martino e il generale Caligaris. Sestino Giacomoni e l'ex assistente personale Valentino Valentini lo seguiranno ovunque. 

In prima fila la quasi moglie Fascina, la quasi badante Renzulli, i capigruppo Bernini e Barelli. E poi i senatori Galliani (che non si ricandida), Ghedini, Stefania Craxi, Casellati. I deputati Rotondi, Baldelli, Aprea, Bergamini, Marrocco (ex fidanzata di Paolo Berlusconi), Mulè, Prestigiacomo, Ruggieri (nipote di Vespa, compagno di Anna Falchi).

Ma il principale consigliere politico personale di Berlusconi resta l'inossidabile Gianni Letta.

 

Monday, July 25, 2022

All'armi siam fascisti, amor dei comunisti



Adinolfi, Di Stefano, Paragone, Rizzo... Ritratto dell'allegra brigata rossobruna, un Frankenstein fasciocomunista un po' no-vax e un po' sì-Putin

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 25 Luglio 2022

Era dal 1970, quando Adriano Sofri scambiò i moti di Reggio Calabria per l'inizio della rivoluzione proletaria e lanciò la sua Lotta Continua di estrema sinistra in aiuto al senatore neofascista Ciccio Franco (da non confondere con l'omonimo duo comico) per battere Catanzaro come capoluogo della neonata Regione Calabria, che non si assisteva a un tale marasma rossobruno.

Simone Di Stefano ha litigato con Gianluca Iannone, l'altro leader di Casapound, è uscito dal movimento di estrema destra e ora raccoglie firme per presentarsi alle elezioni con Mario Adinolfi, del Popolo delle famiglie. E fin qui nulla di strano. 

Poi però ha mandato questo appello a Marco Rizzo, già eurodeputato e ora capo del partito comunista: "Ci conosciamo e stimiamo in segreto (perché non sia che lo scoprano i nostri elettori). Con Paragone (ex leghista e grillino, ndr) ci conosciamo dai tempi formidabili de La Gabbia (il talk de La7 chiuso da Urbano Cairo per scarsi ascolti, ndr). Noi tre e Adinolfi siamo i soli in grado di portare simboli sulla scheda. Troviamo il modo di sommare le forze. Lo sbarramento al 10% è alla nostra portata, comunque le liste passerebbero col 3%. Così convinceremmo milioni di italiani ad andare a votare. Di fronte alla violenza e arroganza del potere non possiamo non reagire con una somma di forze. La gente ci vuole uniti".

Per la verità la gente da anni snobba questi personaggi, relegandoli allo zero virgola ogni volta che concorrono alle elezioni. Ma due anni di pandemia e cinque mesi di guerra in Ucraina hanno cementato una curiosa alleanza no vax e sì Putin, creando un Frankenstein fasciocomunista nei cortei e sui social.  

Il crollo dei grillini sta aprendo spazi insperati per questo nuovo estremismo bifronte: alcuni sondaggi lusingano col 4% l'Italexit di Paragone. I neofascisti di Forza Nuova, finora concorrenti di Casapound, hanno cercato di cavalcare i no vax ma dopo l'assalto alla Cgil sono fuorilegge. E lo stesso Di Stefano è accusato dai suoi ex camerati di voler passare all'incasso elettorale, abbandonando il movimentismo. 

Così l'arcicomunista Rizzo, che forse piace a Di Stefano per la sua silhouette mussoliniana, non si imbarazza ad accogliere fra le sue fila l'eurodeputata no vax di Palermo Francesca Donato, eletta con la Lega. Facebook ha chiuso la pagina di Donato per le troppe bufale pubblicate, lei ha lasciato Salvini ma a novembre ha preso solo il 3% al comune di Palermo.

Anche il senatore grillino Emanuele Dessì è approdato al partito comunista di Rizzo. E assieme al collega Vito Petrocelli (cacciato dai grillini per putinismo) pochi giorni fa è andato in Nicaragua ad applaudire il dittatore sandinista Ortega. 

Tutto si tiene, nella bizzarra combriccola fascioputiniana. I nemici comuni sono gli Usa, l'Occidente e Draghi. Quelli di estrema destra vengono tenuti a distanza di sicurezza da Meloni e Salvini; a sinistra il disfacimento di Leu priva i nostalgici comunisti di una qualsiasi calamita, perciò si moltiplicano microliste (alle recenti comunali a Milano ce n'erano ben quattro con falce, martello e zero eletti).

Naturalmente, a chi trovasse folkloristica questa convergenza fra opposti estremismi, nel centenario della marcia su Roma basta ricordare le origini socialiste rivoluzionarie del duce fascista. Senza dover scomodare i giganti Hitler e Stalin, felicemente alleati dal 1939 al 1941 per la spartizione di Polonia e Paesi Baltici che diede inizio alla Seconda guerra mondiale. 

Sunday, July 24, 2022

Appunti storici per Di Battista: dal Duce a 007, il ritorno alle origini è sempre un disastro

È triste, in ogni campo, quando si cerca di sfuggire al declino richiamando la vocazione originaria. La diversità dei 5 stelle è svanita, non sarà Dibba l'eroe dei tre mondi che riporterà l'entusiasmo fra gli adepti del "nuovo modo di fare politica"

di Mauro Suttora

Huffpost, 24 Luglio 2022


"Mai dire mai", fu il titolo autoironico del film di ritorno di Sean Connery come James Bond nel 1983, dodici anni dopo aver giurato di non interpretare mai più l'agente 007. Il risultato fu mediocre, come l'agonia di Muhammad Ali/Cassius Clay che si trascinò negli anni '70 nonostante la temporanea resurrezione contro Foreman.

Perché è sempre triste, in ogni campo, quando si cerca di sfuggire al declino "tornando alle origini".

Ora è il turno dei grillini, che riesumano Di Battista richiamandolo dal pellegrinaggio putiniano in Russia. Toccherà a lui rinnovare gli antichi fasti del Movimento del Vaffa, riportando i 5 Stelle all'opposizione totale di dieci anni fa.

Funzionerà? "It's too late, baby", cantava Carole King. Troppo tardi, i militanti pentastellati sono evaporati. Hanno visto i loro parlamentari trasformarsi in sottosegretari con auto blu, incassando 14mila mensili (20mila gli eurodeputati) e "restituendo" sempre meno. La diversità è svanita, a Grillo non resta che prendersela col suo "Giggino 'a cartelletta", il traditore Di Maio che si ricicla.

Anche Mussolini cercò di tornare alle origini, nel 1943. La repubblica di Salò rispolverò l'economia 'sociale' del primo fascismo e l'opposizione alla monarchia. Fine meno lugubre ma egualmente fallimentare per gli illusi della Rifondazione comunista, naufragata fra Ingroia e Tsipras. Come sempre il più allegro è Berlusconi: quante volte ha ripetuto instancabile che occorre tornare alla "rivoluzione liberale" del 1994?

Non sarà quindi Dibba l'eroe dei tre mondi che riporterà l'entusiasmo fra gli adepti del "nuovo modo di fare politica". La sua rentrée, si parva licet, somiglia a quella di Napoleone dopo l'isola d'Elba: servirà solo a spedirlo in un'isola assai più lontana.

Nel 1969 i Beatles decisero di aggrapparsi alle loro radici rock per sfuggire alla crisi. Dopo pochi mesi si separarono, come capita a tutte le coppie in disfacimento che sventatamente organizzano "nuovi inizi" con la stessa meta del viaggio di nozze. 

La Yoko Ono grillina probabilmente sarà Paola Taverna: prima pasionaria gemella di Di Battista, poi vicepresidente ripulita del Senato, ora di nuovo aggressiva. Ma Grillo vieta perfino a lei e a Fico di continuare la carriera politica, superati i due mandati. Mentre Dibba può spenderne ancora uno. Peccato che le sue urla ora sappiano di minestra riscaldata, come i ritorni disastrosi di Shevchenko e Kakà al Milan, o quello di Lippi in Nazionale nel 2010 in Sudafrica. 

Perché Aznavour ce lo ha insegnato: "Devi sapere lasciar la tavola quando all'amor non servi più".

 

Friday, July 22, 2022

Un milione di alberi e pensioni a mille euro. Il ritorno di Cavalier Promessa

Berlusconi riparte con le solite millanterie da campagna elettorale. Piccolo campionario degli impegni strombazzati dal Cav, ricordando lo strabiliante "più dentiere per tutti" del 2014

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 22 Luglio 2022

"I nostri parlamentari andranno a casa dopo due legislature. Dimezzeranno i loro emolumenti. Sarà ridotto della metà anche il loro numero. Non cambieranno partito. Totale trasparenza sui loro redditi e attività. Abolizione finanziamento pubblico ai partiti". 

Chi lo promise, alle elezioni 2013? Grillo? Anche. Ma in realtà questo era il Patto del parlamentare che Berlusconi fece firmare a ogni suo candidato. Silvio faceva il grillino perché aveva fiutato l'andazzo che premiò il Movimento 5 Stelle col 25%, e cinque anni dopo col 32%. Cosicché anche questo sorprendente programma antipolitico rimarrà scolpito nel mirabolante e sterminato elenco delle sue promesse elettorali.

Ora ci risiamo. Al suo quattordicesimo voto nazionale (otto politiche, sei europee) Berlusconi non ha perso l'entusiasmo del 1994, quando al debutto con Forza Italia lanciò un programma di ben 45 punti per la "rivoluzione liberale". I due più memorabili: "Un milione di posti di lavoro, tasse ridotte da 200 a dieci e non oltre il 33%"

Reindossati i panni di Babbo Natale, eccolo annunciare per l'ennesima volta "otto punti fondamentali per far ripartire l'Italia e per alleviare le difficoltà e le sofferenze degli italiani".

Tutti noi stramazzeremmo di noia non solo ad ascoltare, ma anche a pronunciare litanie simili. Lui no, e ci infligge: un milione di alberi all'anno da piantare e le pensioni alzate a 1000 euro al mese. "Meno tasse, meno burocrazia, meno processi, più sicurezza, provvedimenti per i giovani, per gli anziani, per l'ambiente". "È un programma", aggiunge imperterrito, "che si basa sulla nostra tradizionale lotta alle tre oppressioni: quella fiscale, la burocratica e la giudiziaria".

"Il mio cuore gronda sangue", disse nel 2011 quando dovette aumentare le tasse. Ma due anni dopo, cacciato dal governo Monti, tornò alla carica: "Rimborseremo l'Imu 2012". Non sapremo mai se lo avrebbe fatto, perché premier divenne Enrico Letta.

Nel 1999 si impegnò: "Due sole aliquote Irpef". L'apice lo raggiunse nel 2001, quando da Vespa firmò solennemente in tv il famoso Contratto con gli italiani. Scusate se lo riproponiamo, ma dopo 21 anni suona ancora leggendario:

"Tra Silvio Berlusconi nato a Milano il 29 settembre 1936 e i cittadini italiani si conviene e si stipula quanto segue:

Silvio Berlusconi, nel caso di vittoria elettorale della Casa delle Libertà, si impegna, in qualità di presidente del Consiglio, a realizzare nei cinque anni i seguenti obiettivi:

1. Abbattimento della pressione fiscale:

con l'esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire annui;

con la riduzione al 23% per i redditi fino a 200 milioni di lire annui;

con la riduzione al 33% per i redditi sopra i 200 milioni di lire annui;

con l'abolizione della tassa di successione e della tassa sulle donazioni.

2. Attuazione del "Piano per la difesa dei cittadini e la prevenzione dei crimini" che prevede tra l'altro l'introduzione dell'istituto del "poliziotto o carabiniere o vigile di quartiere" nelle città, con un risultato di una forte riduzione del numero dei reati rispetto agli attuali 3 milioni.

3. Innalzamento delle pensioni minime ad almeno 1 milione di lire al mese.

4. Dimezzamento dell'attuale tasso di disoccupazione con la creazione di almeno 1 milione e mezzo di posti di lavoro.

5. Apertura dei cantieri per almeno il 40% degli investimenti previsti dal "Piano decennale per le Grandi Opere" considerate di emergenza e comprendente strade, autostrade, metropolitane, ferrovie, reti idriche, e opere idro-geologiche per la difesa dalle alluvioni.

Nel caso che al termine di questi 5 anni di governo almeno 4 su 5 di questi traguardi non fossero stati raggiunti, Silvio Berlusconi si impegna formalmente a non ripresentare la propria candidatura alle successive elezioni politiche. In fede"

Non entreremo certo nel dibattito sulle promesse realizzate o non mantenute. Ci sarà sempre un'università di Siena che sosterrà un 80% di obiettivi centrati, e contemporaneamente un 80% di elettori che non ci crederà, e quindi non rivoterà Berlusconi. Il quale, per la cronaca, nel 2006 fu sconfitto da Prodi.

Ma dopo quella volta di memorabile è  rimasta solo la promessa di "dentiere per tutti gli over 60", lanciata nel 2014. Ormai la stagione dell'assistente dentale Minetti era tramontata, eppure molti anziani ne rimasero attratti. Altri obiettarono: "Ormai ci sono gli impianti fissi, perché aspettare il disastro finale senza denti, interveniamo prima".

Cosa ci riserverà questa volta la generosa cornucopia berlusconiana? Perché, ammettiamolo, anche se non crediamo più in Babbo Natale e neanche alla Befana, è bello poter sognare. I film di Albanese/Cetto La Qualunque ci hanno resi cinici e impermeabili a qualsiasi promessa di politico. Ma non fino al punto di continuare a incuriosirci: "Cosa s'inventerà questa volta il Berlusca?" Lo ha detto anche il suo migliore amico, Confalonieri: "Silvio dice un sacco di balle, ma poi s'impegna per realizzarle".

E comunque Berlusconi potrà sempre scusarsi: "Tremonti non ha voluto. Gli alleati me lo hanno impedito". Almeno ci ha provato. Non come quel tetro Padoa Schioppa che godeva a (farci) pagare le tasse.

Mauro Suttora 

Saturday, July 16, 2022

CAOS M5S/ “Grillini divisi tra appoggio a Draghi e governo Casellati o Franco”

intervista a Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 16 luglio 2022 

“La crisi di governo? Gli M5s sono capaci di tutto, anche di una inversione a U. E Conte ha dimostrato di saper tenere testa a Draghi” 

La crisi di governo si complica e il comunicato congiunto di FI e Lega che chiudono ad una continuazione dell’esperienza di governo con M5s, accusato di irresponsabilità, rende obiettivamente più difficile una soluzione. “Draghi non è disponibile a formare un nuovo governo ed è determinato a dimettersi” ha riferito in esclusiva Bloomberg nella notte.

I Cinquestelle, che hanno rinviato a oggi il loro consiglio nazionale, sono nel frattempo alle prese con il dilemma se ritirare la delegazione al governo o rimanere nell’esecutivo. Due opzioni che dividono intransigenti e governativi.

“Conte vuole solo mostrare ai suoi elettori che non piega la testa di fronte a Draghi”, spiega Mauro Suttora, giornalista e scrittore, opinionista sull’HuffPost. “In questo senso ha già ottenuto il suo scopo, ha drammatizzato al massimo”. Proprio per questo la crisi potrebbe ancora risolversi con la permanenza di Draghi al governo, secondo Suttora, “magari con un’ulteriore fuoriuscita di loro parlamentari verso Di Maio, o verso il gruppo misto su posizioni estremiste dibattistiane”. 

Questa crisi rientra o no?

Nessuno può saperlo. Secondo me non lo sanno neanche i tre protagonisti principali: Draghi, Mattarella, Conte.

Da che cosa dipende di più la possibilità che un Draghi bis si realizzi?

Prima del bis, perché escludere che Draghi vada avanti con questo governo? I grillini ci hanno abituato a tante inversioni a U. Una più, una meno. Magari con un’ulteriore fuoriuscita di loro parlamentari verso Di Maio, o verso il gruppo misto su posizioni estremiste dibattistiane.

Ma qual era il piano di Conte? Non certo quello di andare al voto; piuttosto una scommessa sulla prosecuzione del governo senza M5s, in modo da affiancarsi alla Meloni e risalire nei sondaggi stando all’opposizione? 

Conte vuole solo mostrare ai suoi elettori che non piega la testa di fronte a Draghi. In questo senso ha già ottenuto il suo scopo, ha drammatizzato al massimo. Ora potrebbe anche smettere di fare ammuina, e chetarsi per “spirito di responsabilità”.

Adesso c’è il dilemma dei ministri. Che cosa faranno Patuanelli, d’Incà e Dadone?

Ci sono anche i sottosegretari e i presidenti di commissione. Nessuno vuole rinunciare alla poltrona. Per questo qualsiasi grillino ricopra una qualsiasi carica è governista, e vuole continuare col governo Draghi.

Si parla di un voto online, di far decidere agli iscritti se votare la fiducia a Draghi oppure no. È la strada giusta? Non mi pare ci sia il tempo, prima di mercoledì mattina. I Casaleggio lo avrebbero già fatto.

Attualmente chi è per la linea dura?

La vicepresidente del Senato Paola Taverna è scatenata, anche perché non le costa nulla: la sua è una carica istituzionale, non la perderebbe. Come Fico. Anche Toninelli vuole lasciare il governo Draghi, dopo aver perso la poltrona di ministro. E Virginia Raggi, che però non conta nulla.

Se M5s ritira i ministri, la porta per un Draghi bis sarà praticamente chiusa. A quel punto?

Un governo istituzionale guidato dalla presidente del Senato Casellati o di emergenza tecnica con premier Daniele Franco, ministro dell’Economia. Ma si dovrebbe votare a ottobre. E Mattarella invece la vuole tirare per le lunghe. 

M5s ha difeso alcuni suoi provvedimenti. La loro scelta non è anche una risposta all’offensiva e al logoramento governativo, vedi partito di Di Maio?

Certo. Se sono contro i termovalorizzatori e le armi all’Ucraina, e invece difendono le truffe del superbonus e del reddito di cittadinanza, sono coerenti e fanno bene a rompere.

Prevedi altre uscite in direzione centro?

È uscito un sondaggio con il M5s di Conte al 12% e Di Maio al 2%. Per questo i grillini si sono ringalluzziti: extra ecclesia nulla salus. Chi lascia il Movimento è morto, com’è già capitato a Pizzarotti, Paragone e a tutti gli espulsi.

Federico Ferraù

Thursday, July 14, 2022

Eugenio Scalfari radicale, 1960: quando nacque la cordiale inimicizia con Bettino Craxi

Quando fu consigliere comunale a Milano, prese quasi quattro volte le preferenze del futuro leader socialista, con cui avrebbe combattuto battaglie politiche

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 14 Luglio 2022 

Una delle pagine meno conosciute, fra le mille della vita di Eugenio Scalfari, è quella di consigliere comunale a Milano. Fu eletto due giorni prima di John Kennedy a presidente Usa, il 6 novembre 1960, in una lista comune fra il partito socialista e quello radicale, di cui il 36enne Scalfari era vicesegretario. 

Un trionfo, perché nonostante la loro scarsa consistenza (alle elezioni precedenti avevano raccolto appena l'1%) i radicali elessero ben quattro consiglieri. E Scalfari svettò con 3.678 preferenze personali, superato solo da big Psi come l'ex ministro Ezio Vigorelli e il futuro sindaco Aldo Aniasi. Viceversa, un certo 26enne di nome Bettino Craxi, allora segretario di sezione a Sesto San Giovanni, ottenne soltanto 979 preferenze, e ce la fece per il rotto della cuffia: terzultimo dei 19 eletti Psi. Fu lì che cominciò la cordiale inimicizia Scalfari/Craxi, culminata negli anni '80 con la predilezione per Ciriaco De Mita e il Pci da parte del gruppo Espresso-Repubblica, contro il premier Craxi e poi il Caf.

Scalfari nel 1960 godette ovviamente dell'appoggio del suo settimanale Espresso, fondato cinque anni prima con il direttore Arrigo Benedetti e l'editore Carlo CaraccIolo. È impressionante l'elenco di firme che appoggiarono le liste radicalsocialiste alle comunali italiane: Moravia, Sciascia, Elsa Morante, Flaiano, Pannunzio, Franco Fortini, Mastroianni, Gassman, Vittorio Caprioli, Mario Soldati, Camilla Cederna, Guido Calogero, Bruno Zevi. 

Il gotha degli intellettuali e artisti del progressismo non comunista tifava Psi-Pr in vista dell'apertura al centrosinistra, l'equivalente della Nuova frontiera kennediana in America. A Milano con i radicali fu eletto anche Elio Vittorini, a Roma Arnoldo Foà e Antonio Cederna. 

Scalfari rimase in consiglio comunale a Milano fino al 1963, quando si dimise per le incombenze di direttore dell'Espresso. E lasciò la vicesegretaria radicale un anno prima, perché il segretario Piccardi fu accusato di aver partecipato a un convegno sulla razza durante il fascismo. A loro subentrarono Marco Pannella e i suoi 'nuovi radicali': Spadaccia, Teodori, Mellini, Bandinelli. 

Scalfari fu di nuovo eletto nel Psi, questa volta come deputato, nel 1968. Sfuggì cosi, grazie all'immunità parlamentare, alla condanna al carcere per la sua famosa inchiesta (firmata con Lino Jannuzzi) sul tentato golpe del 1964 con il coinvolgimento del Sifar. 

Ma anche nei suoi quattro anni alla Camera Scalfari dovette subire la sorda ostilità di Craxi, diventato pure lui deputato socialista nel collegio di Milano. Così rimase un peone, non gli fu offerto neanche un sottosegretariato, una presidenza di commissione. E nel 1972 abbandonò disgustato la politica attiva. Non senza aver riscoperto, l'anno precedente, gli antichi ardori anticlericali: affiancò Pannella nella richiesta di un referendum contro il Concordato, per contrastare la campagna cattolica contro il divorzio. 

Poi, nel 1975, schierò il suo Espresso nella raccolta di firme radicale per la depenalizzazione dell'aborto. Dopodiché, anche con Pannella come con Craxi subentrò una definitiva antipatia: tre liberalsocialisti con personalità troppo forti e caratteri troppo diversi.

Mauro Suttora

 

Monday, July 11, 2022

Alleluja, ora tutti vogliono il Ponte sullo Stretto. E quindi non si farà

Il Pd e financo i 5 Stelle siciliani hanno cambiato idea sull'opera che è in ballo da mezzo secolo, ma che nessun governo è stato capace di costruire. Ci scommettiamo: anche stavolta nisba

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 11 Luglio 2022  

'Il Ponte sulla Drina' di Ivo Andric racconta vicende che si dipanano per quattro secoli. Quello sul fiume Kwai ha di esacerbante soltanto la durata del film, quasi tre ore, il che non gli impedì di vincere sette Oscar. Il ponte di Messina è in ballo da oltre mezzo secolo, ma ieri è arrivato un colpo di scena: la candidata grillina alla regione Sicilia, Barbara Floridia, ha detto sì. E poiché anche quella del Pd ha detto forse, e tutto il centrodestra è da sempre favorevole alla costruzione, l'unico contrario è rimasto Claudio Fava dell'estrema sinistra.

Quindi il ponte sullo Stretto si farà, visto il consenso politico al 90 per cento? Ma figurarsi. Non sarà certo il voto regionale di ottobre a deciderne la sorte. Perché da quelle parti la storia si misura non in secoli, ma in millenni. Scilla e Cariddi se la ridono, osservando gli inani conati di noi piccoli umani: negli ultimi decenni abbiamo buttato centinaia di milioni in progetti, società apposite, consigli d'amministrazione e consulenze. Unico risultato: il nulla. Soldi inghiottiti nel cratere dell'Etna, scomparsi nei boschi dell'Aspromonte.

Ricordo una fastosa e festosa spedizione all'hotel Plaza di New York vent'anni fa: una nutrita delegazione di qualche ente parastatale venne in gita in America con la scusa di presentare il progetto definitivo ai giornalisti Usa e a noi corrispondenti italiani: "Fra pochi mesi parte il project financing". Scommisi sorridendo con il capufficio stampa dell'ente che, nonostante il suo ottimismo da governo berlusconiano, ci saremmo rivisti vent'anni dopo senza Ponte. Ero diventato scettico e saggio come un siciliano. Adesso ho vinto, ma ho perso perfino la voglia di riscuotere. Mi hanno preso per stanchezza, se non sanno come buttare i miliardi del Pnrr possono riprovarci.

Tutti noi siamo stati pro e contro il Ponte, in questi decenni. Abbiamo anche cambiato idea, quindi non daremo addosso alla povera grillina che ha effettuato l'ultima inversione a U dopo Tav, Tap, Triv, Pd, Nato, Draghi, euro, la suocera.


Quand'ero piccolo rimanevo affascinato dai disegni colorati del Ponte su Epoca e la Domenica del Corriere. Negli anni 70 arrivarono i dubbi: zona sismica, zona mafiosa, correnti troppo forti, i costi, i disoccupati dei traghetti Caronte, attentati terroristici, il panorama rovinato. Confesso che mi impressionò in particolare l'avvertimento di un ingegnere: troppi cadaveri cementati nei piloni ne minerebbero la stabilità.  Ciononostante, ogni premier con un minimo di manie di grandezza (cioè tutti tranne Monti) ha sempre detto sì al Ponte, da Craxi a Renzi.

Nel 2000, il colpo gobbo: inaugurano il ponte Danimarca-Svezia. Costruito in cinque anni, lungo il doppio del nostro e costato la metà: due miliardi e mezzo. Con i soldi dei pedaggi, 45 euro, finirà di pagarsi nel 2030. Una spinta irresistibile per il Ponte sullo Stretto? Macché. I soliti ragionierucoli avvertono che i siciliani sono solo cinque milioni, un quarto dei norvegesi e svedesi serviti dal loro ponte. Troppo pochi. Quindi hai voglia a ripagarsi, anche calcolando i turisti.

Il vero problema è che dobbiamo smettere di calcolare. L'unico modo di costruire il Ponte di Messina è riservare ai contrari la stessa fine che i turchi infliggevano ai serbi che si opponevano a quello sulla Drina nel '500: l'impalamento. E i grillini che non approveranno l'ennesima giravolta dei loro capi saranno condannati ad attraversare lo Stretto come Grillo dieci anni fa: nuotando. Ah, come dicono oggi, bisogna anche cambiare la narrazione. Ribrandizzare. Quindi eliminare la parola Stretto: misera, negativa. Meglio Ponte dell'Infinito.

Mauro Suttora

 

Sunday, July 10, 2022

Ci mancava il forzista friulano che vuole essere risarcito da Biden per l'Ucraina

Il presidente del consiglio regionale del Friuli, Mauro Zanin

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 10 Luglio 2022 


Neanche al più scatenato dei putinisti era finora venuto in mente di chieder soldi agli Stati Uniti (invece che a Putin) come 'ristoro' per la guerra in Ucraina.


C'è riuscito oggi Piero Mauro Zanin, presidente del consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia: "La guerra affonda l'Italia, gli Usa paghino i costi", propone sul Messaggero Veneto.
"Il pensiero unico imposto dalla Nato a forte trazione americana ci ha fatti schierare a supporto di un incondizionato, frettoloso, scomposto e ingenuo appoggio all'Ucraina", denuncia Zanin, "in un conflitto che si è voluto semplificare come quello dei buoni contro i cattivi".

Linea dura che non possiamo permetterci: "Mostriamo muscoli che la palestra del benessere ha afflosciato, se non azzerato". Saremmo dei mollaccioni, insomma: "Invece di ricercare pace e dialogo finanziamo armanenti e rifiutiamo confronti con la Russia, adducendo scuse di ogni tipo". La colpa, per Zanin, è tutta della "politica espansionistica e imperialista degli Usa, che potrebbe farci affondare. Invece di offrire briciole per la ricostruzione dell'Ucraina, gli americani dovrebbero ristorare l'Europa in cambio dei nostri sacrifici". 

Parole a metà  fra centri sociali e bottegai piccolo borghesi in cerca di risarcimento. Peccato che i talk show siano in pausa estiva, altrimenti Zanin, già sindaco di Talmassons (Udine), avrebbe una ribalta assicurata. Tanto più che non è un estremista grillino o leghista, ma un dirigente di Forza Italia. Povero Berlusconi.

 

Thursday, July 07, 2022

Crisi a Pornminster: la fantastica attitudine inglese al pruriginoso più goffo

Boris Johnson cade per questioni di avances e pizzicotti. Da Sarah Ferguson, al principe Andrea, fino ai frustini di Max Mosley. Storia della scoperta stupefatta del sesso trasgressivo

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 7 Luglio 2022


Soltanto in Inghilterra. Solo gli inglesi possono far fuori un premier per questioni pruriginose, goffe e imbarazzanti come i palpeggiamenti e le avances di un vicecapogruppo conservatore a suoi portaborse (maschi), e perfino a colleghi parlamentari più giovani. Cosa aspettarsi, d'altronde, da un tizio che si chiama Chris Pincher, e che quindi si limita a fare onore al proprio cognome, "dispensatore di pizzicotti"? 

I tabloid ringraziano, tutti i particolari vengono spiattellati in cronaca, le tirature esplodono. Nel prestigioso Carlton club di Piccadilly il disgraziato una settimana fa si è fatto espellere completamente ubriaco, dopo averci provato con due tipi durante una festa per Cipro. Rispedito a casa in taxi, nulla di illegale perché tutti maggiorenni. 

Ma era stato proprio Boris Johnson a nominarlo 'vicefrusta' (altre ironie, i capigruppo si chiamano whip), recuperandolo dopo anni di oblio causati proprio dal suo vizietto. Così dal sifone del passato riemergono episodi di vent'anni fa, il canottiere muscoloso che doveva massaggiare Pincher in cambio di promesse di carriera nel partito, un vicesindaco, e poi altri "metoo" a volontà.

Noi guardoni d'Oltremanica ci divertiamo, eravamo rimasti all'alluce della principessa Sarah Ferguson succhiato smodatamente da uno spasimante, mentre più inquietanti appaiono le imprese recenti del suo ex marito, quel vecchio porco che si è rivelato con l'età il principe Andrea. E ricorderete il vecchio Max Mosley, re della Formula 1, col sedere al vento e una signorina che glielo frusta.

Il problema non sono gli "sporcellamenti" (cit. Abatantuono) in sé, ma l'uso politico che ne risulta. Westminster diventa Pornminster perché il premier Johnson non ha l'accortezza di organizzare festicciole eleganti nelle sue case private, ma usa l'alloggio ufficiale di servizio a 10 Downing Street, e per di più in periodo di lockdown.

"Boris è un bugiardo seriale, deve andarsene", ha sentenziato il Times, quotidiano conservatore. Non perché abbia tradito la sua stupenda e arrivista terza moglie, ma perché ha mentito per coprire porcherie altrui. Non tangenti, furti, errori politici: solo sesso, il famoso sesso inglese un po' tristanzuolo come le lenzuola dello scandalo Profumo.

Egualmente a Clinton crocefisso non per la fantozziana avventura sotto la scrivania, ma per lo spergiuro successivo.

Insomma, può darsi che il Times abbia ragione. Che sia giusto silurare Johnson in tempo di guerra, perché inaffidabile. Ma trovate ragioni serie, economiche, politiche. Non colpi sotto la cintura per svelare imprese sotto la cintura. Dateci un'uscita di cena alla re Lear, al limite alla Falstaff. Qualcosa di grandioso, non pettegolezzi di seconda mano trattando l'esuberante Boris come se fosse un misero "dirty old man" (cit. Lennon, Abbey Road).

Mauro Suttora

Le armi nucleari sono vietate (anche se non se n'è accorto nessuno)

Da ben cinque anni, ma i paesi che hanno la bomba Usa, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, India e Pakistan quel trattato non lo hanno firmato. Bisognerà, dopo l'Ucraina, riprendere la strada della non proliferazione

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 7 Luglio 2022 


Cinque anni fa, il 7 luglio 2017, l'Onu ha vietato le armi atomiche. Non se n'è accorto nessuno, perché il trattato che le mette al bando è stato firmato finora da un'ottantina di Paesi. E fra questi naturalmente non ci sono quelli che le bombe nucleari le hanno: Usa, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, India e Pakistan. 


Non aderiscono al Tpnw (Treaty for the Prohibition of Nuclear Weapons) neanche i Paesi Nato, la cui dottrina è la deterrenza atomica: le useremo soltanto in risposta a chi le lanciasse contro di noi. E men che meno l'Italia, uno dei cinque Paesi europei che ospita testate atomiche Usa sul proprio territorio (oltre a Germania, Olanda, Belgio e Turchia). Come Berlinguer nel 1976, ci sentiamo più sicuri così. 

Il bando alle armi atomiche era da più di mezzo secolo il sogno dei movimenti pacifisti di tutto il mondo. Il fatto che nel 2017 per la prima volta abbia ricevuto l'imprimatur dall'Onu è stato quindi una loro grande vittoria. Non per nulla nello stesso anno il premio Nobel per la pace è stato assegnato all'Ican (Campagna internazionale per l'abolizione delle armi nucleari), cui aderiscono centinaia di associazioni: per l'Italia una quarantina, dalla Rete pace e disarmo di Mao Valpiana alla Lega Ambiente, da Pax Christi ai Disarmisti esigenti di Alfonso Navarra.


Per il quinto anniversario del trattato l'Ican ha fatto il punto della situazione in un incontro a Vienna. Ironia della sorte: la Campagna è guidata da un'avvocatessa svedese, Beatrice Fihn. E proprio in questi giorni il suo Paese, storicamente pacifista, sta entrando nella Nato.

La guerra di Putin all'Ucraina ha allo stesso tempo indebolito e rafforzato le ragioni degli antinucleari. Da una parte l'aggressione ha drammaticamente riportato il mondo indietro di 80 anni: fu Hitler, infatti, l'ultimo a invadere un Paese in Europa. La guerra è tornata possibile, e i pacifisti sono rimasti spiazzati. 

D'altra parte, però, proprio il rischio che un conflitto possa degenerare in guerra atomica dimostra quanto sia prezioso arrivare prima o poi a un disarmo: almeno atomico, almeno parziale. Certo, poco importa che uno Stato possa contare su un centinaio di testate atomiche (come Francia e Regno Unito) o un migliaio (come Russia e Usa). Per schiacciare il bottone nucleare basta un solo autocrate aggressivo, e Putin ha dimostrato che il pericolo esiste.


Sarebbe sbagliato, quindi, relegare la campagna dell'Ican fra le utopie ireniste. Bisognerà, dopo l'Ucraina, riprendere la strada faticosa dei trattati di non proliferazione, di riduzione e di proibizione delle armi nucleari. Qualsiasi de-escalation, ovviamente reciproca e bilanciata, sarà preziosa.

 

Sunday, July 03, 2022

Da Hitler a Putin: due corridoi per la stessa città

I lituani, 80 anni dopo i polacchi, giocano col fuoco: bloccano il Corridoio di Suwalki che collega la russa Kaliningrad alla Russia, così come Varsavia bloccava il Corridoio di Danzica che collegava la tedesca Königsberg alla Germania. Speriamo che l'esito non sia simile

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 3 Luglio 2022

Il 24 ottobre 1938, tre settimane dopo gli accordi di Monaco (una delle pagine più vergognose nella storia della viltà e stupidità mondiale), il ministro degli Esteri nazista Von Ribbentrop invita a pranzo l'ambasciatore polacco Lipsky al Grand Hotel di Berchtesgaden. 

Verso la fine del pasto gli presenta un piano per la cessione alla Germania della Città libera di Danzica (inventata nel 1919, come quella di Fiume) e la costruzione di un'autostrada e di una ferrovia per collegare il Terzo Reich alla Prussia Orientale, attraverso il corridoio che univa la Polonia al suo unico porto, Gdynia. 

In cambio, Hitler avrebbe prolungato di 25 anni il patto decennale di non aggressione Berlino-Varsavia, in scadenza nel 1944. Una fregatura, in pratica: Danzica in cambio del nulla.

Esattamente come gli accordi di Minsk che negli anni scorsi Putin avrebbe voluto fare ingoiare all'Ucraina: l'annessione delle due repubbliche fantoccio filorusse del Donbass in cambio di vaghe e vacue promesse sul futuro. Col senno di poi, è agghiacciante ma istruttivo ricordare come si dipanarono i rapporti Germania-Polonia in quegli ultimi mesi di pace. 

Il 5 gennaio 1939 è la volta del ministro degli Esteri polacco Beck recarsi a Berchtesgaden, accompagnato dalla moglie. Prendono un tè con Hitler in persona, l'atmosfera è cordiale, partecipa anche la signora Göring. 

Beck ribadisce al dittatore nazista la riluttanza di Varsavia all'annessione di Danzica, e Hitler non insiste più di tanto. Promette che non avrebbe creato alcun "fatto compiuto" per regolare la questione (tradotto: non l'avrebbe invasa), e anzi aggiunge quest'incredibile frase: "La Germania avrà sempre tutto l'interesse a conservare una Polonia fortemente nazionalista, sia che la Russia abbia un regime bolscevico o zarista". 

Il lupo che solo otto mesi dopo si sarebbe spartito con Stalin l'agnello polacco spiega addirittura a Beck quanto tenga alla Polonia come cuscinetto di protezione contro il comunismo russo: "L'esistenza di un esercito polacco potente rappresenta per la Germania un considerevole sollievo. Le divisioni che la Polonia tiene sulla frontiera russa ci risparmiamo un onere militare corrispondente" (dobbiamo il virgolettato a Paul Schmidt, interprete tedesco dell'incontro).

Il 30 gennaio 1939 Hitler loda il "gran maresciallo polacco, il soldato patriota Pilsudski", e ribadisce: "Sarebbe difficile trovare una divergenza d'opinioni fra i veri amici della pace. L'amicizia polacco-tedesca si è dimostrata un fattore di distensione nella vita politica europea". 

Un amicone. Sappiamo tutti come andò a finire: il 15 marzo i nazisti invadono la Cecoslovacchia, violando gli accordi di Monaco firmati appena cinque mesi prima. Gli esterrefatti polacchi corrono ai ripari siglando un patto di mutua assistenza con Gran Bretagna e Francia, le quali si obbligano a difenderla in caso di aggressione.

Ma questo non impedisce loro di accettare un regalo avvelenato da Hitler: due piccoli distretti carboniferi al confine boemo. La Polonia diventa così complice di Germania e Ungheria nella spartizione della Cecoslovacchia. Ma non cede sul Corridoio di Danzica.

Anche qui, occorre precisare che la città anseatica era tedesca al 90%, e quindi i pacifisti occidentali furono facilmente abbindolati da Hitler: non si poteva certo "morire per Danzica". Ci volle Pearl Harbor nel dicembre 1941 per convincere del contrario i più stolidi fra loro, gli statunitensi.

Oggi, coincidenza della storia, un altro Corridoio diventa casus belli: quello di Suwalki, che collega la putiniana Bielorussia all'exclave russa di Kaliningrad. Stiamo sempre parlando dell'ex Prussia orientale, poche decine di chilometri a est di Danzica. Kaliningrad era la culla teutonica della Germania, una specie di Piemonte tedesco con gli Hohenzollern al posto dei Savoia. Si chiamava Königsberg e fu capitale prussiana fino al trasferimento a Berlino nel 1702.

Per uno scherzo del destino vi nacque il massimo filosofo della pace perpetua, Kant, e vi crebbe la massima studiosa dei totalitarismi del '900, Hannah Arendt. La Prussia orientale cessò di esistere nel 1945, spartita fra la Polonia comunista e l'Urss. La pulizia etnica contro i tedeschi fu totale. E oggi Kaliningrad è l'unica città ex sovietica ad aver mantenuto il nuovo nome in onore di un capo stalinista, Kalinin.

I lituani, 80 anni dopo i polacchi, ora giocano col fuoco: bloccano il Corridoio che collega la russa Kaliningrad alla Russia, così come Varsavia bloccava il Corridoio di Danzica che collegava la tedesca Königsberg alla Germania. Speriamo che l'esito non sia simile.

Mauro Suttora 


Friday, July 01, 2022

Da Fedez a Elisa Esposito, senza il nozionismo è tornata l'ignoranza

Cosa si insegna nelle scuole se amabilmente una tiktoker può confessare di non conoscere l'autore di "Nel mezzo del cammin di nostra vita?

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 1 Luglio 2022


"Beppe insieme a Gianroberto ci hanno regalato un sogno", ha scritto l'altroieri la vicepresidente grillina del Senato, Paola Taverna. Nulla di grave, anche se la concordanza fra soggetto e verbo sta nel programma di terza elementare. Avevamo concesso la licenza poetica al Jovanotti di "non c'è niente che ho bisogno", quindi possiamo regalare anche una licenza politica alla dolce creatura di Grillo e Casaleggio.


Il problema, però, sono le esondazioni. Perché ormai gli strafalcioni tracimano e ci travolgono, basta accendere la tv e sbirciare i social per essere divertiti o disgustati dall'ignoranza che aumenta quanto l'acqua in Valtellina nel 1987. 

"Nel mezzo del cammin di nostra vita? Non so chi lo ha scritto", ha confessato la influencer Elisa Esposito, nonostante abbia conquistato 830mila follower su Tiktok fregiandosi del titolo di 'Prof del corsivo'. La sventurata è poi precipitata nel girone degli impuniti difendendosi così: "State facendo un dramma sulla Divina Commedia, quando il 90 per cento degli italiani non sa manco fare due per due. Mollatemi, insegno il corsivo, non letteratura". 

Dante Alighieri non è mai stato fortunato in tv. Una ventina d'anni fa fu confuso per assonanza con Santi Licheri, giudice di Forum, da un concorrente della prima edizione del Grande Fratello, Salvo il pizzaiolo. Al quale poi Rocco Casalino impartì lezioni di letteratura. 

Oggi è doloroso il rapporto di rapper e influencer con la cultura, Fedez non sa chi è Strehler e sua moglie ci ammorberà con ulteriori predicozzi a Sanremo dopo quelli di Rula Jebreal et similia.
Io guardo apposta i preserali su Rai1, l'Eredità e ora Reazione a catena, per mettermi di buonumore prima di cena. Gli sfondoni sono assicurati, perché ai concorrenti tocca passare dall'orale allo scritto, dall'orecchiato alla carta che canta. Così l'accozzaglia diventa "la cozzaglia", l'impero romano dura fino al 1400, Einstein e Rubinstein risultano intercambiabili.


Sui social, poi, è l'apoteosi: un putiniano l'altro giorno ha assicurato che la Russia non vuole invadere anche la "Bessarabia Saudita".
Poiché le castronerie aumentano col diminuire dell'età degli autori, la questione è: cosa sta succedendo nelle nostre scuole?
Non è che noi boomers siamo solo barbogi brontoloni, che dimenticano i variegati analfabetismi delle generazioni passate?

"A me m'ha rovinato 'a guera", gemevano Petrolini e Sordi. Questi invece incolpano il virus che li ha costretti in casa per due anni. Come se nelle case non ci fossero libri, giornali o anche solo wikipedia con cui colmare le proprie lacune.

La verità, invece, è che dappertutto (elementari, medie, università) ha vinto la sociologia. E ha perso il nozionismo. Non si insegnano più quelle mille date, nomi e fatti che distinguono l'uomo dalla scimmia, perché sono appigli minimi ai quali aggrapparsi senza dover vagare di liana in liana, privi di punti di riferimento. 

Noi sapevamo a memoria tutte le cento province d'Italia, oggi c'è il navigatore. Per ricordarsi le capitali del mondo basta Google. Nelle aule è tutto un trionfo di "percorsi formativi" all'interno di "progetti educativi", "nella misura in cui si porta avanti un discorso dentro a un quadro organico".


Perfino i testi delle canzonette sono rovinate da sociologismi astratti al posto dei fatti concreti che in tre minuti raccontavano una storia: "Io l'altra notte l'ho tradita", iniziava Celentano, e poi tutti curiosi di sapere come finiva.
Ora invece sono tutti psicologi ai quattro formaggi, si portano dietro le loro paure e i loro traumi. 

Idem con la storia: quelli di sinistra spiegano ogni cosa con la "crisi della borghesia" e il "trionfo del neoliberismo", a destra replicano con "cadute di valori" e "perdita d'identità". Ma indicatemi una data, caspita, una battaglia, un personaggio che ha segnato la svolta fra un prima e un dopo.


Le nostre maestre ci deliziavano con aneddoti, da Muzio Scevola ad Attilio Regolo, da Maramaldo a Garibaldi. Imparavamo così automaticamente, senza sforzo, concetti basilari come l'onore, il rispetto, la parola data, la codardia, l'infingardaggine, l'eroismo. Ci bastava ascoltare a otto anni il discorso ai plebei di Menenio Agrippa per intuire la fregatura eterna che i ricchi tirano ai poveri, senza bisogno di arrivare fino a Marx. E come fa a capire le elementari ragioni degli ucraini chi non conosce Pietro Micca?


Quindi i giovani sono incolpevoli. Quelli di loro che immagazzineranno dati, li useranno e si daranno da fare,  prevarranno. Gli altri, che i dati li snobberanno per rifugiarsi in teorie parareligiose (complottismo, grillismo, leghismo, fascismo, comunismo, sovranismo, novax, sìPutin), combineranno poco come sempre. E alla fine cercheranno di farsi mantenere dai primi col reddito di divananza.

Mauro Suttora

Friday, June 24, 2022

Pochi figli, pochi medici. L'università di Milano cerca di rimediare

di Mauro Suttora

Un nuovo regolamento facilita la vita degli studenti che fanno figli, ma sono anche determinati a continuare gli studi di medicina. L'auspicio che la ministra Messa si attivi

HuffPost, 24 Giugno 2022 


In Italia si fanno pochi figli e medici. Cosicché ci tocca importare dall'estero gli uni e gli altri. Un mese fa l'università statale di Milano ha adottato un nuovo regolamento che facilita la vita sotto entrambi gli aspetti: gli studenti che fanno figli, ma sono anche determinati a continuare gli studi di medicina.

In deroga al numero programmato, le studentesse milanesi rimaste incinte (o gli studenti futuri padri) che frequentano altre università in Italia possono rientrare a Milano, per farsi assistere dalla famiglia di origine nella cura del figlio, senza dover abbandonare o rallentare gli studi. 

La figlia di C.B., 20 anni, nascerà a settembre e si chiamerà Aurora. C.B. lo scorso ottobre è dovuta emigrare a Ferrara, perché la facoltà di medicina nella sua Milano aveva esaurito i posti a numero chiuso. Nonostante la gravidanza non prevista ha superato tutti gli esami del primo semestre e sta completando quelli del secondo. Ma quasi sicuramente non avrebbe potuto ottenere il trasferimento nella propria città di origine senza il provvedimento dell'università di Milano, perché per il secondo anno si è liberato un posto solo. 

Adesso, per essere sicura di poter beneficiare della benedetta deroga (che riguarda anche gli studenti con disabilità gravi), attende il decreto annuale che verrà emesso a giorni dal ministero dell'Università. Perché senza la convalida di Roma gli atenei non possono applicare i loro regolamenti innovativi. 

Mi permetto quindi di auspicare che la ministra Maria Cristina Messa, prima rettrice donna di un'università milanese (Bicocca, dal 2013 al 2019), agevoli l'iter del decreto che semplifica la vita a ragazze meritevoli come C.B.

Mauro Suttora


Thursday, June 23, 2022

Beppe Grillo, il perfetto élitario











Ha guidato il popolo contro le élites ma disprezza le sue creature, scompare e riappare, non si mescola a loro, li tratta come codazzo, entourage plaudente, dipendenti da convocare al suo cospetto al Forum o a Bibbona. E si fa chiamare l'Elevato, appunto

di Mauro Suttora

HuffPost, 23 giugno 2022 

"Siete dei miracolati! Non guadagnavate un cazzo prima di conoscere me!". Si misero a ridere Di Maio, Di Battista, Fico, Taverna e Ruocco quando qualche anno fa, da un palco, Beppe Grillo urlò loro in faccia la verità. Al buffone è sempre stato permesso rivelare che il re è nudo, figurarsi quando è lui stesso il re (dei grillini, e per qualche anno anche della politica italiana). 

Il geniale comico, nascondendosi dietro all'ambiguità serio/faceto, i suoi adepti li ha sempre presi in giro sanguinosamente. Ne sa qualcosa Beppe Conte, che giusto un anno fa venne accusato di "non avere visione politica, capacità manageriali e di innovazione, né esperienza di organizzazioni. Fa statuti seicenteschi".

Dopo una sentenza così definitiva fu proprio Di Maio, con Fico e Taverna, a rappattumare i rapporti fra i due Beppe. Ma quanto avesse ragione Grillo lo dimostra il disastro di questi giorni. 

Il problema è che il fondatore del Movimento 5 stelle è un vero elitario. In barba alla polemica populista contro le élites, è proprio Grillo ad avere sempre disprezzato le sue creature. Non si è mai mescolato a loro. Li ha trattati come codazzo, entourage plaudente, dipendenti da convocare al suo cospetto nel proprio hotel quando 'scende' a Roma. 'Scendevano' a Roma gli imperatori, per farsi benedire dai papi. Ma lui è sia imperatore che papa del M5s, ha comandato e benedetto per 15 anni secondo il suo capriccio. 

Le rare volte in cui si è avventurato in qualche riunione del movimento a Montecitorio ne è uscito schifato, assediato in ascensore da sudati parlamentari grillini in cerca di attenzione e dagli odiati giornalisti. 

Dal 2013 gli eletti pentastellati si dividono in tre categorie: quelli che hanno il numero di telefono di Beppe (pochi), quelli a cui risponde (pochissimi), e tutti gli altri. È questa la vera gerarchia nascosta del M5s: uno vale uno, ma in realtà quasi tutti valgono niente.

L'unico altro grande sintomo di prestigio per il dirigente grillino, oltre ai colloqui privati nell'hotel Forum di Roma, è stata la agognata 'convocazione a Bibbona'. Una delle tre ville di Grillo. Le residenze di Genova e Porto Cervo sono off limits per la politica, anche per il veto della moglie Parvin. Nel villone sulla spiaggia toscana, invece, l'Elevato ha distillato negli anni le sue personali e volubili preferenze. 

Erano felici come bambini quella dozzina di neoeletti ammessi al suo cospetto nell'estate 2013. Foto di gruppo, mancava solo Di Maio, troppo azzimato per lasciarsi andare sudato nella sabbia.

Grillo ha sempre tenuto i suoi a distanza di sicurezza.  Ho seguito da giornalista per anni i suoi comizi, gli Tsunami tour e le nuotate nello Stretto. Lì c'era ancora una possibilità di vicinanza fisica.

Poi la svolta, al comizio finale di San Giovanni nella campagna elettorale 2014. Per la prima volta appaiono barriere fisiche backstage e badge di plastica come per le star del rock, nessuno più ammesso nel retropalco. Non solo noi detestati pennivendoli, tenuti a bada da un certo addetto stampa Casalino in ascesa, ma neanche i dirigenti grillini di rango medio-basso.


Cosicché, se volevo scambiare quattro chiacchiere con Beppe (e magari trasformarle in storia di copertina per il mio settimanale, Oggi), per me era semplice: bastava andare sulla sua spiaggia del Cala di Volpe in Costa Smeralda, oppure nella zona vip del concerto degli Stones al Circo Massimo nel 2014. 

Lì i comuni mortali non entravano, e anche un giornalista americano che intervistò Grillo (lui ha l'abitudine tremendamente provinciale e snob di preferire i giornali stranieri) si meravigliò per l'appuntamento fissato al Golf del Pevero.
 "Quando questa commedia finirà, tu tornerai nel tuo bilocale della borgata Torre Maura, e Grillo nelle sue residenze milionarie", scherzai con Paola Taverna.

Anche i Casaleggio, alla faccia della democrazia diretta, hanno sempre mantenuto le distanze dal popolo 5 stelle. La fidanzata precedente del bocconiano Davide (i bocconiani non hanno mai capito nulla di politica) viveva in un castello piemontese. Una volta che il rampollo vi invitò alcuni capi grillini questi si aggirarono increduli nel parco e nei saloni. Mondi separati.  

L'unico politico italiano che abitava in una soffitta e aveva un piacere quasi fisico a stare sul marciapiede, a raccogliere firme nei tavolini per strada con i suoi, a farsi trascinare via dai poliziotti nei sit-in, a passare ore e giorni fra riunioni e congressi noiosi, era Marco Pannella. 

I radicali sono accusati di essere radicalchic. Ma certi "amici del popolo" come Grillo alla fine si sono rivelati più altezzosi di loro.

Mauro Suttora

Tuesday, June 21, 2022

Nu bambiniello e tre San Giuseppe



di Mauro Suttora 

Una commedia di quarant’anni fa (quando i Conte e i Di Maio erano altri) rinverdita oggi con la partecipazione straordinaria di Grillo e Sala

HuffPost, 21 giugno 2022 


Prima coincidenza: uno dei più grandi autori di sceneggiate napoletane si chiamava Gaetano Di Maio. Nessuna parentela, scomparso prematuramente nel 1991, divenne famoso per la serie tv Michele Settespiriti con Nino Taranto negli anni '60.

Seconda coincidenza: la commedia più celebre di Di Maio è 'Nu bambiniello e tre San Giuseppe', messa in scena infinite volte negli ultimi quarant'anni.

Terza coincidenza: fu portata in scena dalla Compagnia stabile di Conte, intesa Luisa, e di nuovo no parentele. 

E qui si innesta la quarta, incredibile coincidenza. Perché il 35enne Luigino Di Maio, senza offesa, risulta ancora un bambiniello, secondo i criteri della nostra politica. 

Ma soprattutto perché, dopo il primo San Beppe (Grillo) che lo ha miracolato lanciandolo in politica, e il secondo Giuseppe (Conte) che ha miracolato lui inventandolo premier ma ricevendone solo l'attuale ingratitudine, ora il ministro degli Esteri ha incontrato un terzo San Giuseppe che potrebbe garantirgli la sopravvivenza politica: il sindaco di Milano Beppe Sala. 

Non è un mistero, infatti, che in vista delle politiche del prossimo marzo si stia preparando una lista di centro 'draghiana' con i grillini ministeriali dimaiani, le ministre forziste Carfagna e Gelmini, il mattarelliano Cottarelli, i centristi Toti e Brugnaro. 

Sala rimarrebbe sindaco di Milano, non si candiderebbe, ma benedirebbe e garantirebbe dall'alto il tutto. Quattro coincidenze non fanno una prova, neanche per i grillini forcaioli. 

Ma certo la sceneggiata napoletana-pugliese in corso in questi giorni sta tutta in quel fortunato titolo del 1981.

Il bambiniello è diventato guaglioncello, ha affinato capacità trasformiste prodigiose quasi quanto quelle di Conte: fino al 2018 era contro la Nato, voleva "superarla", "andare oltre", accusandola proprio di essere troppo dura e provocante contro il povero Putin. 

Ora invece difende l'alleanza atlantica con lo zelo eccessivo dei neofiti, per farsi perdonare e far dimenticare quei bollori. Che però tornano inesorabili a galla, sapientemente riesumati e fatti circolare contro il convertito proprio dai maghi grillini dei social un tempo al suo servizio.

Non che il suo eterno rivale Fico sia più coerente: nega pure lui che i 5 stelle siano antiNato, dimenticando la teoria di parlamentari e sottosegretari agli Esteri grillini andati nella Crimea occupata e a Mosca per baciare la pantofola a Putin tanto quanto i leghisti.

Ma tant'è. A proposito di santificazioni, ora è il Pd a venerare Di Maio nella sua nuova versione di falco filoUsa, così come due anni fa aveva portato sull'altare Conte, premier e supposto leader del centrosinistra. 

Cosicché, sempre per restare nella Napoli popolare, sembra che non solo a Di Maio ci si possa riferire pronunciando l'irriferibile sfottò "a pucchiacca in mano a' criature", l'organo sessuale femminile di cui i piccirilli non sanno proprio che fare. 

Perché sono in tanti a maneggiare cose più grandi di loro, nella politica italiana. Quella dell'ottava potenza economica mondiale ridotta ad applaudire o fischiare sceneggiate apulo-partenopee.

Mauro Suttora