Wednesday, April 02, 2008

Toglietevi dalla testa il posto fisso

PER MILIONI DI GIOVANI IL LAVORO E' UN MIRAGGIO

Stipendi da fame, zero diritti,nessuna certezza per il futuro. È il precariato made in Italy.
Lo raccontano un film e un libro. La ricerca di un’occupazione non coinvolge solo ragazzi e neolaureati, ma anche i loro genitori. E la politica che cosa pensa di fare?

di Mauro Suttora

Roma, 28 marzo 2008

«Sette anni fa vinco un concorso per responsabile tecnico audio e luci di un teatro. Lo stipendio era di 19 mila euro a stagione, non male. Ma il direttore di palcoscenico ha fatto di tutto per screditarmi. Da tre anni, con la scusa che il teatro è in deficit, ha affidato le responsabilità audio e luci a due dipendenti di una sua società. Io sono stato degradato a semplice tecnico. E i 19 mila euro diventano ottomila, contratto a progetto. Con questa miseria non posso far vivere la mia famiglia. Alla fine, con le trattenute a mio carico, sono settemila euro per nove mesi. Ho chiesto a un avvocato, ma dice che con questo tipo di contratto non posso fare nulla».

Storie di ordinario precariato. Questo è Paco, ex «ragazzo» ormai trentenne di una città del Sud. Dove la piaga picchia forte, perché mentre nel resto d’Italia la media è del 12 per cento, in meridione ogni cento lavoratori dipendenti sono ben 25 quelli a termine. Che salgono a 30 fra i ragazzi e a 40 fra le ragazze.

Un’incertezza che si propaga al resto della vita, che uccide i sogni delle nuove generazioni, e che ora è entrata anche nel dibattito politico, dopo il consiglio di Silvio Berlusconi a una precaria: «Lei è così carina, potrebbe risolvere i suoi problemi sposando il figlio di un miliardario». Era una battuta scherzosa, ma ha fatto arrabbiare molti.

Nominati ed esclusi

Venerdì 28 marzo debutta nei cinema italiani il nuovo film di Paolo Virzì: 'Tutta la vita davanti'. Racconta le vicende dei precari in un call center: grottesche, divertenti, amare.

«I ragazzi vengono selezionati», racconta Virzì, «e poi, come nei reality show,”nominati” ed “esclusi”. Sembrano accettare questa drammaturgia da programma televisivo, dove nel rito è previsto il momento dell’espulsione, che anzi in Tv fa il picco di ascolto. Sono cambiate perfino le parole, non si parla più di assunzioni e licenziamenti… Troppo spesso oggi il mondo del lavoro per i giovani è o precariato o privilegio, cioè raccomandazione. I figli dei privilegiati agguantano i lavori “fichi”, mentre ai figli degli operai restano i call center a quattro ore al giorno per 400 euro al mese».

Nel film l’attore Valerio Mastandrea è il sindacalista che tenta di far prendere coscienza ai ragazzi dei loro diritti. Ma viene respinto perché tutti hanno paura di perdere il posto, e deriso perché considerato uno «sfigato».
«In questi nuovi posti di lavoro», dice Virzì, «i ragazzi sono ignari delle battaglie secolari di genitori e nonni per conquistare diritti. Sono soggetti a tecniche di selezione del personale ispirate ai provini dei casting, ne accettano le regole selvagge. Dove una volta c’era la formazione al lavoro e alla solidarietà, oggi resta solo una competizione dove vince il più forte, e i più deboli sono sopraffatti».

Gli schiavi moderni

La protagonista Isabella Ragonese, filosofa disoccupata e telefonista, si trova immersa in un mondo dove è un valore sapere tutto del Grande Fratello, mentre non conta niente avere studiato Heidegger. Il capo dell’azienda è interpretato da Massimo Ghini, mentre Sabrina Ferilli è la responsabile delle telefoniste. Tutti immersi in un mondo assurdo di «telemarketing» truffaldino.

«Milioni di ragazzi intorno a noi tutte le mattine si infilano dentro questa giungla», spiega Virzì, «dentro al mondo della sottoccupazione, nelle lande dei senza diritti, a cercare di strappare qualche soldo per campare. Con Tutta la vita davanti non pretendiamo di proporre soluzioni, ma di comunicare attenzione, tenerezza, sgomento e inquietudine. Una speranza il film l’affida alle donne, alle diverse generazioni di donne ferite che forse, con la loro spontanea solidarietà, possono ricostruire un linguaggio di civiltà».

Tutta colpa della legge Treu e poi della Biagi del 2003, che prende il nome dal professore di Diritto del lavoro ucciso dai terroristi due anni prima? «I provvedimenti che hanno reso possibili il lavoro flessibile ed i contratti a progetto erano anche animati da buone intenzioni, ma da soli non bastano», dice Virzì, «perché andrebbero accompagnati da una politica sociale, da una scuola che funziona, da un’università che premia i capaci».

Garanzie e flessibilità

Se a sinistra ci si preoccupa dei precari, a destra si risponde che il lavoro dev’essere flessibile, e che i giovani pagano con la precarietà le eccessive garanzie dei lavoratori più anziani, i quali una volta conquistato il posto fisso sono licenziabili con grande difficoltà.

«La chiave della contrapposizione generazionale, con i giovani non garantiti che bussano alla porta e i vecchi che non vogliono uscire dal mondo del lavoro, non serve a spiegare la realtà», dichiara a Oggi Enrico Letta del Pd, sottosegretario uscente alla Presidenza del consiglio. «Oggi si può essere precari anche a 50 anni, con tutto ciò che ne consegue in termini di sicurezza di vita. Alla flessibilità necessaria e inevitabile del nostro tempo devono accompagnarsi salari adeguati e ammortizzatori sociali per i momenti di difficoltà».

E voi cos’avete fatto? «Il governo Prodi ha messo in campo novità importanti, come la totalizzazione dei contributi, introdotta con la legge 247 del 2007: questo significa che anche periodi lavorativi intermittenti serviranno a costruire una pensione. Non è una novità da poco».

Ma è proprio vero che l’Italia negli ultimi anni si è trasformata in un Paese di precari? «No, non è vero», dice l’ex ministro del Welfare Roberto Maroni per difendere la legge Biagi, «che prevedendo contratti a termine e interinali ha semplicemente favorito l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e dato la possibilità di trovare un’occupazione stabile, scongiurando quindi l’alternativa di lavorare in nero, e introducendo una flessibilità regolata. La Biagi non è una legge contro i lavoratori, come la sinistra vuole far credere. Infatti il governo Prodi l’ha sostanzialmente confermata. Si sventola la bandiera del precariato senza dire che l’Italia ha in realtà una percentuale bassa di lavoratori con contratto a tempo determinato: il 12 per cento, contro il 14 di Francia e Germania e il 18 della Spagna».

I vecchi costano troppo

Insomma, niente problemi se anche i giovani d’oggi, come tutti, passano attraverso qualche anno di gavetta e di collaborazioni prima di conquistare un posto fisso. Il problema nasce quando il precariato si prolunga troppo, diventando cronico. «Oppure quando colpisce i quaranta-cinquantenni che vengono espulsi dal mondo produttivo perché costano troppo», avverte Luigi Furini, autore del libro Volevo solo lavorare (ed. Garzanti), in cui racconta le deprimenti vicende di navigati manager sostituiti da giovanotti malleabili che prendono la metà dei loro stipendi. È la «precarietà di ritorno» cui accennava Letta.

«Sono migliaia ormai i casi di lavoratori di grande capacità ed esperienza che incappano in qualche crisi aziendale o piano di ristrutturazione», dice Furini, «e magari accettano con entusiasmo buonuscite anche consistenti, di parecchie decine di migliaia di euro, per dare le dimissioni. Ma poi non trovano più un altro lavoro, i soldi finiscono, e la pensione arriva soltanto a 65 anni per i maschi e a 60 per le donne».

Come quell’ex dirigente Fiat che a 54 anni ha ricevuto la lettera di licenziamento con annesso il «regalo» dei contributi pagati per arrivare alla pensione. Lui ha accettato, ma ha speso tutta la liquidazione per integrare i contributi mancanti. E adesso è ridotto ad aspettare che il tempo passi, e che arrivi presto la vecchiaia. «Altri ex dirigenti si sono messi in proprio, hanno creato un’attività», racconta Furini, «ma alcuni sono finiti dietro al bancone di un bar a servire cappuccini. Certi indossano la divisa del bar, con la scritta “staff” sulla schiena. “Sto dando una mano a un amico”, spiegano, “mi diverto”. Non confesseranno mai che hanno un disperato bisogno di soldi».

Mauro Suttora

Thursday, March 27, 2008

intervista ad Alfonso Pecoraro Scanio

IN PUGLIA COSTRUIRO' UNA CENTRALE SOLARE

«Progettata dal Nobel Rubbia, è l’alternativa al nucleare», assicura il ministro dell’Ambiente. E, pressato sullo scandalo rifiuti in Campania, svicola: «Preferisco parlare della crisi dei salari»

dal nostro inviato Mauro Suttora

Taranto, 26 marzo 2008

Uno dei ministri più contestati d’Italia arriva in una delle città più inquinate d’Europa e indebitate del mondo. Alfonso Pecoraro Scanio, fondatore dei Verdi, ministro dell’Agricoltura fino al 2001 e oggi dell’Ambiente, è stato invitato a cena a Taranto dalla famiglia del viticoltore Gianfranco Fino.

La casa dei Fino sta in una bella zona di quella che, con i suoi 200 mila abitanti, è la terza città del Sud (Sicilia esclusa), dopo Napoli e Bari: la frazione Lama, in riva al mare. Qui tutte le vie portano nomi di fiori, e in questa primavera precoce già si sentono i loro profumi.

«Ma le acciaierie Ilva, il petrolchimico e la zona industriale producono il nove per cento della diossina e il dieci per cento del monossido di carbonio di tutta Europa», accusa la signora Simona Natale, moglie di Gianfranco. Le statistiche dicono anche che negli ultimi trent’anni i tumori sono raddoppiati: ora sono tre al giorno i tarantini che muoiono di cancro.

Disastro ecologico

L’Ilva (la ex Italsider passata tredici anni fa al gruppo privato Riva) è la più grande acciaieria d’Italia. I suoi impianti si vedono da molti chilometri di distanza. «Negli ultimi anni abbiamo ridotto le emissioni di diossina del 40 per cento, dopo aver chiuso un impianto», si vantano all’Ilva. Ma è tutta la zona industriale a rovinare il menù delle greggi di pecore e capre che pascolano nei verdissimi prati accanto alle ciminiere. «A Taranto sono arrivate 1.800 tonnellate di Pcb cancerogeno da Brescia», accusano i combattivi Verdi locali, che hanno fatto analizzare i formaggi del luogo trovando un po’ di diossina pure lì dentro.

Insomma, ministro, ci potrà mai essere uno «sviluppo ecosostenibile» in una zona come la nostra?

Alla domanda della signora Fino il ministro Pecoraro risponde tranquillo: «Certo. Oggi esistono tutte le tecnologie per ridurre al minimo l’inquinamento. Le emissioni di sostanze nocive devono essere abbattute, e il governo sostiene quelle che lo fanno. Anche perché non si possono chiudere dall’oggi al domani stabilimenti che a Taranto danno da mangiare a tredicimila famiglie. Quindi il lavoro e l’ambiente non sono in alternativa: bisogna salvaguardare sia il primo, sia il secondo».

Lei la fa facile, ma ora Ilva ed Enipower vogliono costruire due nuove centrali, e in più si progetta un rigassificatore. Sarebbe questo lo «sviluppo ecosostenibile»?

«La mia risposta è chiara e semplice: no. A Napoli siamo riusciti a riqualificare l’ex zona industriale di Bagnoli. All’inizio ci criticavano tutti, ma dopo una bonifica fra le più gigantesche d’Europa ci siamo riusciti. Ripeto: non si può pensare di eliminare certe produzioni. Ma, coinvolgendo i sindacati, dobbiamo proteggere la salute senza mettere a rischio il lavoro».

Pecoraro Scanio è capolista della Sinistra arcobaleno in Puglia. I suoi Verdi si sono uniti a Rifondazione comunista, ai Comunisti italiani di Oliviero Diliberto e agli ex Ds Cesare Salvi e Fabio Mussi. Ne è nata una coalizione che sta a sinistra del Pd (il neonato Partito democratico di Ds e Margherita), e candida premier Fausto Bertinotti.

«Qui in Puglia abbiamo anche il presidente Nichi Vendola», dice Pecoraro, «che governa senza problemi in coalizione con il Pd. È un peccato che a sinistra si sia verificata questa frattura. Io la trovo innaturale, e dopo il voto farò di tutto per ricomporla. Altrimenti consegniamo il Paese a Silvio Berlusconi».

Ma allora perché vi siete messi con l’estrema sinistra?
«È stato il Pd a rifiutarci, noi avremmo voluto rimanere alleati. Certo che, su certe cose per noi fondamentali come il nucleare, non potevamo cedere».

Ecco, il nucleare: siamo circondati da centrali atomiche, in Slovenia e in Francia. Perché ostinarsi a rimanere senza?
«Il fatto che ne abbiano gli altri non è un buon motivo per costruirle noi. E comunque i danni, in caso d’incidente, si subiscono in proporzione alla distanza: più si viveva vicino a Chernobil, più le conseguenze sono state tremende. Il Pd oggi parla di “nucleare di quarta generazione” ma, come dice il Nobel Rubbia, anche quello è radioattivo. Il problema delle scorie non è stato risolto. E comunque il nucleare non è conveniente dal punto di vista economico. Per costruire una centrale ci vogliono 15 anni e costi immensi».

Signora Fino: «Però siete contrari anche all’eolico. A me invece, chissà perché, quei mulini a vento moderni, così alti, piacciono esteticamente».
«Alcuni impianti si possono fare. Però non dobbiamo installare torri gigantesche proprio sulle rotte degli uccelli migratori, che vengono sterminati dalle pale. L’Europa ci condannerebbe».

L’unica alternativa

Non resta che il solare?
«Quella è la vera alternativa, e sempre secondo Rubbia è proprio la Puglia la regione d’Italia più vocata per ospitare pannelli e centrali. Perché è al Sud, ha un sacco di sole, ma anche perché è pianeggiante. Come l’Andalusia in Spagna. Rubbia ha progettato una centrale solare termodinamica, con specchi che concentrano l’energia e conservano il calore anche di notte, a temperature di 500 gradi. Le stesse che ci vogliono per produrre elettricità con carbone, gasolio o nucleare. Ho stanziato venti milioni di euro per il prototipo».

Prende la parola Gianfranco, il marito viticoltore. Il suo cruccio è la burocrazia.
Signor ministro, non le sembra che le procedure burocratiche siano da alleggerire? Perché una piccola impresa deve sottoporsi a due Via (Valutazioni d’impatto ambientale), una regionale e una nazionale, e poi all’Aia (Autorizzazione integrata ambientale), mentre in tutti i Paesi d’Europa la procedura è unica? Io stesso non posso permettermi un ragioniere a tempo pieno, così la burocrazia mi obbliga a passare la metà del mio tempo fra le carte. E non riesco a curare la parte commerciale, che è importante quanto quella produttiva.

«Francamente, non posso che darle ragione. Mea culpa. I controlli ci vogliono, soprattutto nel settore enogastronomico dove è fondamentale garantire la qualità. Ma non devono trasformarsi in vessazioni, moltiplicandosi all’infinito».

Una domanda la vuole porre il padre di Gianfranco, Vito Fino, pensionato.
Le pensioni. Perché non rivalutarle assieme ai rinnovi contrattuali, invece dell’attuale meccanismo che non copre tutta l’inflazione, e fa perdere la metà del potere d’acquisto in pochi anni?

«Guardi, sono tre le categorie che vogliamo proteggere: pensionati, precari e salariati. Tutti devono tornare ad avere un reddito decente. Se loro in questi anni hanno perso potere d’acquisto, evidentemente altre categorie ci hanno guadagnato, perché nel suo complesso l’Italia non si è impoverita. La verità è che c’è stato uno spostamento di reddito in favore della speculazione finanziaria e delle grandi rendite parassitarie, a danno degli introiti da lavoro dipendente. E non lo dico io, ma le statistiche dell’Ocse».

Qui a Taranto abbiamo un negozio della Coldiretti dove gli agricoltori vendono i loro prodotti direttamente ai consumatori. Non si può ampliare questa esperienza?
«Assolutamente sì. Ogni Comune d’Italia deve offrire almeno un negozio dove i produttori incontrano i consumatori. Così i prezzi si possono abbassare dal 30 al 50 per cento».

Per la verità rispetto a certi mercati rionali i prezzi non sono così bassi.
«La Coldiretti dice il contrario, ma mi informerò».

Riprende la parola la signora Fino: Pd e Sinistra arcobaleno si contendono come candidati gli operai della Thyssen Krupp di Torino. Anche all’Ilva di Taranto ci sono stati morti sul lavoro, ma nessuno ha mai pensato a loro.

«Non si risolve il problema della sicurezza sul lavoro candidando qualche operaio sopravvissuto, così come non si risolve il precariato facendo eleggere un precario, e non si ottengono diritti per le coppie di fatto trasformando qualche omosessuale in deputato. Berlusconi ha inaugurato la politica spettacolo, ma noi non dobbiamo andargli appresso. Non si risponde alla candidatura di un generale con un altro generale, a un industriale con un industriale, a una donna con un’altra donna...».

Record mondiale di debiti

Taranto «vanta» un record mondiale: due anni fa il Comune ha dovuto dichiarare bancarotta con un debito di 637 milioni. Il più alto del pianeta, dopo quello di Seattle (Stati Uniti). Un anno fa è stato eletto sindaco a furor di popolo (71 per cento dei voti) il pediatra Ippazio Stefàno, della Sinistra democratica di Salvi e Mussi (ora alleati di Pecoraro). Stefàno ha subito rinunciato allo stipendio e dimezzato quello di assessori e consiglieri. Ma le resistenze sono molte: quattro mesi fa ha dovuto licenziare il vicesindaco. E i creditori del Comune alla fine non incasseranno più della metà delle somme loro dovute.
Qui l’ex sindaco fu condannata per un inceneritore...

Ministro, vogliamo parlare un po’ di spazzatura?
Pecoraro si sistema sulla sedia, deglutisce e risponde scherzoso (ma non troppo): «Preferirei di no, perché guastare questo buon clima conviviale? Comunque, nei paesi della Campania dove viene fatta la raccolta differenziata, il problema non esiste».

Mauro Suttora

intervista a Michela Quattrociocche

Michela Quattrociocche, la diva del momento, si racconta in un diario

SCUSA MA TI CHIAMO BRANCIAMORE

«Ho conosciuto Matteo, il mio principe azzurro, lo stesso giorno in cui ho avuto la parte nel film di Moccia», dice Michela. «E in nove mesi si sono avverati tutti i miei sogni»

di Mauro Suttora

Roma, 26 marzo 2008

'Scusa ma ti chiamo amore' di Federico Moccia, in cui è protagonista con Raoul Bova, è il film italiano più visto del 2008. Ha incassato 14 milioni di euro: il doppio di Silvio Muccino, il triplo di Nanni Moretti. Solo Carlo Verdone sta andando meglio. Ma la reginetta degli incassi, la debuttante Michela Quattrociocche, resta con i piedi per terra: «Sto studiando recitazione. A settembre mi iscrivo all’università, Scienze della comunicazione», dice mentre posa per le foto.

Ha scritto un libro: 'Più dei sogni miei' (Mondadori). È il racconto degli ultimi nove mesi della sua vita. Dal 21 giugno 2007, quando, appena finito lo scritto di maturità, le squilla il cellulare: la parte è sua. È una data magica, perché la sera Michela conosce per caso l’amore della sua vita: Matteo Branciamore. Coincidenza delle coincidenze, anche Teo fa l’attore, ne 'I Cesaroni'.

Il libro di Michela è la cronaca della loro storia, finora tenuta abbastanza nascosta. E lei confessa addirittura: «Se non avessi conosciuto l’amore attraverso di lui, forse non sarei stata in grado di interpretarlo nel film». All’inizio lui la conquista con questa frase: «Ho letto la biografia di Kakà. Mi piace perché è di sani principi, con la moglie si sono scelti davvero». E lei scrive: «Sono incredula. È strano sentir parlare un ragazzo così... ascoltare da lui cose che penso io. Le penso e non le dico, sennò mi rimproverano di essere all’antica... Ebbene sì. Credo nell’amore, nel matrimonio e sono fedele. Allora? A me non interessa “fare esperienze prima di fidanzarmi”, come si dice. Non mi frega di girare di ragazzo in ragazzo».

Insomma, altro che «mocciosa» (così sono soprannominate le giovani della generazione Moccia): Michela è una puritana. Teo le piace perché non le fa la corte: «Non fa il provolone, non fa il piacione e non mi fa i complimenti». E neppure la tocca: «È meraviglioso», annota, «dev’essere speciale uno per farmi stare zitta, in macchina, di notte, senza saltarmi addosso... Li riconosco quelli che ammucchiano le parole per riempire il tempo, prima di partire all’attacco. Odio chi ti rimorchia senza provare a conoscerti».

Nuovo appuntamento, arrivano le cinque del mattino. «Qualsiasi cosa diversa da un bacio ora sarebbe fuori luogo», ammette Miky. Lui si limita a sussurrarle all’orecchio una frase romantica: «È stato surreale, ma bello».
«La riconosco, è la frase che Hugh Grant dice a Julia Roberts in Notting Hill. Svengo. Resto in piedi per orgoglio. Mi rimanda a casa senza toccarmi. Per la prima volta qualcuno mi rispetta. Stiamo cuocendo a fuoco lento ed è stupendo». Risultato: da un mese Miky e Teo sono andati a vivere assieme. «Sono felicisssima, anche se ora litighiamo un po’ di più», dice lei.
Ecco uno degli ultimi capitoli del libro, in cui Michela annuncia a mamma e papà che andrà a convivere col fidanzato.

M.S.

IL CANTO DELLE SIRENE

Se il film non va, fa niente. Ammetto che è tostissima allontanarsene, è come una droga: una volta provato non puoi più farne a meno. Se pensi a quale mestiere vorresti fare dopo avere girato un film, ti fa schifo tutto, è tutto privo di magia. Sei rintontito, svuotato. Non so a cosa paragonarlo (...). L’idea che il cinema diventi il tuo lavoro è talmente ammaliante che cancella tutto il resto. È il canto delle sirene, e d’istinto ti ci butteresti a capofitto (...). Sto aspettando che torni a pranzo mamma per dirle che andrò a convivere con Teo. Adesso sì che sono tesa. E non solo perché non ho idea di quale sarà la sua reazione. Dal momento che lo dico, lo dico sul serio. Non torno indietro. Significa rinunciare a essere viziata e rimboccarmi le maniche. È un passo da gigante (...). È più difficile di quanto pensassi. Lei sa tutto di me. Anzi lei sa più cose di me di quante ne sappia io. Se ho un dubbio nascosto in qualche angolo del cuore, me lo tira fuori in un secondo.

Di questo ho paura. Affrontarla è come affrontare me stessa, e temo di scoprire che non sono per niente sicura di quello che sto facendo. Spostiamo il centrotavola, apparecchiamo, nonna ha preparato i tortellini.
«Mami, ti ricordi l’attico meraviglioso che dovevano prendere Alessia e Luca?». Con lei è inutile girarci troppo intorno, tanto ti ferma al secondo giro.
«Sì». «Ci andiamo a vivere io e Teo». Sulla frase ci metto pure una faccia di supplica che mi esce spontanea. Supplica di non arrabbiarsi, di non dirmi quello che pensa in fondo in fondo.
«Così impari a fare qualcosa per casa, almeno», dice seria. Poi scoppia in una risata fragorosa (...) e mi viene ad abbracciare.

al ristorante con papà

Adesso tocca dirlo a papà. Sostiene che lui, come il padre di Niki, non giudicherebbe Alex dall’età, ma lo vorrebbe prima conoscere e, se scoprisse che i suoi sentimenti sono veri, lo accetterebbe (...). Voglio proprio vedere se accetta i sentimenti di me e Teo. Gli ho dato un appuntamento al ristorante. Arriva, col suo pizzetto grigio e il maglione a V viola, il sorrisetto storto di chi si aspetta l’ennesimo tiro mancino. Ho passato il primo test. Sono pronta.
«Papy, è vero che reagirai bene?». «Non mi freghi più». «Giuro che devo dirti una cosa vera». «Ti vedo strana, infatti. O è vera o sei diventata una bravissima attrice». «Vado a convivere con Teo».

Gli va di traverso l’acqua. Fissa la tovaglia, poi comincia a disegnare nel vuoto piccoli cerchi con il bicchiere. Non so capire se è un buon segno. «E dove?». Intanto non gli sono usciti gli occhi di fuori, ed è già una cosa. Le domande sono un’arma a doppio taglio. A seconda delle mie risposte deciderà se è d’accordo o meno. «In quell’attico che doveva prendere Alessia (...)». «E quando?». «Entriamo il 14 febbraio, San Valentino, pensa che coincidenza». «Sono contento per te. Ti vedo presa». «Innamorata papà, non presa. Innamorata». «Va bene, va bene. È giusto. Io credo nell’amore». «Ah sì? E credi pure nel matrimonio?». Mi pento subito. Gliel’ho detto con rancore. Ogni tanto mi escono rigurgiti della loro separazione. Non posso farci niente. «Il fatto che il mio non abbia funzionato non significa non crederci più». «Allora sei d’accordo?». «Basta che ogni tanto mi inviti e non sparisci».
È fatta.

© 2008 Arnoldo Mondadori Editore

Wednesday, March 19, 2008

Il principe Alliata ricorda Anna Magnani

Anna, guerra sui vulcani

Cent' anni fa nasceva la Magnani, regina del nostro cinema

Due film, "Vulcano" e "Stromboli". E un triangolo di passioni, tra Nannarella, Rossellini e Ingrid Bergman. Nel ' 49 fu scandalo. Il principe Alliata c'era. E qui racconta

Oggi, 12 marzo 2008

di Mauro Suttora

Anna Magnani in bikini sott' acqua, occhi spalancati e bocca sorridente: la straordinaria immagine che pubblichiamo nella pagina seguente, finora inedita, fu scattata nel 1949 da Fosco Maraini, padre della scrittrice Dacia, allora fotografo di scena. E la scena era quella del set di Vulcano, il film che Nannarella girò con Rossano Brazzi nelle stesse settimane in cui il suo ex Roberto Rossellini realizzava nella vicina Stromboli il capolavoro omonimo con il proprio nuovo amore: Ingrid Bergman.

Storie infuocate di amore e odio che agitavano il cinema italiano, allora ai vertici del successo mondiale. E che oggi, nel centenario della nascita della grande attrice, vengono ripercorse in un bel libro scritto da Gaetano Cafiero: Principe delle immagini (ed. Magenes/Il Mare Libreria Internazionale). Il principe in questione è Francesco Alliata di Villafranca, che adesso ha 88 anni ed è stato il primo al mondo a usare sott' acqua una cinepresa professionale.

Ma oltre che pioniere del cinema subacqueo, il principe Alliata (il quale, nonostante l' età e il peso dei suoi 39 titoli nobiliari, lascia spesso la sua Catania per girare l' Europa) è stato il produttore di Vulcano, quindi testimone diretto di quei travagliatissimi mesi. E lo sarebbe stato di Stromboli, se Rossellini non avesse soffiato a lui e al socio Pietro Moncada di Paternò l' idea del film, dopo essere letteralmente fuggito con la Bergman.

"Negli ultimi anni c' è stato un incredibile risveglio d' interesse per quel periodo", spiega Alliata, "siamo continuamente invitati in tutto il mondo, dal Tribeca Festival di New York a quello di Venezia, per ricordare la Magnani e la nostra società Panaria, che due anni dopo produsse un altro film importantissimo per lei, La carrozza d' oro, in cui diretta da Jean Renoir per la prima volta recitò in lingua inglese. Vulcano avvince ancor oggi per la vicenda umana che racconta, elaborata su fatti realmente accaduti in quei paesaggi solenni. Non ci fu solo l' ammirevole recitazione della Magnani, ma anche la realtà che traspira da ogni fotogramma, le prime sequenze "recitate" subacquee nella storia del cinema, e la mattanza dei tonni".

Quella che venne subito definita "la guerra dei vulcani", e che tenne banco per anni su tutti i giornali del pianeta, nacque nel 1948, quando Rossellini si era già impegnato con Alliata a girare Stromboli. Sembrava naturale che la protagonista fosse la Magnani, che stava con il regista da tre anni dopo il successo di Roma città aperta. "Puntammo da subito al grande mercato degli Stati Uniti", ricorda Alliata, "quindi avremmo girato in inglese, in presa diretta, perché gli americani non vogliono i film doppiati".

Ma Anna e Roberto, la coppia del neorealismo, viene travolta dall' arrivo di Ingrid, la svedese che ha già conquistato l' America. Basta una sua lettera a Rossellini, infaticabile tombeur de femmes, per fargli perdere la testa. Dopo avergli rivelato che adora i suoi film e che vorrebbe essere diretta da lui, conclude la lettera scrivendo spudoratamente: "So recitare in inglese, tedesco e svedese, ma in italiano conosco solo tre parole: "Io ti amo".

Quale maschio italiano non sarebbe immediatamente volato a Los Angeles per rispondere ? "Così Rossellini ci piantò in asso", ricorda Alliata, "per settimane non avemmo più sue notizie". Da Hollywood la United Artists, coinvolta nel progetto, offre il ruolo femminile a Greta Garbo. La star risponde: "Grazie, questo copione mi piace, però non vorrei chiudere la mia carriera nel ruolo di un' assassina". Piantata clamorosamente da Rossellini, Anna Magnani non si arrende e decide di realizzare comunque il film pensato per lei: si chiamerà Vulcano, e intanto incassa per la parte l' enorme cifra di 40 milioni (un milione e mezzo di euro attuali).

Le due troupes si sfidano lavorando simultaneamente a pochi chilometri di distanza nell' aspro arcipelago tirrenico, combattendo contro il caldo, le eruzioni vulcaniche, i privati rancori, i dubbi e i rimorsi. Per vincere "la guerra dei vulcani", infatti, i protagonisti si fanno di tutto: tradimenti, plagi, boicottaggi, ardite riprese sottomarine, mentre la grancassa mediatica amplifica con spregiudicatezza i retroscena di una relazione ormai dissolta.

Le riprese subacquee di Alliata restano l' arma segreta dei produttori di Vulcano. L' esperienza accumulata in tonnara nei documentari degli anni precedenti è tanta, nessun altro operatore al mondo è in grado di imitarlo. Quando viene a sapere che è imminente una mattanza a Milazzo, il principe mette l' Arriflex con custodia in una valigia e va. La "levata" dà frutti cospicui. Alliata fissa sulla pellicola inquadrature mirabili, mette a disposizione del "suo" Vulcano altre immagini uniche.

Il settimanale L' Europeo avanza dubbi sulla primogenitura del soggetto di Vulcano rispetto a quello di Stromboli, Alliata risponde. Un giovanotto viene sorpreso a Stromboli mentre cerca di trafugare la sceneggiatura di notte, e gli uomini della produzione di Rossellini lo conciano per le feste. Vitaliano Brancati, coinvolto in extremis, fa da consulente linguistico per la Magnani, che deve esprimersi in siciliano eoliano nella versione per il mercato italiano.

La ricaduta pubblicitaria dopo la clamorosa rottura di Rossellini con la Magnani, e lo scandalo provocato anche negli States per la relazione extramatrimoniale della Bergman, danno ai due film contemporaneamente in lavorazione una notorietà insperata, che però non si tradurrà in successo commerciale. Vulcano, ultimato prima di Stromboli, viene presentato a Roma il 2 febbraio 1950; Stromboli nell' ottobre dello stesso anno. La prima di Vulcano (mai amato dalla critica) è un disastro.
La Magnani dà forfait, e in quello stesso giorno - incredibile coincidenza - nasce Robertino, figlio di Rossellini e della Bergman, che aveva nascosto la gravidanza per tutto il tempo delle riprese. Così l' attenzione di stampa e pubblico si catapulta sul lieto evento.

Insomma, si può dire che la "guerra dei vulcani" si risolve in un pareggio. La vera rivincita su Rossellini, per Nannarella, arriverà solo nel 1955, quando vince l' Oscar con La rosa tatuata. Un drammone scritto da Tennessee Williams apposta per lei, che ha al fianco come protagonista Burt Lancaster.

intervista a Tim Burton

Il regista di Sweeney Todd: quanto horror con Johnny Depp

Oggi, 27 febbraio 2008

"Mi ha dato energia anche solo l' idea di lavorare con qualcuno che ha lavorato con Fellini".
Così il regista Tim Burton, a Roma per presentare il suo nuovo film con Johnny Depp, Sweeney Todd, commenta l' ennesima candidatura all' Oscar (l' ottava) conquistata dallo scenografo italiano Dante Ferretti proprio per questo lavoro. Ferretti un premio Oscar l' ha vinto, per The Aviator nel 2004, mentre sia lei che Depp siete ancora all' asciutto quanto a statuette d' oro.
"Ci siamo consolati con gli incassi delle nostre trilogie: io quella di Batman, lui quella dei Pirati dei Caraibi. Sweeney Todd è il sesto film che facciamo insieme, ci capiamo al volo e per questo musical horror Johnny è l' unico attore a cui ho pensato. Il personaggio cupo del barbiere assassino nella Londra dell' 800 gli si attaglia perfettamente".

Accanto a Depp c' è Helena Bonham Carter che fa mangiare carne umana ai clienti della sua rosticceria.
"Il loro rapporto è tragicamente comico, perché lei parla sempre e lui mai. Ho visto tante coppie così, comprese alcune di cui ho fatto parte io stesso...".

Oltre a Ferretti c' è un altro tocco d' Italia in Sweeney Todd.
"Sì, il barbiere rivale di Depp, l' italiano Adolfo Pirelli (interpretato dal Sacha Baron Cohen di Borat). Inoltre mi sono ispirato a Mario Bava. Questo vostro regista, maestro dell' horror, è uno dei miei preferiti. Io però, rispetto al suo stile, ho preferito inondare questo film con decine di litri di sangue".
Buoni incubi, quindi, agli spettatori.

Mauro Suttora

Monday, March 10, 2008

L'Economist scopre il 'nuovo'

Libero, 9 marzo 2008

di Mauro Suttora

Caro direttore,
dopo vent’anni devo darti ragione. «L’obiettività dei giornali anglosassoni non esiste», avevi detto quando arrivasti a dirigere il mio Europeo nel 1989. Non mi convincesti, e fino a giovedì sera sono rimasto anglofilo. Ma è bastata una sola parola di Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, per farmi crollare il mito. La parola è: «Nuovo». Così Emmott ha risposto alla domanda di un conduttore di Sky24: «Come definirebbe Walter Veltroni?»

Gelo in studio. Benedetto Della Vedova, radicale passato con Berlusconi, ha un attimo di smarrimento. Come può a un giornalista così prestigioso essere scappata una tale scivolata, che neanche Dida? Ripresosi dall’incredulità, replica: «Informo Emmott che Veltroni era responsabile della propaganda Pci già nel 1981». Salta su Furio Colombo, al quale ultimamente qualcuno ha consigliato l’isteria come arma per apparire efficaci in tv: «Lei offende Emmott! Un giornalista questo lo sa».

Si presume di sì. Anche perché Emmott è stato ingaggiato dal Corriere della Sera per commentare in prima pagina le cose italiane. Quindi un curriculum del politico numero due in Italia lo avrà scorso. E seguendo il dibattito di questi giorni avrà notato che proprio la presunta «novità» di Veltroni è il principale tema di discussione in questa campagna.

Il britannico tenta di rimediare: «Ho detto “nuovo” sulla scena nazionale...»
Della Vedova è uno dei politici più placidi d’Italia. L’aggressività non è il suo forte. Quindi si limita a sorridere indulgente, puntualizzando: «Veltroni è stato segretario nazionale Ds, e ministro, e vicepremier...» Niente da fare. L’accoppiata Emmott-Colombo continua a sostenere l’insostenibile, anche se il primo arretra fino all’estrema trincea aggrappandosi a un’altra parola fatale: «Veltroni “appare” nuovo...»

Ah, siamo alle apparenze. Domani disdico l’abbonamento all’Economist. Anche perché, confessiamolo: il settimanale più «obiettivo» del mondo è citato da tutti, rispettato da molti, comprato da pochi. E letto da quasi nessuno.

Wednesday, March 05, 2008

intervista a Pier Luigi Bersani

La famiglia Sacchetti interroga il ministro dello Sviluppo economico

Roma, 5 marzo 2008

«Glielo dico subito: due anni fa ho votato per voi, ma questa volta non penso proprio: il governo Prodi mi ha deluso».
Non inizia bene la cena con Pier Luigi Bersani, ministro dello Sviluppo economico e capolista per il Partito democratico alle elezioni di aprile. La padrona di casa, Francesca Sacchetti, consulente, mette subito le carte in tavola: «Io non sono fedele, a volte ho votato a sinistra, altre a destra. Ma ormai mi sembra che tutti voi politici abbiate perso il senso della realtà, il contatto con la vita di tutti i giorni. Almeno un tempo i re potevano contare sui giullari per farsi dire la verità. Ma adesso?».

Bersani incassa placido e risponde: «Posso solo cercare di convincerla dicendole quello che sono riuscito a fare in concreto in questi due anni al ministero. Forse le sembrerà stupido, ma uno dei risultati di cui vado fiero è che ho proibito di scrivere troppo in piccolo la data di scadenza della pasta sulle confezioni. E su ogni cosa che ho fatto, dalle liberalizzazioni alle cosiddette “lenzuolate”, ci ho messo la faccia. Nel senso che mi sono preso la responsabilità di adottare provvedimenti anche impopolari. Ho detto che è ora che in questo Paese un giovane che vuole fare il barbiere o l’avvocato o il tassista lo possa fare, senza scontrarsi con i privilegi delle corporazioni».

Siamo nell’appartamento al settimo piano di un palazzo del quartiere Monti, a Roma. A tavola ci sono Giovanni Sacchetti, pittore, sua moglie, il figlio Clemente e Lavinia, figlia del primo matrimonio di Francesca. La quale, laureata e impiegata in una grande società telefonica, chiede al ministro: «Come faccio a ottenere un aumento se a causa delle tasse il costo del lavoro per le aziende è così alto? A me le imposte vengono detratte direttamente dalla busta paga, ma poi al mercato se chiedo uno scontrino mi guardano seccati...».

«C’è poco da fare», risponde Bersani, «le tasse le devono pagare tutti. Avremmo dei margini enormi per abbassarle, se tutti fossero onesti. Non voglio fare propaganda, ma il governo precedente ha concesso sette condoni in cinque anni, mentre noi neanche uno. Se la gente si abitua ai condoni fiscali non pagherà mai, tanto sa che prima o poi ne arriverà un altro».

Clemente, studente al penultimo anno del liceo classico Visconti: «Sto cominciando a pensare alla facoltà da scegliere per l’università. Sono incerto fra Legge ed Economia, ma temo che anche con buoni voti avrò grossi problemi».
Bersani: «Un consiglio che posso darti è quello di controllare un sito internet dove per ogni facoltà vengono indicate le statistiche con le settimane o i mesi che in media bisogna aspettare per trovare lavoro con i vari tipi di laurea. È evidente che mia figlia che studia Storia medievale dovrà aspettare più di un ingegnere. Ci sono tre tipi di problemi con il primo lavoro: la stabilità, la retribuzione e la coerenza con gli studi che si sono fatti. Sul primo punto ci siamo impegnati per rendere meno precario il lavoro flessibile». «Che vuol dire?», lo interrompe Clemente. «Fare in modo che i contratti a tempo determinato, quelli a progetto e così via non costino meno di quelli a tempo indeterminato. Va benissimo incentivare la formazione, ma il lavoro va pagato senza che si approfitti troppo di sgravi contributivi».

«Mi piacerebbe fare l’avvocato, ma non so se mi conviene studiare in Italia o all’estero», dice Clemente.
«La liberalizzazione delle professioni è sempre stato fra i miei obiettivi. L’Italia ha il più alto numero di avvocati d’Europa, eppure ne importiamo dall’estero. Questo perché un residuo archeologico da noi non permetteva di costituire società professionali. Ho scoperto che era una legge addirittura del 1938, la quale per ragioni razziali voleva impedire che dietro a uno studio si potesse nascondere un ebreo! Mentre nel mondo ormai gli studi legali hanno decine se non centinaia di dipendenti, da noi c’è ancora l’avvocato individuale. Così, se uno studio ha bisogno di una figura di grande specializzazione, a volte trova più comodo assumere un avvocato straniero».

Parla Giovanni Sacchetti: «A proposito di lavoro di squadra, possibile che in molti ospedali pubblici il lavoro d’équipe sembri non esistere? Me ne sono accorto di recente, con il ricovero di mia suocera».
Bersani: «Sulla sanità mi sono preso le mie dosi di fischi nei vent’anni in cui ho fatto l’amministratore locale nella mia regione, l’Emilia-Romagna. Avevamo troppi ospedali, ma chiuderli è stata una battaglia micidiale. Di fronte alle proteste popolari un politico si chiede sempre: chi me lo fa fare? Perché rischia il consenso immediato, ma non pensa che se la sua soluzione funziona poi il consenso si recupera, e magari si raddoppia. Questo vale in tutti i campi, anche i rifiuti: dicendo sempre no si finisce come in Campania».

«Ecco, come fare con la sanità al sud, dove ci sono addirittura casi di ospedali occupati da figli di mafiosi che fanno i medici?», chiede Giovanni Sacchetti.
Bersani: «Ci vuole una grande riscossa civica. Ognuno deve accettare di cambiare un po’. Invece oggi in Italia tutti sono convinti “che ce l’hai con loro”: i cattolici si sentono assediati, i laici dimenticati, l’unica immigrata buona è la tua badante, e nessuno vuole il termovalorizzatore. Invece è ora che ci diciamo che esistono diritti ma anche doveri. E poi basta con il pessimismo: dopotutto l’Italia è stato il Paese europeo che nel 2007 ha aumentato di più le esportazioni. Solo la Germania ci ha battuto ».

«Sì, però, a volte è la classe politica a sembrare impresentabile», obietta la signora Sacchetti, «basta vedere certe facce...».
Bersani: «Salvemini diceva che il 15 per cento dei politici è meglio degli elettori, il 10 per cento è peggio, e che il resto li rappresenta. Ma io non voglio cavarmela così. E ammetto che l’attuale sistema elettorale, imposto dal centrodestra, è un disastro, perché gli eletti sono nominati direttamente dai partiti».

Signora Sacchetti: «Dite di essere tutti d’accordo a fare la riforma elettorale,ma ora eccoci di nuovo a votare senza poter esprimere una preferenza. E che fine hanno fatto le promesse di ridurvi gli stipendi, di ridurre il numero dei parlamentari?»
Bersani: «Per gli stipendi, basterebbe adeguarsi alla media europea. E per il numero, basterebbe calare da mille a seicento».

Lavinia Sacchetti: «Il problema è che siamo tutti sfiduciati».
Bersani: «Avete ragione. Non vi dirò che ci vogliono le riforme, perché farei la figura del calzolaio che si lamenta perché ha le scarpe bucate. “Allora aggiustatele tu”, mi rispondereste. Dovete però ammettere che la nascita del Partito democratico e la decisione di ridurre spontaneamente il numero dei partiti è stata un passo in avanti. E c’è costato parecchio, abbiamo pagato con strappi e scissioni».

«Però poi alla fine il governo Prodi ha lasciato una sensazione di grigio», replica Giovanni Sacchetti.
Bersani: «Il che, detto da un pittore, è il giudizio peggiore. Forse abbiamo mischiato troppi colori... Il problema è che abbiamo dovuto stringere i cordoni della borsa per rimettere a posto i conti. Insomma, abbiamo dovuto dare un bel “drizzone“, come si dice dalle mie parti. Concludendo, posso confessarvi una cosa? Io faccio il pendolare con Piacenza da quattordici anni, vedo la mia famiglia solo nei fine settimana. E vi ringrazio perché questa sera mi avete regalato un’atmosfera di vita familiare che mi manca molto».

Mauro Suttora

Thursday, February 28, 2008

Baget Bozzo: "Pannella è un profeta cristiano"

«PANNELLA E’ UN PROFETA CRISTIANO»
Don Baget Bozzo: «Marco ha una visione religiosa, è stato lui a introdurre Gandhi in Italia”

Libero, 28 febbraio 2008

di Mauro Suttora

«Marco Pannella in realtà è una figura interna alla cristianità italiana. Non è un politico. È un profeta». Così commenta con Libero, dalla sua casa di Genova, uno dei più acuti osservatori della politica: don Gianni Baget Bozzo, 82 anni (quattro più di Pannella).

È incredibile come un partitino con non più del due per cento dei voti, e che ha ottenuto da Walter Veltroni meno dell’uno per cento dei parlamentari (nove su 950), riesca a scatenare tante polemiche. Veti, proteste, addirittura paura che un così minuscolo embrione possa trasformare tutti i Democratici in un «partito radicale di massa». A meno che...

«A meno che non si capisca che la visione di Pannella non è solo politica. È una visione religiosa», spiega don Baget. «È stato lui a introdurre il digiuno, la nonviolenza e tutto l’universo di Gandhi in Italia. Pannella trascende la politica: castiga il corpo per elevare l’anima».

Proprio come la senatrice Paola Binetti col suo cilicio: ecco trovato un punto di contatto fra l’anziano anticlericale e la sua più accesa oppositrice nel partito democratico. Ma perfino sul termine «anticlericale» occorre specificare. Perché è sicuramente Pannella l’inventore del micidiale slogan «No Vatican, no taliban». Ma con la continua spiegazione che il «clericalismo» è un vizio della vera religione, che i radicali non hanno nulla di antireligioso, e che anzi pure loro sono «credenti», seppure in «altro».

E cosa sarebbe, quest’«altro»? Secondo don Baget, «Pannella è un impolitico, non guarda al governo: vuole, attraverso la politica, riformare l’orizzonte spirituale degli uomini». Addirittura? «Certo. Pannella punta da sempre a una riforma del cattolicesimo italiano, non inteso come appartenenza ecclesiastica ma come cultura di popolo. Il suo avversario è stata quella convergenza tra cattolicesimo e comunismo che ha avuto il suo massimo risultato nel compromesso storico fra Dc e Pci».

Don Baget si spinge ancora più indietro: «Il compromesso storico rappresenta il rovesciamento del Risorgimento, che voleva introdurre in Italia la laicità dello Stato e la libertà del cittadino. Il ‘libera Chiesa in libero Stato’ di Cavour era l’idea di una riforma del cattolicesimo italiano, la speranza che il mutamento dell’Italia avrebbe determinato il rinnovamento della Chiesa».

E qui si scopre uno dei grandi amori politici di Pannella: don Romolo Murri, il sacerdote che un secolo fa fondò assieme a Sturzo e Toniolo la Fuci e la Democrazia Cristiana, ma che nel 1909 fu deputato radicale. «Murri voleva riformare il cattolicesimo con l’accettazione della libertà di coscienza», spiega don Baget, «e anche Pannella negli anni ’70, quelli di Paolo VI, dà un profilo spirituale alla sua azione. Questa è la sua novità rispetto al liberalismo. Pannella vi introduce la dimensione individuale: la coscienza, il corpo, il sesso. Prima il divorzio, poi l’aborto. E riesce a imporre al Pci e al governo, Dc compresa, le sue proposte».

Baget Bozzo aveva sviluppato questa tesi una dozzina anni fa, su ‘Liberal’. E giungeva a questa conclusione: «I profeti non diventano mai re. I rapporti tra Pannella e gli altri politici sono conflittuali non per differenze di pensiero, ma per differenti vocazioni. Pannella è un profeta. Ma appartiene troppo alla cristianità per poter mai diventare un profeta re».

Non è più esatto definirlo un eretico? «Gli eretici sono dei grandi organizzatori. Nessuno pensa a Calvino come a un profeta, ma come a un grande organizzatore ecclesiastico. Gli eretici non sono profeti, sono vescovi alternativi per una Chiesa alternativa. Ma Pannella non vuole fondare un’istituzione. Non cerca il potere, vuole solo comunicare, quasi in modo ossessivo: è parola continua, un presenzialismo in tutte le sedi. Entra in conflitto con la Chiesa, ma ciò corrisponde alla dinamica della profezia».

Mauro Suttora

Wednesday, February 27, 2008

Beppe Grillo, primarie a Roma

Beppe Grillo cala su Roma con una Serenetta

Per la corsa al Campidoglio scelta l’ex precaria Serenetta Monti. Che si accontenterebbe del 2-3%

Libero, 27 febbraio 2008

di Mauro Suttora

Beppe Grillo fino a qualche settimana fa stracciava tutti i politici in ogni sondaggio: 60 per cento di consensi, contro il 30-40 degli altri. E minacciava: “Cacceremo i professionisti della politica con le nostre liste civiche”. Ma ora alle elezioni politiche non si presenta. Alle regionali del 13 aprile (Sicilia e Friuli) neppure, e neanche alle provinciali (“Sono enti inutili, vanno aboliti"). Restano i comuni. Roma, soprattutto, che sarà la vetrina più importante per il debutto di Grillo in politica.

L’altra sera si sono svolte le primarie fra gli ‘Amici di Grillo’ della capitale, per eleggere il loro candidato sindaco. Un centinaio di persone sono arrivate al Linux Club, locale del quartiere Ostiense che, in linea con i dettami grilleschi, propugna l’‘open source’ nei computer, contro il monopolio Microsoft-Windows. Sono duemila gli aderenti al cosiddetto ‘Meetup’ romano, il sito internet dove chiunque può registrarsi gratis.

Dopo il Vaffa-day dell’8 settembre c’è stata un’esplosione di adesioni. Quindi il comitato organizzatore, eletto ogni sei mesi, ha prudentemente deciso di limitare le candidature agli ‘antemarcia’, ovvero a chi si era registrato prima dell’8 settembre. “Troppo alto il rischio che dopo siano arrivati opportunisti”, spiega il presidente dell’assemblea, il dentista Dario Tamburrano.

Si sono candidati a sindaco (quindi a capolista) ben quattro ‘organizzatori’ su tredici. Inesistenti le differenze di linea politica. si vota per simpatia. Al ballottaggio arrivano due donne: Serenetta Monti, 36 anni, custode di museo, coordinatrice degli organizzatori da sette mesi, e Roberta Lombardi, 34, impiegata in una società di arredamenti. Vince la prima.

Il suo programma per Roma ovviamente coincide con il Grillo-pensiero, che è in gran parte simile a quello degli ecologisti: raccolta differenziata della spazzatura, no agli inceneritori (o almeno a quelli sospettati di rilasciare diossina), preferenza al trasporto pubblico rispetto alle auto (anche se, come ha fatto notare qualcuno, buona parte dei presenti non è arrivato alla riunione in bus o metro).

Serenetta Monti si autodefinisce “novizia della politica”, Ma inesperta non lo è affatto. Per dieci anni, infatti, ha lottato come precaria. “Abbandonata l'università”, racconta, “ho fatto di tutto: baby sitter, data entry, assistenza agli anziani, pony express. Poi ho seguito un corso per restauratrice. Nel ’97 il sindaco Rutelli istituì i Lavori socialmente utili e assunse al Comune mille persone per 800 mila lire al mese con venti ore settimanali. Io contribuivo a rendere più bello il Pincio, lavorando sui busti degli uomini illustri. Dopo tre anni e mezzo di lotte abbiamo conquistato il posto fisso. In quel periodo la mia vita è trascorsa tra riunioni di lavoratori di tutta Italia, manifestazioni nazionali, locali, incontri politici, commissioni del consiglio comunale, occupazioni del Campidoglio e di tutti gli assessorati di Roma. Alla fine venni assunta nel gruppo Ama [la nettezza urbana, ndr] che si occupava di scritte vandaliche”.

Ma il posto fisso non rasserena Serenetta: “Dal 2000 al 2005 ho fatto denunce al ministero del Lavoro, Asl, Inail, sui giornali, una querela da parte dell’amministratore delegato e un ricorso con richiesta di risarcimento di 25 mila euro. Risultato: due rinvii a giudizio all’amministratore delegato per inadempienze sulla legge per la sicurezza nei luoghi di lavoro. Mi è stata riconosciuto la malattia professionale: l’utilizzo indiscriminato delle attrezzature mi ha prodotto una sindrome del tunnel carpale a entrambe le mani. Mi sono sparata anche sei mesi di disoccupazione...”

Quanti voti riuscirà a prendere ora Serenetta? Gli stessi Amici di Grillo non nutrono grandi aspettative:“Speriamo di eleggere un rappresentante in consiglio comunale e in ogni municipio”. Cioè appena il 2-3 per cento. Il fenomeno Grillo si è già sgonfiato?

Mauro Suttora

Tuesday, February 26, 2008

Josette Sheeran, un'americana a Roma

JOSETTE SHEERAN, UN’AMERICANA A ROMA PER CONTO DI BUSH

Chi è il nuovo direttore del Pam (Programma alimentare mondiale)

Il Foglio, sabato 23 febbraio 2008

di Mauro Suttora

Una delle eredità positive che George Bush lascerà a fine mandato fra un anno si chiama Josette Sheeran. È una bella signora bionda di 53 anni che da nove mesi si è trasferita a Roma per dirigere il Pam (Programma alimentare mondiale, Wfp nell’acronimo inglese), una delle agenzie più efficienti dell’Onu: vanta appena il sette per cento in costi di struttura.

Una decina digiorni fa la Sheeran ha effettuato la sua prima uscita pubblica in Italia. A Milano, dove, assieme al sindaco Letizia Moratti, al giocatore del Milan Ricardo Kakà e al presidente del Ghana, ha lanciato la campagna “Fill the cup” (riempi la tazza), con cui il Pam incita a donare ogni giorno venti centesimi per sconfiggere la piaga della fame nel mondo. “Venti centesimi garantiscono un pasto caldo a ognuno dei venti milioni di bambini che assistiamo, facendoli anche andare a scuola», ha detto Josette Sheeran.

Quest’anno il Pam fornisce aiuto alimentare a oltre 70 milioni di persone in circa 80 paesi. È il più grande organismo umanitario mondiale. Dalla sede di Roma (vicino a Fiumicino) e dalla base operativa di Brindisi (dove stanno i magazzini con le scorte alimentari, e da dove sono pronti a decollare gli aerei per le emergenze) partono gli aiuti che fanno sopravvivere popolazioni intere. Tutto il Darfur, per esempio, da anni ormai purtroppo dipende totalmente dal Pam.

La Sheeran è la più giovane fra le tre donne attualmente alla guida di un’agenzia Onu. Le altre sono le sessantenni Louise Arbour (la canadese ex pm del tribunale internazionale dell’Aia che quattro anni fa soffiò ad Emma Bonino il posto di Alta commissaria per i diritti umani) e Margaret Chang, una cinese alla testa dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità).

Il suo curriculum è interessante. Tutta la sua vita pubblica, infatti, si svolge a destra. Nel 1975 fece notizia, appena ventunenne. Un anno prima di laurearsi all’università del Colorado finì sul settimanale Time perché suo padre denunciò la setta del reverendo coreano Moon (quella della moglie del vescovo Milingo) per avergli plagiato le tre figlie, fra cui Josette. La quale nella setta Moon c’è rimasta ventidue anni, facendo una gran carriera come giornalista. Approdata al quotidiano moonista conservatore Washington Times nell’82, ne è uscita solo nel ’97 con il grado di managing editor (vicedirettrice). Ha ricevuto una nomination per il premio Pulitzer, del quale è stata poi giurata.

Dieci anni fa la rottura con Moon: Sheeran passa alla chiesa episcopale, e contemporaneamente William Bennett, già ministro reaganiano dell’Istruzione, le offre la presidenza del suo think tank di destra Empower America, che oggi si chiama Freedom Works. Slogan: “Meno stato, meno tasse, più libertà”. Nel ’99, un tuffo a Wall Street: la poliedrica Josette diventa managing director di Tis Worldwide, multinazionale informatica con 1.200 dipendenti.

Un’esperienza manageriale che le torna preziosa quando l’amministrazione Bush la richiama a Washington nel 2001, collocandola in posizione di rilievo al Commercio estero. Lì Sheeran fa la sherpa ai vertici G8, familiarizza con la finanza internazionale e diventa numero due. Nel 2005, infine, l’approdo al Dipartimento di stato: sottosegretaria di Condi Rice per gli Affari economici ed agricoli.

Alla fine del 2006 comincia la corsa per l’ambita poltrona di direttore del Pam, che gestisce un bilancio ragguardevole (due miliardi di dollari annui) con ben undicimila dipendenti sparsi nel mondo. Un potente braccio operativo di cui l’allora ambasciatore Usa all’Onu, il falco neocon John Bolton, reclama la guida per gli Stati Uniti. Siamo alla fine del mandato di Kofi Annan. Per sancire il ritorno alla collaborazione Usa-Onu dopo la guerra d’Iraq, cosa di meglio che nominare una statunitense bushiana nell’agenzia meno burocratica delle Nazioni Unite?

Il disgelo passa quindi per Roma, dove Josette Sheeran approda lo scorso maggio e resterà per altri quattro anni. Ironia della sorte: anche il suo nuovo principale si chiama Moon, ed è coreano: Ban ki Moon, nuovo segretario generale dell’Onu. Lei affronta il nuovo incarico con il consueto entusiasmo americano, adora Roma e ormai in città si sente a casa: in un ristorante di via Margutta ha incontrato per caso David Letterman, che cenava in un tavolo vicino.

Monday, February 25, 2008

I radicali e il Pd

ACCORDO: NOVE PARLAMENTARI E TRE MILIONI DI EURO

di Mauro Suttora

Libero, 22 febbraio 2008

Tre milioni di euro. È l’incredibile cifra che i radicali sono riusciti a strappare a Walter Veltroni in cambio di nulla. Perché se i Democratici non avessero offerto loro nove posti da parlamentare, più questa sontuosa fetta di finanziamento pubblico, i pannelliani sarebbero scomparsi dal parlamento. Impossibile infatti che raggiungano il quattro per cento, quota-ghigliottina per i non apparentati, da soli o magari riesumando la Rosa nel pugno con i socialisti, che due anni fa si fermò mesta al due virgola qualcosa. Oggi i sondaggi unanimi assegnano loro l’uno-due per cento. E nessun altro forno - Berlusconi, Bertinotti - li vuole. Nessuna alternativa, quindi.

Eppure, trattando e lamentandosi, Marco Pannella ed Emma Bonino hanno spuntato condizioni di lusso. Il governo italiano - qualunque governo - dovrebbe nominarli immediatamente plenipotenziari per tutti i negoziati internazionali che aspettano il nostro Paese. Si sono dimostrati più abili di qualsiasi pokerista incallito, trader di Wall Street o vucumprà da spiaggia. Eccezionali.

Pannella, d’altronde, è sempre stato eccezionale. Da quando a quindici anni, nel 1945, comprò la prima copia del giornale di Benedetto Croce, ‘Risorgimento liberale’, e s’innamorò del partito omonimo. Pochi anni dopo lui ed Eugenio Scalfari erano i due galletti più promettenti nel vivaio del Pli. Ma stavano troppo a sinistra per i filo-confindustriali, e allora nel ’55 fondarono il partito radicale. Dopodiché, sono sempre andati a scrocco. Alle politiche si allearono con il Pri, ma presero l’1,4. Nel ’60 si appiccicarono al Psi e andò un po’ meglio: 51 consiglieri comunali radicali eletti in Italia (fra i quali Arnoldo Foà in Campidoglio e Scalfari a Milano, col quadruplo dei voti di un giovane Bettino Craxi).

Poi ci fu un’alleanza a Roma addirittura con i filosovietici dello Psiup: Pannella arrivò terzo ma non fu eletto. La strategia del cuculo funzionò invece nell’89, quando i radicali stabilirono un record mondiale. Riuscirono a candidarsi eurodeputati in ben quattro liste diverse: Pannella con Pri-Pli, Adelaide Aglietta con i verdi, Marco Taradash con gli antiproibizionisti sulla droga. E Giovanni Negri finì nel Psdi, unico non eletto.

Nel ’63 fu il Pci a fare la corte a Pannella, proprio come oggi: Giancarlo Pajetta in persona offrì tre posti da indipendenti di sinistra ai radicali. Ma loro rifiutarono sdegnosamente. Allora se lo potevano permettere, perché nessuno faceva il politico di mestiere: Pannella e Gianfranco Spadaccia erano giornalisti, Angiolo Bandinelli professore, Sergio Stanzani dirigente Iri, Mauro Mellini avvocato.

Oggi, invece, la «baracca» radicale è una piccola multinazionale dei diritti umani con uffici a Bruxelles e New York, una bella sede nel centro di Roma proprio sopra al night Supper club, e un’ottima radio che copre tutta Italia e offre la migliore rassegna stampa ai patiti di politica: quella del direttore Massimo Bordin.

Loro, che si considerano sempre il sale della terra, preferiscono autodefinirsi umilmente “galassia”, e vantano un sacco di associazioni collaterali: da ‘Nessuno tocchi Caino’ che ha appena strappato la moratoria sulle esecuzioni capitali all’Onu alla ‘Luca Coscioni’ che si batte per la libertà della ricerca scientifica e il testamento biologico (caso Welby), dagli ecologisti di ‘Rientro dolce’ agli umanitaristi internazionali di ‘Non c’è pace senza giustizia’.

Il che, molto prosaicamente, vuol dire decine di stipendi che Pannella si trova sul groppone. Ora, grazie a Walter, verranno erogati per altri cinque anni. Quanto a Radio radicale, da decenni riesce nel miracolo di incassare contributi statali sia come organo di partito, sia come emittente super partes delle sedute parlamentari.

Intendiamoci, però: i pannelliani non sono imbroglioni clientelari. La loro radio, per esempio, trasmette con spirito voltairiano convegni e congressi di tutti i partiti. Tanto che, all’ultima assemblea di An, un oratore ha chiesto in extremis la parola a Gianfranco Fini giustificandosi così: «Devo dimostrare a mia moglie in ascolto dalla Sicilia che sono veramente qui».

Nel 1996 fu Berlusconi a trovarsi nei panni di Veltroni. Allora Pannella trattò con lui l’entrata dei radicali nel Polo, chiedendo lo stesso numero di collegi sicuri offerti ai cattolici di Ccd-Cdu. Ma aveva sottovalutato l’abilità di Casini, Mastella e Buttiglione, che alla fine spuntarono cento posti contro i 43 offerti ai radicali. «Non entrerò più nel suk di via dell’Anima!», tuonò Marco, che si vendicò presentando candidati autonomi. Un disastro: nessun deputato, e solo un senatore eletto in Sicilia (Piero Milio) grazie a una desistenza concordata in extremis.

Ammaestrato da quella esperienza, che tenne i radicali fuori da Montecitorio per un decennio, questa volta Pannellik ha bluffato solo fino all’ultimo secondo. Poi i suoi fidatissimi Rita Bernardini e Marco Cappato hanno acchiappato al volo quel che offriva Goffredo Bettini, il generoso (o sprovveduto?) luogotenente di Veltroni, probabilmente anche lui succube del fascino di SuperMarco fin dal ’93, quando assieme architettarono la prima sindacatura romana vincente di Francesco Rutelli.

Chi saranno adesso i nove radicali nel partito democratico? Pro forma è stato convocato un comitato nazionale radicale per il weekend. Però come sempre deciderà Pannella, gran libertario fuori ma leninista all’interno del suo partitino. I due giovani radicali più brillanti, quelli della svolta liberista degli anni Novanta che fruttò l’exploit dell’otto per cento alla lista Bonino nel ’99 (con punte del 15% in alcune città del nord), se ne sono andati con Berlusconi. Benedetto Della Vedova è riuscito a mantenere rapporti cordiali con Marco, mentre con Daniele Capezzone si è passati direttamente dall’amore all’odio. Eppure Pannella è spesso generoso con i suoi. A volte quasi scialacquatore. Due anni fa, per esempio, regalò due seggi che spettavano ai radicali (nell’alleanza con i socialisti) agli ex comunisti Lanfranco Turci e Salvatore Buglio - quest’ultimo unico ex operaio eletto alla Camera.

Molti sono gli ex portaborse radicali che devono essere sistemati. (La definizione non suoni insulto: chi ha portato la borsa a Pannella è destinato a carriere mirabolanti, come Elio Vito in Forza Italia e lo stesso Rutelli). Non ci saranno quindi esterni di lusso, come Leonardo Sciascia, Enzo Tortora o Domenico Modugno. E neanche scandali viventi come Toni Negri o Cicciolina.

Bandinelli, possibile senatore, ha 80 anni come Ciriaco De Mita, ma Veltroni ha un debole per lui: sedettero assieme nel consiglio comunale a Roma di Luigi Petroselli negli anni ’70 (prima carica di Walter). Oggi Bandinelli è un po’ imbarazzato, perché dopo avere scritto sul mitico ‘Mondo’ di Mario Pannunzio negli anni ’50 e ’60 è approdato al ‘Foglio’. Ma la svolta clericale di Giuliano Ferrara lo ha spiazzato, anche se conserva la sua column settimanale in nome della “dissenting opinion”.

Quanto a Pannella, a 78 anni non è un mistero che ambisca a un posto da senatore. A vita, però. Prima o poi, c’è da scommetterlo, riuscirà ad ammaliare anche qualche presidente della Repubblica, che sarà costretto a nominarlo dopo uno sciopero della fame o della sete. Per evitare un’altra bevuta di pipì, come quella che l’incorreggibile inflisse al povero Carlo Azeglio Ciampi nel 2002.

Mauro Suttora

Saturday, February 23, 2008

La fantastica Marianna Madia

di Mauro Suttora

Libero, 23 febbraio 2008

“È urgente ritrovare il tempo delle idee e dell’amore”. C’è una poetessa nel posto di capolista più importante d’Italia per il partito democratico (precederà Walter Veltroni a Roma). Si chiama Marianna Madìa e ha 27 anni. 
Ieri si è presentata ai giornalisti e ha assicurato il suo impegno, oltre che per l’amore come promise Cicciolina vent’anni fa, anche per “fare uno scatto portando la femminilità in settori come l'economia senza inseguire modelli maschili”. 
Infine, la signorina si preoccuperà per “la Terra e il suo stato di salute”. Nientedimenoche. Infatti Marianna ha scoperto che è proprio questo “uno degli elementi di precarietà per le nuove generazioni”.

Altro che precarietà del lavoro: no, non è quella ad angustiare i giovani secondo Marianna. Anche perché lei un posto già ce l’ha. Anzi, tre. Il primo è presso un ente la cui inutilità è direttamente proporzionale alla lunghezza del nome: Segreteria tecnica dell’Osservatorio per la piccola e media impresa del Dipartimento per lo Sviluppo delle Economie Territoriali della Presidenza del Consiglio (uffici in centro a Roma, via della Mercede).

Il secondo lavoro di Marianna è conduttrice Rai: proprio la scorsa notte l’abbiamo potuta ammirare subito dopo Marzullo, come ogni venerdì da ottobre, per una mezz’oretta nel suo programma eCubo. 
Infine Marianna collabora con l’Arel, il centro studi economici democristiano fondato da Beniamino Andreatta.

Insomma, fra una consulenza e l’altra la ragazza appare già bene incistata nella nomenklatura pariolo-democratica: figlia dell’attore Stefano Madia, già consigliere comunale a Roma nella Lista per Veltroni (purtroppo deceduto tre anni fa), è protetta sia dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Enrico Letta (che dell’Arel è segretario generale), sia da Veltroni, il quale si dichiara pazzo di lei: «Marianna ha un’intensità e una luminosità interiore che considero una ricchezza», si è lanciato ieri.
  
Ma l'intensa Madia in fatto di pigmalioni incassa l'en plein: è stato infatti Giovanni Minoli, a sua volta leggendario biraccomandato (Psi come craxiano, Dc come marito della figlia del direttore generale Rai Bernabei), ad affidarle il programma su Raiuno. Lei li ha ringraziati tutti nella conferenza stampa, senza imbarazzo. 

Letta? “Mi ha preso che ero una ragazzina non ero ancora laureata”. Veltroni? “Ha accolto la dote che posso offrire, la mia straordinaria inesperienza”. Minoli? “Maestro di vita e di pensiero”.

Intimoriti da tante iperboli e litoti, ci inchiniamo di fronte alla nuova generazione di politici del centrosinistra. Dopo la conferenza stampa il sito Dagospia ha subito rilanciato un’indiscrezione messa in rete dal perfido blog ‘nullo.ilcannocchiale.it’:
“Nella sua disperata rincorsa dell’antipolitica, Veltroni cerca di contrastare il risentimento contro ‘i soliti noti’ candidando una ragazza qualunque. Peccato però che Marianna Madia Veltroni non l’abbia trovata in fila al supermercato: no, Marianna Madia è la figlia di Stefano Madia. Lei non è solo giovane, donna, figlia di un suo amico morto, collaboratrice di Minoli ed Enrico Letta (a proposito, dalle parti di Letta fanno sapere che la Madia non sarà un loro candidato: ci tengono a dire che è in quota Veltroni). Marianna Madia è anche la ex del figlio del presidente della Repubblica: sembra infatti che la storia con Giulio Napolitano, quarantenne professore di diritto pubblico all’Università della Tuscia, sia finita.”
Questi sono i giovani meritevoli secondo Veltroni. Viva il merito, abbasso le raccomandazioni.
Mauro Suttora 

Wednesday, February 20, 2008

Raoul Bova: nessuno tocchi Caino!

Nel suo nuovo film, che aiuta l'associazione Nessuno Tocchi Caino, l'attore denuncia la barbarie della pena di morte. Perche' l'orrore continua, nonostante la moratoria

di Mauro Suttora

Oggi, 20 febbraio 2008

Dopo aver sbancato i botteghini con il film 'Scusa ma ti chiamo amore', Raoul Bova torna all’impegno politico. Sta finendo di girare un cortometraggio contro la pena di morte. Ha dichiarato Raoul: «Dopo l’approvazione da parte dell’Onu della moratoria internazionale, ritengo che sia importantissimo realizzare un film con forte potenziale civile, capace di offrire a ogni spettatore occasioni di dibattito».

Non è la prima volta che Bova contribuisce in prima persona alla lotta contro la pena capitale, assieme all’associazione «Nessuno tocchi Caino»: «È una questione che mi coinvolge come cittadino e uomo. Su questo tema prediligo film come 'Un condannato a morte è fuggito' di Robert Bresson, 'Porte aperte' di Gianni Amelio, con il quale vorrei tanto lavorare, 'Arrivederci ragazzi' di Louis Malle, 'Dead Man Walking' di Tim Robbins».

Oggi negli Stati Uniti la Corte suprema ha decretato che il metodo dell’iniezione letale è disumano. E per questo le esecuzioni sono ferme da mesi. Erano comunque calate a una sessantina all’anno, quasi tutte nel Texas. Il governo di Washington ha però annunciato di voler chiedere la pena di morte per sei detenuti nel carcere di Guantanamo, accusati di aver partecipato direttamente alle stragi dell’11 settembre 2001.

E nel resto del mondo, a che punto siamo nella lotta contro la pena di morte?
«La risoluzione per la moratoria universale è stata approvata dall’Assemblea generale dell’Onu lo scorso 18 dicembre con 104 voti a favore, 54 contrari e 29 astenuti», spiega a Oggi Elisabetta Zamparutti, dirigente di «Nessuno tocchi Caino». «Prevede, oltre alla richiesta rivolta ai Paesi che ancora praticano la pena di morte di introdurre una moratoria in vista dell’abolizione, un altro punto molto importante: gli Stati devono fornire al segretario generale dell’Onu informazioni sull’uso della pena capitale, per redarre un rapporto sull’attuazione della risoluzione che verrà presentato alla prossima Assemblea generale».

Insomma, la moratoria proclamata dall’Onu è solo un invito, non un obbligo. Per questo la campagna continua: «La richiesta di informazioni è assai importante per gli stati totalitari e illiberali come Cina, Iran o Pakistan, in molti dei quali la pena di morte è segreto di Stato, e che sono responsabili per il 98 per cento delle esecuzioni nel mondo», aggiunge la Zamparutti.

In Cina le stime su quante siano le condanne ogni anno variano di molto: si va dalle quattro alle novemila. «In vista dei Giochi Olimpici in agosto verranno coinvolti atleti perché sostengano la moratoria e l’abolizione del segreto».

Un altro Paese dove le cose non vanno bene è l’Iran. Dopo l’approvazione della moratoria all’Onu il regime degli ayatollah ha addirittura aumentato le esecuzioni, compiacendosi di esibire pubblicamente le macabre impiccagioni dalle gru. Ed è addirittura ritornato in voga, lì come in Arabia Saudita e in altri Paesi islamici, il barbaro costume di lapidare con pietre le donne accusate di adulterio.

In Africa invece le cose procedono piuttosto bene: «In quel continente c’è il maggior numero di Paesi abolizionisti di fatto, ventuno stati su 33 non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni», dice Zamparutti, «quindi la situazione è matura per attuare la moratoria della pena di morte e, in alcuni casi, per abolirla completamente. Quest’anno condurremo una campagna per la moratoria nella Repubblica democratica del Congo e in altri Paesi dove l’evoluzione del processo democratico può portare all’abolizione della pena di morte. In Congo organizzeremo una conferenza a sostegno dell’abolizione, dopo che la pena capitale non è stata contemplata dalla nuova costituzione del 2005 e dopo l’impegno assunto - e mantenuto - dal presidente Joseph Kabila con Emma Bonino a non giustiziare nessuno, neppure gli assassini di suo padre, fino a che sulla questione non si fosse pronunciato il Parlamento.

E per quanto riguarda l’Asia, «Nessuno tocchi Caino» organizzerà un secondo seminario, dopo quello del 2006, in Kazakistan. Lì il presidente Nursultan Nazarbayev nel dicembre 2003 ha introdotto una moratoria sulla pena di morte, fino alla prevista abolizione».

Mauro Suttora

Sant'Egidio, 40 anni di pace

Il compleanno della comunità romana: ecco perché piacciono a papi e popi, Clinton e Bush, destra e sinistra

Oggi, 20 febbraio 2008

Sono fra i pochi sessantottini che hanno fatto sul serio la rivoluzione. E l’hanno pure vinta. I loro coetanei di sinistra, inneggianti a Lenin, Stalin e Mao, oggi sono in gran parte accomodati sulle stesse poltrone delle autorità che allora contestavano. I giovani di Sant’Egidio, invece, nel febbraio 1968 cominciarono ad andare per baraccopoli. Quella accanto all’ex cinodromo dell’Ostiense, per esempio, dove fondarono la loro prima «scuola popolare». Davano ripetizioni e insegnavano a leggere e scrivere ai poveri.

«Volevamo anche noi fare la rivoluzione», ricorda Mario Marazziti, 55 anni, dirigente Rai, «ma senza violenza. Nel nome di Gesù, con lo spirito dei primi cristiani, di San Francesco e del Concilio Vaticano II». Erano giovani «bene», abitavano nei quartieri della ottima borghesia (per esempio, Andrea Riccardi, oggi 57enne professore universitario di storia, era figlio del presidente di una banca e frequentava il liceo Virgilio). La loro ricetta era semplice: «Per cambiare il mondo bisogna cambiare se stessi», dice Riccardi.

Hanno fatto entrambe le cose, in questi quarant’anni. E continuano a lavorare: nessuno ha ridotto la politica, la carità o il volontariato a mestiere a tempo pieno. Nelle ore libere e con i propri soldi aiutano ancora i poveri di Roma (che non sono più i «borgatari», ma gli immigrati; danno loro da mangiare gratis nella mensa di via Dandolo). Ma si sono allargati al mondo intero: oggi sono cinquantamila, presenti in 70 Paesi.

Nel 1992 hanno fatto fare la pace dopo decenni di guerriglia ai mozambicani. Idem in Guatemala quattro anni dopo. Hanno provato e non ci sono riusciti in Algeria. Hanno aiutato i kosovari nel ’98. Hanno raccolto milioni di firme contro la pena di morte e due mesi fa sono riusciti a far approvare la moratoria all’Onu. Ma essi stessi si sono trasformati in una piccola Onu, grazie alle loro capacità di mediatori («costruttori di pace», come dice il Vangelo): «Le Nazioni Unite di Trastevere», scherzano.

Il miracolo americano

Hanno messo d’accordo non solo militari e guerriglieri del Terzo mondo, ma anche democratici e repubblicani degli Stati Uniti. Li ha lodati sia Madeleine Albright, ministra degli Esteri di Bill Clinton, sia il presidente George Bush, che ha voluto incontrarli a Roma l’anno scorso.

Quanto alla religione, sono ormai ventun anni che organizzano i principali vertici ecumenici del mondo, cui partecipano papi cattolici, popi ortodossi, pastori protestanti, rabbini ebraici, lama buddisti e imam musulmani. Sono diventati i beniamini di papa Wojtyla fin dal loro primo incontro, nel ’79. E il feeling continua con Papa Ratzinger, che pochi mesi fa ha partecipato a un loro megaraduno a Napoli.

All’inizio qualche monsignore di curia storceva un po’ il naso: chi sono questi ragazzotti che pretendono di fare concorrenza alle millenarie doti diplomatiche del Vaticano? Che si limitino ad assistere i barboni a Roma e i malati di Aids in Africa, che alle cose serie pensiamo noi.

Oggi, invece, la messa solenne per il loro quarantesimo compleanno l’ha voluta celebrare il segretario di Stato in persona, il cardinale Tarcisio Bertone. In prima fila c’erano politici di destra e sinistra: Gianni Letta e Rocco Buttiglione, Walter Veltroni e Francesco Rutelli, Piero Fassino e Romano Prodi. Il numero due del Vaticano ha divertito tutti citando Woody Allen addirittura in omelia: «Marx è morto, Dio sta male e neppure io mi sento troppo bene...»

Sulla porticina della loro sede, convento di suore di clausura fino al 1970, non c’è neppure una targa. Piazza Sant’Egidio ogni sera si trasforma in un carnevale a cielo aperto come tutta Trastevere, con studenti di tutto il mondo che si ubriacano di birra. Ma basta suonare il campanello e si entra in un altro mondo: chiostri, cortili e silenzi.

Mi accoglie un distinto portinaio di mezza età. Scoprirò che anche lui è docente universitario: come tutti fa il volontario a turno durante le ore di tempo libero. «Il nostro bilancio annuale ufficiale è di 20 milioni di euro», mi spiega Marazziti, «ma calcolando il valore di tutta l’attività gratuita dei nostri aderenti nel mondo questa cifra si decuplica. Quasi tutti i nostri dirigenti che vanno in Africa, per esempio, usufruiscono di ferie o aspettative non retribuite, e si pagano le spese di viaggio».

Donazioni a buon fine

Solo un terzo di quei venti milioni proviene da aiuti pubblici. Tutto il resto sono donazioni private. Così Sant’Egidio evita la disgrazia che purtroppo colpisce molti enti benefici e ong (organizzazioni non governative): la burocrazia. «Le spese di struttura sono del 4 per cento», assicura Marazziti. Insomma, 96 euro su cento dati a Sant’Egidio finiscono direttamente ai bisognosi. «Il vertice dei Paesi africani ad Abuja nel 2006 ha decretato che i due programmi anti-Aids più efficienti sono il nostro e quello della fondazione di Bill Gates».

All’inizio il gruppo di Sant’Egidio gravitava attorno a Comunione e liberazione. Fu in quel periodo che Buttiglione si avvicinò a loro. Poi, negli anni ’70, veniva assimilato alle comunità di base e ai cristiani del dissenso (contrari al referendum sul divorzio voluto dalle gerarchie vaticane). Cattocomunisti, insomma. Negli anni ’80, pacifisti. E nel 2003, contrari alla guerra in Iraq. Ma Riccardi, Marazziti e oggi il presidente Marco Impagliazzo sono riusciti sempre a sfuggire alle etichette ideologiche, grazie al loro impegno concreto: il servizio ai poveri.

Il primo prete che li accolse in una parrocchia romana, don Vincenzo Paglia, è diventato vescovo di Terni. Di Riccardi si sussurra addirittura un incarico da ministro degli Esteri in un ipotetico governo Veltroni. Ma per ora la misura del successo della loro rivoluzione nonviolenta sta nel trasloco che ha dovuto effettuare la loro preghiera comunitaria (ogni sera alle 20.30, il sabato Messa): dalla chiesetta di Sant’Egidio alla vicina basilica di Santa Maria in Trastevere. Per mancanza di spazio.

Mauro Suttora

riquadro:

LA DIPLOMAZIA DEI POVERI

Sono passati quindici anni, ma nel palazzo della Farnesina se lo ricordano ancora quel giorno del 1992, quando nei corridoi felpati del ministero degli Esteri irruppe una folla festante per celebrare l’accordo di pace fra governo del Mozambico e guerriglieri. Nella foto qui sopra si vede l’allora ministro degli Esteri Emilio Colombo fra i due firmatari, ma a destra in prima fila ad applaudire c’era anche Mario Marazziti della comunità di Sant’Egidio, la vera artefice delle trattative.

Grazie ai suoi numerosi contatti nei Paesi del Terzo mondo e alla fiducia conquistata con le opere di solidarietà, Sant’Egidio ha provato spesso a mediare fra le parti di guerre e guerriglie che devastano molti Paesi. Un altro successo c’è stato nel ‘96 in Guatemala, mentre in Algeria i tentativi sono stati infruttuosi. Non sempre questa «diplomazia parallela» viene apprezzata dagli ambasciatori di professione, alcuni dei quali considerano i volontari di Sant’Egidio come dei dilettanti allo sbaraglio. Ma i risultati ci sono stati, ed è questo quello che conta.

«La guerra è la “madre di tutte le povertà”», spiegano loro, «perché distrugge l’impegno umanitario per il futuro di interi popoli. La guerra è anche assenza di ogni giustizia, come si vede in tanti Paesi dove il conflitto rende impossibile la difesa dei diritti umani basilari».

Mauro Suttora

Monday, January 21, 2008

Mister Prezzi

ANTONIO LIROSI SORVEGLIA L'INFLAZIONE

di Mauro Suttora

Roma, 30 gennaio 2008

Caro «mister Prezzi», la metto subito alla prova. Il parcheggio di Villa Borghese, qua vicino, ha appena aumentato del 23 per cento l’abbonamento mensile per i residenti: da 135 a 165 euro. Un po’ tanto, anche perché un anno fa c’era già stato un aumento dell’otto per cento. Le sembra giusto?
«I prezzi dei parcheggi sono regolamentati dai Comuni che li danno in concessione».

Quindi dobbiamo protestare con il Comune di Roma?
«Esatto».

Beh, viva la sincerità. Inutile promettere interventi che non si possono fare. Antonio Lirosi, 47 anni, di Polistena (Reggio Calabria), dirigente al ministero dello Sviluppo economico, è stato appena nominato Garante per la sorveglianza dei prezzi dal premier Romano Prodi. Precisa che la sua non sarà l’ennesima Authority, carrozzone burocratico aggiunto al pesante apparato per dare l’impressione di risolvere qualche problema.
«Il mio è un incarico non retribuito e a tempo. Tre anni per fare quattro cose. Primo, creare un sistema di sorveglianza sui prezzi che ci permetta di individuare i fenomeni speculativi in tempo reale. E qui servono le segnalazioni dei cittadini. Ogni Camera di commercio nei capoluoghi di provincia avrà un ufficio prezzi che raccoglierà per telefono, con numeri verdi ed e-mail, le denunce dei consumatori».

Però i governi non hanno potere sui prezzi. Siamo in un libero mercato, quindi ogni commerciante propone i prezzi che vuole.
«Sì, ma dopo avere effettuato una prima verifica sulle lamentele, noi possiamo fare tre cose: mandare la Guardia di finanza in ispezione, segnalare all’Antitrust violazioni della concorrenza come i “cartelli” per tenere alti i prezzi, e infine possiamo rivolgerci direttamente a chi pratica prezzi che si discostano troppo dalle rilevazioni ufficiali».

E che cosa gli dite?
«Qui entriamo nel nostro secondo compito: persuasione e deterrenza. Possiamo scoraggiare comportamenti sul nascere convocando le imprese».

Come fa il ministro dello Sviluppo economico Bersani quando i petrolieri aumentano il prezzo della benzina?
«Esatto. Osservando l’andamento europeo dei prezzi, è facile constatare un divario fra l’Italia e gli altri Paesi proprio in coincidenza degli esodi di agosto e di Natale».

Insomma, i petrolieri fanno i «furbetti» e con la scusa degli sceicchi ci aggiungono qualcosa pure loro.
«Guardi, tutti vorremmo tornare a un anno fa, col petrolio a 50 dollari al barile rispetto ai 100 attuali. Contro l’inflazione importata siamo impotenti: evitiamo almeno di farci più male da soli».

I petrolieri obiettano che in realtà è lo Stato quello che si arricchisce di più grazie agli aumenti dei carburanti, visto che li tassa al 60 per cento.
«Gli aumenti saranno defiscalizzati: non si pagheranno più accise né Iva».

Riuscirete a «raffreddare» anche gli altri prezzi? Con i costi internazionali di materie prime come il grano in aumento, ormai la nostra inflazione sfiora il tre per cento.
«Effettueremo pressione e controllo sociale sulle categorie, promuovendo accordi fra le associazioni delle imprese e dei consumatori. È la nostra terza arma: coordinamento e confronto».

Le dico un nome: Vespasiano.
«L’imperatore che emanò il primo editto sui prezzi?»

Appunto. Fallito, come tutti i calmieri della storia.
«Se è per questo, oggi siamo ancora più esposti alle fluttuazioni dei prezzi mondiali. Quando cinesi e indiani mangiano, bevono e consumano di più, le materie prime scarseggiano e quindi il loro costa aumenta. Ma l’unico modo per abbassare i prezzi è la concorrenza, quindi maggiori liberalizzazioni. Combattiamo il carovita con l’apertura dei negozi la domenica e l’allungamento degli orari».

È questa la vostra quarta arma?
«No. Il quarto obiettivo è la valorizzazione delle buone pratiche. Cioè premiare le iniziative di chi abbassa i prezzi. Pubblicheremo “liste bianche”, offrendo visibilità e promozione ai virtuosi».

Come?
«Con comunicati, campagne, segnalazioni sul nostro sito www.osservaprezzi.it».

Ha un modello estero cui ispirarsi?
«Il sorvegliante dei prezzi in Svizzera. Non fa parte dell’Unione europea, quindi ha più spazio d’intervento. Ma ha ottenuto risultati soprattutto sui prezzi “amministrati”».
Auguri, Mister Prezzi. Speriamo che da questo suo ufficio all’angolo di via Veneto riesca a essere il nostro miglior alleato.

Antonio Longo, presidente del Movimento difesa del cittadino, commenta così la sua nomina: «Lirosi, grazie alla sua esperienza nella tutela dei consumatori, è la persona giusta per questo incarico. Dobbiamo però evitare la dispersione delle risorse in decine di osservatori dei prezzi a volte inefficienti e spesso clientelari. E occorre che la figura di mister Prezzi sia dotata di forti poteri sanzionatori con efficacia immediata, che possano anche sostituirsi ad altri soggetti inefficienti (enti locali, Camere di commercio), arrivando fino alla sospensione o revoca di licenze e autorizzazioni nei casi più gravi».
Come l’incredibile aumento del 32 per cento in soli dodici mesi per il parcheggio romano di Villa Borghese imposto dalla società privata Saba-Abertis. Ma autorizzato dal Comune di Roma.


riquadro: IL MISTER PREZZI SVIZZERO

Viene dall’Emmental, il «Preisüberwacher» (Sorvegliante dei prezzi) svizzero. Rudolph Strahm è nato nella valle dell’Emmen (Emmental, appunto) 64 anni fa, si è diplomato chimico e laureato in economia, e dopo undici anni da deputato socialista nel 2004 è diventato il primo «mister Prezzi» della Svizzera. Fra pochi mesi lascerà il suo incarico (i politici elvetici vanno in pensione a 65 anni).

Niente aumenti postali.
La sua ultima impresa: è riuscito a fermare gli aumenti delle tariffe che le Poste svizzere volevano far scattare dal primo gennaio 2008. Le decisioni dell’anno scorso riguardano fra l’altro le tariffe elettriche e i biglietti del cinema (più costosi che in Germania e Francia, ma dei quali Strahm non ha imposto la diminuzione).

Mediazione sulla sanità.
In una disputa fra le assicurazioni sanitarie private (obbligatorie) e gli ospedali del cantone di Vaud il mister Prezzi ha fatto da mediatore. E ha approvato l’aumento del tre per cento dei biglietti ferroviari dal 9 dicembre 2007, escludendo però i supplementi per le linee a lunga percorrenza.

Mauro Suttora

Friday, January 18, 2008

Il vescovo Milingo torna a Roma

"I sacerdoti devono potersi sposare"

Roma, 16 gennaio 2007

Paura e fastidio in Vaticano: Milingo è tornato a Roma. L’arcivescovo africano 7 anni fa stupì il mondo sposandosi con l’agopunturista coreana Maria Sung in una cerimonia della setta Moon. Dopo tre mesi e un colloquio con Papa Giovanni Paolo II si pentì. Fu riaccolto nella Chiesa cattolica, ma due anni fa è di nuovo fuggito da Zagarolo verso l’America dove si è rimesso con Maria, ha fondato un’associazione di sacerdoti sposati (150 mila nel mondo secondo lui, 60 mila per il Vaticano) e ne ha addirittura nominato vescovi quattro.

Milingo è venuto in Italia per presentare il libro Confessioni di uno scomunicato (edizioni Koiné), scritto con la giornalista Raffaella Rosa. Avrebbe dovuto partecipare a Buona Domenica su Canale 5, ma l’intervista è stata annullata all’ultimo momento. Avrebbe voluto comunicarsi al santuario di Pompei, ma il prete che celebrava la messa gli ha negato la comunione.

L’irritazione del Vaticano è palpabile. Milingo ha trascorso gran parte del 2007 nei due Paesi dove è maggiore il numero di preti sposati: Stati Uniti, dove sono 25 mila, e Brasile. Quest’ultimo potrebbe rivelarsi fertile alla sua predicazione, perché lì i cattolici stanno perdendo terreno in favore degli evangelici. Ecco una sintesi del Milingo-pensiero tratta dal suo libro.

Monsignore, perché ha fondato l’associazione Married Priests Now! (Preti sposati adesso)?
«La vita dei sacerdoti sposati è dura. La condanna della Chiesa pesa come un macigno, perché vengono visti come lebbrosi. (...) Invece sono una risorsa preziosa: per questo bisogna trovare il modo per riconciliare la madre Chiesa con i suoi figli che hanno accettato la chiamata di Dio a servire, ma hanno anche scelto di formare una famiglia».

Perché la Chiesa dovrebbe abolire il celibato obbligatorio per i propri sacerdoti?
«La missione che ho intrapreso non è una questione personale. È ora che la Chiesa rifletta su cosa fare per tornare al 1100, quando venne imposto l’obbligo del celibato. Non c’è alcuna connessione divina fra sacerdozio e celibato, la storia della Chiesa lo dimostra: i preti potevano sposarsi prima dell’introduzione di questa norma. Nei primi secoli si sposavano anche i vescovi. Ci sono stati ben trentanove papi sposati e con figli. Il celibato è stato reso obbligatorio solo nel XII secolo. È diritto di ogni essere umano potersi sposare, e questo diritto dev’essere restituito ai preti. Dal celibato obbligatorio vengono molti peccati come il concubinato e i figli illegittimi. Ma si tratta di un precetto, non di un dogma. L’errore è che la Chiesa lega il celibato al sacerdozio. Ma perderà, se continua su questa strada».

Perché la Chiesa non permette ai sacerdoti sposati di continuare il loro servizio?
«La Chiesa li abbandona, invece dovrebbe essere come una madre che accetta il figlio anche se è disabile. Durante la guerra si fa di tutto per salvare i soldati feriti. La Chiesa, al contrario, non cura i propri sacerdoti feriti, ma li getta nel mondo. Dov’è finito il suo amore materno? Li tratta come il gatto fa con il topo: non lo uccide subito, ma lo paralizza, e ci gioca fino a ucciderlo».

Il Vaticano ha provato a mettersi in contatto con lei?
«Erano venuti da Roma fino a Washington per riportarmi indietro. Alcuni prelati del Vaticano si erano praticamente stabiliti sotto casa mia pur di incontrarmi e convincermi a tornare con loro in Italia».

”NON MI HANNO PLAGIATO”

C’è chi pensa che lei abbia subìto un lavaggio del cervello o che sia stato drogato.
«Sembro uno che ha subito il lavaggio cerebrale? Una persona plagiata può parlare in questo modo? Non sono stato drogato, ragiono benissimo. Anche in questo mio nuovo progetto conservo e obbedisco a tutti i dogmi della Chiesa, mi ispiro ai testi dei padri e agli Atti degli Apostoli. Non accetto solo il celibato obbligatorio, che non ha dato i frutti sperati».

Ma consacrando i vescovi ha provocato uno scisma.
«Non provocherei mai uno scisma, perché sono profondamente cattolico, dalla punta dei piedi ai capelli. Noi crediamo profondamente nella Chiesa cattolica. Il celibato non è un elemento costitutivo del sacerdozio, è una regola medievale, un’eccezione che il Papa può eliminare senza neppure convocare un Concilio. E sappiamo che questo avverrà, forse dopo la nostra morte».

Lei, quindi, non si considera uno scomunicato.
«Assolutamente no. Il Vaticano non ha motivo di scomunicare chi vive la vera tradizione ecclesiastica. Gli apostoli erano sposati».

Come ha vissuto i cinque anni lontano da Maria?
«Ho sofferto quando mi hanno costretto a lasciarla. Ma la mia esperienza del matrimonio e la forza che ho accumulato in questo periodo di sofferenza mi hanno portato a fondare Married Priests Now!»

Che cos’ha di speciale Maria? Perché ha scelto proprio lei?
«Non ho sposato Maria perché l’ho scelta in mezzo ad altre donne. Credo che anche per le persone anziane come me, Dio abbia creato un’anima gemella che può trovarsi in qualunque posto del mondo. Quindi non ho scelto Maria perché ha qualcosa di speciale, ma perché è la persona che il Signore ha previsto per me».

Oggi lei vive insieme a Maria. Com’è cambiata la sua vita?
«Maria non ha cambiato la mia vita come sacerdote e come cristiano. Tutte le mattine mi sveglio alle 4 per dire il breviario, poi faccio tre rosari, mi dedico un po’ alla meditazione e alle 7 celebro la messa. Dopo la colazione, rispondo alle numerose e-mail che ricevo da parte dei sacerdoti sposati. La mia vita è sempre la stessa».

Negli anni di separazione era rimasto in contatto con lei?
«No, non era possibile. Ero sempre scortato da qualcuno, ovunque andassi vedevano l’ombra di Maria».

In che lingua comunicate?
«In italiano, perché lei ha vissuto in Italia diversi anni. Io mi sforzo di imparare qualcosa in coreano».

Mauro Suttora

Thursday, January 10, 2008

Benazir Bhutto

Dopo l'assassinio dei Lady Pakistan

Islamabad, 9 gennaio 2008

Non era una santa, Benazir Bhutto. Intelligente, bella, carismatica e soprattutto dotata di una volontà di ferro. Ma entrambe le volte che aveva governato il Pakistan, dal 1988 al 1990, e poi dal ’93 al ’96, aveva dovuto abbandonare il potere accusata di corruzione.

«Sono tutte macchinazioni dei miei avversari politici, le accuse si basano su documenti falsificati», ha sempre giurato lei. Il problema è che i giudici non le hanno creduto. E non quelli pakistani, ma quelli svizzeri, che nel 2003 hanno condannato lei e il marito Asif Zardari, 51 anni (tre anni meno di Benazir) a sei mesi con la condizionale, per avere riciclato nelle banche elvetiche 11 milioni di dollari.

E il povero marito, che ora di salute non se la passa per niente bene fra diabete e infarti, e si sta curando nella loro casa di Manhattan, si è fatto ben undici anni di carcere in Pakistan con accuse tremende: dal ricatto alla corruzione, fino ad aver fatto assassinare il cognato Murtaza Bhutto nel ’96. «Mister dieci per cento», lo avevano soprannominato, riferendosi alla percentuale che pare esigesse sulle commesse pubbliche, soprattutto nel periodo in cui Benazir ebbe la sciagurata idea di nominarlo ministro (dell’Ambiente).

Ma nonostante tutte queste traversie, la Bhutto era adorata dai suoi sostenitori, e avrebbe sicuramente vinto le elezioni dell’8 gennaio. Perché per i pakistani la famiglia Bhutto è un mito che fa ancora presa.

Un padre fantastico

Zulfikar Alì Bhutto, padre di Benazir, incarna infatti l’unico periodo d’oro nella storia del Pakistan, nazione sfortunata che non possiede neppure un nome. «Pakistan», infatti, è una denominazione artificiale inventata da uno studente nazionalista a Oxford nel 1933, quando assieme all’India faceva ancora parte dell’impero britannico.
P per Punjab, A per Afghania, K per Kashmir, S per Sindh, e Tan per Belucistan, ovvero le regioni islamiche dell’India che volevano l’indipendenza, ma non assieme agli hindu di Gandhi. Il Pakistan è nato con una guerra (contro l’India nel ’47, appunto) ed è poi sempre stato in guerra, o contro l’India per il possesso del Kashmir, o contro il Bangladesh quando nel ’71 ci fu la secessione, o contro se stesso: i militari infatti hanno sospeso la democrazia per ben tredici volte in sessant’anni, con le motivazioni più varie. L’ultima, assai seria, quando dal 1999 l’attuale presidente, generale Pervez Musharraf, ha dovuto fronteggiare la minaccia fondamentalista.

Come i Gandhi in India

L’unica parentesi di governo civile e di benessere economico fu appunto quella di Alì Bhutto, che arrivò al potere all’inizio degli Anni 70 dopo la perdita del Bangladesh, e lo tenne fino al 1976, quando fu cacciato dal generale Zia Ul-Haq. Tre anni dopo Zia lo fece impiccare. Qualche ora prima dell’esecuzione, nel suo ultimo incontro col padre, Benazir gli promise che, come nella dinastia Gandhi in India, lei avrebbe raccolto la fiaccola della sua eredità politica.

Fino ad allora Benazir era solo una studentessa mandata dalla propria ricchissima famiglia a studiare all’estero: prima negli Stati Uniti, con laurea ad Harvard, e poi in Inghilterra, a Oxford. Dopo ben cinque anni di arresti domiciliari, il dittatore Zia le permette di emigrare a Londra. Ma quando l’assassino di suo padre muore, lei torna e viene eletta premier. È il 1988. Nel frattempo l’energica madre Nusrat le impone di sposare il capotribù Zardari, perché gli islamici non avrebbero mai votato una donna non sposata. Lei per un po’ resiste, tanto da venire soprannominata «vergine di ferro», poi cede. La coppia avrà tre figli.

Tutto si gioca lì

Il terzo ritorno in patria stava per regalarle la terza trionfale elezione. Ma il suo assassinio ha bloccato le speranze di chi contava su di lei per sconfiggere gli estremisti islamici.
«Tutto si gioca in Pakistan», dice a Oggi Mario Arpino, presidente Vitrociset (azienda di sistemi elettronici e avionici) e già capo di stato maggiore della Difesa, «perché l’obiettivo principale di Al Qaeda è oggi quello di impadronirsi della bomba atomica, e il Pakistan è l’unico stato islamico ad averla».
Che succederà adesso? «Noi occidentali non dobbiamo cedere alla tentazione di far coincidere la democrazia con le elezioni», avverte Arpino. «Non diamo quindi troppo addosso a Musharraf, che tutto sommato è amico dell’Occidente».

Mauro Suttora

Thursday, December 20, 2007

La casta non si mette a dieta

Avevano promesso di tagliare gli sprechi. L'hanno fatto?
Dopo tanti annunci, i politici hanno concluso poco. I risparmi rimangono una promessa, i tagli ai superstipendi subiscono troppe eccezioni. Anzi, molte spese crescono

di Mauro Suttora

Oggi, 26 dicembre 2007

Avevano promesso che avrebbero tagliato i costi della «Casta». Invece, facendo un bilancio di fine anno, poco o nulla è cambiato. Anzi, in alcuni casi gli sprechi dei politici sono addirittura aumentati.

«Cosa vuole che le dica? Qui in Parlamento le lobbies hanno sfondato», allarga le braccia sconsolato Massimo Villone, il senatore che due anni fa ha scritto assieme al collega Cesare Salvi (entrambi ex Ds, ora Sinistra democratica) il libro 'Il costo della democrazia', dando il via alla rivolta contro gli eccessi della nomenklatura. «L’unico nostro emendamento accolto in pieno è quello che riduce a dodici i ministri e a sessanta i membri del governo, contro gli attuali 102». Ottima cosa, ma la legge Bassanini da anni imponeva un dimagrimento.

Contro le altre due proposte di Villone e Salvi per la legge finanziaria appena approvata (riduzione spese per Camera, Senato, Quirinale e Corte costituzionale, e tetto ai superstipendi pubblici) si è alzato un fuoco di sbarramento. «Abbiamo ottenuto solo un impegno», spiega Villone, «da parte di Presidenza della Repubblica e Corte costituzionale a non aumentare le spese oltre l’inflazione programmata».

Il Quirinale però quest’anno ha speso 241 milioni di euro contro i 224 preventivati. Già quella cifra, sbertucciata nel libro 'La casta' di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, aveva suscitato indignazione: è il quadruplo di Buckingham Palace. Ma i duemila dipendenti hanno avuto aumenti perché i loro stipendi sono collegati a quelli del Senato. E anche per i prossimi tre anni sono previsti incrementi di oltre il due per cento.

Stesso discorso per la Camera dei deputati: quest’anno ci è costata un miliardo e 200 milioni di euro, il 2,4% in più del 2006. I rimborsi ai deputati, rivela il radicale Sergio D’Elia, sono addirittura raddoppiati rispetto all’anno scorso: 300 mila euro contro 185 mila. Le spese di viaggio degli onorevoli sono aumentate del 25%. Ma anche gli ex hanno diritto a sconti per tutta la vita, e quest’anno sono ammontati a un milione e 250 mila euro.

Unica sforbiciata: le pensioni dei parlamentari. Ora ci vorranno almeno due legislature per ottenerle. Ma anche qui c’è il trucco: solo quelle future. Chi è andato già in pensione può stare tranquillo, anche i deputati rimasti in carica solo un giorno che pigliano duemila euro al mese.

L’ultimo emendamento Salvi-Villone stabiliva un tetto di 274 mila euro per tutti gli stipendi pubblici. «È il compenso annuo del primo presidente di Corte di Cassazione», spiega Villone, «e viste le retribuzioni da fame di insegnanti e poliziotti ci pareva il minimo per ristabilire un po’ di equità». Più di diecimila euro netti al mese non sembra effettivamente poco, neppure per i dirigenti più alti.

Eppure, anche qui la Casta si è scatenata. Prima hanno imposto che il tetto non si applichi ai contratti di tipo privatistico già in essere. Poi sono stati esentati gli «artisti» Rai, con la scusa che altrimenti fuggirebbero tutti a Mediaset. Poi hanno ottenuto la grazia la Banca d’Italia e le «authorities» (antitust, comunicazioni, privacy, energia, ecc), proliferate negli ultimi anni al di là di ogni necessità, che assicurano ai fortunati assunti stipendi tripli rispetto a quelli dei poveri ministeriali.

Ancora: per proteggere proprio tutti, il governo ha ottenuto 25 «eccezioni» da applicare agli stipendi scandalosamente alti (alcuni esempi nella tabella nella pagina accanto). Così si potranno mantenere vistose incongruenze, come la retribuzione doppia del capo della Polizia (650 mila euro annui) rispetto al comandante dei Carabinieri (380 mila euro), nonostante le uguali responsabilità.

Infine, chi cumula vari incarichi (abitudine diffusissima nella Casta parastatale romana) vedrà la sua attuale retribuzione ridursi soltanto del 25 per cento annuo, fino a rientrare nel «tetto».

Ma il malcostume degli stipendi d’oro non è una prerogativa di Roma: l’avviso di garanzia e la richiesta di rimborso della Corte dei Conti arrivati al sindaco di Milano Letizia Moratti per le retribuzioni da 250 mila euro e oltre distribuiti ai propri dirigenti e consulenti dimostra che in tutta Italia ci si arricchisce a spese dei contribuenti.

Comunità montane e province si sono salvate, eppure molti le considerano enti inutili. Verranno solo tagliati un po’ di consiglieri, ma dal 2010. È sparito il limite altimetrico di 500 metri per essere considerati comuni di montagna: così rientrano Domodossola, Susa, Lanzo, Feltre, Vallombrosa.

Quanto alle Regioni, «il loro diritto allo spreco è costituzionalmente garantito», ironizza Villone: governo e Parlamento non possono toccarle, è ciascuna di loro a dover diminuire spese e posti. Campa cavallo. E anche per il taglio dei 950 parlamentari (gli Usa, con il quintuplo dei nostri abitanti, ne hanno 535) occorre una legge costituzionale, con tempi lunghissimi.

«Ormai, fra stipendiati e consulenti, in Italia campa di politica mezzo milione di persone», denuncia Villone. I consiglieri comunali strepitano contro l’intenzione di ridurre i loro stipendi mensili da 2.000 a 1.500 euro: «Perché non tagliate prima quelli dei consiglieri regionali, che arrivano a 14 mila euro?».
Dimenticano che fino a quindici anni fa quella di consigliere comunale non era una professione, ma un onore (e un onere) civico, che si espletava per una o due sere alla settimana in cambio di un semplice gettone di presenza da 50 mila lire. E le nostre città non erano governate peggio.

Insomma, dopo tanti annunci sui tagli agli sprechi, di concreto è stato fatto poco. Del disegno di legge Santagata si sono perse le tracce. Il decreto Lanzillotta limita a tre i consiglieri d’amministrazione nelle società a partecipazione pubblica. Ma anche qui una vasta esenzione: le società con più di due milioni di capitale possono averne cinque.

Sarà forse per questo che ora Beppe Grillo raccoglie un 57 per cento di simpatie, contro il 49% per Fini, il 48 per Veltroni, il 39 per Berlusconi e appena il 29 per Prodi. E che il libro La casta continua a vendere: ormai ha raggiunto un milione e 200 mila copie. Nessun saggio in Italia, neanche quelli di Oriana Fallaci o dei papi, ha mai ottenuto tanto successo in così poco tempo. Ora si è aggiunto anche 'Sprecopoli' di Mario Cervi e Nicola Porro. Ma i politici di professione sembrano non essersi ancora accorti che il vento è cambiato.

Mauro Suttora