Thursday, November 24, 2016

intervista a Cicciolina

IL MITO EROTICO ITALIANO APPRODA IN TV CON UN DOCUMENTARIO SULLA SUA VITA

di Mauro Suttora

Oggi, 24 novembre 2016




«Partivo ogni mattina da casa sulla via Cassia con la mia Peugeot 205 e tornavo la sera tardi. Non avevo l’autista personale. Per cinque anni mi impegnai a tempo pieno in Parlamento, ero sempre presente. Mi impegnai per la riapertura delle case chiuse con garanzie d’igiene e nessun privilegio fiscale, contro il nucleare, per l’amore nelle carceri, l’informazione sessuale nelle scuole, la difesa degli animali…»

Cicciolina arriva in tv (Sky Arte, Cielo). Un documentario di Alessandro Melazzini sulla sua incredibile avventura: prima pornostar, poi deputata radicale nel 1987, infine sui rotocalchi internazionali per le nozze con Jeff Koons e la battaglia sul figlio.
Ma ancor oggi la diva dell’eros partecipa a serate in tutta Europa: «Ospite d’onore al party milanese di Givenchy, e in Francia devo perfino combattere per difendere il mio nome: due ristoranti si sono chiamati Cicciolina senza autorizzazione».

Per l’ungherese Ilona Staller la fama arriva nel 1976 con il programma notturno di Radio Luna: «Il titolo era Voulez-vous coucher avec moi?, chiamavo tutti gli ascoltatori “cicciolini” e così nacque il mio pseudonimo».

Fu Pannella a proporle la candidatura. Nonostante fosse fra gli ultimi nella lista radicale, in rigoroso ordine alfabetico, fu eletta con 20mila preferenze: «Marco era un fantastico leader, e per me più di un amico: un padre, un fratello. Ho pianto molto il giorno della sua scomparsa, lo scorso maggio. Conservo ricordi meravigliosi di lui, uomo politico carismatico e unico che ha segnato la storia della politica italiana».

Nacque la politica-spettacolo, con folle impazzite che le chiedevano di «mostrare la tettina». Spettacolarizzazione il cui apice è oggi Donald Trump presidente Usa: «Non condanniamolo subito, stiamo a vedere. Mio figlio Ludwig Koons ha votato per lui».

Però vive a Roma.
«Sì, studia all’Accademia di Belle arti. E mi aiuterà nell’attività artistica. Nel 2017 esporrò le mie opere surreali a Helsinki, oltre a continuare il Love tour in locali e discoteche. Canto le mie canzoni revival anni 80-90: Baby Love, Inno alla Trasgressione, Political Woman. Sono una eterna “fricchettona” sempre in cerca di cose belle: la vera opera d’arte è la vita di ognuno di noi».

Lo diceva anche il suo ex marito. Nel film lei si commuove ricordando il divorzio: «È stata tosta», dice. «Ma fa parte del passato. Il futuro oggi è ancora la radio: fra due mesi comincia un programma in cui dialogherò con tutti via webcam. E mio figlio: vorrei che i giovani come lui fossero felici del loro lavoro, entusiasti di poter mettere su famiglia, pagare un mutuo e sentirsi sicuri».

Mauro Suttora

Thursday, November 17, 2016

parla Riccardo Mazzucchelli, secondo marito di Ivana Trump

Donald Trump conserva ottimi rapporti con le due ex mogli, e ha coinvolto tutti i figli nella sua avventura politica. Da tenere d’occhio soprattutto il giovane genero Kushner

di Mauro Suttora

New York, 17 novembre 2016



«Incontravo Donald nell’ascensore della Trump tower a Manhattan. Io andavo all’ultimo piano, nell’attico dove viveva Ivana, la sua moglie separata. Lui si fermava prima, nell’appartamento dove stava dopo la separazione.
Ci salutavamo, avevamo rapporti cordiali, ma a un certo punto gli dissi: “Senti Donald, io amo la tua ex moglie, però vedo che avete buoni rapporti e che siete ancora molto legati dai vostri tre figli piccoli, Donald junior, Ivanka ed Eric. Quindi dimmelo subito, perché fra sei mesi sarà troppo tardi: se pensi che fra voi possa esserci una riconciliazione, io mi ritiro in buon ordine. Non voglio rovinare una famiglia”».

Riccardo Mazzucchelli, 73 anni, racconta a Oggi i suoi incontri ravvicinati del 1991 con Donald Trump, nuovo presidente degli Stati Uniti.
«Lui, sempre gentile, mi rispose: “No problem Riccardo, go ahead”». Vai avanti.

Così Mazzucchelli, businessman internazionale che oggi vive a Spalato (Croazia), divenne il secondo marito di Ivana Trump (il terzo, Rossano Rubicondi, ha confermato la passione della signora per gli italiani, così come il suo successivo fidanzato, Marcantonio Rota).

E Trump, dopo aver liquidato sontuosamente Ivana, sposò l’attricetta americana Marla Maples dopo anni di clandestinità. Leggendario rimane lo scontro fra la moglie Ivana e l’amante Marla su una pista di sci ad Aspen (Colorado) nel 1990.

Nel ’97, quasi contemporaneamente, Ivana divorziò da Riccardo e Donald da Marla. Il paperone newyorkese aveva incontrato la terza moglie Melania, confermando la propria passione per le slave.

Trump e le donne. Lui si vanta di conquistarle tutte grazie ai suoi soldi. Non va lontano dal vero, ma per questa ovvietà è stato crocifisso: maschilista. Eppure le sue ex mogli continuano ad avere ottimi rapporti con lui: Ivana ha sposato Rubicondi nel favoloso palazzo trumpiano di Mar-a-Lago in Florida, Marla non ha più pubblicato il libro contro Donald annunciato con la fanfara.

Entrambe gli hanno dato l’endorsement pubblico per la candidatura, e imperversano sui reality tv. Dopo The Apprentice che ha reso Donald un eroe tra i giovani, Ivana ha condotto il Grande Fratello Usa. E questa primavera Marla ha ballato con le stelle.

Fosse stato per lui, dopo la Convention repubblicana le avrebbe invitate anche sul palco della vittoria l’8 novembre, come un patriarca magnanimo. A Tiffany, 23enne unica figlia di Marla, ha appena regalato una casa nel quartiere più esclusivo di New York, l’Upper East Side, per la sua laurea alla Penn University (in quella Pennsylvania ex democratica che ha inopinatamente conquistato).



Ma a fare la parte del leone sono i tre figli di Ivana. Il miliardario ha annunciato che lascerà loro tutte le sue società, in un blind trust per evitare il conflitto d’interessi. E già molti avevano storto il naso per questa successione familiare assai poco blind (cieca).

Poi è arrivato l’incredibile annuncio: i tre trentenni sono tutti imbarcati nel Transition team, la squadra che sceglierà i ministri e gli altri 4 mila nuovi dirigenti che governeranno gli Stati Uniti. Un rinnovamento gigantesco, perché Trump è totalmente estraneo alla politica. E Ivanka farà politica come e più della matrigna Melania, splendida First Lady.

C’è posto anche per i generi, nella tribù Trump. Ricordatevi questo nome: Jared Kushner. Marito di Ivanka, pure lui come Donald figlio di un costruttore edile (condannato per evasione fiscale, finanziamenti illegali a politici e subornazione di testimoni), a 25 anni ha comprato il settimanale New York Observer per 10 milioni di dollari: «Li ho guadagnati vendendo case durante l’università ad Harvard». È stato uno dei cervelli del trionfo elettorale, per amor suo Ivanka si è convertita all’ebraismo. Conterà molto nella Casa Bianca.

Negli Anni 30 la mamma di Donald Trump approdò in America come emigrante dalla Scozia. Era poverissima: possedeva solo i vestiti che indossava. Trump senior, figlio di un immigrato tedesco, manifestava a New York col Ku Klux Klan contro gli immigrati italiani cattolici fascisti che minacciavano la supremazia degli anglosassoni protestanti come lui.

Il loro figlio un anno fa era dato al 2 per cento di possibilità di diventare presidente. Qualunque cosa si pensi del tycoon coi capelli arancioni, un altro sogno (o incubo) americano si è avverato.
Mauro Suttora

Tuesday, November 08, 2016

I segreti della Casa Bianca

di Mauro Suttora

Washington, 8 novembre 2016



Donald Trump, appena eletto 45esimo presidente degli Stati Uniti, si trasferirà in questo palazzo bianco il 20 gennaio 2017. E per quattro anni (al massimo otto) governerà non solo il proprio Paese, ma anche il mondo, visto che gli Usa ne sono ancora la principale superpotenza.

Ma come si svolge la vita quotidiana alla Casa Bianca? Diciamo anzitutto che il famodo Studio ovale, con la scrivania presidenziale, non si trova nel corpo centrale del palazzo, costruito nel 1801, bruciato dagli inglesi nel 1814 e ricostruito.

Studio Ovale nascosto dagli alberi

La Oval room sta nella West Wing della Casa Bianca, aggiunta nel 1902. Questa Ala ovest non si vede mai nelle foto, perché è alta solo due piani ed è nascosta dagli alberi del parco interno.
Il presidente la raggiunge ogni mattina dai suoi appartamenti privati, al secondo e terzo piano del corpo centrale. Ma attenzione: nessuno, per ragioni di sicurezza, sa più esattamente in quale stanza dorma.

L’attuale President Room, infatti, fino al 1974 ospitava di solito le First Lady, che dormivano separate dal marito fino alla presidenza di Gerald Ford. Era la camera da letto di Jacqueline Kennedy, e John stava nella stanza accanto, che adesso è la Private sitting room (salotto privato).

La West Wing ospita tutti gli uffici operativi, compresa la Situation room per le riunioni d’emergenza, da dove Barack Obama nel 2011 ordinò l’uccisione di Osama bin Laden.
Obama è stato particolarmente severo nel proteggere la privacy della sua famiglia. Nessuno, tranne i parenti e gli amici strettissimi, sa neppure se le due figlie, la moglie Michelle e la suocera abbiano le stanze da letto al secondo o al terzo piano.

«Mi sveglio ogni mattina in un palazzo costruito da schiavi afroamericani come me»: queste parole della First Lady hanno infiammato la Convenzione democratica lo scorso luglio. Ed è vero: i lavori durarono nove anni, tanto che il primo presidente George Washington non riuscì mai ad abitarci (prima la capitale era Filadelfia). Ma al secondo piano c’è pure la stanza di Abraham Lincoln, che nel 1865 abolì la schiavitù (e fu assassinato).

Ogni stanza della Casa Bianca racconta un pezzo di storia. L’ex studio di Lincoln era anche il preferito di Richard Nixon, unico presidente a essere cacciato con l’impeachment nel 1974 per lo scandalo Watergate.

Sempre al secondo piano, la Yellow Oval room fu lo studio ovale usato dal presidente Franklin Delano Roosevelt che, costretto in carrozzina, non andava fino alla West Wing: qui gli giunse la terribile notizia dell’attacco di Pearl Harbor nel 1941.
E al piano terra la Map room era la Situation room della Seconda guerra mondiale, con tutte le cartine del mondo.

Mauro Suttora

Wednesday, October 19, 2016

Premio Nobel a Bob Dylan

C'È ANCHE UN PO' D'ITALIA IN DYLAN

di Mauro Suttora

Oggi, 19 ottobre 2016

Si sente più poeta o cantante? «Mi sento come uno che canta e balla», rispose scherzando Bob Dylan oltre mezzo secolo fa, quand’era già considerato molto più di un cantautore.
Da allora, non ha mai smesso di fare il contrario di quel ci si aspetta da lui. «Non seguire i capi, guarda i parchimetri» (Subterranean Homesick Blues, 1965), è uno dei suoi versi più famosi, che prendono in giro chi voleva imbalsamarlo a 23 anni nel ruolo di «leader», di «portavoce di una generazione».

«Non ci vuole un metereologo per saper da che parte soffia il vento», e «Qualcosa sta succedendo, ma non capisci bene cosa sia, vero signor Jones?» (Ballad of a Thin Man, 1965).
Il signor Jones era l’americano medio ignaro di Vietnam e contestazione, e oggi sono quelli che non capiscono perché i parrucconi svedesi abbiano dato il Nobel aprendo la porta del paradiso letterario alla quale Dylan non ha bussato (Knockin’ on Heaven’s Door, 1973). A uno che la sera dell’annuncio ha cantato in un casinò di Las Vegas col suo solito stile ubriaco, e il giorno dopo si è esibito seminudo a 75 anni con i Rolling Stones e l’ex Beatle Paul McCartney.

C’è anche un po’ d’Italia nell’immensa opera dylaniana, studiata da decenni nelle università Usa: l’«Italian poet of the 13th century» in Tangled up in blue (1975) è Dante; «Dicono che ho ucciso un certo Gray e ho portato sua moglie in Italia» (Idiot Wind, stesso anno); «Le strade di Roma sono piene di macerie, vedi doppio in piazza di Spagna, esco con la nipote di Botticelli» (When I paint my masterpiece, 1971).

«Qualche volta penso/che questo vecchio mondo/sia solo il cortile di una grande prigione: alcuni di noi sono prigionieri/il resto guardie» (George Jackson, 1971).

Non ci resta che scoprire con quali parole il vecchio libertario accetterà il Nobel a Stoccolma in dicembre. E se metterà una camicia sotto lo smoking, o si presenterà ancora seminudo

Equitalia cambia nome: parla Riccardo Zingales

UN ESATTORE DELLE TASSE CI VORRA’ SEMPRE, PIU’ CHE CAMBIAR NOME BISOGNA CAMBIAR METODO

di Mauro Suttora

Oggi, 19 ottobre 2016

Equitalia duemila anni fa si chiamava San Matteo. L'apostolo ed evangelista era esattore delle tasse. A Gesù bastò dirgli «Seguimi» per redimerlo. Al nostro Matteo (Renzi) basterà abolire Equitalia per riscattare la seconda professione più antica del mondo?

«Assolutamente no», sorride Riccardo Zingales, titolare di uno dei maggiori studi commercialisti di Milano, «perché la riscossione delle tasse è un'attività necessaria e non eliminabile. Tutto sta in come viene esercitata. Prima era appaltata a privati, che se l'aggiudicavano con aste. A Milano c'era la Cariplo, in Sicilia famiglie anche piuttosto chiacchierate».

Il «recupero crediti» fra privati perbene oggi si chiama «factoring» o «cartolarizzazione». A Roma quelli di mafia capitale spezzavano le dita ai debitori. A Genova, come racconta Fabrizio De André, i creditori mandavano le «pittime» a infastidire per strada chi non pagava.

«Perché Equitalia, società pubblica, applicava more usurarie e aggi ciclopici?», chiede Zingales. «Il costo dell'esazione è uguale sia per le cartelle da un euro, sia per quelle da un milione. Gli interessi si devono pagare, ma il tasso non dev'essere esagerato».

E adesso cosa succede: chi ha a casa una cartella di Equitalia non deve più pagare? Gli conviene aspettare, visto che spariscono sanzioni e interessi di mora (i famigerati interessi sugli interessi)?
«No, perché gli interessi sulla somma dovuta continuano a correre. Ma si spera che, cambiando ente di riscossione, cambi anche il metodo. Senza inquisizioni. Ma il problema vero è un altro».

Quale?
«La burocrazia. Oggi Equitalia manda cartelle per conto di vari enti - comuni, regioni, stato - e chi ha già pagato o vuole contestare deve risalire all'ente che richiede le somme. I cittadini, e noi commercialisti, abbiamo invece bisogno di uno sportello unico dove rivolgersi, per dirimere rapidamente le questioni».

Quindi si spera che l'Agenzia delle entrate, che riprenderà il controllo sulle tasse statali non pagate, semplifichi le procedure e risponda direttamente alle contestazioni. E così comuni, regioni o Inps, senza affidare a terzi la riscossione.

Saranno "rottamate" le cartelle emesse fino al 31 dicembre 2016. Quindi tutte quelle che al momento sono arrivate e quelle che arriveranno nei prossimi due mesi.
Non si pagheranno più le sanzioni e gli interessi di mora, cioè le aggiunte "punitive", mentre si dovranno pagare gli interessi per il ritardato pagamento, cioè quelli che maturano con il passare del tempo.

Sarà annullato o ridotto l'aggio, cioè la "commissione" che Equitalia si prendeva (3% nei primi due mesi, poi il 6).
E bisognerà aspettare i regolamenti attuativi per sapere se il processo sarà automatico (cioè semplicemente arriveranno nuove cartelle più "economiche") o se – più probabilmente – saranno i singoli a dover fare richiesta.

A quelli che stanno già pagando con le rateizzazioni, comunque, conviene continuare a saldare, perché gli sconti partiranno col primo gennaio.
Il governo prevede di incassare quattro miliardi con questo sconto. Si paga meno, quindi si è incentivati a pagare. Ma potrebbe verificarsi l’effetto opposto: visto il parziale condono, gli evasori sono spinti a continuare.

 È quel che denuncia Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze: «Renzi vuole solo far cassa, ma indebolisce l’effetto deterrente dell’accertamento. E non è vero che Equitalia fosse vessatoria più di quanto succede negli altri Paesi». 

Mauro Suttora

Wednesday, October 05, 2016

Ci mancava il grillino militarista

Massimo Colomban, grillino felice sugli aerei da guerra Usa

Oggi, 5 ottobre 2016

di Mauro Suttora



Chissà cosa penseranno gli attivisti grillini, pacifisti e contrari agli aerei militari F35, di queste foto che ritraggono Massimo Colomban, 67 anni, felice alla guida di un velivolo della base nucleare Usa di Aviano (Pordenone) nel 2014.

Il nuovo assessore 5 stelle a Roma non fa mistero della propria passione militarista, tanto da farsi nominare “Comandante onorario” della base e di andare fino a Ramstein (la base Usa in Germania) per volare con i piloti statunitensi. Hobby legittimo, ma agli antipodi del credo antimilitarista e nonviolento dei 5 stelle. O stellette?



Nessuno avrebbe immaginato quattro mesi più disastrosi per il debutto dei grillini al governo di Roma. Tanto più imbarazzante, la performance di Virginia Raggi, se paragonata a quella di Chiara Appendino, sindaca 5 stelle a Torino. 

Una ventina di dirigenti dimessi o fatti dimettere, fra assessori e capi di gabinetto. Bugie di Raggi e Luigi Di Maio per un mese sull’assessore Paola Muraro indagata. Tutte le parlamentari M5s romane (Lombardi, Taverna, Ruocco) contro la sindaca. Risultato: paralisi e deficit di un miliardo.

Unica decisione presa: no alle Olimpiadi 2024. Che però potrebbero risorgere se la giunta Raggi cadesse entro la fine dell’anno. Ipotesi non più improbabile. Anche i Fratelli musulmani in Egitto nel 2012 furono cacciati a furor di popolo dopo soli sei mesi, per incompetenza.

La bella sindaca è sempre più magra e sull’orlo di una crisi di nervi. Insulta i giornalisti, si fa imporre assessori improbabili dal figlio di Gianroberto Casaleggio, succeduto al padre alla guida della società che da Milano gestisce il M5s. I suoi l’hanno già abbandonata: «Decide lei, le nostre sono ormai strade parallele». 
Più decisa Paola Taverna: «Prima cade meglio è».
Beppe Grillo ha vietato ai suoi parlamentari di commentare il disastro Roma. Ma la censura non diminuisce l’imbarazzo.
Mauro Suttora

Friday, September 30, 2016

intervista su Virginia Raggi, sindaca di Roma

Sfortunata oppure sprovveduta?

È il dubbio di Mauro Suttora sulla sindaca di Roma: tre assessori al bilancio e tre rinunce.

C’è stata un’ecatombe anche con i tre capi di gabinetto

Italia Oggi 30 settembre 2016



«Virginia Raggi può già vantare un record mondiale: ha scelto tre assessori al Bilancio e tre capi di gabinetto, eppure nessuno di loro alla fi ne si è insediato. O il sindaco è molto sfortunato o è molto stupido».

È la constatazione di Mauro Suttora, inviato del settimanale Oggi ed esperto del fenomeno Cinque Stelle.
Anche l’economista Salvatore Tutino ha annunciato che rinuncerà all’incarico di assessore al Bilancio del Comune di Roma: «Mi tiro indietro, sono da 20 giorni sulla graticola. Lascio per il clima che c’è all’interno del partito che dovrebbe sostenere la giunta di Roma».

Tutino rinuncia a fare l’assessore. Ha paura di finire vittima dell’ennesimo tiro al piccione?
Sì. Tutino era già stato contestato dai deputati nel 2013 quando il governo Letta lo nominò alla Corte dei Conti, in quanto percepisce una pensione d’oro. Quindi non si capisce perché Virginia Raggi sia andata a scegliere proprio lui. È il terzo assessore al Bilancio che prima è scelto e poi non riesce ad insediarsi: sembra quasi che il sindaco faccia apposta.

Non avrà ormai esaurito tutti i nomi possibili?
Ci sono decine di persone qualificate disposte a fare l’assessore al Bilancio a Roma. O la Raggi è molto sfortunata o è molto sprovveduta.

Anche con il capo di gabinetto abbiamo visto lo stesso film
Tra i capi di gabinetto che erano in predicato o addirittura già nominati e poi sono stati «dimissionati» ci sono Daniele Frongia, Raffaele Marra e Carla Raineri. Adesso la Raggi sta cercando il quarto capo di gabinetto e il quarto assessore al Bilancio in due mesi. Penso che sia un record mondiale. Ma il sindaco di Roma non si è fermato qui.

In che senso?
Anche il capo della segreteria particolare, Salvatore Romeo, è stato contestato per il fatto che ha triplicato lo stipendio: prima prendeva 40mila euro l’anno e adesso 110mila. Gli era stato chiesto di ridurlo almeno a 60-80mila, ma pare che finora non sia stato fatto.

Si aspetta novità dal voto di giovedì sulle Olimpiadi?
No, penso che non ci sia più spazio per esprimere delle perplessità, anche se esistono. Bisognerà vedere che cosa farà l’assessore all’Urbanistica, Paolo Berdini, che aveva detto esplicitamente di essere favorevole. Comunque tra i 29 consiglieri comunali non dovrebbero esserci delle grandi defezioni. Se all’interno di M5s ci fosse libertà, in parecchi voterebbero a favore delle Olimpiadi. Ma se qualcuno osasse esprimere un voto in dissenso, sarebbe subito espulso e quindi nessuno lo farà.

Nel frattempo a che cosa servono Non Statuto e Regolamento di M5s?
Lunedì si è aperta una votazione sul Regolamento che durerà per un mese, ma è assurdo chiedere a 100-150mila iscritti a M5s di esprimersi su un argomento così complicato. Andrà a fi nire che con un atto di fede voteranno Sì senza avere capito nulla. Io almeno ho capito una cosa.

Che cosa?
Chi ci rimette da questo Regolamento è Federico Pizzarotti, attuale sindaco di Parma, perché, con una decisione contraria a qualsiasi norma del diritto, si allungano i tempi per l’espulsione da 60 a 180 giorni, specificando che la regola è applicata anche ai procedimenti in corso. Qualsiasi studente di giurisprudenza del primo anno impara però che vale sempre la norma in vigore al momento del reato. Del resto qualsiasi cosa facciano i 5 Stelle non ha base giuridica.

A che cosa si riferisce?
Gli stessi cinque membri del direttorio sono stati nominati due anni fa con una decisione calata dall’alto, e soprattutto senza un’indicazione sulla loro durata. Il fatto di averli nominati «in aeternum» adesso si ritorce contro Beppe Grillo, perché non sa più come farli fuori.

I giornali hanno descritto la convention di Palermo come un braccio di ferro tra il duo Di Battista-Di Maio da un lato e i movimentisti ribelli dall’altra. Condivide questa lettura?
Sì. Resta il fatto che Di Battista e Di Maio sono molto furbi e per ora rimangono uniti, perché capiscono di essere di gran lunga più popolari rispetto agli altri membri del Direttorio: soltanto Paola Taverna ha un numero di fan su Facebook pari a loro.

Di fatto però Di Battista e Di Maio rappresentano le due opinioni antitetiche. Di Maio è un riformista, o un «democristiano» come dicono i suoi detrattori, mentre Di Battista fa il rivoluzionario che le spara grosse.
Pietro Vernizzi - Il Sussidiario

È a Cambridge la verità su Regeni

INCREDIBILE: LA PIÚ PRESTIGIOSA UNIVERSITÀ INGLESE OPPONE AGLI INVESTIGATORI ITALIANI UN’OMERTÀ SIMILE A QUELLA DELL’EGITTO

di Mauro Suttora

Oggi, 30 settembre 2016

Inutile girarci attorno. La verità su Giulio Regeni si trova in una palazzina di Cambridge, nella più prestigiosa – con Oxford – università inglese.
Nel Girton College insegna la professoressa egiziana Maha Abdelrahman, che era la tutor per il master dello studente friulano 28enne. 
È stata lei a mandarlo a fare la “ricerca partecipata” sui sindacati egiziani che gli è costata la vita, dopo tremende torture.
Ma dopo la morte di Giulio, invece di collaborare con gli investigatori italiani, la professoressa ha rifiutato di rispondere alle loro domande.

Un comportamento incredibile, omertoso quasi quanto quello del governo egiziano, che non vuole consegnare alla nostra giustizia i responsabili dell’assassinio. 
Ma mentre nel caso dell’Egitto abbiamo a che fare con un regime autoritario, chiaramente in difficoltà per le prove evidenti che portano alla polizia o ai servizi segreti del Cairo, Cambridge è una delle università più importanti del mondo, che dovrebbe avere a cuore la verità sul caso Regeni quanto i genitori dello sfortunato giovane.

La professoressa Abdelrahman era venuta in Italia per partecipare al funerale di Giulio lo scorso febbraio. Lì un sostituto procuratore le aveva rivolto alcune prime domande sommarie, cui lei aveva risposto. Ma pare che poi si sia lamentata per la “durezza” dei nostri magistrati, e da allora rifiuta di farsi interrogare.
Per questo Mario Giro, sottosegretario agli Esteri, ora accusa apertamente l’ateneo britannico di non cooperare, e di volere solo autoproteggersi.

Cambridge assicura di voler fare tutto il possibile per assistere le autorità italiane. Ma di fatto la prof non è disponibile. Siamo venuti a Cambridge a cercarla, dopo che lei si è fatta negare al telefono. Niente da fare. Scomparsa. Nel suo dipartimento di sociologia ci dicono che sarebbe in “leave of absence”: aspettativa.
Per carità, non pretendiamo certo che la prof dica a noi giornalisti quel che rifiuta di dire ai magistrati italiani. Ma intanto le domande e i dubbi restano.

Giro è stato pesantissimo contro Cambridge: “Vergognatevi. Per voi sono più importanti le vostre ‘ricerche segrete’ della vita di un vostro studente. Cosa state nascondendo? Vogliamo la verità”.
Regeni è scomparso al Cairo il 25 gennaio di quest’anno, e il suo cadavere è stato ritrovato in un fosso sulla strada per Alessandria una settimana dopo, torturato e mutilato.
Da allora il nostro governo chiede inutilmente la verità al presidente egiziano Abdel Al-Sisi, e i rapporti diplomatici fra Italia ed Egitto sono ai minimi termini.

Ma anche il comportamento di Cambridge suscita molti interrogativi. L’università ha fatto abbastanza per proteggere il suo ricercatore che stava conducendo un’indagine in un Paese che rispetta poco i diritti umani, e il cui regime è autoritario se non dittatoriale?

Cambridge svicola: David Runciman, direttore del dipartimento di Studi politici internazionali, e Susan Smith del Girton College dicono di aver scritto al console egiziano a Londra e all’ambasciatore britannico in Egitto esprimendo il proprio “stato di shock” e chiedendo di essere tenuti al corrente delle indagini.

Ma il problema è ben altro. La professoressa egiziana ha mandato Regeni allo sbaraglio? Si è comportata più da attivista politica antigovernativa che da docente universitaria imparziale?
Dopo le primavere arabe del 2011 e le proteste di piazza Tharir al Cairo, il presidente Hosni Mubarak era caduto e il partito dei Fratelli musulmani aveva vinto le elezioni.

Ma dopo sei mesi di governo anche i Fratelli musulmani sono stati travolti dalla propria incompetenza e intolleranza, e sono tornati al potere i militari guidati dal generale Al Sisi. In una situazione così esplosiva, con centinaia di morti e migliaia di oppositori in carcere, è stato prudente mandare Giulio Regeni a condurre uno studio “partecipato” sui sindacati che si oppongono al governo?

La tortura è pratica comune nelle carceri egiziane. Come illudersi che uno studente, solo per il fatto di essere straniero, potesse muoversi impunemente negli ambienti dell’opposizione? I servizi segreti e la polizia egiziana avevano già espulso nel 2015 una studentessa universitaria francese che conduceva un’indagine simile a quella del povero Giulio.
E poi, cosa vuol dire “inchiesta partecipata”? Significa che Regeni “partecipava” alle attività dell’opposizione, abbandonando la neutralità accademica?

Tutte domande che certo non diminuiscono le tremende responsabilità degli assassini e torturatori, né del governo egiziano che li copre. Ma che aspettano di ricevere risposta anche dagli esimi professori di Cambridge.
Mauro Suttora

Friday, September 23, 2016

Pannella, ritratto non riverente




Pannella, un ritratto non riverente









Sono passati poco più di quattro mesi dalla morte di Marco Pannella. Un tempo in cui la sua creatura politica, il Partito radicale – oggi nonviolento, transnazionale e transpartito – ha attraversato una fase complessa e convulsa, con un congresso discusso e un futuro irto di sfide e problemi, a partire da quelli economici che ingessano l’attività italiana e internazionale (ci si è dati l’obiettivo dei 3mila iscritti da raggiungere nei prossimi due anni). Nel frattempo, il dibattito sulla figura di Pannella – di certo un protagonista della politica italiana, per chi lo ha amato, odiato o ha oscillato tra i due sentimenti – continua: il primo libro uscito dopo la sua morte porta la firma di Mauro Suttora, giornalista di Oggi che sui radicali e il loro leader ha scritto per anni, su varie testate.

https://www.termometropolitico.it/1230419_pannella-un-ritratto-non-riverente.html
Pannella, uscito per Algama in formato ebook, più che un instant book è la terza versione allargata di due altri libri di Suttora, uno per decennio: nel 1993 arrivò Pannella, i segreti di un istrione, nel 2001 Pannella & Bonino Spa. 
I titoli dei precedenti sono già un programma: nessun intento agiografico, nessuna santificazione. Il libro appena uscito, a dispetto del titolo più neutro, resta un ritratto assolutamente irriverente, poco amante dei giri di parole e della diplomazia.

Intervistato, l’autore lascia trasparire anche una parte importante del suo vissuto (ed è normale: “per molti giovani negli anni ’70 – spiega – la politica è nata nelle discussioni in casa – in cucina, diceva Pannella – pro o contro le idee dei genitori) e analizza anche l’evoluzione e il futuro dei radicali. Che sopravviveranno anche alla scomparsa del loro demiurgo e alle difficoltà economiche, perché "rappresentano l’esigenza eterna della libertà".
pannella suttora
Suttora, il suo ultimo libro Pannella può considerarsi una terza stesura dei due volumi del 1993 e del 2001. Come mai l’ha impegnata tanto la figura di Pannella?
Ho sentito parlare di Pannella per la prima volta da mia zia, docente universitaria a Parigi, dove lo aveva conosciuto nei primi anni ’60. Poi confondevo il suo nome con quello di Capanna, leader del ’68. Infine ho incontrato per strada a Bergamo un banchetto radicale per l’obiezione di coscienza nel 1972: avevo 13 anni. Mio padre si abbonò al settimanale Panorama, e probabilmente la Mondadori regalò a Pannella l’indirizzario degli abbonati, perché nel 1973 cominciò ad arrivare a casa gratis il giornale di Pannella Liberazione (la testata che poi cedette a Rifondazione, così come diede generosamente ai verdi il simbolo del Sole che ride). Liberazione era buffo, perché ogni titolo tuonava contro il “regime”.
Lo trovavo interessante ma esagerato: per me i regimi erano ben altri, quelli fascisti in Cile, Spagna, Grecia, Portogallo, e quelli comunisti.  Ma per un ginnasiale come me, educato al laicismo dal mio nonno preside e latinista, i radicali furono fondamentali in quell’inverno 1973-74, con la campagna sul divorzio. Quando il prete gesuita della mia parrocchia bergamasca San Giorgio tuonò dal pulpito contro il divorzio, smisi di andare a messa. E nell’estate ’74 mi appassionai allo sciopero della fame di Pannella leggendo l’articolo di Pasolini sul Corriere della Sera e quelli successivi. Ero refrattario ai gruppuscoli marxisti del mio liceo, gli unici contestatori che vedevo moderni erano i radicali, così kennediani e simili alle proteste di Martin Luther King e degli studenti americani…
E poi?
Poi mi trasferii a Udine, e lì nell’estate ’75 fece tappa l’annuale marcia antimilitarista radicale: fu una serata straordinaria, con un concerto in piazza degli allora sconosciuti Napoli Centrale (con Pino Daniele tecnico del suono). Suonavano per i radicali anche Battiato, Bennato e De Gregori. Io però al liceo di Udine ero l’unico radicale. In Friuli c’erano molte caserme e servitù militari, così invitai a un’assemblea studentesca due obiettori che erano finiti in carcere: il radicale Renato Fiorelli di Gorizia e lo storico del Movimento Nonviolento di Vicenza Matteo Soccio. Ogni sabato pomeriggio c’era una riunione nella sede radicale udinese di via Mantica, ma le discussioni mi sembravano un po’ noiose. Inoltre c’erano troppi omosessuali del Fuori, e io al sabato pomeriggio preferivo uscire con le ragazze. Il 6 maggio 1976 finalmente c’era la prima tribuna elettorale del partito radicale: avrei potuto vedere Pannella in tv. Ma alle 9 di sera, pochi minuti prima dell’inizio, ci fu il terremoto del Friuli.
Un incontro mancato quindi… come continua la storia?
Sono stato un convinto attivista radicale fino al 1981. Mi elessero segretario dell’associazione di Udine a 20 anni, perché i giovani erano molto valorizzati. Partecipai al mio primo congresso radicale nel ’79 a Genova, e lì scoprii che Pannella nella vita interna del partito si trasformava da libertario in dittatore. Lo conobbi personalmente, mi invitò nella sua famosa mansarda a Roma, mi corteggiò non corrisposto, al congresso del 1981 a Firenze intervenni usando i miei 5 minuti per suonare con la chitarra una canzone antimilitarista di Donovan tradotta da me (Universal Soldier). Nel frattempo ero diventato segretario nazionale della Lega per il disarmo di Rutelli e dello scrittore Carlo Cassola. Ero molto impegnato nel coordinamento antimilitarista europeo che organizzava una marcia ogni estate: nel 79 la Carovana Bruxelles-Berlino-Varsavia, nell’80 la Lione-La Spezia-Livorno-Lubiana, nell’81 in Olanda contro gli euromissili, nell’82 in Spagna contro il confine bloccato di Gibilterra (mi arrestarono e finii in carcere).
Dopo l’81 che è successo?
Fra Natale e Capodanno 1982 camminammo da Catania a Comiso (Ragusa), dove gli americani volevano installare i missili Cruise atomici contro gli SS20 sovietici. Centinaia di pacifisti da tutta Europa scesero in Sicilia, dormivano in sacco a pelo nelle palestre delle scuole ad Augusta, Siracusa, Noto, Avola, Ragusa. Infine bloccammo i cancelli della base Usa di Comiso, ci furono arresti, finimmo sulle tv di tutto il mondo. Ma Pannella dal 1979 si era fissato con la battaglia contro la fame nel mondo (anzi lo “sterminio” per fame, come lui voleva si dicesse), e pretendeva che i radicali si occupassero soprattutto di quello. Comunque venne alla conferenza stampa iniziale della marcia a Catania, fu l’unico politico nazionale ad appoggiarci. Nel 1983 cominciai a lavorare a tempo pieno come giornalista (MessaggeroEuropeo) e smisi di iscrivermi al partito radicale per due motivi: innanzitutto non condividevo molto la linea di Pannella (preferivo Melega); in più, pensavo che i giornalisti non dovessero iscriversi a partiti, per rimanere neutrali. Ciononostante rimasi amico di Pannella e dei radicali. Ogni volta che potevo scrivevo articoli su di loro nell’Europeo: sull’obiettore totale Olivier Dupuis, sul congresso antiproibizionista di Bruxelles del 1988. E nel 1993, quando Pier Luigi Vercesi (allora caporedattore della Stampa, oggi direttore di Sette del Corsera) mi chiese di scrivere una biografia per la sua neonata casa editrice Liber, gli dissi che l’unico politico con una storia non noiosa era Pannella, e la scrissi.
Questo per quanto riguarda la “prima puntata”, e le successive?
Dopo il successo della lista Bonino alle europee 1999 (8%, 12% al nord) proposi una biografia di Emma Bonino ai principali editori italiani, ma tutti rifiutarono tranne Kaos. Per il quale quindi scrissi Pannella & Bonino Spa(2001), aggiungendo la storia di Emma a quella di Marco. Continuai a frequentare i radicali e Pannella, e a scriverne soprattutto sul Foglio. Quando Pannella e Capezzone vennero a New York (dove ho lavorato dal 2002 al 2006) ci vedemmo a cena.
Dopo la morte di Pannella nel maggio 2016 Edoardo Montolli, editore di Algama, mi ha chiesto una sua biografia. Così ho aggiunto gli ultimi 15 anni dal 2001, attingendo soprattutto ai miei articoli sul Foglio, su Oggi (quello del 2006 su Piero Welby) e sul settimanale Diario di Enrico Deaglio.
Nell’introduzione leggo: “Alcuni hanno considerato Pannella un genio, altri un impostore. Per molti è stato un profeta, per qualcuno un buffone. Ma tutti concordano su un giudizio: era un artista della politica e un maestro dello spettacolo”. Questa frase era già presente nell’edizione del 2001 (allora riferita pure a Bonino): in 15 anni per lei il ritratto davvero non è cambiato?
No
Dal suo libro – lei stesso parla alla fine di “biografia imparziale” – emerge un’immagine decisamente composita di Marco Pannella: per lei chi era o com’era? Cosa riconoscerebbe come maggior pregio e come maggior difetto?
Era un politico molto intelligente, colto e onesto, ma assolutamente privo della maggior qualità in un politico: la ricerca del consenso. Non gli interessava raccoglierlo, alle elezioni. La percentuale che otteneva il suo partito radicale gli serviva soltanto come podio per i suoi discorsi. O come batteria per il suo megafono. Purtroppo però anche in politica vale il motto dello sport: “Chi vince ha ragione, chi perde è un coglione”. Il suo maggior pregio? La capacità di provocare: ottima in un giornalista (qual era Pannella) o in un intellettuale, pessima in un politico. Maggior difetto: l’esibizionismo. Ricordo quando verso gli 80 anni cominciò a bere la sua pipì, ad addobbarsi con una canottiera nera e a farsi crescere il codone di capelli bianchi. Magnifico e orrendo.
Per Massimo Fini Pannella era “un prete”, per Gianni Riotta è stato prima “profeta”, poi “papa”: la lettera di “commiato” a Papa Francesco è perfettamente in linea con questo? E’ una lettera “tra pari”?
Purtroppo Pannella negli ultimi anni si considerava alla pari con papi e presidenti. Questo non gli impediva di continuare a parlare con tutti, su piazze e marciapiedi, ma avere come interlocutori Napolitano o papa Francesco lo elettrizzava. Il povero Mattarella si è dovuto sorbire un suo monologo di mezz’ora quando ha avuto la malaugurata idea di invitarlo al Quirinale pochi giorni dopo la sua elezione, nel febbraio 2015.
Ammesso che sia possibile distinguere tra la storia di Pannella e quella radicale, esistono battaglie vinte direttamente da Pannella, più che dal partito?
Il tormentone sullo “sterminio per fame nel mondo” con cui ci fracassò i marroni dal 1979 al 1985, e la battaglia suicida per l’amnistia con cui ha imperversato negli ultimi 10 anni della sua vita (dopo la batosta del referendum sulla fecondazione assistita del 2005), alienandosi tutti i radicali tranne qualche centinaio di “pannellati”, i quali dopo la sua morte hanno cominciato a fare la guerra ai radicali normali (Bonino, Cappato, Spadaccia, Cicciomessere, Staderini, Magi).
Nel libro ricorda che fu Pannella il vero inventore della riforma elettorale maggioritaria (e non Segni): quale rilievo ha questo passaggio, secondo lei?
Un rilievo nullo, come tutte le battaglie interne alla partitocrazia. Il metodo maggioritario sarebbe stato importante prima del crollo del comunismo (1989), per sbloccare il sistema politico italiano ingessato per 45 anni dall’impossibilità del Pci di andare al governo (per ragioni di schieramento internazionale).  Dopo, l’alternanza fra schieramenti è venuta automaticamente. E il Parlamento dovrebbe essere lo specchio rappresentativo del Paese, quindi eletto con metodo proporzionale, senza premi di maggioranza che distorcono la volontà popolare. Inoltre, i collegi uninominali maggioritari senza primarie sono una truffa (ricordo il primo voto del 1994, quando tutti gli schieramenti paracadutarono nei collegi amici, colleghi e famigli, nominandoli invece di eleggerli).
La governabilità (garantita automaticamente dal maggioritario che regala la maggioranza a uno schieramento), dev’essere invece assicurata dai politici con trattative per allearsi, dopo voti col metodo proporzionale. E’ il loro mestiere, il compromesso è l’essenza della politica. Infatti i grillini non vogliono allearsi con nessuno, perché sono antipolitici e antidemocratici, intimamente autoritari.
Mi ha colpito leggere che Montanelli disse di Pannella la stessa cosa che una volta disse di (e a) Guareschi: “Non ti spacco la testa solo perché temo di non trovarci nulla”. Mero artificio retorico-giornalistico o c’è qualcosa di più?
Straordinaria frase di Montanelli, che amava-odiava entrambi.
In questo libro il titolo è solo Pannella, ma dalla versione precedente ha mutuato la frase “Una biografia di Pannella non può prescindere dalla Bonino”. Sono davvero figure inscindibili, a dispetto di quanto sarebbe avvenuto negli ultimi due anni?
Sì, perché Bonino rappresenta la parte razionale di Pannella. È falsa la rappresentazione che danno alcuni radicali della divisione, al loro interno, fra ‘radicali-nonviolenti’ (Pannella e quelli che facevano gli scioperi della fame) e ‘radicali-democratici’ (Bonino, Teodori, Melega e tutti quelli alieni da certi metodi da fachiri indiani). In realtà anche Pannella è stato un grande radical-democratico, attentissimo alla “forma” della democrazia, alle procedure interne al partito radicale ed esterne (quelle del sistema politico italiano). Ricordo certi congressi radicali in cui Pannella spaccava il capello in quattro su questioni formali, senza mai scadere nel formalismo. Perché, come lui stesso ripeteva, in politica la forma è sostanza. La Bonino senza Pannella sarebbe una efficiente e banale socialdemocratica. Pannella senza la concretezza della Bonino (e prima di lei di Ernesto Rossi) sarebbe stato un eccentrico santone.
Venendo al partito radicale, nella sua seconda – e più famosa – vita era stato pensato come “uno strumento agile per condurre battaglie su singoli temi”. Cos’è diventato in seguito, cos’è ora e come ha fatto, secondo lei, a diventare così?
Il partito radicale resta quello dello statuto del 1967: partito libertario, senza probiviri, espulsioni, disciplina interna. Ci si iscrive per un anno, e ogni anno il congresso stabilisce una o più priorità. Chi le condivide ci lavora, chi non le condivide non si iscrive, se ne va per un anno, oppure resta preparando una battaglia interna per prevalere al congresso successivo.
Separazione fra eletti e cariche interne. Autofinanziamento.
Dopo la scissione del 1988 fra partito radicale transnazionale transpartito (praticamente una ong) e le varie incarnazioni per la politica interna (lista Pannella, nel 1999-2000 lista Bonino, dal 2001 Radicali italiani, nel 2006 Rosa nel pugno, liste Agl – Amnistia giustizia libertà), il Pr è diventato qualcosa di ideologico (i vaneggiamenti sulla “stella gialla” di un regime simile a quello antiebraico, quello della “peste italiana”). Più laica e potabile la declinazione italiana dei radicali, che però dal 2014 ha messo in minoranza Pannella, causando il dissidio con Bonino.
Come motto del Partito radicale si può scegliere “o ci scegli o ci sciogli”, lanciato da Pannella oltre 50 anni fa (prima ancora della “rifondazione” del Pr) o è meglio scegliere qualcos’altro?
“Se i radicali si sciolgono, da stronzi diventano cacarella”, commentò perfidamente Mastella quando Pannella, come al solito drammatizzando, lanciò il colpevolizzante slogan nel 1986. Lo slogan perfetto per i radicali è “Libertà”. Libertà nei diritti civili (libertari), in economia (liberisti), in politica (liberali), e pure a letto (libertini). Ma agli italiani invece piace arruolarsi in qualche fazione (patrizi/plebei, guelfi/ghibellini, comunisti/fascisti/democristiani, e poi berlusconiani, renziani, grillini) al servizio del buffone di turno (Mussolini, Fanfani, Craxi, Berlusconi, Grillo, Renzi, Salvini).
Nel 1982 Salvatore Sechi scrisse “Il pannellismo ha sepolto il radicalismo”: secondo lei era così e ha continuato a essere così?
Solo in parte. Infatti, nonostante la personalità straordinaria, magnetica e debordante di Pannella (che trattava i suoi con la delicatezza del satrapo mesopotamico), in questi decenni il Pr ha continuato a essere una delle migliori scuole politiche italiane, producendo personalità del livello di Rutelli, Capezzone, Della Vedova, Cappato, Staderini.
Leggendo il suo libro, si ha l’impressione di un partito che ha fatto molto, ma ha capitalizzato poco. È così?
Sì. Se tutti quelli che hanno votato radicale almeno una volta nella vita lo rivoltassero tutti assieme, probabilmente il Pr arriverebbe alla maggioranza relativa. Per decenni i radicali hanno svolto la funzione dei grillini: l’ultima spiaggia prima dello schifo per la politica, e dell’astensione. Ma penso che i radicali ci saranno anche dopo che i grillini saranno spariti, come è già capitato ai sessantottini di Manifesto, Pdup e Dp, ai verdi, alla Rete, ai dipietristi, ai girotondini e a tutti i movimenti di opposizione scomparsi in questi decenni.
La storia di Pannella e dell’area radicale è anche una storia e una carrellata di simboli. Quali sono stati, secondo lei, i più efficaci e i più travagliati? E come illustrerebbe il concetto di “biodegradabilità” dei simboli di cui spesso nella storia radicale si è parlato?
La biodegradabilità è una sciocchezza, perché i simboli devono durare per essere riconoscibili. In questo senso, il simbolo storico dei radicali è la Rosa nel pugno, usata dal 1976 al 1988, e poi nel 2006. Prima c’era la Marianna col berretto frigio della rivoluzione francese, oggi recuperata dall’omonimo movimento del redivivo Giovanni Negri. Le altre invenzioni (liste Pannella, Bonino, Agl) non hanno avuto successo. Il simbolo del partito radicale transnazionale (Gandhi in bianco e nero) non può essere usato in competizioni elettorali, perché perderebbe la sua caratteristica super partes e lo status di accreditamento all’Onu (Ecosoc). Pannella, poi, aveva comprato nel 1977 il marchio del Sole che ride, donandolo agli Amici della Terra, e poi lo regalò ai verdi nel 1985.
Se Pannella, di fatto, è stato il collante che ha mantenuto insieme un gruppo a dispetto della vistosa frattura interna, dopo la sua morte è inevitabile domandarsi: che fine farà il partito e l’area radicale?
Continueranno. Perché i radicali sono gli anarchici della politica, e in una forma o nell’altra rappresentano un’esigenza eterna: quella della libertà, contro i tentacoli dello stato, del conformismo, della disciplina, delle gerarchie, del politicamente corretto.