Tuesday, October 01, 2013

Caligaris e Parenti su Forza Italia

LA CRISI DEL PARTITO DI BERLUSCONI
di Mauro Suttora
30 settembre 2013
Forza Italia resuscita, o abortisce? Appena una settimana dopo l’inaugurazione della nuova sede, le dimissioni imposte da Silvio Berlusconi ai suoi ministri fanno vacillare l’annunciata rinascita del partito. Che si era fuso con An nel 2008, con risultati catastrofici: sei milioni di voti persi dal Pdl alle ultime elezioni. Quindi ritorno alle origini, in un momento drammatico per il leader: condannato, espulso dal Parlamento.
Ma già si annunciano illustri defezioni: i ministri Angelino Alfano («Sarò diversamente berlusconiano»), Gaetano Quagliariello («Non sono un estremista da Lotta Continua»), Beatrice Lorenzin. Fabrizio Cicchitto mugugna sulla mancanza di democrazia interna.
Che succede? Che ne è del partito che dal 1994, al governo o all’opposizione, domina la politica italiana?
«Faccia quel che vuole, le do carta bianca». Esattamente vent’anni fa Berlusconi consegnò le chiavi della palazzina romana dove sarebbe nata Forza Italia al generale Luigi Caligaris. 
«Fu un’avventura entusiasmante», ricorda adesso il generale. «In quattro mesi costruimmo dal nulla un nuovo partito che divenne subito il primo della settima potenza industriale del mondo. Mai successo, nella storia».
Si ripeterà oggi il miracolo del 1993-94? «Impossibile», sentenzia Caligaris, tessera numero tre di Forza Italia (dopo il fondatore e l’ex ministro Antonio Martino). «Allora ci appoggiammo alle strutture Fininvest. Uomini d’impresa, legati da un rapporto di dipendenza a Berlusconi. Io, pur essendo abituato a obbedire, come militare, ero terrorizzato dal compito: creare un partito in poche settimane. Ma il clan dei fedelissimi mi rispose: “Nessun problema, siamo tutti bravi e il nostro capo è il più bravo di tutti”. Questo clima non è cambiato. Nessun dibattito interno. C’è più disciplina in Forza Italia che in una caserma. Berlusconi è sensibile solo alle opinioni dei fedeli».
Solo dei fedelissimi, pare, in questi giorni: i “falchi” Daniela Santanché e Denis Verdini.
«È la conferma che il modello dell'impresa privata non funziona in politica. I leader hanno bisogno di un sistema non autoritario, in cui ci sia uno scambio continuo di opinioni fra base e vertice, ma in entrambe le direzioni. La base non può limitarsi a eseguire quel che vuole il vertice».

Caligaris se ne andò nel ’97, quando gli eurodeputati di Fi passarono ai Popolari europei (Dc): «Nessuna coerenza. Dicevamo di essere liberali, finimmo democristiani. E l’ordine, come sempre, arrivò dall’alto. Inappellabile. Niente discussioni».
Un altro volto noto di quella stagione eroica era Tiziana Parenti. Titti la rossa, la pugnace magistrata pisana che contestò i colleghi milanesi (Di Pietro, Borrelli, D’Ambrosio): Tangentopoli a senso unico, Pci salvato.
Oggi lei non salva Forza Italia: «In realtà come forza politica non è mai esistita. È sempre stata un’illusione. Berlusconi si ritira ad Arcore con Confalonieri e i familiari, e decide. Eravamo commissariati dalla Fininvest, facevamo politica aziendale. Come oggi, con i deputati schierati contro la sentenza da 500 milioni per Mediaset».

La Parenti era uno dei deputati più popolari, simbolo di una giustizia non piegata a sinistra (eterna accusa forzista ai magistrati): «Berlusconi ripeteva sempre: il nostro partito si deve strutturare, io presto mi ritirerò. Per qualche anno gli ho creduto, ho aspettato. Poi mi sono sentita imbrogliata. Per essere eletta mi ero dimessa dalla magistratura, non ho preso aspettative come tanti altri. Nessun paracadute. Ma se osavo obiettare qualcosa, mi assalivano. C’è un clima di cortigianeria che rasenta il degrado umano».

La fede nel capo sembra essere il destino di molti partiti. Anche di quelli “contro”: Bossi, Di Pietro, Grillo.
«Grillo è differente da Berlusconi solo perché urla, invece di fare il borghese perbenista. Entrambi usano i parlamentari come marionette, Grillo li manda sul tetto. È drammatico che dopo vent’anni ci siano ancora persone adulte che rinunciano al senso critico».

La lista di quelli che hanno abbandonato Forza Italia è lunga: se ne potrebbe fare un altro partito.
«Ricordo i “professori”: usati come carta velina che si appallottola e si butta nel cestino. Ma tutti si legavano al carrozzone. Subivano il ricatto: “O con me o contro di me”. Non era permessa alcuna opinione alternativa. L’unico sfogo era sparlare alle spalle».

Insomma, altro che Dumas: nessun Vent’anni dopo per i moschettieri di Berlusconi? 
«Quelli di allora non ci sono più. È una ripetizione penosa, patetica. Chi trova il coraggio di criticare lo fa solo quando viene scaricato, come Fini. Non c’è futuro per Forza Italia. Berlusconi morirà senza eredi, i tanti pretendenti non hanno alcuna possibilità di crescita. È un danno anche per il Paese».

Non è che ha un po’ di odio dell’ex?
«Guardi, ero molto amareggiata quando sono uscita. Ma era il ’97. Ne è passato di tempo. Oggi faccio l’avvocato, e quel poco di passione politica che mi è rimasta lo spendo con il Psi. Brave persone. Il mio problema con Forza Italia era solo che volevo un minimo di dibattito interno. Poi potevo anche avere torto. Ma senza falangi precostituite. Per il resto, le mie idee non sono cambiate. Infatti ho sulle spalle una querela da Di Pietro per 250mila euro».
Mauro Suttora

Wednesday, September 25, 2013

Com'è moderno il vecchio Lucrezio

IL DE RERUM NATURA TRADOTTO E COMMENTATO DA ODIFREDDI

di Mauro Suttora

Oggi, 18 settembre 2013


Quanto avete sofferto, a scuola, per il latino? E quanto avete odiato le intraducibili versioni del De Rerum Natura di Lucrezio?

Beh, ravvedetevi. Il nuovo libro di Piergiorgio Odifreddi (Come stanno le cose: il mio Lucrezio, la mia Venere, ed. Rizzoli) vi farà amare il capolavoro del poeta romano.
Odifreddi, infatti, nelle pagine dispari offre una sua versione in prosa de La Natura delle Cose. E nelle pagine pari, di fronte, la commenta, con sorprendenti rimandi all’attualità che la rendono godibilissima.

Bob Dylan, per esempio. Chi l’avrebbe detto che la sua canzone più famosa, Blowin’ In The Wind del 1962, appariva già nel verso 559 del libro IV del De Rerum (quello sulla fisiologia e i sensi umani)? «Conturbari vocem, dum transvolat auras», che Odifreddi traduce «la voce si turba, disperdendosi nel vento». Così, «la risposta sta soffiando nel vento» duemila anni dopo.

Oppure Federico Fellini, Woody Allen e John Lennon. «Il film 8 e mezzo», scrive Odifreddi, «è un’opera autobiografica che mostra Fellini mentre pensa al nuovo film che deve girare. Idea simile a Stardust Memories di Allen (1980), in cui la finzione dell’assassinio del regista anticipa di poche settimane la realtà di quello di Lennon».
Ebbene, sull’autoreferenzialità dell’opera d’arte aveva già scritto tutto Lucrezio (IV, 969-970): «Sogno di indagare la natura delle cose, di comprenderla e di spiegarla in un libro intitolato La natura delle cose».

Anche Italo Calvino si ispira a questi versi all’inizio del suo notissimo libro del 1979: «Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino…»

Gli esempi di autori che citano se stessi sono innumerevoli, avverte Odifreddi: «Nell’Iliade Elena ricama una veste di por- pora che raffigura i passi salienti dell’Iliade. Nell’Amleto si mette in scena una tragedia che è la stessa dell’Amleto. Nel Don Chisciotte, i protagonisti della seconda parte hanno letto la prima. Nei Sei personaggi in cerca d’autore, i sei personaggi cercano un autore che racconti la loro stessa ricerca».

Quegli stessi versi di Lucrezio offrono un esempio archetipico dell’indistinguibilità fra sonno e veglia. Calderon de la Barca nel 1635 ci scrisse sopra un intero poema: La vita è sogno. «E vari film di fantascienza», aggiunge Odifreddi, «hanno esplorato mondi popolati da esseri virtuali che credono di essere reali: da Nirvana di Gabriele Salvatores del 1997, alla trilogia Matrix» con Keanu Reeves.

Insomma, quanti spunti di attualità potrebbe trovare un bravo prof di latino per appassionare i propri studenti. Invece, come avvertiva Primo Levi, «Lucrezio non si legge volentieri nei licei: ufficialmente perché è troppo difficile, di fatto perché dai suoi versi ha sempre emanato odore di empietà».

Lucrezio, infatti, era un seguace dei filosofi materialisti Democrito ed Epicuro. Per niente religioso, quindi. Anzi ateo, come Odifreddi. Il quale polemizza: «Gli scrittori cristiani, per screditare il più elevato canto mai intonato da un uomo alla scienza e alla ragione, tramandarono la notizia che il poeta fosse stato pazzo, avesse scritto i suoi versi nei recessi della follia e si fosse suicidato. Ma la cosa è poco verosimile». In ogni caso, nel 1946 l’Unione Sovietica fu l’unico Paese al mondo che celebrò il secondo millennio dalla morte di Lucrezio.

Una delle parti più godibili del De Rerum è quella su amore, matrimonio e sesso. Immaginate che scandalo se a 15-16 anni ci avessero fatto tradurre questi versi che spiegano scientificamente le polluzioni notturne (IV,1033-36): «L’adolescente in preda ai bollenti spiriti sogna qualche ragazzina bella e prosperosa e gli si inturgida il membro, finché eiacula a larghi e caldi fiotti per la prima volta nella vita, imbrattandosi la veste».

Le femministe avrebbero qualcosa da ridire su questo Lucrezio antiromantico: «Se ciò che si ama è lontano, lo si può riavvicinare rievocandone le immagini e mormorandone il nome. Ma è meglio volgere altrove la mente e scaricare il proprio seme in un corpo qualsiasi. Trattenerlo nell’attesa dell’unico sempiterno amore è garanzia di affanni e dolori».

Il poeta si spinge oltre, e da perfetto epicureo contesta il matrimonio: «Chi evita saggiamente l’amore non deve certo privarsi del sesso: può godere delle sue gioie senza doversi sobbarcare le sue pene. E ne ricava una pura voluttà».

Dopo una descrizione dell’atto sessuale che rasenta la pornografia, Lucrezio diventa misogino: «Gli amanti si spossano a vicenda, passano la vita soggetti l’uno ai capricci dell’altro. In nome dell’amore si trascurano i propri doveri, si perde la faccia. Si sperperano patrimoni in profumi, gioielli, scarpe e vestiti, che poi si sgualciscono imbrattandoli di sperma».

Nessuno sospettava che Lucrezio avesse scritto tali porcherie. Neanche gli studenti e professori dei tanti licei a lui intitolati. È passato alla storia, invece, questo brano (attualissimo) sull’amore che rende ciechi: «Accecàti dalla passione, attribuiamo all’amata pregi inesistenti. Così le donne brutte si trasformano in bellezze ricercate e adulate. Le scure vengono considerate “abbronzate”, le grossolane “naturali”, le scheletriche “scattanti”, le nane “minute”, le enormi “maestose”. Le balbuzienti diventano “timide”, le insopportabili “focose”, le pettegole “argute”, le moribonde “cagionevoli”, e le già morte “tanto delicate”. Quelle con gli occhi storti hanno lo strabismo di Venere, se posseggono attributi giganteschi sono Giunoni».

Stoccata finale, massimo dello scetticismo: «Quand’anche una donna fosse veramente bella e attraente, non sarebbe comunque l’unica. Se vivevamo bene senza di lei prima di conoscerla, potremmo vivere altrettanto bene anche dopo. E comunque, a letto e altrove, non potrà che fare le stesse cose di tutte le altre».

Lucrezio è considerato l’inventore dell’espressione «addolcire la pillola». Odifreddi avverte che fu invece Senofonte. Fra i tanti rimandi contemporanei, cita quello di Mary Poppins (1964): «Basta un po’ di zucchero e la pillola va giù». Ma le pillole sarcastiche del sommo poeta latino contro l’amore è difficile ingoiarle anche oggi.
Mauro Suttora

Wednesday, September 11, 2013

Maria di Augias


GRANDE SUCCESSO PER L'ULTIMO LIBRO DEL GIORNALISTA. CHE INDAGA SULLA MADONNA SFIDANDO I TABU'

di Mauro Suttora

Oggi, 4 settembre 2013

Si può sottoporre la Madonna a un’inchiesta giornalistica, come se fosse un personaggio qualunque e non, per un miliardo di cattolici, la Madre di Gesù, quindi di Dio? Corrado Augias lo ha già fatto per Gesù stesso, quindi non ci meravigliamo che ora sotto la sua indagine – meticolosa ma di scrittura brillante – finisca Maria di Nazareth.

Se fossimo in un Paese musulmano Augias rischierebbe la pelle, nel sottoporre a scrutinio scientifico le divinità. Ma qualunque cattolico che abbia letto qualche decina di righe di un vangelo apocrifo, o ascoltato le canzoni di Fabrizio De Andrè a lei dedicate, non si scandalizzerà più di tanto.

Augias e il professor Marco Vannini, coautore intervistato di Inchiesta su Maria, la storia vera della fanciulla che divenne mito (ed. Rizzoli), partono da Medjugorie (Bosnia) e Sant’Anastasia (Napoli), due delle centinaia di luoghi di culto della Madonna che attraggono ogni anno milioni di pellegrini, per studiare il fenomeno.

FIGLIA, MOGLIE, MADRE DI DIO
«Essendo creatura terrena Maria può essere considerata, come ogni altra, figlia di Dio; appena adolescente diventa però anche sposa di Dio e madre di Dio pur conservando la sua condizione verginale». Ma, aggiungono Augias e Vannini, questa condizione già straordinaria è resa ancor più complessa dal fatto che il Dio di cui Maria è madre, moglie e figlia, è a sua volta una divinità triplice. Quindi lei è anche madre del Padre, e dello Spirito Santo dal quale è stata fecondata.

QUATTRO DOGMI
Verginità. Fu Sant’Ambrogio il costruttore della figura di Maria come moralmente perfetta, dotata di ogni virtù, soprattutto vergine. Maria vergine e madre è una contraddizione ginecologica, ma si comprende in rapporto alla spiritualità. Per sant’Agostino rimanevano vergini anche le ragazze e le monache violentate dai barbari.

Maternità divina. Decisa dal concilio di Efeso nel 431. Vinse Nestorio, patriarca di Costantinopoli, contro quello di Alessandria (d’Egitto) Cirillo, che si limitava a definirla madre di Cristo, e non di Dio.

Immacolata Concezione. La teorizza il francescano Duns Scoto alla fine del Duecento, contestato dai domenicani di Tommaso d’Aquino. Anche Agostino, Bernardo, Bellarmino e Torquemada negavano che Maria fosse nata senza peccato originale. Il dogma fu proclamato l’8 dicembre 1854 da Pio IX.

Assunzione in cielo. Nei vangeli non c’è nulla sulla morte di Maria, né sulla sua sepoltura. Ma la credenza esplode dopo il concilio di Efeso. Per gli ortodossi la festa dell’Assunzione (15 agosto) era importante quanto Natale e Pasqua. Papa Pio XII proclama il dogma nel 1950: Maria è salita in cielo anche con il corpo.  

GIOVANNI EVANGELISTA
Il Vangelo di Giovanni è l’unico a farci sapere che Maria aveva una sorella (e quindi Gesù una zia) presente accanto a lei ai piedi della croce. Ma, soprattutto, il primo miracolo di Cristo è narrato solo da Giovanni. La trasmutazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana gli viene chiesta esplicitamente da Maria, preoccupata perché il vino stava finendo. Gesù però, prima di obbedirle, le risponde sgarbato: «Che c’è tra me e te, donna?» Prende le distanze dalla madre, inizia la sua missione.
Un’altra particolarità di Giovanni evangelista è che non la chiama mai «Maria», ma sempre «madre di Gesù».

MARIA FEMMINISTA
È lei a dare il nome a Gesù bambino, come pure era accaduto alla madre di Giovanni Battista, sottraendo al padre Giuseppe quello che era un suo preciso e fondamentale diritto. È vergine in quanto sottratta al «possesso» maschile. La Madonna di Guadalupe è presa a simbolo della lotta di liberazione delle plebi oppresse in Messico e in tutta l’America Latina. L’Immacolata tiene sotto i piedi il serpente, ha la luna accanto, attorno al capo una corona di stelle.

IL SUO VOLTO NELL’ARTE
Nell’arte cristiana neppure Gesù ha il ruolo eminente dato a Maria. La quale viene ritratta nei momenti dell’esistenza che ogni donna conosce: maternità, allattamento, preoccupazioni per il figlio, patimenti per la sua sorte, dolore di dover seppellire la sua creatura. Le sue prime raffigurazioni sono nelle catacombe romane di Priscilla, sulla via Salaria: col bimbo in braccio, e nell’adorazione dei magi. Maria è Regina Coeli a Roma, Notre-Dame a Parigi, Basilissa nell’Europa ortodossa.

SCANDALO AL CINEMA
Il 4 maggio 1985 Giovanni Paolo II presiedette un rosario di espiazione per il film blasfemo Je vous salue, Marie di Jean-Luc Godard. Ma il tribunale di Parigi ne permise la libera circolazione. Rispettosa e suggestiva, invece, la Maria nel capolavoro del regista anarchico e anticlericale Luis Bunuel, La via lattea (1968).
Mauro Suttora
  

Wednesday, September 04, 2013

Brescia: l'avvelenamento Caffaro Snia

«Qui è tutto inquinato. Ma mi fanno pagare l'Imu»

«Ho dovuto ammazzare i bovini, non posso coltivare più nulla, nel sangue abbiamo pcb 15 volte superiore alla norma», dice il coltivatore Antonioli. Alle porte della città, parchi vietati e una causa da 4 miliardi

di Mauro Suttora - foto di Livio Senigalliesi

Oggi, 28 agosto 2013



Quattro miliardi di euro o un milione? Questa è l’astronomica differenza fra il costo della bonifica dell’area inquinata dalla fabbrica Snia Caffaro a Brescia, e quello che lo Stato spende ogni anno per eseguirla. A questo ritmo, i sette km quadri alla periferia della città torneranno puliti fra 4.000 anni.

L’impianto chimico ormai è chiuso, la Snia Caffaro è fallita da anni. Ma la micidiale eredità di pcb (policlorobifenili) e diossina con cui ha impregnato i terreni vicini per decenni rimane. Il commissario Marco Cappelletto ha chiesto agli ex proprietari (la finanziaria Hopa e alcune banche) un indennizzo di quattro miliardi, di cui 3,4 per danni ambientali. Intanto, il nuovo ministro dell’Ambiente Andrea Orlando (Pd) ha visitato la città e ha promesso di alzare la cifra che attualmente viene spesa per ripulire l’area.

A rischio la falda acquifera

Quel che è sicuro, è che finora tutti i cittadini danneggiati direttamente non hanno ricevuto un centesimo di rimborso. «Ho dovuto ammazzare e cremare le 21 bestie che allevavo», ci dice Pierino Antonioli, coltivatore, «perché la roggia dove la Caffaro scaricava ha inquinato i  miei sette ettari coltivati a mais e fieno. Da dieci anni non posso più produrre nulla, ho reddito zero, neanche una gallina. Ma l’Imu me la fanno pagare lo stesso».

I danni della Snia Antonioli li porta anche nel sangue: «Alle ultime analisi mi hanno misurato un tasso di pcb di 220. Sono contenti, prima era 300. Ma il limite massimo sarebbe 15. Perfino un mio nipotino, che non ha mai abitato qui, ha il pcb. Dicono che l’ha preso da sua madre, mia figlia, dopo che si è trasferita».

L’area inquinata è nella periferia Est di Brescia: un cono lungo sei chilometri sotto via Milano. I tre parchi delle vie Nullo, Sorbana e Passo Gavia hanno l’erba avvelenata, e così il campo sportivo Calvesi.

I terreni della fabbrica sono ovviamente quelli più inquinati: fino a 35 metri di profondità, come un palazzo di dieci piani di terra da portar via. Peggio dell’Ilva di Taranto. Le falde acquifere sono a rischio.
Fino a dieci anni fa nessuno sospettava nulla. Poi il professore e storico Marino Ruzzenenti ha scritto un libro sulla Caffaro, e il caso è esploso. 

L’impero Snia di rayon e viscosa

Dove finivano gli scarti industriali? Nelle acque di scarico e nella roggia Franzagola. La fabbrica Caffaro era entrata nell’impero Snia, quello che a Torviscosa (Udine) produceva la seta artificiale rayon. 

Negli anni Novanta la Snia era ancora un gigante da 9mila dipendenti. «Venne acquistata dalla Hopa di Emilio Gnutti», spiega a Oggi Ruzzenenti, «e nel 2004 fu divisa in due: da una parte la redditizia Sorin Biomedica, tuttora quotata in Borsa, dall’altra il bidone vuoto della chimica con la Caffaro. Che infine ha chiuso i battenti ed è stata messa in liquidazione».

Chi pagherà ora per la pulizia? Il commissario liquidatore vorrebbe rivalersi almeno in parte sugli ex proprietari. Ma sarà una causa lunga e difficile.

Intanto i 200 mila abitanti di Brescia (seconda città della Lombardia) convivono con una bomba ecologica. E dall'altra parte della città l'ex cava Antonioli, trasformata in discarica di cesio 137, minaccia le falde acquifere addirittura con radiazioni nucleari.
Mauro Suttora

4 scenari per il governo


CADE? NON CADE? SI VOTA?

di Mauro Suttora

Oggi, 28 agosto 2013

La data di lunedì 9 settembre è diventata importante quasi quanto l’8 settembre di settant’anni fa. La giunta per le elezioni del Senato si riunisce in quel giorno per decidere la decadenza di Silvio Berlusconi, condannato definitivamente a quattro anni per frode fiscale.
Il partito berlusconiano Pdl non accetta questa prospettiva, e minaccia di ritirare la fiducia al governo di Enrico Letta dopo appena quattro mesi. In ballo c’è anche l’Imu, tassa sulla casa che il Pdl vuole abolire. Ecco i possibili scenari:

1) NUOVO GOVERNO LETTA
Se l’attuale governo delle «larghe intese» (Pd-Pdl-Scelta Civica) non riesce in qualche modo a sopravvivere, il capo dello Stato Giorgio Napolitano potrebbe affidare un nuovo incarico a Letta. Nel rimpasto Angelino Alfano lascerebbe il ministero dell’Interno dopo lo scandalo Kazakistan, anche per avere più tempo da dedicare alla vita di partito e per rimarcare la distanza dal nuovo governo. Al quale però, per «senso di responsabilità», il Pdl (o una sua parte) continuerebbe a garantire la fiducia, o almeno la «non sfiducia» (astensione). 

2) NUOVE ELEZIONI
Forte di alcuni sondaggi che danno il centrodestra in testa con il 34-37 per cento, Berlusconi potrebbe puntare a nuove elezioni. Lo frenano altri sondaggi che danno vincitore il Pd, se guidato da Matteo Renzi. In ogni caso, la «stabilità» è considerato il valore più importante oggi, e non solo dal presidente Napolitano. Lo spread è calato a 250, nessuno vuole crisi politiche che risveglino gli speculatori finanziari internazionali. 

3) NAPOLITANO SI DIMETTE
Il presidente della Repubblica ha accettato un secondo mandato solo in cambio dell’impegno di Pd e Pdl ad assicurare la governabilità, con un’alleanza che va contro i rispettivi interessi di parte. Ma se quest’impegno venisse meno, Napolitano potrebbe compiere un gesto drammatico, dimettendosi. Poiché le Camere possono essere sciolte solo dal capo della Stato, occorrerebbe eleggerne uno nuovo.
Ma i tempi si allungherebbero e si arriverebbe alla primavera 2014, che già prevede il voto per l’Europarlamento.

4) GOVERNO PD-GRILLO
Se il governo cadesse per colpa del Pdl e Napolitano e Letta non riuscissero ad attuare l’ipotesi 1), si potrebbe tornare a un’alleanza  fra Pd e il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo. Il tentativo già fallito dell’ex segretario Pd Pier Luigi Bersani avrebbe qualche possibilità di andare in porto se il Pd e Grillo (che nei sondaggi è sceso dal 25 al 17-20 %), si accordassero su un premier come Stefano Rodotà, candidato M5S al Quirinale.
Mauro Suttora   

Wednesday, August 28, 2013

Elisabetta vuole battere Vittoria


Nel settembre 2015 la regina d'Inghilterra raggiungerà la trisnonna, che regnò per 63 anni e 216 giorni. E, conquistato il record, finalmente lascerà il trono a Carlo
  
di Mauro Suttora

Londra, 21 agosto 2013

C'è  una data su cui puntano gli allibratori: 11 settembre 2015. È quando la regina Elisabetta raggiungerà i 63 anni e 216 giorni di regno. Da allora, si sussurra, la sovrana potrà abdicare in favore del figlio Carlo, che sarà quasi 67enne. La regina, infatti, vuole togliersi una soddisfazione: battere la trisnonna Vittoria, detentrice di un importante record: il regno più lungo nella storia britannica.

Nessuno parla ufficialmente di questa scadenza. Ma è chiaro, superato il Giubileo di Diamante per i 60 anni sul trono, che Elisabetta mira a qualcosa di più grande, che le darebbe un posto definitivo nella storia. Altrimenti non ci sarebbe motivo per intestardirsi a rimanere a Buckingham Palace, umiliando il figlio ultrasessantenne e ancora principe di Galles. Perfino Edoardo VII, successore della inossidabile regina Vittoria, era più giovane di Carlo quando subentrò alla madre nel 1901: aveva 59 anni.

La regina gode di buona salute. È stata ricoverata recentemente in ospedale, ma pare non fosse nulla di grave. A 87 anni sembra lanciata verso la longevità di sua madre, scomparsa nel 2002 a 101 anni.

Se Elisabetta fosse diventata regina a 18 anni, come Vittoria, oggi non solo l’avrebbe già battuta, ma con 69 anni sul trono si troverebbe al sesto posto nella classifica dei regni più lunghi della storia: prima di Francesco Giuseppe imperatore d’Austria-Ungheria (che governò “soltanto” per 68 anni), e con ottime speranze di superare i 72 anni di regno del Re Sole francese Luigi XIV, che aveva appena quattro anni quando suo padre morì (divenne reggente fino alla sua maggiore età la madre Anna d’Austria, ma governava il cardinale italiano Giulio Mazarino).

Elisabetta ha un handicap di 26 anni
Insomma, con tutto il rispetto per il re Sobhuza dello Swaziland che detiene il record planetario del regno più lungo (troppo facile conquistarlo quando si diventa sovrani a pochi mesi di vita), Elisabetta meriterebbe lei il titolo, perché è partita  con un handicap di 26 anni: l’età alla quale è succeduta al padre Giorgio VI (il «sovrano balbuziente» interpretato da Colin Firth nel recente film Il discorso del re, asceso al trono soltanto grazie all’abdicazione del fratello Edoardo VIII, ufficialmente causato dall’amante già sposata Wallis Simpson, in realtà anche per le simpatie naziste di Edoardo).

La regina Vittoria ha dato il proprio nome alla sua epoca: la seconda metà dell’Ottocento inglese è chiamato «era vittoriana» per il perbenismo e la conseguente ipocrisia, oltre che per il grande sviluppo economico e tecnologico offuscato però dalle diseguaglianze sociali.

Per che cosa passerà alla storia invece la regina Elisabetta II? Probabilmente per l’esatto contrario della sua trisnonna Vittoria: gli anni Sessanta del secolo scorso, con l’esplosione di minigonne, Beatles, Rolling Stones, libero amore. E la ruota gira: dopo Carlo e William, è già pronto un altro re Giorgio, bisnipote di Elisabetta.
Mauro Suttora

classifica dei regni più lunghi della storia:

1) Sobhuza (Swaziland) 1899-1982
2) Luigi XIV (Francia) 1643-1715
3) Giovanni II (Liechtenstein) 1858-1929
4) Shapur II (Persia) 309-379
5) Ponhea Yat (Cambogia) 1393-1463
6) Francesco Giuseppe (Austria-Ungheria) 1848-1916
7) Malietoa Tanumafili (Samoa) 1939-2007
8) Bhumipol (Thailandia) 1946-regnante
9) Ramsete II (Egitto) 1279 a.C.-1213
10) Ferdinando I (Napoli) 1759-1825
11) Amoghavarsha I (India) 814-878
12) VITTORIA (Regno Unito) 1837-1901
13) Federico Augusto I (Sassonia) 1763-1827
14) Isa ibn Ali al Khalifa (Bahrein) 1869-1932
15) Giacomo I (Aragona) 1213-1276
16) Saqr bin Mohammad al Qassimi (Ras al Khaima, Emirati) 1948-2010
17) Hirohito (Giappone) 1926-1989
18) Kangxi (Cina) 1661-1722
19) ELISABETTA (Regno Unito) 1952-regnante       

Enrico Letta in piscinetta

Il premier gioca con moglie e figli nel giardino della casa di famiglia: vacanze agli antipodi di quelle di Berlusconi

di Mauro Suttora

Colignano (Pisa), 21 agosto 2013

Il 20 agosto ha compiuto 47 anni. Il più giovane premier italiano dopo Benito Mussolini, Amintore Fanfani e Giovanni Goria. Sarà anche il più breve, o il più longevo?
 
Entrambe le possibilità sono aperte per Enrico Letta. Che in queste pagine vediamo giocare con i figli e la moglie nella piscinetta della villa di famiglia vicino a Pisa. Una breve pausa di relax fra gli impegni a palazzo Chigi, i viaggi all’estero e la partecipazione al meeting di Comunione e liberazione a Rimini.

Qui il serafico Letta ha tirato fuori le unghie, attaccando i «professionisti del conflitto». Chi sono? Quelli che vorrebbero già far cadere il suo governo, nato appena quattro mesi fa. «Gli italiani puniranno chi antepone i propri interessi a quelli del Paese», avverte. A chi si riferisce?

Alle opposizioni, naturalmente, ma anche ai “falchi” del Popolo delle Libertà che non esitano a minacciare il ritiro della fiducia se Silvio Berlusconi perderà il suo seggio di senatore dopo la condanna a quattro anni di carcere per frode fiscale.

Ma nel mirino di Letta ci sono anche alcuni esponenti del suo partito, il Pd, che criticano in continuazione il governo, indebolendolo. Non è un mistero che diversi democratici, soprattutto quelli di sinistra, abbiano paura che l’alleanza con Berlusconi faccia perdere voti al partito.

Si vergognano per le larghe intese
A beneficiarne sarebbero Beppe Grillo (Movimento 5 stelle), Nichi Vendola (Sel) e Roberto Maroni (Lega). Così, il governo Letta delle «larghe intese» viene continuamente strattonato da sinistra e da destra. Tutti dicono di «essere costretti» a governare assieme agli avversari dell’ultimo ventennio per cause di forza maggiore (la crisi economica).
Gli unici a difenderlo compatti sono i montiani. Ma rappresentano solo il 10 per cento degli elettori.

Già il 9 settembre, quando si riunirà la giunta per le elezioni del Senato, il governo Letta potrebbe cadere perché il Pd, è quasi sicuro, voterà per la decadenza da senatore di Berlusconi.

Poi ci sono i possibili incidenti di percorso, come il caso Shalabayeva (la moglie del dissidente kazako espulsa dall’Italia con la figlia di sei anni).

Infine, la crisi economica. Se i mercati internazionali continueranno a «graziare» l’Italia, mantenendo lo spread con i titoli tedeschi sui 250 punti (contro i 570 di venti mesi fa), il governo rimarrà solido. La stabilità paga, come ammonisce continuamente il capo dello Stato Giorgio Napolitano.

Ma se si tornasse alle turbolenze, o se l’Italia non riuscisse ad agganciare la timida crescita del resto d’Europa, il destino di Letta sarebbe più difficile.

È in cima ai sondaggi.
In ogni caso, il premier negli ultimi sondaggi di popolarità è in cima alla classifica assieme a Napolitano, Matteo Renzi ed Emma Bonino. E molti ipotizzano che il suo governo duri fino al 2015. Letta può quindi godersi qualche giorno di vacanza in relativa tranquillità.
Mauro Suttora     

Wednesday, August 21, 2013

Antonio Esposito


CHI È IL GIUDICE CHE HA CONDANNATO BERLUSCONI

di Mauro Suttora
Oggi, 14 agosto 2013 

Avrebbe fatto meglio a seguire il consiglio di Piero Calamandrei, il povero Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Corte di cassazione: «I magistrati dovrebbero condurre vita riservata, evitando ogni occasione di dibattito pubblico».

Anche le cene nei club Lions e Rotary, dove c’è sempre qualche giornalista. Come Stefano Lorenzetto, grande penna de Il Giornale, che una sera di quattro anni fa a Verona sentì Esposito lasciarsi andare a confidenze privatissime su Silvio Berlusconi.

I salaci pettegolezzi a cena
Allora il magistrato napoletano tutto poteva immaginare, tranne che sarebbe passato alla storia come il giudice che ha inflitto la prima condanna definitiva all’ex premier. Quattro anni di reclusione, sentenza pronunciata il 1° agosto. La revisione del processo d’Appello è arrivata per puro caso sul suo tavolo, perché fino a maggio Esposito non sapeva che avrebbe presieduto la sezione feriale (estiva) della suprema corte.

Lorenzetto si è ricordato di quella cena, e ha raccontato i salaci pettegolezzi pronunciati da Esposito su Berlusconi: in particolare, sulle due deputate che lo avrebbero intrattenuto con presunte e speciali doti erotiche.

Esposito ha subito annunciato querela contro Lorenzetto. Sarà facile stabilire la verità, perché la sera del 2 marzo 2009 al ristorante veronese Due Torri c’erano parecchi testimoni.

Si fidava dell’amico giornalista
Un altro giornalista ha inguaiato Esposito pochi giorni dopo. Antonio Manzo, del quotidiano napoletano Il Mattino, gli telefona. Passano una mezz’oretta a commentare la storica sentenza. I due sono amici, entrambi originari di Sarno (Salerno), si conoscono da quarant’anni. 

Il giorno dopo la conversazione viene pubblicata. Apriti cielo. «Berlusconi è stato condannato non perché “non poteva non sapere” [dell’evasione fiscale Mediaset da 7 milioni di euro, ndr], ma perché Tizio, Caio o Sempronio gliel’aveva detto», avrebbe rivelato Esposito.

«L’ho raccomandato io»
«Non è vero, nel testo che ho approvato via fax per la pubblicazione quella frase non c’era», protesta il magistrato. «Manzo ha tradito la mia fiducia, doveva essere un’intervista su temi generali. E pensare che se fa il giornalista lo deve solo a me».

Il Mattino replica pubblicando l’audio della frase incriminata. E, in effetti, sembra che Esposito parlasse in termini astratti. Ma sicuramente Manzo non ha avuto bisogno della sua raccomandazione per entrare al Mattino: era demitiano, e trent’anni fa questo apriva quasi tutte le porte a Napoli.

Ormai la sentenza contro Berlusconi è passata in giudicato, è pressoché impossibile impugnarla ancora dopo tre gradi di giudizio. Ma le motivazioni devono ancora uscire, e su questo appiglio punta qualche difensore estremo dell’ex premier: un magistrato non dovrebbe commentare le sentenze che ha emesso, tanto meno a caldo su questioni delicatissime.

Dopodiché, il Giornale manda due inviati a Sarno per cercare di scoprire altri imbarazzanti altarini nel passato di Esposito. E per giorni lo attacca in prima pagina su trasferimenti chiesti al Csm, doppi lavori, auto di lusso in prestito.
Risultato: Esposito finirà pure lui sotto processo davanti al Csm il 5 settembre. 

La famiglia nella bufera
Gli “schizzi” lambiscono tutta la famiglia. Il figlio di Esposito, Ferdinando, è sostituto procuratore a Milano. Qualche mese fa è entrato nelle cronache perché ha avuto una breve avventura con l’ex consigliere regionale Pdl Nicole Minetti. Proprio durante il processo in cui lei è stata condannata (e proprio su richiesta della procura di Milano) a cinque anni di carcere per favoreggiamento di prostituzione nelle cene di Berlusconi ad Arcore.

Il fratello di Esposito, infine: Vitaliano, emerito procuratore generale della Cassazione. Brillante carriera, con molti incarichi extragiudiziali (commissario Ilva fino a pochi mesi fa, in precedenza cinque anni alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo) assegnati ovviamente da ministri politici. Di destra e di sinistra. Ma anche Vitaliano è rimasto vittima di voci e veleni causati dalla sentenza pronunciata dal fratello.
Mauro Suttora

che succede a settembre?


di Mauro Suttora

Oggi, 14 agosto 2013

Ventotto agosto o 9 settembre? La giunta per le elezioni del Senato che deve prendere atto della condanna definitiva di Silvio Berlusconi a quattro anni per frode fiscale si riunirà in una di queste due date. La prima è chiesta dai 5 stelle, che vogliono togliere il seggio di senatore all’ex premier con la maggiore rapidità possibile. Ma il presidente della giunta Dario Stefàno smorza le impazienze del partito di Beppe Grillo: «Una settimana in più o in meno, le cose non cambiano».

Stefàno non è sospettabile di simpatie per Berlusconi, visto che è di Sel (Sinistra, ecologia e libertà, il partito di Nichi Vendola). Il Pdl cercherà di evitare la decadenza automatica prevista dalla legge Severino per i pregiudicati con pena superiore a due anni: il loro presidente, dicono, è stato condannato per fatti avvenuti prima dell’entrata in vigore della legge. La questione verrà dibattuta in giunta, quindi approderà in aula (probabilmente in ottobre).

Ma ci arriverà, il governo Letta, ad ottobre? I falchi del Pdl vogliono farlo cadere, piuttosto che vedere il proprio capo espulso dal Parlamento. E il casus belli potrebbe essere l’Imu. La tassa sugli immobili dev’essere abolita per le prime case, ripetono i berlusconiani: «Era nel programma del governo». Per la verità Enrico Letta aveva parlato di «superamento». Intanto, però, la prima rata di giugno è saltata. Entro agosto il governo deve decidere: «Se cade il governo, le rate di settembre e dicembre dovranno essere pagate», minaccia Letta. Fra le possibili soluzioni, c’è quella di accorpare Imu ed ex Tarsu (la tassa sulla raccolta della spazzatura).

Molto dipenderà dallo spread. Che, contrariamente alle paure di molti, quest’estate è calato sotto i 250 punti. Quindi pagheremo meno interessi sul debito statale di 2 mila miliardi: cento punti equivalgono a circa venti miliardi. Ma il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni avverte che l’Imu sulla prima casa vale due miliardi e mezzo, e che sarebbe iniquo abolirla anche per i ricchi.

Insomma, quella che ci sembra una noiosa partita a scacchi fra Pd e Pdl nasconde interessi concreti. A nessuno dei due partiti conviene che il governo cada. In caso di nuove elezioni il Pd teme di perdere voti a favore del Movimento 5 stelle. Il Pdl, invece,  ha paura di finire all’opposizione, dopo un’alleanza Pd-grillini.

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, infatti, non vuole elezioni con il vecchio metodo Porcellum (parlamentari scelti dai capipartito, premio di maggioranza eccessivo). Quindi nella partita entra anche la riforma della legge elettorale: una volta fatta, le elezioni anticipate sarebbero più vicine.
Mauro Suttora

Friday, August 16, 2013

Oman


UN DESERTO 'SVIZZERO' DALLA DOPPIA ANIMA

Ci sono gli aflaj che portano acqua ai villaggi senza sprecarla, e le piattaforme petrolifere. Le auto pulite per legge, e gli aerei che decollano in ritardo per motivi religiosi. E poi dune sfumate di terra dorata o rossa, spiagge di un bianco accecante e un lusso non sfacciato. In Oman, oasi felice del mondo arabo, che sta vivendo un boom turistico

di Mauro Suttora

Sette (Corriere della Sera), venerdì 9 agosto 2013



Immaginate Dubai senza i grattacieli, Abu Dhabi senza la Formula Uno, il Qatar senza Al Jazeera. Dune di sabbia fine come in Arabia Saudita, canyon rocciosi come nello Yemen, spiagge immense come alle Maldive (che stanno lì di fronte, nell'oceano Indiano). Ma l'Oman assomiglia soprattutto alla Svizzera: ti multano se non lavi l'auto, il pavimento del suk di Mascate è lucidato con la cera, le autostrade a quattro corsie hanno l'asfalto perfetto. E non succede mai niente.

"No news, good news": l'Oman non fa notizia. Niente rivoluzioni, guerre, estremisti. La 'primavera araba'? Sì, alcuni studenti due anni fa hanno manifestato e qualche testa calda è finita in commissariato. Poi il sultano ha ordinato alle imprese di assumere migliaia di giovani regalando loro buoni stipendi. E tutto si è chetato.
Un Paese noioso? "No, tranquillo. Quindi felice", sorride Aisha, giornalista con velo che incontro nella hall del resort Crowne Plaza a Salalah. Avevo letto un suo articolo nel sito online di uno dei maggiori quotidiani in lingua inglese. E quando mi sono imbarcato sull'aereo dalla capitale Mascate a Salalah, seconda città del Paese, ho scoperto che aveva ragione. 
Aisha raccontava infatti delle difficoltà che affrontano le hostess a ogni partenza. Le donne musulmane non possono sedersi vicino a uomini non parenti. Ma le prenotazioni attribuiscono i posti alla cieca, per cui il mischione è matematico. Tutti i voli vengono ritardati perché almeno una decina di donne vagano nella carlinga, pretendendo dalle assistenti di volo una sistemazione alternativa. Inconvenienti pratici dell'Islam.

"Perché non mettono le donne da una parte e gli uomini dall'altra, come nelle nostre chiese fino a 50 anni fa?", chiedo ad Aisha. "Impossibile", spiega lei, che ha approfondito il problema, "viaggiano molte famiglie intere con i maschi che vogliono sedere accanto a mogli, sorelle, madri o figlie. L'unica soluzione, insomma, è non assegnare i posti".

L'unica soluzione per evitare le turbolenze del mondo arabo, invece, sembra essere l'assolutismo illuminato. Come quello del sultano Qabus, saldo sul trono dal 1970. Ci arrivò con un piccolo golpe; ma la vittima fu suo padre, e quasi nessuno si accorse della successione forzosa. Qualche sciabola sguainata nel segreto del palazzo reale, niente morti. Il papà detronizzato finì esiliato fra i lussi dell'hotel Dorchester a Londra.

Così oggi Qabus, sovrano piuttosto liberale, è il secondo governante più longevo del mondo: superato di soli tre anni dal sultano del Brunei (la regina Elisabetta e il re di Thailandia non contano, regnano ma non governano). 
Si dirà: facile essere tolleranti quando l'unica preoccupazione è come distribuire i proventi del petrolio. Vero. Ma decine di satrapi, da Saddam a Gheddafi, hanno dimostrato che la manna nera non garantisce buon governo e pace. Invece la dinastia di Qabus detiene un altro record mondiale: quello della stabilità nei secoli. Di padre in figlio, solo quattordici sultani dal 1749. Ognuno riesce a durare in media una ventina d’anni. Immaginate l'Italia ai tempi di Maria Teresa, e fate un paragone con la volatilità dei nostri governanti a scadenza annuale.


Il 72enne Qabus ha portato in 43 anni il suo Paese dal feudalesimo medievale (l'Oman è stato il penultimo stato del mondo ad abolire la schiavitù, prima della Mauritania) a un'assai confortevole modernità. Nessuno dei due milioni di omaniti fa lavori pesanti. Per quelli ci sono un milione di immigrati indiani, pakistani o filippini.
All'aeroporto di Mascate uno dei voli internazionali diretti più frequenti è per Thiruvananthapuram. Città che ho scoperto essere la Trivandrum dei nostri due marò, nel sud dell'India. Immigrati sì, e anche poco pagati (oltre alla piaga delle colf preda di padroni omaniti lussuriosi). Ma si spostano con l'aria condizionata: non più barconi da Iran e Pakistan o tratta di neri da Zanzibar, colonia dell’Oman fino al 1861.
Inutile dire che viaggiare per l'Oman è affascinante e sicuro (contrariamente all'attiguo Yemen). Quindi raccomandabile. I turisti internazionali impauriti dai disordini egiziani e tunisini (ora pure turchi) e dalle stragi siriane, arrivano qui. Ma Mascate, patria della noce moscata, non è un ripiego. Il boom turistico si spiega perché l'Oman è il Paese arabo più a Est, seimila chilometri dal Marocco. E bisogna andare proprio in questi due estremi per trovare l'anima più incontaminata e raffinata del modo arabo.
Le deprimenti baraccopoli delle altre capitali islamiche appaiono lontanissime mentre si percorrono i 50 chilometri in cui si dipana Mascate, stretta fra le montagne e il lungomare della Corniche. Certo, è tutto nuovo, magari mancano le antiche tradizioni e il savoir-faire in fatto di ospitalità che offrono Tangeri, Marrakesh o la Beirut rinata dopo la guerra civile. Ma è un 'nuovo' di buon gusto, lontano da certe tragiche pacchianerie simil-occidentali degli Emirati. Nessun edificio supera i pochi piani di altezza, quasi tutti rinnovano i classici stilemi architettonici arabi. E il sultano, appassionato di musica classica, nel 2011 ha inaugurato il teatro dell'Opera: il più grande del mondo arabo dopo quello cairota. Il muftì ha storto il naso: la musica, in particolare occidentale, non è ben vista dai fondamentalisti. Ma Qabus lo ha regalmente ignorato (dopo averlo innaffiato di soldi, finanziando la costruzione di altre moschee).


Da un quarto di secolo ormai l'albergo Al Bustan di Mascate è installato nella top 20 degli hotel mondiali. E da dieci anni si è aggiunto il Chedi, dell’omonima catena supercool obbligatoria fra le celebrità. 
Fuori dalla capitale, invece, c'è ancora cammino da fare: l’exclave Musandam a nord, davanti alla Persia, e Salalah a sud, con le sue palme e spiagge vergini, offrono albergoni Hilton o Marriott dignitosi, in teoria a 4 stelle, ma in realtà a tre. Buoni per i grupponi che arrivano con 6-7 ore di charter da Scandinavia, Inghilterra e Germania, o per i tecnici delle piattaforme petrolifere in libera uscita, ma che non giustificano i 200 euro a notte. Chissà che fra le decine di joint ventures economiche che stanno fiorendo con l'Italia non ci sia un po' di export del nostro prezioso know-how turistico.

Buona parte dei turisti che arrivano qui, però, non sono attratti dalla costa. Perché il tesoro nascosto dei 300 mila quadri dell'Oman (esattamente quanto quelli italiani) è il deserto. Nelle sue due fantastiche versioni: quella d'oro di sabbia, quella rossa delle montagne. E in mezzo al nulla, ecco improvvisamente decine di oasi rigogliose di verde e acqua dove approdano i trekking in fuoristrada. 

Da ammirare i 3.000 'aflaj', prodigioso sistema d'irrigazione unico al mondo che da mille anni plasma la vita dei villaggi. Neanche una goccia d'acqua va sprecata: prima arriva al fortino della guarnigione, poi alle case, ai lavatoi, agli abbeveratoi per gli animali; infine l'irrigazione dei campi. Molti 'aflaj' sono conservati bene, funzionano ancora alla perfezione e sono protetti dall'Unesco.

L’unica incognita di questo paradiso terrestre è l’età del sultano: l’ultrasettuagenario Qabus, celibe, non ha designato alcun erede. Gode di ottima salute, è attivissimo, ogni estate fugge con le sue due navi private (altro che yacht) dal caldo opprimente di Mascate e dai monsoni di Salalah per farsi un giretto in Europa. In Italia le sue mete sono sempre abbastanza eccentriche. Cinque anni fa era approdato a Bari, e i pugliesi ne approfittarono per farsi dare un po’ di soldi: tre milioni al conservatorio, due al policlinico. L’anno scorso è rimasto ormeggiato una settimana a Cagliari, snobbando chissà perché la Costa Smeralda.
Alle latitudini dell’Oman è probabilmente saggio non indicare con troppo anticipo il successore al trono. A Qabus potrebbe capitare lo stesso destino che lui riservò al padre: un esilio dorato per opera di qualche impaziente nipote. C’è però il rischio di lotte di fazioni fra cugini alla sua scomparsa. Mentre sembrano sopite le velleità indipendentiste del Dhofar, la regione meridionale di Salalah dove negli anni ’70 infuriò una guerriglia finanziata dai sauditi.

L’altro problema, come in tutto il mondo arabo, sono gli estremisti salafiti. La versione omanita dell’islam è sempre stata moderata e tollerante. Nei ristoranti frequentati dagli stranieri e negli alberghi si può bere il vino, contrariamente al divieto assoluto di Arabia Saudita, Kuwait, Iran e Gaza. Ma nella sala d’aspetto dell’aeroporto di Salalah ammetto di avere subìto uno choc culturale: mi sono trovato circondato da donne completamente velate in nero. Uniche eccezioni (stupendemente sexy): occhi curiosi e piedi nudi nei sandali. 

Chiedo ad Aisha: è sempre stato così? “Assolutamente no. Dopo la fine della colonizzazione inglese, nel ’71, le donne occidentalizzate non si velavano. E quelle del popolo usavano colori sgargianti: rosso, blu, verde”. Poi cos’è successo? Qui non ci sono sciiti, cos’è questo nero lugubre alla hezbollah? “È diventato di moda. Ma senza valenze politiche”. Speriamo.
Mauro Suttora 

Wednesday, August 14, 2013

L'ottava resurrezione di Berlusconi

DOPO LA CONDANNA A TRE ANNI PER FRODE FISCALE: A 77 ANNI HA ANCORA VOGLIA DI COMBATTERE

di Mauro Suttora

Oggi, 7 agosto 2013

«Io sono qui. Resto qui. Non mollo». Chi si illudeva che la carriera politica di Silvio Berlusconi fosse terminata con la condanna definitiva a quattro anni di carcere, è servito. Tante volte è stato dato per morto, altrettante è resuscitato. «Anche gli avversari, al di là di tutto, devono ammetterlo», dice a Oggi Daniele Capezzone, presidente Pdl della commissione Finanze della Camera, « ha un’energia obiettivamente impressionante. Sembra una rockstar».

Silvio ha 76 anni, 77 fra sette settimane. Il presidente americano Richard Nixon era un ragazzino, al confronto, quando dovette andarsene per lo scandalo Watergate: aveva ‘soltanto’ 61 anni. Pure lui sotto i colpi di magistrati che stavano mettendolo sotto impeachment. Evitò l’umiliazione dimettendosi nell’agosto 1974.

Berlusconi è sette volte nonno. Potrebbe essere perfino bisnonno: sua nipote Lucrezia, prima figlia di Piersilvio, ha 23 anni. Ma non ha alcuna intenzione di ritirarsi. Dove trova la voglia di combattere ancora? Da un po’ di tempo ha smesso di vantarsi della propria giovanilità. Anzi, ha addirittura preso il vezzo di aumentarsi gli anni: «Ne ho quasi 78», ha detto al direttore del quotidiano Libero Maurizio Belpietro qualche giorno fa. Svista o esagerazione per sembrare più anziano? «Mente perfino sull’età», ringhiano i nemici sulla rete.

Odiato, amato. Due curve di tifosi contrapposti. Dieci milioni di voti presi cinque mesi fa. Sei milioni di voti persi in cinque anni. Ma comunque ancora capo del primo partito italiano. O secondo partito, se si sapesse chi è il capo del primo (il Pd). Ha governato l’Italia per 3.340 giorni: il terzo per durata dopo Benito Mussolini e Giovanni Giolitti. Ma il primo della storia repubblicana: più di Alcide De Gasperi, Giulio Andreotti, Aldo Moro, Bettino Craxi.

Il record di cui si parla in questi giorni, però, è quello giudiziario. Processi subiti in vent’anni: 27. Processi in corso: sette, come i nipoti. Quelli più fastidiosi: i due civili. Perché rischia di dover  pagare oltre mezzo miliardo di euro all’odiato Carlo De Benedetti (editore dei giornali Repubblica ed Espresso), e centomila al giorno alla seconda ex moglie Veronica.

Finora, sempre assolto o prescritto. Per la prima volta il primo agosto è stato condannato. Entro il 15 ottobre deve scegliere se scontare un anno (tre sono svaniti con l’indulto 2006, per cui può ringraziare Romano Prodi allora premier) in affidamento ai servizi sociali o agli arresti domiciliari.
 
Già il fratello Paolo vent’anni fa dovette trascorrere l’estate 1993 ‘recluso’ nella propria villa a Porto Rotondo, accanto alla Certosa di Silvio. Ma le umiliazioni per l’ex premier sono già cominciate. I carabinieri gli hanno ritirato il passaporto. I grillini premono per cacciarlo subito dal Senato. I suoi rispondono che la legge sulla decadenza dei parlamentari pregiudicati è del 2012, e non ha valore retroattivo (la frode fiscale da nove milioni di euro di Mediaset risale a dieci anni fa). 

In ogni caso, gli avversari ora possono definirlo «delinquente» senza diffamarlo. Per il Financial Times è un «buffone». Per l’Economist un «clown», seppure alla pari con Beppe Grillo. Due giornali liberali, non comunisti.

Ma per il Grande Combattente processi e condanne sono solo medaglie: la dimostrazione di essere un Grande Perseguitato. E i giudici sono solo impiegatucci statali, «che hanno fatto un compitino vincendo un concorso». Altro che giustizia uguale per tutti: lo hanno preso di mira solo perché è sceso in politica.

I giudici di Milano lo avevano anche interdetto dai pubblici uffici per cinque anni. Troppi, ha concesso la Cassazione: facciamo tre, ha suggerito il procuratore generale. Rideciderà Milano. Nel frattempo, niente candidature. E allora, per conservare il nome Berlusconi sulla scheda, ecco la figlia Marina. Ha partecipato a tutti i vertici degli ultimi giorni. E si è schierata con i ‘falchi’ accanto a Capezzone, Renato Brunetta, Daniela Santanchè e Denis Verdini. 

Dall’altra parte, i ‘moderati’ Gianni Letta, Fedele Confalonieri, Angelino Alfano e Renato Schifani. In mezzo, la fidanzata napoletana Francesca Pascale e la ‘badante’ casertana Mariarosaria Rossi. Quest’ultima ha ormai sostituito la segretaria storica Marinella Brambilla (diventata madre a 48 anni) e perfino il maggiordomo Alfredo Pezzotti. Per parlare con Berlusconi bisogna passare da lei.

«Ma alla fine le decisioni le prende solo lui», dice Capezzone, «e mi impressiona la sua apertura alle novità. È un perfezionista, capace di arrivare un’ora prima sul palco di un comizio a provare i microfoni. Ma gli piacciono anche i colpi di scena, le improvvisazioni che spiazzano». Una potrebbe essere la drammatizzazione del momento dell’arresto. Chiedere di finire in carcere nonostante l’età. Il martirio porta voti.
Mauro Suttora