Wednesday, May 22, 2013

Glarona, democrazia diretta

SVIZZERA: ECCO COME FUNZIONA IL VOTO IN PIAZZA NEL CANTONE DI GLARUS
I cittadini del cantone di Glarona alzano la mano per votare (5 maggio 2013)

Questo è l’unico posto al mondo (oltre all’altro cantone di Appenzello) dove una volta all’anno, dal 1387, i cittadini decidono da soli le questioni più importanti. Sono 30 mila, partecipa la metà. Gli altri si fidano. Sorpresa: il «landamano» è un italiano. Come tre glaronesi su dieci, ormai

dall'inviato Mauro Suttora

Oggi, 5 maggio 2013

Ogni prima domenica di maggio, da 626 anni, i 38 mila abitanti del cantone di Glarona vanno in piazza e praticano la democrazia diretta. Votano sulle 5-10 questioni più importanti dell’anno, alzando la mano.

Siamo andati a vedere come funziona. Glarona (Glarus, in tedesco) è uno dei più piccoli cantoni della Svizzera tedesca. L’unico, con Appenzello, che mantiene la tradizione del voto in piazza. Le mani alzate degli elettori (basta avere 16 anni) non vengono contate: decide a occhio il «landamano» (sindaco del cantone). Che, sorpresa, è figlio di immigrati italiani: Andrea Bettiga, veterinario, liberale. «Mio padre arrivò da Colico (Como) negli anni Cinquanta come muratore, e sposò una glaronese. Nel cantone ormai un terzo degli abitanti è di origine italiana».

Si vota anche se piove

Bettiga, con gli altri quattro consiglieri, guida la parata che parte alle 9.30 dal municipio. È una grande festa, ci sono la banda e i soldati, il mercato, turisti. Si arriva nella grande piazza della landsgemeinde («comunità rurale»), che dal 1387 ospita l’assemblea. Se piove, non si rinvia. Gli ombrelli nasconderebbero le braccia alzate per il voto (con in mano un foglio verde): solo impermeabili.

Per fortuna oggi splende il sole. Non c’è tanta gente: 7-8mila votanti. «Perché quest’anno le questioni al voto non sono molto sentite», mi spiega Bettiga, «altrimenti si arriva al doppio». I consiglieri salgono sul palco, giurano su uno spadone e danno il via al dibattito. Tutti possono chiedere la parola per proporre emendamenti.

Se la discussione va per le lunghe, il landamano la taglia. Nessuno protesta. Anche perché ad attendere i glaronesi nei ristoranti e a casa c’è il piatto tipico locale: salsicciona bianca con purée e prugne.

Quest’anno le questioni più importanti sono la tassa sui profitti delle società (alzata dal 20 al 35%) e l’uso dello svizzero tedesco nelle scuole. Si decide che un terzo delle ore d’insegnamento dovrà essere in tedesco «puro», e il resto nel tedesco locale, incomprensibile in Germania.
Lo sperimento anch’io: chiedo a un turista tedesco di riassumermi uno dei discorsi, ma lui confessa di non avere capito quasi niente.

Maggioranza decisa a occhio

A un certo punto, dopo un voto, c’è un  conciliabolo fra i cinque consiglieri sul palco. Bettiga non era sicuro della maggioranza, e ha chiesto un parere agli altri. Ma il suo verdetto è inappellabile. «Da noi si dice», scherzerà dopo con noi, «che le uniche due persone al mondo che non fanno sbagli sono il landamano e il Papa».

In piazza vengono eletti i giudici cantonali. Per  le altre cariche, invece, c’è il voto segreto nell’urna in elezioni normali. «Ho letto di Grillo», dice Bettiga, «lo invito qui da noi l’anno prossimo per vedere la democrazia diretta».

Un quarto dei residenti di Glarona sono immigrati, non votano. «Ma non c’importa», dice Filippo Gerardi, 47 anni, albergatore nato a Potenza, in Svizzera da trent’anni, «perchè i non cittadini hanno gli stessi diritti in tutto: tasse, assistenza medica, scuole, pensioni. Nella pratica, siamo uguali». Sua moglie Loredana è nata qui da immigrati da Latina, ma anche i loro due figli ventenni di seconda generazione non fanno domanda di cittadinanza svizzera: «Restiamo italiani».
Mauro Suttora






Duello Michaela-Cécile

LA SOTTOSEGRETARIA BIANCOFIORE E LA MINISTRO KJENGE: AGLI ANTIPODI

Oggi, 8 maggio 2013

di Mauro Suttora


Non fosse per quella benedetta ricrescita di capelli che ogni tanto svela la verità, Michaela Biancofiore sarebbe l’esatto contrario di Cécile Kyenge: (finta) bionda, nata a Bolzano (seppur romano-pugliese), di destra. E poi il cognome, un destino di purezza.
Era stata nominata sottosegretaria alle Pari opportunità. Ma lei ha subito ha perso l’opportunità di dimostrare il proprio valore, causa poco opportune dichiarazioni «omofobe» come «chi va con i trans ha seri problemi di posizionamento sessuale», «oggi purtroppo l’omosessualità è estremamente comune», «i gay si autoghettizzano, sono una casta». Spostata ad altro incarico.

Molte dichiarazioni anche su Cécile Kyenge, nuova ministra per l’Integrazione: «In un Paese civile non lo sarebbe mai diventata», l’ha accarezzata l’eurodeputato leghista Mario Borghezio, «è un elogio dell’incompetenza, fa parte di un governo bonga bonga». Lei ha risposto sobria, spiazzando i politicamente corretti: «Non dite che sono “di colore”: sono fiera di essere nera».

Nata nel Katanga, Congo profondo: padre benestante funzionario statale, capo villaggio con quattro mogli e 37 figli. Cécile voleva studiare medicina all’università, in Congo i burocrati la obbligano a iscriversi a farmacia, lei si ribella e riesce a ottenere una borsa di studio per la Cattolica di Roma. Arriva 30 anni fa, per mantenersi lavora come badante. Si specializza in oculistica, vent’anni fa si sposa con un ingegnere italiano, acquista la cittadinanza, ha due figlie oggi adolescenti: Giulia e Maisha. A Modena dove vive fonda un’associazione che aiuta gli immigrati, nel 2004 è consigliere di zona Ds, nel 2009 consigliere provinciale Pd. Eletta deputata in febbraio, la sua bandiera è lo «ius soli»: significa «legge del suolo», si è cittadini del Paese dove si nasce e non di quello dei propri genitori.
       
Michaela invece diventa berlusconiana già nel ’94, dopo il diploma magistrale. Si definisce «imprenditrice nel settore del wellness», ma è stata anche assistente alla regia in film di Carlo Verdone prodotti da Mario Cecchi Gori (Al lupo, al lupo, Maledetto il giorno che ti ho incontrato). «Sono una kamikaze imbottita di tritolo berlusconiano puro», dice, e non si toglie mai l’anello di Damiani che Silvio le ha regalato. Già fidanzata dell’ex ministro degli Esteri Franco Frattini, che dieci anni fa la nominò «consigliere per le autonomie locali», consigliere provinciale Forza Italia nel 2003, deputata dal 2006. E adesso non vede l’ora di opporsi alle idee di Cécile.
Mauro Suttora

Wednesday, May 15, 2013

Giulio Andreotti


Oggi, 6 maggio 2013

di Mauro Suttora

Questa volta è vero. Aveva scherzato tante volte, Giulio Andreotti, sulla propria morte. «La notizia mi pare francamente esagerata», commentava ogni volta che si spargeva la voce di una sua dipartita dopo l’ennesimo ricovero d’urgenza in ospedale per «scompensi» o «malori». Una volta, cinque anni fa, quasi scomparve in diretta tv la domenica pomeriggio. «Presidente…»: Paola Perego gli aveva rivolto una domanda, ma lui restava muto seduto in poltrona, con lo sguardo fisso nel vuoto. Occhi aperti, però. Superata la crisi, l’inevitabile battuta: «Ringrazio il principale per la proroga».

Un anno prima era ancora vivacissimo: nel 2007 lo andai a trovare nel suo ufficio privato di piazza San Lorenzo in Lucina a Roma per un’intervista sulla moschea di Roma, che lui fece costruire in accordo col re saudita negli anni 70. 
Aveva il vezzo di dare appuntamenti a ore impensabili per le latitudini romane: otto in punto. Non c’era più la fedele e mitica segretaria, signora Enea, e lui fissava gli appuntamenti da solo a chi gli telefonava sulla linea diretta. La semplicità del vero potere: niente pompa borbonica, addetti stampa, attese. Poi, appena apriva bocca, il fascino della conversazione ad alto livello: mai una banalità, sempre (auto)ironico, il gusto dell’aneddoto spiazzante, la memoria prodigiosa: «Non è un uomo, è un archivio», dicevano, temendolo, i colleghi democristiani.

Peccato che i grillini non lo abbiano conosciuto. Avrebbero potuto imparare molto da lui, simbolo del potere per mezzo secolo: quintessenza del «regime», ma anche navigatore abilissimo e felpato. Molti ex avversari giurati sono rimasti vittima del suo fascino. Quasi diabolico, e infatti faceva Belzebù di soprannome. 
Era al potere già nel 1945, quando Alcide De Gasperi scelse quel giovane alto e già un po’ curvo, conosciuto nella biblioteca vaticana durante la guerra, come sottogretario alla Presidenza. Perfetta volpe di oratorio, un po’ come Enrico Letta sottosegretario di Romano Prodi nel 2006-8.

Si occupa di cinema, gli piace frequentare attori e registi anche se sono quasi tutti di sinistra. Intanto, comincia a coltivare l’orticello elettorale nel collegio ciociaro. Morto De Gasperi diventa ministro dell’Interno nel primo governo di Amintore Fanfani. Ha solo 34 anni, il più giovane nella storia repubblicana. Da allora è stato ministro ben 26 volte, in dieci dicasteri diversi, e presidente del Consiglio sette volte: tutti record mondiali. 
Otto volte ministro della Difesa, ininterrottamente dal 1959 al ’66. Sono anni difficili: rivolta a Genova nel ’60 contro il governo Tambroni, minacce di golpe nel ’64 contro il primo centrosinistra e l’apertura al Psi. Lì si crea la fama inquietante di uomo della destra dc, con una sua corrente autonoma: piccola, mai più del 12-20%, ma sempre decisiva fra la sinistra e i dorotei.

Nel 1972 è premier la prima volta, in un governo di centrodestra senza i socialisti e col ritorno dei liberali. Poi, la giravolta. Il suo vecchio amico Aldo Moro (gli successe nel ’42 alla guida degli universitari cattolici) gli affida dal ’76 i governi dell’apertura al Pci: «solidarietà nazionale» con la scusa di terroristi e crisi economica, comunisti mai direttamente al governo ma decisivi con l’astensione. E Andreotti a garantire presso americani e ambienti conservatori.

Il dramma del rapimento Moro lo colpisce in pieno. Sceglie la «fermezza» contro le Brigate Rosse: niente trattativa. E quelle uccidono il presidente dc. È un colpo duro: per quattro anni non torna al governo. «La vecchia volpe è finita in pellicceria», si illude Bettino Craxi, segretario Psi. Che però poi ricorre proprio a lui offrendogli l’ennesima giravolta: quando diventa premier nel 1984-87, primo socialista alla guida dell’Italia, gli affida gli Esteri. In pratica Andreotti è il numero due del governo, sempre come copertura a destra.

Ho un ricordo personale del 1987. Avevo scoperto, per il settimanale Europeo di cui il «divo Giulio» (scrittore di successo per l’editore Rizzoli) era commentatore, il traffico di armamenti Valsella-Tirrena-Bofors: l’Italia e altri Paesi europei vendevano armi ed esplosivi a Iran e Iraq in guerra, violando l’embargo Onu. Chiaramente Andreotti sapeva. E chiaramente lo scandalo non finì in copertina. Lui non ne fu toccato.

Nel 1988 Ciriaco De Mita riesce a sconfiggere Craxi e a conquistare palazzo Chigi. Ma dura solo un anno: ultimo giro di valzer, Andreotti cambia cavallo e dalla sinistra demitiana passa alla destra di Arnaldo Forlani. In cambio Craxi gli dà per tre anni, fino al ’92, la guida del governo. È il famoso Caf (Craxi-Andreotti-Forlani).

A 73 anni Giulio, senatore a vita, spera di coronare la carriera al Quirinale. Ma Tangentopoli travolge anche lui, viene eletto Oscar Luigi Scalfaro. Perso il potere, arriva l’accusa più tremenda: complice della mafia. Il suo proconsole siciliano, Salvo Lima, assassinato per aver violato qualche patto. Andreotti accusato da un pentito di avere baciato il boss Totò Riina. 
Ma lui non fa come Silvio Berlusconi, non grida al complotto dei magistrati. Si sottopone docilmente al processo per dieci anni, difeso dagli avvocati Franco Coppi (oggi legale di Berlusconi) e Giulia Bongiorno. Nel 2003 la Cassazione lo assolve per i fatti dopo il 1980. Per quelli precedenti, scatta la prescrizione.
Altra grande ombra su Andreotti: l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Condannato in appello a 24 anni, assolto in Cassazione. Ma sono tanti i segreti che l’uomo più imperturbabile d’Italia si porta nella tomba.
Mauro Suttora

Thursday, May 09, 2013

prefazione a 'Il lavoro nobilita' di Michele Boselli (alias miss Welby)

John Patel & Virginia Welby
IL LAVORO MOBILITA

Prefazione di Mauro Suttora

Poche cose nella vita mi hanno procurato piacere quanto il privilegio di leggere per primo quest’Opera e l’onore di scriverne la prefazione”. Prefazione che avrei dovuto cominciare con queste parole, secondo i due sciagurati autori di questo indigeribile minestrone cucinato a quattro mani, che hanno sadicamente osato propinarmi per avvelenarmi un fine settimana. Trattasi, gli autori, di due miserabili individui privi di talento che hanno voluto sommare le loro esperienze lavorative col solo risultato di moltiplicare dolore e sconforto del lettore. L’uno provincialotto piazzista di aspirapolvere, uomo di bassa statura anche morale; l’altra una blogger drogata, dall’ambigua identità sessuale, alternativamente precaria nei call centre o più spesso disoccupata per pigrizia. Insomma due falliti che vogliono trarre profitto dalla notorietà della mia firma per cercare di vendere un libercolo il cui unico merito è di poter duplicemente funzionare in gabinetto sia come lassativo che come carta igienica. Altro sul loro “capolavoro” non ho da aggiungere, ma ho accettato di scriverne la prefazione per mio dovere di giornalista nell’informare il pubblico di cotanta pericolosa sconcezza narrativa.

Mauro Suttora, maggio 2013

Wednesday, May 01, 2013

1.200 stanze per un uomo solo

QUIRINALE: LUSSO NON GIUSTIFICABILE

di Mauro Suttora

Roma, 24 aprile 2013

Andate a vedere il film Benvenuto, Presidente! con Claudio Bisio. Scoprirete un mondo sconosciuto di velluti e ori, maggiordomi in livrea che si inchinano, lussi inimmaginabili e pompa borbonica. Benvenuti al Quirinale. Non vogliamo offendere nessuno, ma non è possibile che una Repubblica fondata sul lavoro e devastata dalla crisi peggiore della sua storia si permetta sprechi simili.
Quest’anno il Quirinale ci costa 245 milioni. Il doppio rispetto a 15 anni fa, il triplo sul 1986. Ma è soprattutto il confronto con l’estero a far capire l’assurdità di questa spesa.

I tedeschi spendono un decimo
In Germania la presidenza della Repubblica costa 20 milioni di euro. A Buckingham Palace la regina Elisabetta se la cava con 60 milioni annui: un quarto dell’Italia. Il presidente francese, che ha compiti ben più importanti del nostro, riceve 90 milioni. 
Noi invece manteniamo un esercito di 1.720 dipendenti: 901 civili e 819 militari. Ci sono i 260 corazzieri a cavallo,  ma per non far torto agli altri corpi anche centinaia di poliziotti, una settantina di guardie di finanza, 21 vigili e 16 guardie forestali (per la tenuta di Castelporziano).
L’imperatore giapponese ha mille dipendenti, il presidente degli Stati Uniti e il re spagnolo mezzo migliaio, a Londra ce ne sono 300, a Berlino 160.
Al Quirinale, invece, ci sono due persone solo per controllare gli orologi a pendolo, due doratori, tre ebanisti, sei tappezzieri, 14 addetti all’ufficio postale interno, 41 autisti per 35 auto blu. Nelle cucine una decina di cuochi, e 26 camerieri.
«Abbiamo ricevimenti di Stato con decine di ospiti, a volte centinaia», spiegano i dirigenti quirinalizi (un’ottantina, con stipendi medi da 10 mila euro al mese, buona presenza di parenti di politici). Certo, ma non tutti i giorni. E flessibilità vorrebbe che per questi pranzi saltuari si ricorresse, come nel resto del mondo, al catering.

542.000 euro al segretario generale
Un paradosso: il segretario generale Donato Marra, guadagna il doppio dello stesso presidente: 542 mila euro contro 239 mila. Perché i presidenti passano, ma i grandi burocrati restano.
L’elefantiasi del Quirinale ha una causa precisa: nel tempo, ma soprattutto negli ultimi vent’anni, quelli che un tempo erano semplici consiglieri del presidente, con un piccolo ufficio, si sono trasformati in veri e propri ministeri. Così oggi abbiamo il consigliere giuridico con uno staff degno del dicastero della Giustizia, quello militare per la Difesa, il diplomatico per gli Esteri, e poi gli Affari interni, e così via.
Obietta l’ufficio stampa del Quirinale (anch’esso sovradimensionato): «Il presidente guida anche il Csm (Consiglio superiore della magistratura) e il Csd (Consiglio supremo della difesa)». Certo, ma magistrati e forze armate dispongono già di fior di palazzi in centro a Roma, con strutture e funzionari.
L’aspetto più incredibile è che il Quirinale, nonostante le sue 1.200 sale e stanze, ha avuto bisogno di espandersi in vari palazzi limitrofi: apparentemente, infatti, non riesce ad accomodare le proprie sempre crescenti esigenze (comprese quelle per appartamenti privati graziosamente concessi a vari dirigenti). E così, giù in via della Dataria verso la fontana di Trevi, ecco i palazzi San Felice e della Panetteria. Dal 2009 anche palazzo Sant’Andrea in via del Quirinale, per l’archivio. Quanto ai corazzieri, caserma e stalle per i 60 cavalli stanno poco più in là, nell’ex convento di Santa Susanna.

Un velo di deferenza
Insomma, il nuovo presidente ha ampli margini per risparmiare e tagliare. Sono  ormai passati sei anni da quando Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, con il libro La Casta, hanno squarciato il velo di deferenza e quasi omertà sulle spese del Quirinale. Napolitano è riuscito a fare a meno di 460 dipendenti rispetto al 2006. Ma fra quelle 1.200 stanze, in quelle vuote ci sarebbe spazio per molti uffici pubblici.
Mauro Suttora

Pochi giorni dopo la pubblicazione di questo articolo sul settimanale Oggi il Quirinale ha annunciato tagli del 15% all'indennità del Segretario generale, del 12% ai Consiglieri del Presidente, e del 5% al personale comandato e distaccato. Risparmio complessivo: 800 mila euro l'anno.
Il Presidente ha inoltre annullato il ricevimento per il prossimo 2 giugno. Bravo Napolitano! (m.s.) 


Pd nella polvere


NAPOLITANO SUL TRONO: I 10 ERRORI DI BERSANI

di Mauro Suttora

Oggi, 24 aprile 2013
«Ora mi incrimineranno anche per strage»: la battuta più crudele, dopo le dimissioni di Pier Luigi Bersani e Rosy Bindi da segretario e presidente del Partito democratico, è di Silvio Berlusconi. Che calcola, allegro, di avere sepolto (politicamente) ben sedici segretari del Pd e dei partiti precedenti (Pds, Ds, Ppi, Margherita) che lo hanno avversato dal 1994 (lista completa sotto). Più la figuraccia rimediata dall’eterno rivale Romano Prodi, tradito da cento dei suoi nel segreto dell’urna.

Quel che resta di Dc e Pci, fusi nel 2007 dopo che per mezzo secolo avevano dominato l’Italia con il 70% dei voti, si è liquefatto negli ultimi giorni. Più che di una strage da parte dei berlusconiani o dei grillini, si è trattato di un suicidio di massa. «O di un’eutanasia», ammette Andrea Carugati, giornalista dell’Unità, organo ufficiale del partito.
Ma cos’è successo, esattamente? Com’è possibile che la prima formazione politica d’Italia, favorita da mesi in tutti i sondaggi, sia scivolata così malamente in poche settimane? Proviamo a individuare le possibili cause del disastro: dieci errori che hanno portato al vuoto odierno.

1) PRIMARIE BERSANI-RENZI: erano necessarie?
A norma di statuto del Pd, no. Il segretario è automaticamente candidato alla premiership. Ciononostante, Bersani in autunno ha accettato di misurarsi in una competizione interna. Pensava che sarebbe stata una passeggiata, come per Prodi nel 2006 e Veltroni nel 2008: qualche avversario pro-forma, una mobilitazione galvanizzante, tanta pubblicità gratis sui media. Invece è sbucata la stella di Matteo Renzi. All’inizio il sindaco di Firenze era accreditato di un innocuo 20%. Poi però, con il giro d’Italia in camper (come Grillo), la voglia di rottamazione lo ha fatto salire a un inquietante 40%.

2) APPARATO BUROCRATICO: perché scatenarlo contro Renzi?
La Casta politica italiana è composta da circa centomila persone stipendiate dalla politica, dagli eurodeputati ai consiglieri di zona. Di questi, quasi la metà appartengono al Pd. Di fronte alla sfida di Renzi, contrario al finanziamento pubblico ai partiti, gran parte di loro si sono schierati con Bersani. Mossa tragica: contro i burocrati dell’apparato la voglia di nuovo si è rafforzata.

3) PRIMARIE DI NATALE: comincia la rincorsa a Grillo
Per ovviare alle legge elettorale «Porcellum», che impedisce di esprimere preferenze ai singoli eletti, trasformandoli così in «nominati» dalle segreterie di partito (motivo inconfessabile per cui non è stata cambiata), a Natale il Pd ha organizzato in fretta e furia primarie anche per i candidati. Si voleva così rispondere alle primarie online di Beppe Grillo. Ma troppi raccomandati e paracadutati (più di cento) hanno avuto comunque un seggio sicuro senza passare il vaglio popolare, fra «listino del segretario», capilista decisi a Roma e deroghe alla regola del massimo di tre legislature.

4) GIA’ SICURI DI VINCERE: campagna elettorale supponente
Tutti i sondaggi danno il Pd trionfante su un Pdl sfasciato e un Grillo al 15%. Ma, poco a poco, il margine si assottiglia. Esattamente come il Pds nel 1994, il Pd è troppo sicuro di vincere, e conduce con supponenza la campagna elettorale. Circolano già elenchi dei futuri ministri. Berlusconi e i 5 stelle, invece, fanno propaganda porta a porta alla ricerca di ogni singolo voto. E rimontano, fin alla quasi parità col Pd.

5) “SIAMO PRIMI MA ABBIAMO PERSO”: e niente dimissioni
La sera del 25 febbraio appare già chiaro che il Pd non ha la maggioranza al Senato. Ma Bersani, invece di dimettersi, inventa la famosa frase: «Siamo arrivati primi, ma non abbiamo vinto». E lancia la proposta di «governo del cambiamento» strizzando l’occhio a Grillo.

6) CORTE DISPERATA A GRILLO: ma lui rifiuta
Bersani comincia una corte disperata al Movimento 5 stelle di Grillo, che però fin dall’inizio risponde picche. Di fronte al primo «Vaffa» chiunque avrebbe lasciato perdere. Lui invece va avanti, sottoponendosi all’umiliazione dello streaming con i capi grillini e lasciando intendere di poter far cambiare idea a una ventina di loro senatori («scouting»).

7) BERSANI ALLUNGA LE CONSULTAZIONI: tempo perso
Strappato l’incarico a Napolitano, Bersani conduce consultazioni lunghissime, sentendo perfino lo scrittore Roberto Saviano, preti e il Wwf. Continua a dire no al Pdl che lo vuole e sì a Grillo che non lo vuole. Risultato: dà a tutta Italia la sensazione di stare perdendo tempo.

8) CONTRORDINE: MARINI CON BERLUSCONI: virata a 180 gradi
Dopo 50 giorni passati a dire no a Berlusconi, improvvisamente Bersani si mette d’accordo con lui per far eleggere presidente della Repubblica Franco Marini. Il Pdl vota compatto l’ex avversario, ma nel segreto dell’urna i franchi tiratori Pd silurano l’ex sindacalista democristiano.

9) BRUCIATO ANCHE PRODI: schiaffo a Berlusconi
Seconda giravolta nel giro di 24 ore: Bersani propone ai 490 grandi elettori Pd di votare Romano Prodi, arcinemico di Berlusconi. Unanimità, acclamazione. Ma l’ex premier viene umiliato: sono ben 101 i suoi colleghi di partito che lo tradiscono, uno su quattro.

10) AFFIDIAMOCI A NAPOLITANO: fuga dalle responsabilità
Invece di trovare altre soluzioni («Stefano Rodotà candidato di Grillo, oppure Emma Bonino anch’essa nella rosa dei 5 stelle», suggerisce il ministro pd Fabrizio Barca, candidato alla segreteria) Bersani e Rosy Bindi si dimettono implorando l’ultraottuagenario Napolitano di accettare un altro mandato. Il quale accetta, ma comprensibilmente ottiene in cambio un’ampia delega nella scelta del governo, vista l’inconcludenza dei partiti. E si profilano di nuovo «larghe intese» con Berlusconi, detestate da buona parte della base di sinistra. Il Pd abdica così completamente alle proprie responsabilità di primo partito (seppure con appena lo 0,3% più del Pdl alla Camera).
Mauro Suttora



Tutti i segretari di Pd e partiti predecessori confluiti nel Pd sepolti (politicamente) da Berlusconi:

1) Mino Martinazzoli (Ppi 1994)
2) Rocco Buttiglione (Ppi ’94-’95)
3) Gerardo Bianco (Ppi ’95-’97)
4) Franco Marini (Ppi ’97-’99)
5) Pierluigi Castagnetti (Ppi ’99-2002)
6) Lamberto Dini (Rinnovamento ’96-’02)
7) Arturo Parisi (Democratici ’99-’02)
8) Clemente Mastella (Udeur ’99-’02)
9) Francesco Rutelli (Margherita 2002-’07)
10) Achille Occhetto (Pds ’91-’94)
11) Massimo D’Alema (Pds ’94-’98)
12) Walter Veltroni (Ds ’98-2001)
13) Piero Fassino (Ds 2001-’07)
14) Walter Veltroni (Pd 2007-’09)
15) Dario Franceschini (Pd 2009)
16) Pier Luigi Bersani (Pd 2009-’13)

a questi il Cavaliere può aggiungere i rivali Romano Prodi, Rosy Bindi e Gianfranco Fini

Sunday, April 28, 2013

Bonino ministro Esteri


di MAURO SUTTORA

Libero, 28 aprile 2013

Nel 1994 il neopremier Berlusconi aveva deciso: i suoi due commissari italiani alla Ue sarebbero stati Giorgio Napolitano e Mario Monti. A quel punto, però, Marco Pannella piombò a palazzo Chigi, litigò con Giuliano Ferrara ministro dei Rapporti col Parlamento e sponsor di Napolitano, e impose la nomina a Bruxelles di Emma Bonino al posto del presidente uscente pds della Camera.

Risale a quell’episodio, paradossalmente, l’amicizia politica fra Napolitano e la Bonino. Che si concretizza oggi con la nomina di quest’ultima a ministro degli Esteri, caldeggiata dal presidente. Napolitano infatti, per nulla offeso dallo scippo radicale, frequentò Bruxelles negli anni seguenti come membro dell’assemblea parlamentare Nato. E apprezzò molto la Bonino commissario Ue. La stima è cresciuta nel biennio 2006-8: lui presidente, lei ministra del Commercio estero e Politiche europee che riuscì a trascinarlo alla marcia radicale per l’amnistia, e a fargli appoggiare la campagna di Pannella contro il sovraffollamento delle carceri.

Il biennio nel governo Prodi è alla base anche del buon rapporto fra la Bonino ed Enrico Letta. Proprio mentre i radicali si scontravano con i segretari Pd Veltroni e Franceschini, il pragmatismo governativo ha unito Emma al sottosegretario alla Presidenza.

Ma il vero, grande sponsor della Bonino sono i sondaggi popolari. Nonostante il suo partito sia all’1-2% (nessun eletto il 25 febbraio), lei risulta regolarmente in testa da anni. Ha vinto tutti quelli indetti online dai giornali prima delle presidenziali. E si è piazzata sesta alle ‘quirinalie’ di Grillo, davanti a Prodi, il magistrato Caselli e Dario Fo.

La Bonino mette d’accordo la sinistra (Bersani è un altro suo sponsor, ultimamente perfino il Manifesto tifa per lei), la destra (Berlusconi da vent’anni cerca inutilmente di separarla di Pannella) e il centro: Monti la apprezza come bocconiana (anche se laureata non in economia: tesi su Martin Luther King nel ‘72 in lettere straniere, corso poi abolito perché gli studenti erano troppo di sinistra), ottimi rapporti con l’ex radicale Benedetto Della Vedova oggi montiano (unico senatore ex finiano sopravvissuto), e battaglia comune contro la pena di morte con Sant’Egidio del ministro uscente Andrea Riccardi.

Papa Francesco e l’impegno sulle carceri hanno avvicinato i radicali alla Chiesa: la loro radio dedica al Vaticano un programma domenicale condotto da Giuseppe Di Leo dai toni quasi edificanti. Sono lontani gli scontri su aborto e fecondazione assistita.

È rimasto solo qualche complottista di estrema sinistra o grillino a contestare sia alla poliglotta Bonino (inglese, francese, spagnolo, arabo) che a Letta la partecipazione a due riunioni del club Bilderberg: lei nel ’98, invitata da commissaria Ue, lui l’anno scorso a Chantilly (Usa) come vicesegretario Pd. Ma quanto sia pericoloso questo raduno accusato di «massoneria» lo dice il nome di uno degli altri 5 partecipanti italiani del 2012 (oltre a John Elkann, Bernabè di Telecom e Conti dell’Enel): Lilli Gruber.
Mauro Suttora  

     

Wednesday, April 17, 2013

Lo stipendio del deputato


Qual è lo stipendio giusto per un parlamentare? I grillini alla prova
2.500 netti al mese, avevano promesso. Ma l’affitto a Roma?
Così attingono all’odiata diaria


di Mauro Suttora


Oggi, 10 aprile 2013

Avevano promesso: «Prenderemo solo 2.500 euro al mese». Ma i 163 parlamentari grillini, all’impatto con la realtà, si trovano in difficoltà. Perché oltre allo stipendio (che loro dimezzano) la paga degli altri parlamentari è composta anche dalla diaria (3.500 netti) e dalle spese per collaboratori (altri 3.500).
Che farne? Chi viene da fuori deve trovare un posto per dormire a Roma. I vecchi democristiani andavano a dormire nei conventi, e non spendevano quasi niente. Ma un monolocale in semicentro è sui mille al mese. E così ne restano 1.500. Che per molti eletti a 5 stelle non è un problema: studenti, disoccupati, precari, per loro è comunque manna dal cielo.
Qualcuno però, soprattutto fra i senatori over 40, storce il naso: «Io una mia attività ce l’avevo, perché ora dovrei perderci? Va bene non arricchirsi, ma...»
Cade quindi la prima diga: attingere alla diaria. Ma quanto? E se uno volesse un bilocale in centro a 2.000, può affittarlo? Chi decide i tetti massimi? E i romani? Loro la casa già ce l’hanno, ma perché penalizzarli rispetto agli altri?
I più disinvolti non vorrebbero neppure rendicontare tutte le spese con ricevute online. Ma allora, che differenza ci sarebbe con Fiorito & company?
M.S.  

Monday, April 15, 2013

Finocchiaro, Severino, Cancellieri: meglio di no


Sono azzoppate da conflitti d'interesse tre delle quattro donne candidate alla presidenza della Repubblica. E tutte, curiosamente, per colpa di uno stretto familiare.

La ministra della Giustizia Paola Severino ha un marito un po' ingombrante: Paolo Di Benedetto, 66 anni, gran navigatore del sottobosco del potere romano: ex commissario Consob, attualmente consigliere d'amministrazione Acea (la municipalizzata squassata dalla mala gestione di Alemanno e nel mirino di Francesco Caltagirone, suocero di Casini e padrone del Messaggero, e che ora raddoppia. E' stato infatti appena nominato consigliere d'amministrazione di Edison, colosso multinazionale dell'energia.

La ministra dell'Interno Anna Maria Cancellieri ha invece un figlio imbarazzante: Piergiorgio Peluso, che nel 2012 ha preso 5 milioni da Fonsai, società di Ligresti che ha lasciato in rosso per quasi un miliardo, e di cui ci siamo già occupati qui. Ora Peluso è alto dirigente Telecom.

Anna Finocchiaro, infine, è stata danneggiata dalle foto che l'hanno ritratta mentre andava a fare la spesa all'Ikea con la scorta. Ma, soprattutto, il marito Melchiorre Fidelbo è stato incriminato lo scorso ottobre per truffa aggravata e abuso d'ufficio (un appalto da 1,7 milioni affidato senza gara a Catania).

Fra le candidate donne, quindi, non resta che Emma Bonino. Altrimenti si rischia un replay di Giovanni Leone, che negli anni '70 fu vittima delle stravaganze di moglie e figli.  

Wednesday, April 10, 2013

Grillo: bilancio del primo mese

di Mauro Suttora

Oggi, 3 aprile 2013

Può l’ottava potenza economica mondiale dipendere dal ragionier Beppe Grillo? In tutte queste settimane Pier Luigi Bersani, capo Pd, ha proposto un’alleanza al suo Movimento 5 Stelle. Niente da fare. «Vogliamo distruggere i partiti», dicono i grillini. Attenzione, non dicono: «Questi partiti». O «i politici ladri». O «la partitocrazia», come ripetono da quarant’anni i radicali. No, Grillo vuole proprio «superare i partiti». Arrivare alla «democrazia diretta», come spiega Gianroberto Casaleggio.

Qualcuno si preoccupa. Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma, mormora: «Anche Hitler voleva cancellare i partiti». In effetti, non si conosce al mondo una democrazia senza partiti. Ma i grillini si sentono alfieri di un rinnovamento epocale. Guidato dal simpatico uomo ritratto in queste pagine. Che trascorre le vacanze di Pasqua in una delle sue tre ville: quella di Marina di Bibbona (Livorno). Le altre stanno a Sant’Ilario, sulle colline eleganti sopra Nervi (Genova) e a Porto Cervo, vicino al golf del Pevero. Poi c’è la quarta villa («Una capanna») da 300 mila euro che sua moglie avrebbe appena comprato a Malindi (Kenya), accanto al resort di Flavio Briatore che spesso ospita Silvio Berlusconi.

Vuole fare la rivoluzione
Cosa farà ora l’«uomo in ammollo», dopo che il presidente Giorgio Napolitano ha trovato una soluzione per il nuovo governo? La rivoluzione, naturalmente. Non gli credete? Ma lo ripete da anni. È solo un comico? Non più: ha avuto il voto di quasi 9 milioni di italiani. I quali sono talmente schifati da tutti gli altri partiti da affidarsi a un miliardario che promette la povertà (soprannominata «decrescita felice») e proclama: «Non lasciamo indietro nessuno».

Per ora gli unici lasciati indietro, a sbrigarsela da soli, sono Pd e Pdl. Condannati a stare insieme, visto che Grillo non vuole governare con nessuno di loro. L’alternativa sarebbe tornare a votare. Ma i sondaggi dicono che il risultato sarebbe uguale a quello del 25 febbraio: un Paese spaccato in tre. Anzi in quattro, se si conta il 28 per cento di astenuti e schede bianche e nulle.

Quindi, a calcolare esattamente i voti, Grillo raccoglie il 18 per cento degli elettori. Questo significa che 82 italiani su cento non si fidano di lui. Tuttavia, Beppe ha in mano l’Italia. O comunque, si comporta come se ce l’avesse. Tratta i suoi 163 parlamentari con la delicatezza del satrapo mesopotamico. Dodici di loro hanno osato votare Piero Grasso presidente del Senato? Minacciati di espulsione. Il senatore Marino Mastrangeli di Frosinone si è fatto intervistare in tv da Barbara D’Urso a Pomeriggio 5? I colleghi più «talebani» lo danno già per licenziato. La romagnola Giulia Sarti ha chiesto che almeno si proponessero dei nomi come premier in alternativa a Bersani? Zittita.

È un comico, ma vuole disciplina
È incredibile come dentro al movimento guidato da un comico, che fa sbellicare dalle risate tutti gli italiani da un terzo di secolo, prima in tv e oggi nei comizi, regni la disciplina e a volte addirittura il terrore. La svolta autoritaria è avvenuta un anno fa. Arrivati ormai a più di cento consiglieri comunali e regionali, alcuni grillini si erano posti il problema dell’organizzazione e si erano riuniti a Rimini. Scomunicati. Poi l’ex bonario Grillo ha espulso metà dei suoi consiglieri regionali: due su quattro, compreso l’ex pupillo Giovanni Favia. «Neanche Stalin al massimo della forma era mai riuscito a compiere una purga del 50 per cento», commentò un grillino ovviamente anonimo.

Infine, lo scorso dicembre, il dittatore libertario sbotta on line: «Vietato fare domande. La democrazia è questa. Chi non è d’accordo, se ne vada». Dopo qualche giorno ha ammesso di aver esagerato. Qualcuno si chiede da cosa siano causati questi alti e bassi. Ma alla fine, basta sentirlo parlare cinque minuti e gli vogliamo tutti bene.

Il duro impatto con la realtà 
Perché il Grillone nazionale, quando urla sudato con le sue sopracciglione a trapezio isoscele, non può non avere ragione se condanna i costi della politica. O quando si scaglia contro i bizantinismi dei politici di professione. La miglior prova del disastro dei carrieristi della politica è stata data proprio in quest’ultimo mese. Per giorni e giorni i grillini hanno ripetuto che non volevano allearsi con nessuno. Ma gli altri non ci credevano. Pensavano fossero simili a se stessi: dire una cosa, farne un’altra, possibilmente l’opposto.

L’impatto con la realtà però è duro anche per loro. Scoprono che non si possono trasmettere tutte le proprie riunioni in diretta streaming sui computer, perché quando discutono a volte - come tutti - litigano. Scoprono che i capigruppo non possono ruotare ogni tre mesi, perché i contratti dei collaboratori sono intestati a loro. Scoprono che la democrazia diretta on line è irrealizzabile, perché chiunque può iscriversi falsando i risultati.  Grillo ora si scaglia perfino contro chi gli lascia commenti contrari sul blog, accusandoli di essere «pagati» dagli altri partiti. Come se gli «influencer» grillini non eccellano nel sommergere di «bombe mail» e «spam» gli avversari. Chi la fa, l’aspetti.
Mauro Suttora

Luca Beatrice: 'Sex'

Il critico fa il punto sul rapporto eros-porno nell'arte contemporanea
di Mauro Suttora
Oggi, 3 aprile 2013

La storia dell’arte è ricca di dipinti  ad alto tasso erotico: dalla Venere di Urbino di Tiziano (1538) alle Tre grazie  di Rubens di un secolo dopo, fino alla Venere allo specchio di Velazquez (1648). Ma è con L’origine du monde di Gustave Courbet del 1866 che avviene la svolta epocale: sesso femminile in primo piano, e viso della donna fuori dal quadro. È pornografia?

«L’EROS È COLTO E RAFFINATO»
Se lo sono domandati in tanti, nell’ultimo secolo e mezzo. Per ultimo il critico Luca Beatrice, che schiaffa lo scandaloso quadro sulla copertina del suo ultimo libro: Sex (Rizzoli). «Dipende da dove poniamo il confine fra erotismo e pornografia», risponde Beatrice. «Il primo è non solo tollerato, ma anche intrigante, perché colto, raffinato e privo di volgarità. La seconda, invece, è pratica illecita, appannaggio di un pubblico che si nasconde o quanto meno non si dichiara».
Dal 1995 il quadro di Courbet è tranquillamente in bella vista al museo d’Orsay a Parigi, e nessuno lo bolla più con l’etichetta del porno. Me se lo mettessimo in un sito web a luci rosse, verrebbe considerato il progenitore degli attuali video di YouPorn.
«Quel che oggi differenzia il porno dall’eros sta soprattutto nella rappresentazione del membro maschile», spiega Beatrice. «Un pene in evidenza, infatti, difficilmente passa la scure della censura, mentre c’è più tolleranza per seni, glutei e vagine. Un tempo accadeva il contrario: dalle antiche statue greche fino al XIX secolo ai nudi maschili veniva concessa l’esposizione senza veli del membro».
E oggi? A che punto siamo? Una delle opere erotiche più celebri degli ultimi anni è Siren dello scultore Marc Quinn (2008). Ritrae la modella Kate Moss in posa da contorsionista: «Non esattamente un archetipo di sensualità ed erotismo», commenta Beatrice.
«Cercavo l’incarnazione attuale dell’archetipo di Venere Afrodite», spiega Quinn, «uno specchio di noi stessi, delle nostre ossessioni, dei nostri desideri e sogni». Ma perché proprio questa posa? «Kate è scolpita dal desiderio collettivo, quindi immortalarla mentre si contorce ha a che fare con il modo in cui la società rivolta e manipola la sua immagine».
La scultura originale è in oro e pesa quanto la stessa Kate Moss: circa 50 chili. Valore: un milione di sterline. La Moss è stata anche ritratta distesa sul letto con le gambe aperte da Lucian Freud: una replica de L’origine du monde. Il dipinto è stato acquistato nel 2005 per 3,9 milioni di dollari da un misterioso collezionista privato. Qualcuno pensa sia la stessa Moss.

FREUD NONNO E NIPOTE
Il nonno di Lucian Freud, Sigmund, affermò: «Dove c’è un tabù c’è un desiderio». «L’arte figurativa ha raccontato per prima storie di corpi e desideri che altri linguaggi hanno affrontato senza una rappresentazione esplicita», scrive Beatrice, «ed è quindi grazie ad essa che oggi il porno ha definitivamente concluso il processo di accettazione nell’ufficialità».



Emma ce la fa questa volta?

 Se il presidente della Repubblica fosse eletto dal popolo, la Bonino sarebbe al Quirinale già da 14 anni. Anche adesso è in testa ai sondaggi. Ma per i politici lei è ancora una donna scomoda: radicale, laica, poco diplomatica. Ecco la sua storia

Oggi, 10 aprile 2013

di Mauro Suttora

Più facile una donna cardinale che al Quirinale: è lo slogan provocatorio dell’associazione femminista Pari e Dispare, guidata dalla radicale Valeria Manieri. E che naturalmente ha Emma Bonino come presidente onoraria.

Ci sembra di conoscerla da sempre, la zia Emma da Bra (Cuneo). E in effetti sono passati quasi quarant’anni da quel 1974 quando, laureata alla Bocconi (ma non in Economia: Lingue straniere, corso abolito nel ’73 perché gli studenti erano troppo di sinistra) con  tesi su Martin Luther King e professoressa a Codogno (Lodi) dopo sei mesi da commessa a New York in un negozio di scarpe, rimase incinta.

Per il codice fascista Rocco l’aborto era un reato gravissimo: «contro l’integrità della stirpe». Le ragazze finivano direttamente in carcere. Lei si rivolse ad Adele Faccio, perché i radicali erano gli unici che si preoccupavano delle interruzioni di gravidanza. I sessantottini rivoluzionari di sinistra disprezzavano aborto e divorzio come «problemi borghesi». Emma si autodenunciò, scappò in Francia, tornò da latitante per vedere sua madre.

Si fece arrestare nel giugno ’75 al suo seggio di Bra durante le elezioni, per provocare più clamore. Ma altro che «disobbedienze civili» in stile Luther King: come tutto in Italia, la cosa fu abbastanza tragicomica, perché nessuno voleva arrestarla. Fu lei a insistere, spiegando ai Carabinieri che era ricercata.

L’anno dopo, ingresso a 28 anni in Parlamento con Marco Pannella e altri due radicali. Erano loro i grillini del 1976: referendum, democrazia diretta, contro la partitocrazia, contro il finanziamento pubblico. E, nel 1978, legge sull’aborto.
Sorride, Emma, quando ricorda quei tempi: «Feci scandalo solo perché osai entrare alla Camera con gli zoccoli e la gonna lunga da femminista».

Fece scandalo anche una sua intervista del luglio ’76 proprio a Oggi, in cui spiegò a Neera Fallaci (sorella di Oriana) come aveva praticato aborti «autogestiti» col metodo Karman (per aspirazione, meno rischioso rispetto al raschiamento delle mammane).

Le lamentele dei bigotti

Qualche bigotto le rinfaccia ancor oggi quei trascorsi. Ma fra i cattolici più evoluti sembra ormai tramontato il «niet» contro i radicali anticlericali, ravvivato dal referendum per la procreazione assistita del 2005. Molte volte, infatti, la Bonino e Pannella hanno condotto campagne accanto ai cattolici: contro la fame nel mondo dal ’79 all’85, per l’istituzione della Corte penale internazionale dell’Onu sui crimini di guerra, contro la pena di morte (con la Comunità di Sant’Egidio del ministro montiano Andrea Riccardi).

Oggi poi, con l’elezione di Papa Francesco, i radicali sono diventati quasi papisti. La loro radio ospita ogni domenica una rassegna stampa vaticana (condotta da Giuseppe Di Leo) entusiasta per il nuovo corso della Chiesa.

Cosicché la Bonino, sempre in giro per Africa e Medio Oriente a battersi contro le mutilazioni genitali femminili (l’escissione del clitoride nelle ragazzine), sembra avere più possibilità che nel 1999 e nel 2006 di essere eletta presidente della Repubblica.

«È l’unica che mette d’accordo destra, sinistra e grillini», spiega il Fatto Quotidiano. A destra le ex ministre Mara Carfagna e Stefania Prestigiacomo la sostengono, con la collega del Pdl Micaela Biancofiore, così apertamente da essere redarguite dal capogruppo Renato Brunetta.

A sinistra la vogliono Pippo Civati, Ermete Realacci, Alessandra Moretti, Ivan Scalfarotto. E la indicano anche i 5 Stelle Luis Orellana (già candidato di parte alla presidenza del Senato), Carlo Sibilia, Paola Pinna e Andrea Colletti. I grillini, comunque, fanno decidere il nome del loro candidato presidente direttamente ai propri elettori, con un sondaggio on line l’11 aprile.

Quanto ai centristi, Mario Monti si scioglie di fronte a tutti i bocconiani, ed è diventato amico della Bonino quando entrambi erano commissari europei a Bruxelles dal 1994 al 1999. Il senatore Benedetto Della Vedova, unico finiano sopravvissuto, è un ex radicale. E apprezzano Emma anche i laici montezemoliani.

"Popolarissima. Quindi sconfitta"

Ma la forza più grande, per la Bonino, deriva dai sondaggi. Che la vedono costantemente in testa da 15 anni fra i politici più amati. Nel 1999 la lista a suo nome ottenne il 12 per cento al Nord, con punte del 18 a Monza e Treviso. Quasi come Grillo oggi.

«È popolarissima», dice Pannella, «quindi non verrà eletta neppure questa volta». In effetti, il voto per il presidente della Repubblica è sempre una partita a poker. Come per il Papa, chi entrerà favorito nell’aula dei mille e passa elettori (deputati, senatori, rappresentanti delle Regioni) probabilmente verrà sconfitto.

Lei, Emma, agli alti e bassi della politica è abituata. Un giorno l’Economist la loda come «la politica più brava d’Europa» (salvò i rifugiati kosovari nel ’99, fu la prima a denunciare il pericolo dei talebani finendo arrestata a Kabul), il giorno dopo Silvio Berlusconi (che pure l’aveva nominata commissaria Ue preferendola a Giorgio Napolitano nel ’94) la insulta: «È solo la protesi di Pannella».

Così la Bonino, per scappare dai miasmi della politica italiana, da 12 anni si è trasferita al Cairo. Lì ha imparato l’arabo, oltre al francese, inglese e spagnolo che parla perfettamente. E in Egitto proprio lei, filoisraeliana in nome della democrazia, ha assistito felice alla Primavera araba. Ci sarà ora una Primavera italiana che manderà la prima donna sul Colle più alto? Lo capiremo da giovedì 18 aprile.
Mauro Suttora   

Sunday, April 07, 2013

Grillini complottisti

VITA ALL'INTERNO DEL MOVIMENTO 5 STELLE

di Mauro Suttora

Sette (Corriere della Sera), 5 aprile 2013

«Lo avevo individuato come un povero cretino. Invece è un miserabile stronzo». Non ho mai preso tanti insulti in vita mia come dopo l'articolo che ho scritto quattro mesi fa su Sette, raccontando la mia vita di attivista nel Movimento 5 stelle (M5S). Non ho subìto volantinaggi sotto la redazione, come fecero quelli del Poe (Partito operaio europeo) negli anni '80 dopo un mio articolo sull’Europeo. Ma online si è scatenato l'inferno.

Poco male. Un titolista mi aveva definito «infiltrato», e i grillini si eccitano davanti a questa parola. Vedono infatti complotti dappertutto. Beppe Grillo ora si sente addirittura assediato da «orde di troll»: quelli che lo criticano sul suo blog, e che lui accusa di essere pagati dagli avversari.

Pensavo che i troll fossero solo personaggi di Ibsen finché non sono stato definito così pure io. Pazienza. Ho continuato a frequentare il movimento e a partecipare ai dibattiti online sul Meetup lombardo, sul sito pbworks di Milano, sulle pagine Facebook. M5S infatti non ha sedi fisiche. E alla fine ho votato Grillo.

Si è verificato però un fenomeno curioso: quando si è diffusa la mia fama di «eretico» ho cominciato a ricevere mail private di attivisti che denunciano soprusi interni, manovre, scorrettezze. Ho chiesto a due dirigenti che farne. Quelli mi hanno risposto: «Pubblicale online. La Rete non perdona».

Così ho inguaiato un povero ex assessore Pdl di Como che si era candidato alle regionali: il riciclato, dopo lunga diatriba, non è stato eletto. Poi una mail anonima ha rivelato una «cordata» monzese alle primarie online, dov'era possibile dare tre preferenze. Controllo: in effetti il trio ha sbaragliato tutti i candidati della provincia di Milano, che pure ha il quadruplo degli abitanti. Nulla di strano, le cordate sono una vecchia usanza: per impedirle un referendum impose la preferenza unica nel 1991 (segnando l'inizio della fine per Bettino Craxi, che invitò invano gli elettori ad «andare al mare»). Ironico che Grillo, antisocialista, subisca ora trucchi tipici del Psi.

Denuncio, e subisco di nuovo una marea di «vaffa». Perché i grillini saranno anche nuovi e simpatici, però nei dibattiti intestini sono abbastanza simili agli altri. E così ecco i pusillanimi che in privato ti danno ragione ma in pubblico non si esprimono, i carrieristi che vogliono mantenere buoni rapporti con tutti, i furbi che si arrampicano sui vetri, i fedeli alla linea…

Alla fine una dei tre, senatrice di Monza, si dimette alla prima seduta. Ma i dirigenti lombardi riescono comunque a non mandare a Roma la senatrice più votata alle primarie di Milano, Paola Bernetti, considerata «dissidente» e mobbizzata. Insomma, anche il M5S non è composto solo da verginelle.

Ma la mossa più buffa di Grillo e del guru Gianroberto Casaleggio è stata quella di nominare due blogger, Claudio Messora e Daniele Martinelli, «consulenti» per la comunicazione dei gruppi parlamentari. Badanti, commissari politici, addetti stampa? Dopo qualche giorno di gaffes, i malcapitati sono stati retrocessi al punto di partenza: consulenti. Di non si sa bene che. Quel che si sa, invece, è quel che contengono i loro blog. Messora ha raggiunto la notorietà con la bufala dei terremoti che si potrebbero prevedere. E in fatto di complottismo non lo batte nessuno. Tutta colpa dei massoni: la crisi dell’euro, il disastro Moby Prince, Ustica, i bimbi che scompaiono in Italia e nel mondo, il traffico di organi… È massoneria Emma Bonino, naturalmente (dal blog Byoblu, 15 marzo 2013).

Messora è spesso invitato a L’Ultima parola di Gianluigi Paragone su Rai2 (programma vietato a tutti gli altri grillini, in quanto talk show), dove abbondano pittoreschi blogger che diffondono teorie complottiste degne di Roberto Giacobbo nella parodia che ne fa Maurizio Crozza («Kazzenger»). Si azzuffa su Trattato di Lisbona, Mes o Fiscal Compact con un altro soggettone, l’economista «alternativo» Paolo Barnard, in un clima alla Funari.

Il secondo «consulente» degli eletti grillini, il bergamasco Martinelli, predilige invece il salotto di Barbara D’Urso su Canale 5. La sua nomina ha sollevato proteste dei suoi conterranei M5S di Bergamo: «Trombato con Idv alle regionali 2010, alle comunali di Milano 2011 e contemporaneamente a quelle di Treviglio. Ci ha provato anche con noi, alle primarie lo scorso dicembre. Ha preso pochissimi voti. Poi è sparito».

In compenso, Martinelli appena nominato ha messo subito le cose a posto con l‘Euro: «È un complotto massonico», ha sparato. Le bestie nere del paranoici antieuropeisti si chiamano Bilderberg e Trilateral. Chiunque abbia osato accettare un invito di questi club internazionali, così segreti che pubblicano gli elenchi dei partecipanti sui loro siti, è marchiato per sempre. Per spaventarsi basta qualsiasi nome inglese, quindi vanno bene anche Aspen o Goldman Sachs.

È un sottobosco contiguo ma in parte sovrapposto ai grillini, che non leggono i giornali (molti neanche i libri), si abbeverano solo su internet, e quindi sono facile preda dei cialtroni. Per esempio Gian Paolo Vanoli, che ha imperversato per mesi sul Meetup lombardo demonizzando i vaccini, finché ha dichiarato «Provocano l’omosessualità, che è una malattia». E anche: «L’Aids non esiste» (complotto delle multinazionali per vendere medicine, lo conferma Messora). «L’urinoterapia cura tutte le malattie, così a mia moglie sono tornate le mestruazioni a 70 anni; basta bere la seconda della giornata, non la prima». E infine: «L’ipnosi è un buon metodo contraccettivo».

I cospirazionisti del web negano l’11 settembre (il crollo delle Torri di New York fu una messinscena ebraica), vogliono curare il cancro col bicarbonato, si preoccupano per le «scie chimiche» (quelle degli aerei, che verrebbero irrorate apposta per alterare il clima). 

Ma la mania attualmente più gettonata è quella contro il «signoraggio bancario». La crisi dell’euro, infatti, ha fatto rinascere la polemica sulla sovranità monetaria iniziata vent’anni fa dal professor Giacinto Auriti, con qualche buon argomento contro le banche centrali. Una battaglia fatta propria da Grillo, che però negli ultimi tempi l’ha un po’ abbandonata. I suoi «economisti», invece, hanno buon gioco nel constatare che i Paesi di Eurolandia hanno perso la potestà di battere moneta, assunta dalla Bce. E quale bersaglio più facile della Banca centrale europea, «potere forte non eletto»? I Meetup grillini ribollono di invettive.

Nella famosa puntata di Servizio pubblico a gennaio con Silvio Berlusconi, Michele Santoro invitò una certa Francesca Salvador, signora veneta che si lanciò nel solito lamento contro le banche che strozzano i poveri imprenditori. La Salvador è attiva nell’associazione Salusbellatrix che tiene conferenze sugli argomenti più disparati. Tutti però accomunati da un mistero mondiale da scoprire o una truffa planetaria da svelare, dall’Aids alla pedofilia. 
Non manca l’antisemitismo, con un’accusa di nazismo a Israele, e con la spiegazione della strage dei ragazzini in Norvegia nel 2011: Oslo punita per essere stata la prima a riconoscere lo stato palestinese…

Anche nei Meetup M5S ogni tanto qualche sciagurato definisce Israele «fascista», e non sempre viene zittito all’unanimità come ci si aspetterebbe. Questo mi tocca vedere nei siti grillini, assieme alle tante cose belle che mi hanno spinto a votarli. Ma se oso scriverlo su Sette, sono guai: complotto!
Mauro Suttora

www.cinquantamila.it

Friday, April 05, 2013

Gaetti, senatore m5s ex leghista

Senatore grillino ex leghista
NDO' COJO, COJO

di Mauro Suttora

Sette (Corriere della Sera), 5 aprile 2013

C’è un ex leghista fra i 54 senatori del Movimento 5 stelle: Luigi Gaetti, medico 52enne eletto a Mantova. Consigliere comunale del Carroccio dal 2000 al 2005 a Curtatone, paesone di 14 mila abitanti famoso per la battaglia contro gli austriaci del 1848. Ne erano all’oscuro tutti, fra i grillini in Lombardia. Gaetti infatti non ha menzionato questo suo imbarazzante trascorso nel curriculum che tutti i candidati alle primarie avevano dovuto mettere online. Data l’idiosincrasia dei grillini per i riciclati, difficilmente avrebbe potuto racimolare i 144 voti che gli sono bastati per approdare a Roma (sette in più, comunque, del pavese Luis Orellana, candidato M5S alla presidenza del Senato).

Trombato alle regionali del 2010 con il movimento di Grillo, l’instancabile Gaetti ci riprova l’anno dopo alle provinciali di Mantova. Altro passo falso secondo le idee del M5S, che non si è presentato a quelle elezioni perché contrario alle province. E nuova bocciatura con una lista locale ecologista che prende solo il tre per cento.

Ma il caparbio dottore non si dà per vinto e cambia per la terza volta cavallo: torna ai 5 stelle grazie a Grillo che permette la candidatura alle primarie per Camera e Senato lo scorso novembre a chi si era già candidato in passato. Questa volta ce la fa. Secondo le regole M5S, però, l’attuale è il suo secondo mandato, quindi non è più rieleggibile. Quale sarà, allora, il prossimo approdo di questo simpatico rabdomante della politica? A Roma hanno già coniato un soprannome per Gaetti: «Ndo' cojo, cojo» («Dove colgo, colgo»)