Wednesday, October 25, 2006

Il Foglio anticipa 'No Sex in the City'

Pubblichiamo un brano tratto dal libro “No Sex in the City, avventure e amori di un italiano a New York” di Mauro Suttora, edizioni Cairo (Milano, 2006), in libreria da questa settimana.

LE DIVE DEL JET LAG

Dialogo incorrect nell’Upper Side newyorkese, dove tutte le donne (tranne una) si sentono belle e famose solo perché sanno allacciarsi la cintura in aereo

IL FOGLIO SABATO 14 OTTOBRE 2006, pag. VIII

di Mauro Suttora

Il principale problema nella vita dei genitori di Marsha, la mia fidanzata americana, sono i viaggi dal loro attico sulla Lexington avenue di Manhattan alla villa dei weekend a Easthampton, Long Island. Poiché le corsie riservate ai miliardari non sono state ancora inventate, anche loro quando si spostano in limousine nera Lincoln con lo chauffeur rimangono imbottigliati in autostrada come tutti. L’alternativa ci sarebbe: “Prendiamoci l’elicottero, cara”, esclama il mio probabile suocero durante un sofferto viaggio per il quale ci hanno offerto un passaggio.

Siamo bloccati in coda a Queens da mezz’ora.
”Come dici? Vuoi comprare un elicottero?”, domanda lei al marito abbastanza estraniato. Nonostante abbia solo 60 anni, lui passa il tempo a giocare a golf in giro per il mondo: estati in quel campo famoso scozzese, inverni a Palm Beach in Florida. Ormai si entusiasma soltanto per gli ‘hole-in-one’, buche con un colpo solo.
”Possiamo affittarlo”.
“Affittare l’elicottero?”, strepita la moglie, irrequieta. “Cosa vuoi dire, per tutta la stagione o volta per volta?”.
"Un leasing per l’estate intera non conviene, ci costerebbe quasi quanto comprarlo. E poi dove lo parcheggiamo? No, volta per volta”.

Quel che il padre di Marsha non osa confessare alla moglie è che sì, lui è ricco con molte case in giro per il mondo (New York, Los Angeles, Florida, Londra), ma non tanto da potersi permettere anche un elicottero. Per non parlare dell’aereo privato all’aeroporto di Teterboro, nel New Jersey (quello da cui partì il povero John Kennedy junior prima di precipitare nel ’99).

A Marsha piace fregiarsi del titolo di “Teterboro girl”, le ragazze del jet set così chiamate perché volano sui jet personali di famiglia, o dei mariti, o degli amici. Ma in realtà il suo è un bluff: quando butta lì “L’altro giorno tornavo da Aspen con un Gulfstream”, si riferisce all’aereo dell’amante di una sua amica molto bella e un po’ zoccola (praticamente una mantenuta, cui lui ha regalato una lussuosa garçonnière a Madison avenue).
Insomma, i genitori di Marsha sono ricchissimi ma si sentono poveri perché non possono permettersi l’elicottero privato.
Nell’Upper east side le vittime di questa situazione spiacevole vengono descritte così: “Sono nelle decine, ma non nelle centinaia” (di milioni di dollari, sottinteso). E’ una caratteristica che di solito si accoppia a quella di “essere fra i sessanta e settanta”, intesi come numero delle strade dove abitano - sono gli isolati più ambiti – ma anche come
l’età attuale di chi ci vive in prevalenza, e i decenni che invece videro il loro splendore.

"Però non credere che basti dire ‘I live on East 65 Street’ per poter esibire un indirizzo prestigioso”, mi avverte molto compresa Marsha, mentre mi inizia ai piccoli misteri dello status newyorkese, “perché poi occorre precisare all’altezza di quale avenue”.
Ecco quindi il terzo cruccio dei suoi genitori, oltre a quello di non potersi permettere l’elicottero privato e di essere “in the tens” invece che “in the hundreds”: abitare la penthouse (attico) in una delle venti Strade “giuste”, sì, ma non all’angolo delle uniche due Avenues che contano veramente: la Quinta e Park.
“Lexington sta un gradino sotto, come anche Madison”, sospira Marsha, che poverina è dovuta crescere lì, subendo gli affronti delle compagne di scuola più fortunate.
"E le altre Avenues, la Prima, la Seconda, la Terza?”, le chiedo ingenuo.
“Periferia”, mi sorride, ironica ma non troppo, “tanto vale allora abitare verso la Novantesima Strada, a Carnegie Hill, oppure migrare oltre il parco”.

Cioè nella detestata Upper west side, dove abito io, considerata un ricettacolo di intellettuali ebrei di sinistra. “Per certi Upper Eastsiders attraversare Central Park equivale ad attraversare l’Atlantico”, mi rivela Marsha, “mio padre si spingeva nella West Side solo quando doveva imbarcarsi coi genitori suitransatlantici per l’Europa negli anni Cinquanta”. I moli dei passeggeri stavano infatti nella zona del ghetto portoricano, celebrato da Leonard Bernstein nel suo musical “West Side Story” prima della bonifica con la costruzione del Lincoln Center nel 1961.

Marsha per delicatezza non aggiunge quattro cose: primo, che i suoi genitori hanno storto il naso quando ha detto loro che si è messa con un italiano; secondo, che lo hanno storto ancora di più perché sono separato (negli Usa la separazione non esiste, o si è sposati o divorziati); terzo, ho superato i 40 anni; quarto, faccio il giornalista e non il finanziere (leggi: speculatore) a Wall Street.

La mia quinta caratteristica però è stata dirimente: se la loro adorata figliola ha accettato di trasmigrare in quella che loro considerano “la parte sbagliata di Central Park”, allora dev’essere proprio un grande amore. Che inoltre profuma di Europa, Italia, Roma, Venezia, Firenze…
Quanto a me, per delicatezza non ho detto a Marsha che una volta, nella fase in cui lei insisteva per presentarmi i suoi, ho fatto uno strano sogno: nuotavo, come Paperon de Paperoni, in un immenso forziere quadrato colmo di tappi. Suo padre, infatti, ha fatto fortuna coi tappi, possiede due immense fabbriche che li producono, e due figlie alle quali ovviamente dei tappi non importa nulla. E io, che con la fantasia volo, già mi vedevo alle prese con il mercato mondiale del tappo, indagini di mercato, strategie e quant’altro, nella sede in cima a un grattacielo del World Financial Center: l’adorato genero-erede.

Per mesi Marsha non aveva detto loro nulla di me. Perfino quando ha traslocato a casa mia, per un bel po’ ha fatto finta di continuare a vivere nel suo appartamento da single (la scomparsa dei telefoni fissi permette questi stratagemmi: lei comunica con sua madre via cellulare, e col padre per e-mail). Improvvisamente, però, le è venuta la smania di presentarmeli.
“Ci hanno invitato per il pranzo di Thanksgiving”, mi dice un pomeriggio di sabato al caffè Lalo (quello di “C’è Posta per Te” con Meg Ryan e Tom Hanks), mentre sorseggio la mia solita cioccolata con panna, e lei una spremuta ‘organic’ (biologica) di barbabietole, sedano e carote.
“Ma non sono andati in Florida?”
“Appunto. Li raggiungiamo lì.”
“Non ci penso nemmeno”.
“You are so rude [maleducato], cos’hai contro di loro?”
“Nulla”.
“E allora perché non vuoi conoscerli?”.
“Tua madre la conosco già troppo bene, in pratica era sempre con noi durante il nostro viaggio in Italia.”
“Cosa vuoi dire?”.
“Che sei perennemente attaccata al cordone ombelicale telefonico”.
“Oh, smettila Mauro. Sono solo in buoni rapporti con lei, grazie a Dio. Quanto a noi: viviamo assieme, sarebbe carino che sapessero con chi. Che ti vedessero almeno una volta in faccia”.
“Possono vedermi qui a New York”.
“Io li raggiungo comunque a Palm Beach per Thanksgiving, tutte le famiglie americane si riuniscono per il Giorno del Ringraziamento”.
“Buon viaggio”.
“Ti odio quando fai così”.
“E io odio il tacchino”.
“Ma ci sarà molto altro da mangiare! Il Thanksgiving per noi è la festa più importante, più
del Natale, più della Pasqua…”.
“Mi spiace Marsha, ma non chiedermi di sciupare giorni di ferie per venire in quel gerontocomio a cielo aperto che è la Florida”.
“Non è più come pensi, ci sono anche un sacco di giovani”.
“Sì, le infermiere che curano i vecchi, e poi i caddies dei campi da golf…”.

Incrocio la mamma di Marsha due settimane dopo nei grandi magazzini Bloomingdales. C’ero stato trascinato alla fine del lavoro per un cocktail di presentazione di non so quale nuovo prodotto, Marsha mi aveva dato appuntamento alle sei e si presenta con sua madre: “Ci siamo incontrate per caso sotto al piano terra, stava facendo compere per Natale”, mi annuncia falsa come Giuda.
Un’imboscata in piena regola. La signora è come nelle foto, una bella sessantenne rifattona ‘bottle blonde’, bionda ossigenata come ce ne sono centomila nell’Upper East Side. Nasino finto, occhi svaniti all’insù, sorriso svampito all’ingiù, elegantissima, cachecol, portamento
altero. Uniche note positive: snella, linea perfetta, belle gambe e caviglie splendide, come sua figlia. La quale quindi promette bene per i prossimi trent’anni.
Confesso che esamino di sfuggita anche il bacino della senior: quello di Marsha mi preoccupa, è troppo stretto e magro per essere quello di una buona fattrice. Lo so che è vergognoso ammetterlo, sarò un maniaco, ma una maternità senza problemi fisici è un aspetto importante del mio eventuale matrimonio.

La conversazione con la madre fila liscia e banale come le telefonate madre/figlia, che ormai conosco a memoria. Che traffico sulla Quinta signora mia, sotto Natale non si circola più, non si trova un taxi ma tanto è inutile prenderli, e anche il metrò è impossibile, sovraffollatissimo. Considerazioni surreali, visto che Bloomingdales è a tre isolati da casa sua, ma che lei invece di arrivarci in due minuti a piedi ha preferito torturare il suo chauffeur facendosi accompagnare in limousine. Ormai sono intrappolato: “Be our guest before Christmas”, mi invita-ordina imperiosa la signora, sarò loro ospite prima di Natale.

Non posso più sfuggire. Sapientemente nei giorni seguenti sposto il terreno della trattativa sul dove. La mia ultima linea di resistenza è non incontrarli a casa loro, il che equivarrebbe a un fidanzamento definitivo con Marsha. “Facciamo una cosa informale, vediamoci per una pizza alla Houppa”, le propongo con nonchalance. La Houppa, mitica gioielleria sulla Sessantaquattresima, dove al posto (e al prezzo) dei diamanti vendono pizze.

Arriva la sera micidiale. Per alleggerire l’atmosfera vengono pure la sorella di Marsha e il suo boyfriend. Ma fra il mio futuro suocero e me è, inopinatamente, amore a prima vista. Entrambi ordiniamo una pizza capricciosa, e questa vicinanza di gusto già sembra entusiasmarlo. Poi ovviamente parliamo dell’Italia, e lui si dilunga felice a ricordare per una buona ora tutti i viaggi più belli nella penisola.

Ammorbidito dalla nostaglia e dal pinot grigio,il papà di Marsha impazzisce di gioia quando rispondo alla sua domanda: “Ti piace l’America?”
“Moltissimo. La adoro”, rispondo io, ed è vero.
Non sto a precisare che preferisco quella di Bob Dylan ai bigottoni di George Bush, a lui basta sapere che c’è un europeo che non odia gli Stati Uniti.
“Perché ci detestano tutti?”, mi domanda similpreoccupato.
“Beh, la guerra in Iraq…”, mi addentro io.
Mi interrompe subito: “Ma quel figlio di puttana di Saddam non meritava una bella randellata?”. mi chiede.
“Certo che sì”, rispondo io, sinceramente. E lui si soddisfa così.
Poi va in visibilio per un mio stupido giochetto di parole: “We are stuck in Iraq”, siamo bloccati in Iraq.
“Mi piace la rima, ma soprattutto il fatto che hai detto ‘noi’, e non ‘voi’, vuol dire che ti senti uno dei nostri. Infatti in Iraq ci sono anche soldati italiani, no?”

Non avrei mai pensato di dovere un giorno ringraziare Berlusconi per avermi fatto conquistare il padre della mia fidanzata, ma questo è proprio ciò che è accaduto la sera del 20 dicembre 2004. Ormai il corpulento papà di Marsha mi considera uno della famiglia, mi chiama “son” (figliolo) dimenticando che ho soli 15 anni meno di lui, mi confonde con l’agognato figlio maschio che non ha mai avuto.

L’idillio raggiunge l’apice quando scopriamo di condividere entrambi una vergognosa predilezione per un oscuro complesso degli anni Sessanta chiamato Moody Blues.
“Quelli di ‘Nights in White Satin’?”, mi chiede lui, guardingo e imbarazzato.
“Ebbene sì”.
“Ma è impossibile che tu li conosca, son”.
“E perché?”.
“Perché quella canzone la ballavo nell’estate ’67, mi ricordo esattamente l’anno perchè è stato quando ho conosciuto mia moglie Jane. Do you remember, cara?”
“Certo”, risponde lei, irromantichita.
“Beh, me la ricordo anch’io”, aggiungo, “avevo sette anni e la mettevano sempre nel jukebox dei bagni Cala Sveva di Termoli in the Molise region”.

Questa mia acribia lo manda in visibilio: “Mi piacciono i tipi precisi”.
Infierisco sul neosuocero rimasto evidentemente come me allo stadio anale: “Però da noi andava di più una cover di un complesso che l’aveva tradotta in italiano, ‘Ho Difeso’ dei Dik Dik”.
Lui commenta estasiato: “Era il più bel lento della storia, lo ballavamo a Washington, ti ricordi Jane?”.
“Se permette, sir, lo porrei a pari merito con ‘A Whiter Shade of Pale’ dei Procol Harum, stessa estate”.
Mi guarda con gli occhi umidi: “Son, tu sei la bibbia, sei un’enciclopedia vivente, sei... sei fantastico. Hai ragione, oh, i Procol Harum! Come ho potuto dimenticarli?”.

Marsha, che detesta le mie predilezioni musicali rétro, non ne può più. I Moody Blues e i Procol Harum li conosce soltanto perchè abbiamo litigato quando ho osato invitarla ai loro concerti. “Senti, Mauro, pochi giorni dopo averti conosciuto mi hai trascinata a una serata con Jorma Kaukonen”, mi aveva risposto, “e avevo accettato pensando fosse una cosa palatable, commestibile, accettabile. Ma non mi sono mai annoiata così tanto. Se tu devi recuperare il tempo perduto fallo pure, ma ti prego non coinvolgermi più”.

Così mi tocca andare da solo a tutti i concerti dei grandi degli anni Sessanta ancora in circolazione, da Crosby Stills e Nash agli Allman Brothers, dai Jefferson a Steve Winwood. Nel famoso teatro Town Hall, dove nel ’45 Charlie Parker inventò il bebop, ho visto fuoriuscire
dalla formalina Art Garfunkel. E poi l’ho rivisto accoppiato col compare Paul Simon. Nessun mio amico di New York condivide questa solitaria perversione, tranne Christian Rocca col quale sono andato a vedere Neil Young alla Radio City Music Hall. Ma ora ho mio suocero, come compagno di future scorribande nel cateterock.

Si tratta di concerti impegnativi, di una lunghezza spossante, perchè all’intervallo i musicisti dicono sempre: “Ci vediamo fra poco”.
Invece passano come minimo tre quarti d’ora: infatti il pubblico formato da sessantenni (gli ex hippies degli anni Sessanta) è debole di prostata, e quindi si formano sempre code interminabili ai cessi.

Finito l’acme musicale siamo al dessert. Se fosse per il papà di Marsha, a questo punto più che darmi la figlia mi sposerebbe direttamente lui. O mi nominerebbe seduta stante direttore della sua multinazionale di tappi. Si informa distrattamente del mio lavoro, e sentenzia subito con una prosopopea che mi fa sentire Dustin Hoffman nel ‘Laureato’: “Son, il futuro del giornalismo è nella rete”.
"Grazie al cazzo, non me n’ero accorto", mi viene da rispondergli, però non voglio rovinare l’atmosfera supercordiale. Anche perchè lo impressiona molto il fatto che io scriva su “Newsweek”, ma soprattutto che abbia una column sul “New York Observer”: settimanale che vende solo 60 mila copie rispetto ai tre milioni di “Newsweek”, ma è il massimo dello chic per quel maso chiuso che è l’Upper East Side, in transumanza a Palm Beach d’inverno e agli Hamptons d’estate. Giornale intelligente ed irriverente stampato su carta rosa, viene letto da tutti i “socialites” del bel mondo di Manhattan per tenersi à la page, ne segue i tic e ne impone le tendenze. Il padre di Marsha non ne apprezza la linea politica troppo liberal, ma compulsa avidamente le notizie immobiliari.

(…) Mentre usciamo dalla Houppa salgo con Marsha su un taxi. Lei è raggiante: “Mauro, è stato un successo”.
Io sento solo che sto per precipitare in un fidanzamento pronto, a presa rapida e asfissiante. Finirò in uno di quegli attici terrorizzanti dove si arriva schiacciando il bottone PH (penthouse) sull’ascensore, ma solo dopo aver girato la chiave accanto. Si entra direttamente in casa, non c’è neppure il pianerottolo. Quando vorrò fare una festa dovrò ordinare il catering da Fauchon, camerieri in divisa si aggireranno per le stanze.

E per andare agli Hamptons non potrò neppure prendere l’elicottero, perchè Marsha, come sua madre, obietterà: “Se ci vede qualche conoscente all’eliporto della Trentatreesima Strada, e nota che non è di proprietà ma che ci siamo ridotti ad affittarlo, che figura facciamo?”.

Mauro Suttora

(dal capitolo 25: "I miei futuri suoceri")

Tuesday, October 24, 2006

recensioni a No Sex in the City

Beppe Severgnini (Corriere della Sera): "Mauro Suttora è invadente, impudico, immodesto e impietoso come Tom Wolfe. Solo che non veste sempre di bianco, ed è più alto. Dimenticavo: il nostro autore è anche italiano, e questa a Manhattan è una cosa che non ti perdonano facilmente. O ti sfuggono o ti baciano: non ci sono vie di mezzo." 

Gasolina. Blogosfere il network di blog professionali d'informazione (19.10.06): "Quando nelle librerie arrivano libri come No sex in the city c'è da stare allegri. Nel vero senso della parola: se leggete questo estratto, non potrete fare a meno di sorridere (io mi sono fatto grasse risate).  Diversamente che in altri Paesi, dove la letteratura d'intrattenimento ha un suo status di tutto rispetto, in Italia si tende a considerare la stessa un prodotto di serie B. In altre parole: se scrivi il malloppone a sfondo interior-filosofico, puoi ambire all'ingresso nel club degli scrittori; se scrivi un libro semplice, ben congegnato, che si legge in fretta e godendone, sei solo uno che punta a far soldi. Un Ken Follett qualsiasi, insomma. La situazione pare cambiare, e il successo non solo di pubblico ma anche di critica riscosso da Gianrico Carofiglio e Andrea Cammilleri, padri di due personaggi seriali e molto «televisivi» quali l'avvocato Guerrieri e il commissario Montalbano , ne è un segno. Ora, Sex and the city non appartiene al genere: non è un romanzo, ma la storia molto ironica di un giornalista, Mauro Suttora, e della sua vita a New York. Niente di alto, dunque. Ma è scritto bene e strappa sorrisi. Dite che è poco?" 

quotidiano Libero, 30 dicembre 2006: Il nostro McInerney nella città dell'eros 
di FRANCESCO SPECCHIA 
La classe non è acqua. E se lo fosse, potrebbe essere solo l'acqua grigia e vanitosa del fiume Hudson. Che a est taglia il New Jersey; mentre a ovest accarezza Manhattan come un sorso di champagne sprizzato in una flute. Il suo scrosciare echeggia, lieve, tra i jazz club di Bleeker Street, i negozi di Armani e Calvin Klein, il profumo delle librerie antiquarie e quello dei dollari; fino a insinuarsi negli appartamentini del Village. Dove branchi d'intellettuali radical chic ticchettano al computer la loro storia. Uno di quegl'intellettuali è Jay McInerney, l'uomo che nel best seller "Le mille luci di New York" spogliò la Grande Mela, la rintronò d'alcol e cocaina e ne fece un mito degli anni 80. Un altro (meno intellettuale e -vivaddio - più giornalista) è Mauro Suttora, classe '59, moderatamente single, corrispondente del settimanale Oggi e columnist del New York Observer dal "centro esatto del mondo", ossia lo sterno e le viscere e l'inguine di Manhattan (...)  

 Marella Giovannelli (Sassarisera): "No sex in the city: Mauro Suttora e le diavolesse di New York Quando il dilettevole diventa utile è ancora meglio...e può nascere un libro come “No sex in the city. Amori e avventure di un italiano a New York”. 
L’autore è il giornalista-saggista Mauro Suttora e questo suo ultimo lavoro, edito da Cairo Publishing, è un ritratto dissacrante e godibile, in chiave autobiografica, della sua lunga e produttiva esperienza nella Grande Mela. Il giornalista italiano, durante il suo soggiorno a New York, oltre ad essere inviato della Rizzoli per il settimanale “Oggi”, collaborava con Newsweek e teneva una seguitissima rubrica sul New York Observer. Qui raccontava le abitudini, le manie e le stravaganze delle donne americane viste con l'occhio e vissute sulla pelle del maschio italiano. Con una notevole dose di auto-ironia, Mauro descrive i suoi incontri ravvicinati con le donne di New York. Esseri leggendari e misteriosi, celebrati in tv dal serial Sex and the City, tornati ora alla ribalta nel film Il Diavolo veste Prada. Di queste “diavolesse” che si muovono tra Manhattan e Park Avenue, Mauro Suttora svela i segreti più intimi: amore, sesso, lavoro, soldi, cucina. E le manie per shopping, manicure, pedicure, ginnastica (anzi: pilates), lotta contro le carte di credito sempre in rosso, gala di beneficenza, telefonate alle amiche, weekend obbligatori agli Hamptons. Mauro Suttora ha raccolto e tradotto quelle storie ambientate tra ristoranti alla moda e quartieri ultrachic, limousine e cene di finta charity. 
Naturale la scelta di ricavarne un libro che racconta una lunga serie di incontri-scontri, equivoci irresistibili ed avventure esilaranti con un gran numero di donne. C'è Liza, bellissima fashion-victim, che scarica Mauro via e-mail per mancanza di tempo; Maria, pantera a parole, ma agnellino quando si passa ai fatti; Paula disposta a tutto ma non a baciare. Graffiante, a tratti impietoso, quasi sempre agro-dolce, “No sex in the city” è anche la fotografia di un certo tipo di società che vive e lavora nella città più cosmopolita e internazionale del mondo. E, dietro i fasti e le feste di New York, è tangibile la solitudine.
“Questa è la città con la più alta concentrazione mondiale di single - spiega Mauro Suttora nel suo blog http://www.maurosuttora.blogspot.com/ - quasi la metà degli abitanti vive da sola. Il consumo dell’antidepressivo Prozac è decuplicato negli ultimi dieci anni. E la sera e nei weekend tutti sono alla ricerca di compagnia, anche occasionale, nei ristoranti come nei parchi". Poco spazio per l’amore e anche per il sesso a New York. Eppure è sempre la città dove, più di ogni altro posto al mondo, quando ci si alza al mattino non si sa mai bene in quale letto si finirà alla sera. Ma tutta questa promiscuità, alla fine, sembra di scarsa soddisfazione: le statistiche registrano calo del desiderio, aumento di frigidità, Viagra, autoerotismo. I più annoiati si dichiarano bisessuali." 
(Mara Malda per www.marellagiovannelli.com) 

"Finora non avevo ancora incontrato, sentito parlare o conosciuto una persona che ha capito lo spirito Americano (anzi, Statunitense!) meglio di Mauro Suttora in questo libro. La cosa che mi ha colpito e che ho ammirato di piu’ e’ la sua abilita’ di descrizione di certe realta’ sociali, e come abbia abilmente saputo relazionarle al piu’ ampio panorama culturale di questo paese. E’ tutto verissimo, a tratti squallido e grottesco, ma tutto sommato divertente. Io ci esco fuori di testa ad uscire con le donne Newyorkesi, e penso che non ci sia modo migliore di individuare lo mentalita’ della gente se non frequentandola il piu’ possibile. In troppe storie di questo libro mi sono riscontrato come se fosse stata la mia, di esperienza. Ho particolarmente, poi, apprezzato la descrizione dei locali e ristoranti alla fine". 
Andrea Manuali, New York   

Sergio Sammartino: "Il libro è molto godibile. Vi sono battute a sorpresa che spiazzano divertendo, alla maniera di Wodehouse. Il linguaggio è scoppiettante, spiritoso, creativo, perfettamente confezionato sui tempi presenti" (Avanti!) 

Paolo Farina (forum di www.radicali.it): "Spassoso e interessante. L'ho letto come si vede un film. Alla fine sei contento di averlo comprato (il libro), come sei contento di averlo visto (quel film). Complimenti per il soggetto. Bisogna leggerlo, perchè le recensioni non gli rendono merito". 

 da www.internetbookshop.it: Filippo (26-10-2006): "Un libro divertentissimo! Complimenti al nostro giornalista di Orgy: sia per le sue doti di seduttore sia per la sua scrittura scoppiettante." Voto: 4 su 5 

E (24-10-2006): "Mi sono divertita molto a leggere questo lbro perchè smonta uno per uno tutti i miti sulle donne di Manhattan e mette a nudo le loro manie e incongruenze. E poi quella Marsha...probabilmente fossi stato un uomo l'avrei abbandonata io dopo il primo appuntamento...altro che andarci a vivere insieme..." Voto: 4 su 5 

 http://Ilfederalista.blogspot.com: "Incredibilmente divertente" 

 http://samaroundtheworld.blogspot.com: "For Carrie Bradshaw everything started with a weekly sex column on a paper. For Mauro Suttora it wasn't actually so different. While living in New York the 40-something-yo Mauro Suttora also wrote an autobiografical column on the New York Observer. He told his adventures with American women and how really is sex life in the best city for singles of the world for a single Italian guy. From his "researches" on New York women lifestyle, their nails and Pilates mania and their attitude toward the opposite sex, several funny and spicy articles came out. And now his collection from the Observer turned into a novel. Since I heard about this project for a couple of years now and I haven't read it yet, obviously I really look forward to".

Sunday, October 22, 2006

American Beauty Farm

A New York il desiderio diventa un peccato di gola divorato dall’ascesi edonistica del consumo

di Mauro Suttora

Il Foglio, giovedì 10 agosto 2006

inserito nel libro "Concupiscenza" (AA.VV., edizioni Il Foglio, 2006, pagg. 284, € 7,90)


“What’s Sutunqa?”
Maledetta scrittura ‘intelligente’. Marsha ha ricevuto un mio sms, ma il telefonino Usa storpia sempre così, in automatico, il mio cognome. E ora eccola qui di fronte a me, splendida trentenne, ex modella dagli occhi azzurri, nel mio ufficio sopra la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada di Manhattan. E’ venuta a trovarmi in redazione. Fuori c’è il solito caldo umido atroce che rovina tutte le estati nella capitale del mondo.
L’ho conosciuta a un concerto di musica contemporanea contro la pena di morte organizzato dai radicali italiani (che si piccano di essere transnazionali) a New York. Confesso che c’ero andato soprattutto perché era vicino alla Rizzoli, nel teatro dell’Alliance Française sulla 59esima. Ho concupito Marsha appena l’ho vista. Pure lei, mi ha confessato dopo, anche se lì per lì ha fatto finta di nulla.

Il concerto era insopportabile, come tutta la musica classica dopo Debussy. All’uscita lei era dietro di me con un’amica sulla scala mobile. Ho notato subito la sua figura elegantissima, alta, flessuosa, e i capelli neri, lisci, lunghi. Anch’io ho fatto finta di niente, non mi sono voltato: temevo mi scambiasse per un appiccicoso playboy italiano che squadra le donne lanciando occhiate da triglia. Però ho subito smesso di pensare alla provvida legge del mercato che farebbe giustizia della musica dodecafonica, se quest’ultima fosse lasciata a se stessa come merita, senza più sovvenzioni pubbliche.

Una volta tanto, l’esprit de l’escalier che mi affligge (trovo le parole giuste con le donne solo mentre scendo le scale dopo averle salutate, spesso per sempre) ha funzionato al contrario: la scala mobile mi ha dato tutto il tempo di escogitare una frase ad effetto per far colpo su Marsha.
“Lei è una diplomatica?” (no, non era questa la frase).
“No, perché?”
“A questo concerto hanno invitato soprattutto diplomatici dell’Onu”.
“Non ho niente a che fare con l’Onu”.
È già qualcosa. “Ma... lei è dell’Europa dell’Est per caso?” (conservo la frase originale per dopo).
“No, perché?” Sorride.
“Ha bellissimi occhi slavi”.
“Grazie”.
“Le è piaciuto il concerto?”
“Vuole che sia sincera?”
“Certo”.
“Era ok”. Tradotto dall’educatissimo americano: faceva schifo.
“Sono d’accordo: praticamente era un’anticipazione di pena”.
“In che senso?” Porca miseria, non ha capito la mia frase ad effetto.
“Era un concerto contro la pena di morte, no?”
“Ah, certo...” Sorride. Chissà se ora ha capito. “...Però io non sono così sicura di essere contro la pena di morte”, continua. No, non ha capito. E in più è a favore della sedia elettrica. La concupisco ancora di più: una reazionaria dall’aspetto fisico così poco di destra, etereo e sublime. Affascinante, meglio di quella fascistona di Ann Coulter.
“Lei è favorevole alla pena di morte?”
“Mah, dipende... Si riceve quel che si dà”.
“Ma allora, scusi, perché è venuta a un concerto contro la pena di morte?”
“La mia amica mi ha invitato. Era gratis. E non avevo niente di meglio da fare”.

Ho fatto la corte a Marsha per tre settimane. È venuta a letto la prima volta nella notte del grande blackout a New York, due o tre agosti fa. Forse per amore, ma ho scorto anche una grande riluttanza in lei di fronte all’incubo di dover farsi quaranta piani di scale a piedi nel suo grattacielo sulla Sessantesima Strada. Io invece abitavo al sesto piano. Più comodo.

Ora stiamo assieme. Lei è la mia fidanzata americana. Non è la prima. E probabilmente neanche l’ultima, perché ieri sera mi ha confessato: “Better Saks than sex”. Lo sospettavo da mesi: meglio i grandi magazzini sulla Quinta Avenue del sesso. Finalmente è stata sincera: lei prova più piacere a fare shopping che a fare l’amore con me. Non è un caso, d’altronde, che il palazzo di Saks stia proprio accanto alla cattedrale di San Patrizio: sono i due maggiori templi di Manhattan, assieme coprono ogni esigenza corporale e spirituale.

E ora eccola qui di fronte a me, la ragazza che mi fa impazzire e potrebbe diventare la madre dei miei figli (oltre che moglie, ma già conviviamo). Se solo concupisse me (un po’) più delle borsette Chanel. O delle scarpe Prada. O dei vestiti Dolce. O degli orologi Chopard. O dei “risada with prosega”, come lei chiama felice, già al limite dell’orgasmo, i risotti innaffiati con prosecco nel nostro ristorante italiano preferito.
“E’ così hot and humid fuori, Mauro”, si lamenta Marsha.
“Sì, caldo e umido. Proprio come te”.
“Stop it!”, fa finta di indignarsi. Qualsiasi allusione sessuale, anche vaga, la scombussola. Eppure è così sexy. Oggi indossa una camicetta scollatissima, pantaloni aderenti sotto al ginocchio e flip flop, le infradito che sono ormai la divisa della donna americana. Cominciano a portarle già a marzo, ai primi soli primaverili, sfidando geloni e pantegane nel metrò, e vanno avanti fino ad autunno inoltrato. Io impazzisco a vedere tutti quei piedi nudi molto attraenti, curatissimi, con le unghie pittate di colori anche fosforescenti impensabili in Italia.

Ecco, “the Nails”. Il manicure e pedicure (con annessi cerette e massaggi). L’altra attività principale delle femmine newyorkesi dopo lo shopping: ormai ci sono in giro più insegne Nails che negozi di alimentari. Marsha mi ha scelto anche perchè la Rizzoli sta proprio accanto alle J Sisters, il tempio della depilazione, quindi le risulta agevole passare a salutarmi dopo le sedute. Perché come tutti gli americani è pragmatica e benthamiana: massimo risultato col minimo sforzo.
Di professione lavora nella moda, e sarebbe un’attività molto redditizia se gran parte dei suoi guadagni non se li facesse sifonare da quei ladri degli stilisti. Infatti ora è già eccitata al solo pensiero di scendere con me verso il ‘quadrilatero della morte’, a pochi metri da qui: l’incrocio fra 57esima e Quinta Avenue, che vede ai suoi angoli Tiffany, Luis Vuitton, Bulgari e Bergdorf Goodman, con dentro incastonato pure il gioielliere Van Cleef & Harpels. Le basterà guardare le vetrine per soddisfare la sua concupiscenza.

Marsha concupisce anche me, io concupisco lei, e non è solo passione: ci amiamo pure, vorremmo metter su famiglia, abbiamo intenzioni serie (insomma: mi ha già presentato ai suoi). Lo giuro: non solo sesso e disobbedienza, o “ricerca disordinata del piacere”, come scrivete nel riquadro rosso qua sotto. Anche nella Grande Mela ci sono personcine perbene. Lei ha studiato a Firenze, è laureata in una delle migliori università (Vanderbilt), legge giornali, riviste e perfino libri, ha addirittura scritto la tesi su Derrida...

Però io venivo diciassettenne a Manhattan ogni weekend nel ‘77, fuggendo dai campi di golf del Connecticut dove passavo un anno come ‘exchange student’. Allora gli Stati Uniti erano la terra della libertà e delle infinite possibilità. New York era una città pulsante, sporca e sensuale. Oggi è una metropoli anerotica e anoressica, la capitale del conformismo politicamente corretto: quando ho osato scherzare con Marsha su un buffo ciccione nel metrò lei mi ha guardato severa inarcando il sopracciglio, e mi ha detto aggressiva: “Mauro, it’s so inappropriate!... Non si dice ‘grasso’, si dice sovrappeso, oversize. Paffuto, chubby, al limite”.
Sui computer la parola ‘sex’ si tinge automaticamente di rosso, le parolacce vengono sostituite da asterischi. La regina Vittoria godrebbe come una pazza.

Io sono innamorato pazzo di Marsha, la concupisco a ogni ora del giorno e della notte. Però io per lei vengo dopo il lavoro, la carriera, i soldi, le cene con le amiche ogni giovedì (“girlies’ nights”), il jogging a Central Park ogni mattina presto invece di fare l’amore (la concupisco enormemente quando torna a casa accaldata e con le guance rosse: niente da fare), e poi la palestra, il parrucchiere, lo yoga, le commissioni, gli ‘events’ cui partecipare ogni sera, i ‘gala’ della beneficenza ipocrita ed esibita, le abbronzature sul roof della piscina dell’L.A. Sports Club, le prime di cinema e teatro, le anteprime ai musei, l’enogastronomia, la lettura degli annunci immobiliari, i weekend obbligatori agli Hamptons con tre ore di coda sull’autostrada (maledetto Fitzgerald, non potevi trovare un posto più vicino?).

Di sera, quando mi avvicino romanticamente sul sofà, lei mi chiede affettuosa come una gattina: “Mi gratti il braccio? Mi accarezzi la schiena? Mi massaggi il piede?” È così che lei raggiunge l’acme. Perchè poi, quando comincio a baciarla, troppo spesso mi blocca dicendomi: “Amore, sono stressata, ho bisogno di relax”. “Rilassati scopando, come me”, le ho risposto una volta. Allora lei, che invece pratica un sesso tecnicamente piuttosto ginnico e quindi faticoso, con gran dispendio di calorie, mi ha guardato condiscendente ammonendomi: “Mauro, don’t be a pervert”.

Ci sono tante Marshe a Manhattan, nei quartieri residenziali dell’Upper East e West Side. Considerano la frigidità un inconveniente pratico, secondario e superabile: con un programma in dodici step, negli intervalli del pilates, oppure - quelle più intellettuali - tramite psicanalista.

Certo, a Manhattan c’è la più alta concentrazione di single del pianeta. Certo, in questa città ci si alza ancora al mattino non sapendo bene in quale letto si finirà la sera. Le ‘one night stand’, avventure di una notte, accadono sempre, più che altrove nel mondo. Il problema è che cosa si fa, poi, su quel benedetto letto, con la sconosciuta conosciuta al cocktail party.

Qualcuno ha soprannominato la New York di questo decennio (gli anni Zero) l’Impero di dito&clito. Grande autosoddisfazione. Di qui il successo teatrale dei ‘Monologhi della Vagina’: a questo serve principalmente oggi l’organo femminile negli isolati (nomen omen) più ricchi del pianeta, quelli dei miliardari (in dollari) orgogliosi di esibire il codice di avviamento postale 10021, fra Park e Madison Avenue. Lì è nata Marsha. Lì è andata a scuola. Lì le hanno insegnato a indossare, provocante e competitiva, lussuriosi pantaloni leopardati; ma a non scoprirsi mai, inibita e puritana, il seno in spiaggia.

“Ah, vivi a New York? Come si sta? E come sono le donne di ‘Sex and the City’?” È questa la domanda che mi fanno quasi tutti i miei amici italiani, anche quelli colti. A volte rispondo buttandola sul sociologico: crollo della concupiscenza, suo spostamento su oggetti diversi dal sesso. Nulla di nuovo, se ne erano già accorti Freud cent’anni fa e Marcuse cinquanta, come ha ricordato Bandinelli su queste pagine.

Manhattan oggi è un misto di perversione e repressione. Di allegro disordine mentale (consumo di Prozac decuplicato in dieci anni) e tanta solitudine: quando passeggio a Riverside Park, ogni tanto mi si avvicina qualche (bella) donna domandandomi: “Are you John?” È il tizio con cui ha preso un appuntamento al buio su internet. Ma c’è anche tanta sconfinata, irresistibile energia: è l’ottimismo vitalista di Marsha che mi ha conquistato.

Il settimanale New York Observer, quello dove dieci anni fa nacque la rubrica ‘Sex and the City’ di Candace Bushnell prima di diventare libro e poi trasformarsi nel celebre serial tv con Carrie e Samantha, mi ha affidato una column sullo stesso argomento. Solo che il titolo questa volta è: ‘No sex in the city’.

Saturday, October 21, 2006

Tutti i culi di Manhattan

per gentile concessione dell’autore, ecco un capitolo del libro No Sex in the City di Mauro Suttora (Cairo editore, 2006)

16/ CATALOGO DEI CULI DI MANHATTAN

Il filosofo italiano Massimo Fini, nel suo impareggiabile ‘Di(zion)ario Erotico’ (edizioni Marsilio, 2000), ha compilato l’elenco di una quindicina di tipi differenti di sedere. Secondo lui, possiamo capire la personalità di una persona semplicemente osservando il suo gluteo. Questo libro prezioso è stato pubblicato due anni prima del manifesto dell’era Bush (‘Paradiso e Potere’), la bibbia neocon in cui Robert Kagan afferma che gli europei proverrebbero da Venere, pianeta dell’amore, mentre gli americani da Marte, sfortunato pianeta freddo e da sempre simbolo del militarismo.

Fini nota un’altra differenza fra i due continenti: “Gli uomini, com’è noto, si dividono in due categorie: quelli che preferiscono il seno (bosomen) e quelli che preferiscono il culo (bottomen). I primi appartengono, in genere, a culture rozze, poco smaliziate, infantilmente pragmatiste, primitive, matriarcali, fortemente legate all’immagine della donna-madre e comunque troppo giovani per avere avuto il tempo di sviluppare adeguate attitudini speculative. Bosomen sono, per esempio, gli americani. L’Europa, culla della civiltà, è invece bottomen. Venere Callipigia (da kalos, bello + pyge, sedere) nacque in Grecia, nella prima metà del V secolo avanti Cristo, insieme alla grande filosofìa e alle matematiche. E ‘pour cause’. Perché il culo è innanzitutto una categoria metafisica”.

Con l’aiuto del libro di Fini, ho cercato di tracciare una mappa dei vari tipi di posteriore, prevalenti in ciascun quartiere di Manhattan. Abbiamo innanzitutto il sedere dell’Upper East Side, che conosco benissimo perchè è quello di Marsha: diffidente e avaro, con chiappe strette come hanno, in genere, i toscani. Quello dell’East Village (artisti poveri), al contrario, è fiducioso e pieno di speranza: tondo, grasso e a natiche leggermente dischiuse.
Il culo di Midtown, zona di business, è aggressivo: sodo e massiccio come una catena montuosa. Attorno all’Onu, fra Beekman Place e Tudor City, si rinviene un culo volitivo (piccolo e muscoloso): appartiene ai funzionari delle Nazioni Unite, ma anche ai diplomatici accreditati e alle loro spose.

Quello della Upper West Side, fra Central Park e il fiume Hudson, è un fondoschiena intellettuale, quindi colloquiale: elastico e malleabile. Dall’altra parte del parco, quello di Carnegie Hill (dov’è la residenza del sindaco Michael Bloomberg) è invece nobile: alto, lungo e appena rilevato. 
I culi popolari, bassi e larghi, sono purtroppo rari a Manhattan (affollano invece Brooklyn e Bronx), ma se ne rinvengono ancora nella Lower East Side.

Attorno al municipio (City Hall) predomina inevitabilmente il gluteo burocratico, grasso e informe, mentre quello proletario, largo ma alto, è tipico di Washington Heights. Il culo di tipo militare, stretto e muscoloso, si può trovare attorno a Park Avenue, dove sopravvivono sia una caserma di artiglieria che qualche raro esemplare di bushiano pro-guerra.

Wall Street offre sederi meschini e timorosi (magri ma non ossuti), mentre nella zona senza identità di Hell’s Kitchen e Columbus Circle dominano quelli indifferenti, piccoli e raccolti. Le chiappe del Greenwich Village sono ridanciane (larghe e piatte), però andando verso il West Village diventano più impertinenti: tonde, a scalino e sussultorie.

Infine, c’è quello che Massimo Fini descrive come “culo remissivo”, al quale non ho trovato una particolare associazione geografica: è sparso un po’ dovunque. “Ha due tenere pieghe fra la natica e l’attaccatura della gamba, ed è tondo senza essere eccessivo”, spiega Fini. “Questo è il vero culo. Il culo dei culi. Perché possiede, al massimo grado, le due caratteristiche che, pur variamente mascherate, sono proprie di ogni culo: l’essere indifeso e ridicolo («L’ilare impotenza del deretano» la chiama Sartre che se ne intende). Il culo infatti è impotente. Perché, come Polifemo, è cieco nonostante possegga un occhio. E in condizione di palese inferiorità: non può guardare ma solo essere guardato.”

New York è la capitale mondiale di molte cose, e anche dell’S&M. All’inizio non capivo, pensavo egocentrico che si trattasse solo delle mie iniziali invertite. Poi ho scoperto che questa città pullula di sado&maso, con tanto di fruste e “dominatrix” (le signore che eccitano i maschi sculacciandoli e camminando sopra di loro con tacchi a punta).

Massimo Fini ci rivela perchè è proprio il sedere la parte del corpo che attira la maggiore attenzione da parte dei sadici: “È la perfezione ad accendere il desiderio della profanazione. Solo ciò che è perfetto merita di essere sconciato, sciupato, oltraggiato, vilipeso e quindi, alla fine, reso imperfetto. (…) Il seno si accarezza, si vezzeggia, si mordicchia affettuosamente. Per consolarlo della sua pochezza, di essere solo un seno. Nella perfezione del culo c’è invece un orgoglio luciferino che va abbattuto e degradato”.

E’ lo stesso motivo, a pensarci bene, per cui gli Stati Uniti stanno attirando su di sè tanta antipatia nel mondo. Troppo ricchi, con l’economia che continua a crescere del quattro per cento, sempre attraenti per milioni di immigrati speranzosi da tutto il pianeta, mentre la vecchia Europa è in affanno.

Troppo orgogliosi, con tutte le loro bandiere a stelle e a strisce che sventolano dappertutto. Troppo perfetti, e posseduti per di più dalla nuova mania neocon, letteralmente “evangelica”, di esportare la “buona novella” della democrazia nel resto del pianeta. Questo parallelo fra culo e neocon sembra ardito e balzano? La psicologia popolare ha le sue verità…

In ogni caso, la parola ‘culo’ sta diventando sempre più importante negli Stati Uniti. E non solo perchè l’insulto classico è e rimane ‘Asshole’ (buco di culo). Ormai il deretano viene ampiamente usato come sinonimo onnicomprensivo di “piacere”: può significare in senso lato sesso, avventure, eccitazione, ragazze, ragazzi, sveltine, flirt.

“Let’s grab some ass tonight!”, “Prendiamoci un po’ di culo stasera!” è la singola frase più utilizzata attualmente nelle università statunitensi. Lo conferma il libro Sono Charlotte Simpson di Tom Wolfe, affresco della vita nei college undergraduate Usa (primi quattro anni): dove oggi si fa di tutto – sport, drogarsi, ubriacarsi, scopare – tranne che studiare.
Mauro Suttora

Friday, October 20, 2006

American weddings

New York Observer, February 20, 2006
page 2

My American girlfriend Marsha’s life is dictated by weddings. Like all 30-years-oldish, she has so many friends who get married, and unfortunately invite her, that she can’t cope any longer. Her entire vacation time gets absorbed by these fruitless ceremonies, provided that the absolute majority of marriages end up in divorce.

“You know the latest about Cindy?”, she told me the other day.
“Yes, Cindy, that lovely girl living in the Upper East 80’s who got hitched to Robert in 2004. What’s new? Wasn’t she pregnant?”
“She divorced. She found out Robert’s on cocaine”.
“What? But we went to dinner with them at Le Marchelier, he looked so nice... How long had they been together for? She didn’t notice?”
“Apparently not. She found out only because money was missing regularly and massively”.
“Wow! Aren’t they the ones who met on the net?”
“No, that’s Jade, don’t you remember her wedding in Florida?”

Yes. No. Honestly, I’ve been to so many weddings in the past months that I can’t tell one from the other any longer. I only know that Marsha’s yearly schedule revolves around them. Because most of her friends, even when living in New York, pick strange and faraway places to tie the knot. Naples (Florida), Washington, Philadelphia, California, Seattle... Why they don’t just stick to the Harmony or Metropolitan Club? The father’s bride has to shell out $100,000 in any case. Please, at least spare us the travel expenses.

Plus, we have to add some extra holiday days around each marriage, otherwise what’s the point of traveling twelve hours just to get there and back? So, at the average of four days for four weddings yearly, all of Marsha’s meager two weeks vacation time gets sucked up. No more room for a trip to Europe: for us, it’s either marriages in the U.S. or vacationing overseas. No wonder Americans travel the world less than any other nationality: the blame’s on marriages.

Italian weddings are a big thing too. Many families love to squander the savings of a lifetime for their daughter’s once in a lifetime endeavour. But at least in Italy this is a one-day affair: the church, the banquet, the feast, the dance, and that’s it, we can leave before midnight. Plus, Italy is so small compared to the U.S. that you have to fly a maximum of two hours to get anywhere.

On the contrary, in America everything’s got to be humongous. The problem with Marsha is that all of her friends seem to be so close and affectionate (even if they shared only two years in college with her 15 years ago and barely met afterwards) that her presence (and mine) is required also for such a nightmare unknown to us Europeans which is called “Rehearsal dinner”. It takes place the night before the wedding, meaning you have to get the Friday off. And the day after the wedding there is usually a brunch, too, reserved for the out-of-towners (that is, everybody).

Many times Marsha is asked to be a bridesmaid. After watching so many American movies about weddings, especially the recent ones with Julia Roberts and Steve Martin, I thought I was experienced in them. Wrong. You actually have to go yourself through the plight of being the bridesmaid’s boyfriend, in order to fully understand what it means to be left alone most of the time for three consecutive days because your loved one has been restrained in order to perform rehearsals and endless fittings for dresses, hairdos, nails... I found myself with so many idle mornings and afternoons that I visited Benjamin Franklin’s house in Philadelphia, Paul Allen’s rock museum in Seattle, the Phillips Collection in Washington. In Florida there’s nothing to see, so I just walked on the beach.

In Philadelphia all of the seven impressive pink-dressed bridesmaids got literally hijacked because thay had to arrive to and live the church simultaneously in a stretched limo. It took me hours to figure out the way to ceremony and afterwards to a country club on the Main Line, tens of miles away from each other. I actually enjoyed getting lost in the same fabulous suburbs where Grace Kelly grew up, and discovering that places like Marion, Pa., are even more elegant than Greenwich, Ct., or Beverly Hills, Ca. But when I finally made to the club and its three bands (one for the cocktails, one for dinner, one for the dance), I couldn’t get a hold of Marsha either: she was again secluded for hours in a secret location for the photo session.

Apart from this, American marriages are wonderful. You get to know so many people, all of which get very excited when you tell them you’re Italian (do they know Italy is full of assholes?). There is mutual neverending fascination between Italy and the United States, we too get crazy when we meet any American in Italy. I remember that while in high school in Udine we even spoke to the mormon missionaries just because they came from the States. And now it seems that all U.S. celebrities have to go to Italy in order to meet and get married: it happened to Angelina, Brad, Tom, Katie...

At a certain point during the night many wedding guests get drunk. Which is normal at any party, but marriages offer an advantage for the romanticism involved. So, if you are single, marriages transform into paradise, as outlighted in the movie “Wedding Crashers”. Some dinner tables are reserved for them: they have time to socialize while eating, and to get closer afterwards, dancing. Girls seem more eager to find a mate and give themselves away, there are statistics about an overwhelming number of relationships started at weddings (and funerals). Sometimes behind the bushes that very night at the golf club.

The problem with us Newyorkers is that we forget that when the whole thing is over, we still have to drive back to the hotel. On a leased car, and in unfamiliar territory. In Washington I was slowing down on some Beltway to find the right exit, when a police car pulled us over.
“What have I done? I wasn’t speeding up, that’s for sure...”
“Erotic driving”.
“I beg your pardon?”
I felt kind of flattered, too wasted to understand “erratic”. Marsha saved me with her gentle, blue eyes imploring the merciful cop. Besides, I had an Italian driving license, our hotel was very close and the police car with the alcohol control equipment was too far away.

The next day, Marsha confessed to me that she had a discussion with her father about him setting away 75,000 dollars for her own wedding. It sounded too much like a hidden invitation to propose, so I rushed to enumerate all the failings of the wedding industry: “Listen baby, this is just a big 50 billions business devouring itself. Because young couples get in debt in order to hire a marriage consultant and all the shit, plus many already have to repay for college, then comes the house mortgage, little children are expensive too... And in the end, do you know what’s the main cause for recently married couples splitting? Financial stress. It’s a circle. So, why doesn’t your father just give you the money, and you do what you want with it? Aren’t we already happy living together like this?”
“I don’t like it when you call me ‘baby’ ”, she just replied.

Mauro Suttora

La sconfitta di Bush

Washington, 7 novembre 2006

Donne alla riscossa: l’America si tinge di rosa. Un’italiana è diventata la terza persona più importante degli Stati Uniti. Nancy Pelosi, 66 anni, deputata della California, ha ora sopra di sè soltanto il presidente George Bush e il vice Dick Cheney. I democratici hanno infatti conquistato la maggioranza del Congresso e lei siede sulla poltrona di presidente della Camera dei rappresentanti. Hillary Clinton, 59 anni, ha trionfato nello stato di New York: 70 elettori su cento l’hanno confermata senatrice (in aumento dal 55 per cento di sei anni fa) , e ora l’ex first lady di Bill mira alla Casa Bianca.
E la «valanga rosa» che ha investito l’America nel voto del 7 novembre non finisce qui. Altre donne sono emerse: Claire McCaskill, madre di otto figli, è stata eletta senatrice democratica nel Missouri con l’appoggio dell’attore Michael J. Fox, malato di Parkinson e promotore della ricerca sulle staminali. In Arizona ha conquistato un seggio alla Camera la democratica Gabrielle Giffords, 36 anni, che si oppone al muro contro gli immigrati al confine col Messico. E l’assistente sociale Carol Shea-Porter è diventata deputata del New Hampshire per far finire la guerra in Iraq.
Il grande sconfitto del voto americano è il presidente Bush, che dovrà terminare gli ultimi due anni del suo mandato avendo il Parlamento contro: i democratici infatti conquistano la maggioranza assoluta sia alla Camera (230 seggi su 435) sia al Senato, seppure per un solo seggio: 51 a 49. Gli toccherà quindi la stessa sorte di Bill Clinton, il quale dovette governare da «anatra zoppa» dopo che i repubblicani vinsero il voto del ’94. Un cambiamento c’è già stato: si è dimesso il ministro della Difesa Donald Rumsfeld, artefice della disastrosa occupazione dell’Iraq.
Ma chi sono le donne che porteranno aria nuova a Washington? Nancy Pelosi non è una novellina. Come Condoleezza Rice, è anche lei vittima dell’errore di un ufficiale dell’anagrafe che registrò suo nonno, immigrato dalla Liguria, col cognome «D’Alesandro», con una esse sola. Suo padre è stato sindaco di Baltimora per tutti gli anni Cinquanta, e poi anche suo fratello. Lei è quindi cresciuta a pane e politica, aiutando il babbo nelle campagne elettorali, finché si è trasferita a San Francisco per sposare il ricco marito Paul Pelosi: italoamericano anche lui, con patrimonio immobiliare da 25 milioni di dollari. Ha rischiato di metterla nei guai nel 2002, quando è saltato fuori che usava lavoratori non sindacalizzati nella sua tenuta vinicola della Napa Valley: eppure lei è così amica dei sindacati, si è battuta per alzare il salario minimo da cinque a sette dollari l’ora.. Risultato: la vigna è stata venduta per evitare altre contestazioni.
Brava moglie, madre di cinque figli (quattro femmine), quando questi lasciano la casa per l’università lei si rituffa in politica e a 47 anni viene eletta deputata nel collegio di San Francisco. Si tratta di una delle zone più a sinistra degli Stati Uniti, e infatti lei pur essendo cattolica è per la libertà di aborto. Quattro anni fa è diventata capogruppo dei democratici alla Camera (prima donna nella storia d’America), e dopo la vittoria della settimana scorsa (con l’80 per cento) si è trasformata automaticamente in presidente dell’assemblea. Efficientissima, elegante nei suoi abiti firmati, riesce a raccogliere un sacco di finanziamenti per il partito.
All’inizio Nancy Pelosi era considerata troppo di sinistra per poter guidare i democratici al Congresso. Poi però il suo sorriso ha conquistato l’America, e d’altra parte il fallimento dell’avventura in Iraq ha finito per dare ragione a lei e ai pacifisti che si erano opposti fin dal 2003: «Ci siamo impantanati in un nuovo Vietnam, dobbiamo trovare una strategia d’uscita», è il suo ritornello da allora.
In realtà la Pelosi è una dei non tanti democratici ad avere le carte in regola per criticare Bush sulla guerra. Solo un centinaio di deputati, infatti, ebbe il coraggio di votare contro l’attacco all’Iraq quattro anni fa. Tutti gli altri, Hillary Clinton compresa, bevvero la fandonia delle armi di distruzione di massa che sarebbero state in possesso di Saddam, e autorizzò la guerra. Hillary da allora fa di tutto per apparire patriottica, e anche oggi si guarda bene dal chiedere un ritiro immediato dei 140 mila soldati americani, o una diminuzione dell’incredibile cifra che gli Stati Uniti spendono per le forze armate (oltre 500 miliardi di dollari all’anno).
La differenza fra le due donne è tutta qui: a Nancy non importa essere considerata un’estremista di sinistra. Non ha ambizioni presidenziali, a lei basta galvanizzare gli elettori democratici per spremer loro il maggior numero di dollari in contributi. Hillary, al contrario, ha capito che per diventare presidente deve fare la moderata, conquistando voti al centro. Da anni, quindi, ogni sua parola è attentamente calibrata per non offendere gli elettori che l’ultima volta hanno preferito Bush, ma la prossima possono cambiare idea. Anche sull’aborto, che negli Stati Uniti continua ad essere una questione calda, ha dichiarato: «Sono d’accordo con gli antiabortisti: nostro comune obiettivo, mantenendo la libertà di scelta della donna, dev’essere ridurre il numero degli aborti».
Insomma, sono lontani i tempi (dieci anni fa) in cui Hillary faceva la pasionaria di sinistra e si intestardiva a introdurre i contributi sanitari obblligatori. Nonostante questo suo restyling di destra, però, i sondaggi continuano a darla perdente nel 2008 se i candidati presidenti repubblicani saranno il senatore dell’Arizona John McCain o l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani, due moderati lontani dai fanatici evangelici e militaristi neocon che piacciono a Bush. Quindi i democratici stanno cercando un candidato ancora più rassicurante, e sembrano averlo individuato in Barack Obama, senatore di colore dal linguaggio soave.
In ogni caso, Hillary dopo questo trionfo è sempre più un peso massimo della politica americana. Giornali e tv esaminano al microscopio ogni sua mossa, e anche quelle di suo marito. Si amano ancora, o stanno assieme solo per convenienza? Si rassegnerebbe l’ancor giovane Bill (60 anni) a tornare alla Casa Bianca come primo First man della storia, o la considererebbe un’umiliazione? Ma soprattutto: gli americani vogliono presidenti o dinastie? Perché se Hillary dovesse governare fino al 2016, si arriverebbe a ben 36 anni consecutivi di Bush e Clinton al potere: Bush padre infatti entrò alla Casa Bianca già nel 1980 come vice di Ronald Reagan.

Mauro Suttora

Thursday, October 19, 2006

Intervista a Birgit Hamer

Oggi, 27 settembre 2006

Malaga (Spagna), settembre

«Perdono Vittorio Emanuele».
Perdona il principe? Proprio adesso che, 28 anni dopo, ammette la sua colpevolezza?
«Certo, io l’ho perdonato da tempo. Così insegna il Vangelo. Ma lui deve sottomettersi alla giustizia terrena, come tutti gli altri cittadini».

La esile signora che abbiamo di fronte, Birgit Hamer, 49 anni, è sorella di Dirk, il diciannovenne tedesco ucciso da Vittorio Emanuele di Savoia nell’agosto 1978 a Cavallo. C’era anche lei, quella notte, in una delle due barche ancorate nella rada dell’isola fra la Sardegna e la Corsica. E da allora ha dedicato la propria vita a cercare giustizia per il fratello. Senza trovarla.

Tempi lunghi, lunghissimi, biblici. Più o meno ogni 14 anni alla signora Hamer succede qualcosa di tremendo. Nel ‘78 l’omicidio, che ha sconvolta l’esistenza sua e della famiglia (la mamma è morta di crepacuore nell’85, a soli cinquant’anni). Nel ’91 l’incredibile assoluzione per il Savoia a Parigi. E ora la clamorosa ammissione da parte del principe: «Avevo torto, ho fregato i giudici francesi».

Come tutte le frasi che hanno inguaiato Vittorio Emanuele negli ultimi tempi, anche questa gli è stata intercettata. Non al telefono, ma con un microfono segreto nella cella del carcere di Potenza dov’era rinchiuso in giugno per le corruzioni sulle slot machines. Così si è vantato con un coimputato: «Eccezionale! Venti testimoni, e al processo si affacciarono tante di quelle personalità pubbliche... Il procuratore aveva chiesto cinque anni e sei mesi. Ma ero sicuro di vincere, ero più che sicuro».

Il Savoia ricorda bene il tragico fatto: «Ho sparato due colpi, uno ha preso la gamba del ragazzo che era steso, passando attraverso la carlinga della barca. Pallottola trenta zero tre». Ma anche la signora Hamer ricorda molto bene. Ha scritto un libro. Non ha mai smesso di inviare lettere perorando la causa della giustizia. L’ultima risposta le è arrivata dal nuovo presidente italiano Giorgio Napolitano in giugno, appena una settimana prima che Vittorio finisse di nuovo in prigione. Un’altra il 18 luglio da papa Benedetto XVI, suo connazionale, che le fa rispondere: «Prendiamo molto a cuore il suo caso e preghiamo per voi, anche se non possiamo interferire negli affari interni di autorità straniere».

«Il mio avvocato francese, Sabine Paugam, dice che in Francia normalmente dopo un’assoluzione il processo non si può rifare», ci dice la signora Hamer, «ma che in presenza di fatti nuovi farà una nuova denuncia. Ma visto che la sparatoria è avvenuta su una barca italiana e tutti, a parte me e mio fratello, erano italiani, spero che ci possa essere un nuovo processo in Italia. Sono convinta che non riuscirà a “fregare” anche i giudici italiani».

Siamo seduti su un terrazzo che dà sul mare. Il panorama è splendido, come splendida era la vita della famiglia Hamer prima della tragedia. Birgit, bellissima, era stata eletta miss Germania nel ’76. Poi lei e i suoi tre fratelli (Dirk più giovane di due anni, gli altri più piccoli) si trasferirono a Roma con la mamma. Il signor Hamer oggi vive anch’egli a Malaga. E’ medico, ha avuto un tumore, ne è guarito curandosi da solo, ma negli ultimi anni ha avuto traversie giudiziarie.

«A Roma la vita era un sogno», ricorda la signora Hamer, «abitavamo in via Margutta, andavamo in vacanza a Positano... Io avevo cominciato a lavorare come modella e attrice, ho recitato per la Tv in Cinema con Pupi Avati e in un film di Armania Balducci, la compagna di Gianmaria Volonté: Amo, non amo con Jacqueline Bisset, Monica Guerritore e Maximilian Schell. Il produttore mi chiese se preferivo la parte della moglie o dell’amante. Gli risposi: “L’amante, perché sono le donne più amate”, ma oggi non penso più così. Il film fu girato nella primavera ’78, uscì in autunno e qualcuno mi accusò addirittura di sfruttare la tragedia di mio fratello per farmi pubblicità...

«Dirk era un ragazzo atletico, velocissimo nei 400 metri. Aveva conosciuto Mennea, si allenava nel campo della Farnesina. Un anno prima di morire mi disse: “Fra un anno o sarò famoso o sarò morto”. Gli piaceva una canzone dei Chicago con queste parole: “Se mi lasci ora, mi toglierai la parte migliore di me. Per favore non andartene...”. Eravamo legatissimi, andavamo sempre in giro assieme. Io avevo già fatto la maturità in Germania, lui frequentava il liceo tedesco di Roma, che stava in via Savoia... E Savoia si chiamava anche l’albergo dove approdammo appena arrivati nella capitale. Che coincidenze!

«Quell’estate affittammo una casetta a Porto Rotondo, e degli amici di mio fratello ci invitarono per una gita in barca. Dovevamo tornare in giornata, ma ci fu un temporale e così decisero di fermarsi a Cavallo. Io dormivo in una barca, Dirk in un’altra. Nel mezzo della notte accadde il fattaccio. Vittorio Emanuele arrivò urlando “Italiani di merda!” e sparando all’impazzata con una carabina da caccia. Voleva uccidere, e ci sarebbe riuscito se Niki Pende, che aveva preso di mira, non si fosse riparato e poi lo avesse disarmato con i riflessi di una tigre, evitando una strage. Ma il Savoia ammazzò lo stesso: il proiettile perforò la fiancata del motoscafo e colpì un’arteria della coscia di Dirk, che era sdraiato in cabina.

«Mio fratello si sarebbe salvato se fosse stato soccorso in tempo. All’inizio Vittorio Emanuele ci promise il suo elicottero per trasportarlo all’ospedale di Porto Vecchio. Ma aspettammo a lungo inutilmente, e alla fine decidemmo di portarlo noi in motoscafo. Aveva un’emorragia, perdeva molto sangue. Il medico ci disse che se avessimo tardato un altro quarto d’ora sarebbe morto. Poi iniziò il suo calvario: un’agonia di 111 giorni, l’amputazione della gamba destra, altre diciotto operazioni. Il 7 dicembre, mentre ero a Milano dalla mia amica Paola Marzotto, mia madre mi telefonò. Non ci fu bisogno che parlasse, avevo capito che era finita. E anche per me la dolce vita era terminata. Rifiutai un contratto in America, abbandonai la carriera di modella e attrice. Dedicai tutte le mie forze alla vicenda giudiziaria, ma all’inizio non immaginavo certo che ci sarebbero voluti quattordici anni per arrivare al processo. Lasciai Roma, tornai in Germania dove ho studiato scienze religiose comparate, letteratura italiana ed etnologia all’università. Ho avuto due figlie da un uomo che poi ci ha abbandonate, ora vivo con loro qui in Spagna. E non ho mai chiesto risarcimenti miliardari, come è stato scritto. Li ha chiesti la mia avvocatessa che ha lavorato per anni gratis. Conduco la mia battaglia esclusivamente per ristabilire l’onore di mio fratello e ottenere giustizia».

La signora Hamer, dolce e sempre bella, ci mostra con riluttanza l’album delle foto di famiglia: le immagini felici negli anni Sessanta, i bimbi piccoli in braccio alla mamma o che sguazzano nel mare. I quadri pieni di colori che Dirk dipingeva a Roma, le sue foto magro e abbronzato a Positano. Le foto di lei ai tempi dei trionfi di Miss Germania. E quella della tomba di suo fratello e sua madre nel cimitero dei non cattolici di Roma, alla Piramide.

Quando il nostro fotografo la convince a fatica a mettersi in posa con un’immagine di Dirk in mano, il suo sguardo carico di malinconia mi fa venire i brividi alla schiena. Sembra una mamma argentina di Plaza de Mayo che reclama giustizia per i giovani figli desaparecidos. Anche per Birgit Hamer sono passati trent’anni, ma lei non si è stancata di lottare per suo fratello.

Mauro Suttora

No Sex in NY: le italiane lo fanno meglio

Avventure pseudosentimentali a Manhattan

Mauro Suttora è un giornalista, ha vissuto nell'Upper West Side, è uscito con ragazze di ogni tipo e ha scritto un libro. In questa intervista dice che le newyorkesi pensano solo a una cosa (e non è certo il sesso)

Grazia, 17 ottobre 2006

di Alessia Ercolini


Niente sesso a Manhattan. Nel senso che le newyorkesi a tutto pensano fuorché all’amore. Altro che 'Sex and the city' e le avventure sentimental-erotiche di Carrie Bradshow. Almeno è quanto sostiene Mauro Suttora, ultraquarantenne giornalista italiano del settimanale Oggi.
Per quattro anni Suttora ha vissuto e lavorato a Manhattan. Si è innamorato di ragazze che somigliavano ad Andrea, la coprotagonista del film evento 'Il Diavolo veste Prada' (ruolo interpretato da Anna Hathaway, al cinema dal 13 ottobre). È incappato nella «incantevole moglie di un ambasciatore» che pretendeva da lui una «scia-scia» (traduzione per chi non bazzica Manhattan: «champagne shower», ovvero doccia di champagne) ed è stato scaricato via mail da modelle troppo impegnate anche per dire addio a un uomo.
Per sfogarsi, Suttora ha raccontato le sue peripezie sentimentali sul settimanale 'New York Observer' e ora le ha raccolte in un libro dal titolo 'No sex in the city' (Cairo editore), dal 12 ottobre in libreria.

Che cosa ha imparato dalle ragazze di New York?
«Che tutto è molto divertente».

Che cosa? Fare sesso o non farlo?
«Tutto quanto. Le donne e gli uomini di New York sono molto affascinanti. Sarà che i quattro anni che ho vissuto lì per me sono stati un concentrato di 20 anni di vita in Italia».

A giudicare dal titolo, però, i brividi caldi sono stati pochi...
«Se uno cerca amore o sesso, lì ne trova pochissimo. Perché c’è una classifica di priorità: lavoro, carriera, soldi, casa, vestiti, automobile, jogging...»

Lei, invece, che cosa cercava?
«Ciò che normalmente cercano tutti. L’amore, ma anche il divertimento. Vent’anni fa la Grande Mela era una città erotica. Ora no, non è per niente sexy. Negli Anni 60 si diceva “fate l’amore non fate la guerra”. Adesso è il contrario».

Le donne del libro sono ridotte a macchiette.
«C’è tanta varietà, come ovunque, ma dopo un po’ di incontri e parlando con gli amici vedi che le differenze sostanziali con l’Europa sono ricorrenti».

Quali per esempio?
«Le donne di New York hanno tre cose positive. Primo, l’energia. Non si fanno mai abbattere da nulla. Secondo, la curiosità. Sono sempre pronte a sperimentare nuove cose. E poi le newyorkesi hanno dalla loro la semplicità, che si può sintetizzare nel look jeans e infradito. Le italiane sono molto più scettiche, chiuse, più spente, e certe volte troppo costruite. Però sanno cucinare, mediamente hanno un livello culturale più alto e sono più disinibite, passionali, insomma più spontanee. Le newyorkesi fanno poco l’amore e quando lo fanno raggiungono il piacere in modi stranissimi».

Lei si definisce un tipo passionale?
«Sì».

Alla fine, ha trovato ciò che cercava?
«Ora sì. Convivo con una non-americana».

Tra le righe dei racconti dei suoi flirt si percepisce una certa attenzione per le piccole spese (vada per le costose cene nei locali di Manhattan, ma per la famosa doccia di champagne sostituire il Moet&Chandon con del prosecco da dieci dollari ha probabilmente pregiudicato il buon esito della serata). Scusi Suttora, lei non sarà mica un po’ tirchio?
«In effetti sì. Diciamo che il mio stipendio, soprattutto a New York, mi costringeva a diventarlo. Sono entrato in contatto con questo mondo che era al di là delle mie possibilità. Poi ogni tanto sono stato preda di qualche follia, tipo affitare un elicottero».

Quanto bisognerebbe guadagnare per mantenersi dignitosamente a Manhattan in puro stile Sex and the city?
«Almeno 10mila dollari netti al mese. L’affitto può costare anche 4500 dollari. Ma per fortuna in quanto giornalista mi invitavano dappertutto, altrimenti non ce l’avrei fatta».

Ora che è rientrato a Roma, ha qualche rimpianto?
«Uno solo. Sandra Bullock. Quando l’ho incontrata per un’intervista non ho colto l’occasione: sono rimasto talemente abbacinato dalla bellezza e dalla sua semplicità che non sono riuscito a dire e a fare niente. Invece, avrei potuto invitarla a bere un caffè Lavazza, sotto la Libreria Rizzoli, sulla 57a strada. Al solo sentire la parola caffè italiano sarebbe impazzita a e avrebbe detto “Wow”. Insomma, ho perso un’occasione».

Ci spiega come mai le fanno tanto orrore le serate tra ragazze? Cito testualmente: «Una delle principali manie delle donne di New York, incomprensibile per noi uomini europei (...). È una consuetudine deprimentente per qualunque persona abbia superato la fase adolescenziale delle “amiche del cuore” o quella tardofemminista della “sorellanza”». Sa che anche in Italia talvolta le ragazze escono senza uomini?
«È atroce. È una delle americanate che hanno preso piede.

Crede davvero che le italiane abbiano avuto bisogno di scoprire le uscite da single dalle americane?
«È squallido quando ciò avviene a scadenza fissa una volta a settimana».

Già, per la sua ex fidanzata Marsha era il giovedì sera.
«Insomma, incontratevi per un caffè alle cinque, ma non lasciatemi da solo a casa per uscire da sole. Oppure fate finta di non escluderci».

E allora le quattro ragazze di Sex and the city?
«Detesto il clima da caserma al contrario. In ogni caso, questo decennio, toccando ferro che non ci siano più altri 11 settembre, passerà alla storia come quello di Sex and the city.

Le sue amiche newyorkesi guardavano quel serial?
«Lì era già finito nel 2004, ma ora lo stanno mandando in onda di nuovo: censurato, per poterlo trasmette in prima serata. Praticamente Samantha sta sempre zitta».

Ha mai incontrato Sarah Jessica Parker per le strade di Manhattan?
«Sì. È tremenda, brutta e antipatica. Se la tirava, non voleva parlare con nessuno. A New York incomprensibilmente lei è la più gettonata. Ma non è il mio tipo.

Solo perché lei è alto un metro e novanta e Carrie le arriverà sì e no all’anca?
«Forse sì».

Non salva proprio nessuno delle quattro di Sex and the city?
«Di Samantha salvo tutto. È lei l’idolo di quasi tutti gli uomini».

E Marsha, la ragazza di cui parla nel libro e con la quale ha vissuto un anno, a chi somigliava?
«A Charlotte. Più svampita, più viziata e meno romantica. Marsha è più “ienetta”».

Un’ultima domanda. Nel libro non si capisce bene il motivo per cui vi siete lasciati...
«Io volevo sesso e amore. Lei successo e carriera. Ma cosa vuole, nelle storie d’amore non si capisce mai».

Alessia Ercolini

Eutanasia: Piero Welby

Staccate tutto, voglio morire adesso

La storia di Piergiorgio Welby riaccende il dibattito sull' eutanasia

Con una lettera ha commosso il presidente Napolitano e ha scatenato la bagarre tra i politici. "Il tempo che passa per me ormai è fatto solo di tubi, sofferenze e terrore", scrive sul suo blog il malato di distrofia. E chiede di farla finita

di Mauro Suttora

Oggi, 30 settembre 2006

Roma, settembre "Ci hanno scritto 17 mila volte, è stato letto 365 mila volte": si legge nel forum "eutanasia" di Piergiorgio Welby, il sessantenne malato di distrofia muscolare che ha innescato il dibattito sulla "morte dolce" con la sua toccante lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Welby, ricoverato in ospedale a Roma, è completamente paralizzato da anni: respira con un tubo, viene nutrito con un altro tubo, non parla. Può solo muovere un dito, con questo comunica tramite computer. E scrive ogni giorno sul sito www.radicali.it, oltre che sul proprio blog www.calibano.ilcannocchiale.it. Il caso Welby è scoppiato da pochi giorni, ma la sua è una lunga battaglia. Il primo maggio 2002 apre il forum di Internet con queste poche parole: "Tutto fermo ? Altro che deserto dei Tartari... mentre si scruta l' orizzonte, i terminali come me invidiano gli olandesi... Svegliaaaa". Il riferimento d' attualità è alla legge contro l' accanimento terapeutico approvata in Olanda. La citazione è per il romanzo di Dino Buzzati, sinonimo di attese interminabili. Da allora, grazie al dialogo sviluppatosi sulla Rete, Welby scrive una marea di cose. È coltissimo e brillante, spazia da Eschilo a Bob Dylan, e giorno per giorno commenta l' attualità con tocco lieve e ironico. I suoi scritti sono raccolti in un volumetto, Il Calibano, edito dall' associazione Luca Coscioni (altro malato terminale, morto nel febbraio di quest' anno), da lui presieduta. "Dobbiamo riappropriarci del nostro diritto a una morte sottratta agli innumerevoli artifizi che una Techné priva di etica e schiava della sua volontà di potenza ci ha sottratto", esordisce Welby nel maggio 2002. "Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita verrà un giorno in cui dai centri di rianimazione usciranno schiere di morti viventi che finiranno a vegetare per anni... Dobbiamo imparare che morire è anche un processo di apprendimento, non solo il cadere in uno stato di incoscienza".

Anche i contrari all' eutanasia scrivono sul sito radicale, quindi il dibattito s'infiamma immediatamente: "Giovanni Paolo II si è presentato, come il cardinal Bellarmino a Galileo, e ha parlato agli scienziati di tutto il mondo per proibir loro la ricerca sugli embrioni", scrive Welby il 6 maggio 2002, "per convincerli ha detto una cosa sola: "La scienza deve sottostare alla Verità e la Verità sono Io... Ergo, se la scienza vuole un imprimatur di liceità deve seguire i nostri ukaze". E così morì Popper. il sostenitore del metodo trial and error, filosofo della verità irraggiungibile, strenuo negatore di ogni affermazione inconfutabile. "Ma la verità dei Ruini e dei Ratzinger non ha nulla a che fare con il concetto greco di verità. Per i greci la verità, Alètheia, viene da lanthano che vuol dire "coprire". Da lanthano proviene Lete, che è il fiume dell' oblio, il fiume che copre. Alètheia, con l' alfa privativo, è invece il contrario di ciò che si copre: è ciò che si scopre nel giudizio. Nel nostro ambito latino, Veritas è un termine che proviene dai Balcani (ahò, da lì vengono solo fregature !), e vuol dire tutt' altro che verità. Significava in origine "fede", nel significato più ampio della parola: in russo per esempio vara vuol dire fede. L' anello della fede si chiama anche vera, proprio perché questa origine slava è penetrata fino da noi: la vera è la fede. Quindi, nonostante i mea culpa per gli errori del passato, il messaggio della Chiesa non riguarda la verità: è una richiesta di fede".

Sempre nel 2002 un sondaggio dà una maggioranza degli italiani favorevoli all' eutanasia. Commenta Welby: "Fate un sondaggio tra noi terminali !... Bisogna fare in fretta, fretta... Il tempo che passa è pieno di tubi, orrori, sofferenze, terrore". E dopo le indagini della magistratura sulla fondazione Exit (quella che combatte l' accanimento terapeutico) scrive: "Conosco più infermieri e medici pronti a collaborare di quanti se ne possano immaginare... Ho creduto che l' eutanasia diventasse argomento di dibattito. Mi sbagliavo: la morte, o meglio, la volontà di affrontare i problemi che accompagnano la fine della vita, è la grande assente dalle nostre coscienze. L' accanimento terapeutico riguarda sempre qualcun altro... Il coma è la tragedia che dà pathos a un serial... La perdita dell' autonomia e della dignità che ne consegue vengono considerate fisime da depressi. Protetti contro tutto ciò dalle nostre piccole immortalità quotidiane ci avviciniamo, impreparati, a un appuntamento che abbiamo sempre voluto ignorare. "Hanno chiesto al filosofo Gadamer: c' è un diritto alla morte così come c' è un diritto alla vita ? Io risponderei: "Sì !". Si ha questo diritto, perché si è uomini liberi e perché lo scopo della terapia medica presuppone la persona; presuppone quindi che si abbia a che fare con un uomo il cui volere dev' essere rispettato. In questo senso non mi sembra affatto difficile rispondere alla domanda. Nella prassi diviene però molto più difficile poiché il morire, l' agonia stessa, è un lento paralizzarsi della libera possibilità di decidere in cui l' uomo vive come uomo consapevole e sano".

Maggio 2003: "In questa società cinica e indifferente, che ha fatto del disprezzo per la vita una sua griffe inconfondibile, è proibito ai malati senza speranza, ai sofferenti in stadio terminale, a tutti quelli insomma per i quali la vita è diventata una sofferenza indicibile e dove l' unico sollievo che hanno è la speranza di chiudere gli occhi la sera e non riaprirli al mattino, a loro è fatto divieto assoluto di morire conservando ancora un briciolo di dignità. Puoi far sopprimere un cane o un altro animale per risparmiargli dolori inutili, ma un uomo no ! Un uomo deve entrare nel circuito perverso di sale di rianimazione, tubi, sonde, cateteri, decubiti, puzzo di merda e di paura, mani impietose che incidono, raschiano, suturano, ispezionano, svuotano, aspirano... E tutto questo solo per un gioco infame chiamato progresso scientifico".

Il primo gennaio 2004 Welby si arrabbia perché l' allora presidente Ciampi nel suo messaggio di Capodanno non cita l' Anno dell' handicappato. "Ci aspettavamo di più: l' assistenza domiciliare per gli handicappati gravi che non si limitasse a poche ore e la commercializzazione dei libri su floppy disc. È incivile che i disabili, impossibilitati ad accedere ai libri, non possano leggere. Basterebbe un libro su floppy per restituire una possibilità di scelta che tutti hanno. Signor Presidente, il suo silenzio ha retrocesso in serie C una categoria di cittadini che già si trovava in serie B". Per sdrammatizzare, ogni tanto Welby commenta i fatti spiccioli della politica. Nel luglio 2005 scrive: "Fini spianta i Colonnelli,/ come fossero alberelli./ Non si secchi qualche aennista/ se sparisce dalla lista/ del botanico di Fiuggi,/ sarà presto un fuggi, fuggi/ di sequoia e piante rare / che si andranno a ripiantare/ nel giardin di Forza Italia,/ tra le rose e qualche dalia".

Quest'anno Welby riesce a vincere la battaglia "Per il diritto di voto delle persone intrasportabili": per la prima volta i disabili possono votare a domicilio. Il 30 giugno il suo sarcasmo allegro colpisce i verdi: "Il posto delle divinità è stato preso dagli ecointegralisti, e se Atteone moriva conservando negli occhi le forme sensuali e seducenti di una seguace di Artemide... oggi l' incauto escursionista potrebbe imbattersi in Paolo Cento nudo, quale punizione più terribile ?". Il 28 luglio commenta la guerra in Libano: "Bertolt Brecht sosteneva che quando i leader parlano di pace, la gente comune sa che la guerra sta per arrivare. Quando i leader maledicono la guerra, l' ordine di mobilitazione è già firmato".

Adesso l' aggravarsi della sua condizione, la spossatezza, la quasi impossibilità di usare anche il computer. La lettera a Napolitano ("Io amo la vita, vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico..."), e la grande commozione del Presidente, che gli ha subito risposto auspicando un dibattito parlamentare. Ma la ricchezza del sito di Welby rappresenta, paradossalmente, un inno all' esistenza e una spinta a non lasciarsi morire.

Mauro Suttora

Wednesday, October 18, 2006

intervista ad Alain Elkann

Ci chiamiamo Agnelli ma siamo dei leoni

«Trascorro molto tempo a Torino per stare vicino al piccolo Leone», dice lo scrittore, che ha appena pubblicato il romanzo «L’invidia». «Ammiro la forza d’animo dei miei figli»

Oggi, 18 ottobre 2006

di Mauro Suttora

l mio nipotino Leone si è dimostrato simpaticissimo fin dall’inizio: nascendo un po’ prematuro mi ha permesso di dedicargli questo libro. Non sapevamo se ne avremmo avuto il tempo, dovevamo andare in stampa, c’è stata un po’ di suspense... Ma lui ha risolto ogni problema».

Alain Elkann è nonno a 56 anni. E sembra strano, perché ne dimostra venti di meno. Il padre di John (Yaki), principale erede della famiglia Agnelli e vicepresidente Fiat, ha avuto questo regalo meno di due mesi fa dalla nuora Lavinia Borromeo, anche se non ha partecipato alla scelta del nome: «Leone suona forte, solare, internazionale: mi piace. Va bene, per un maschio primogenito. E poi comincia per elle, una lettera di famiglia: come Lavinia e Lapo...»

A proposito, come sta l’altro suo figlio, dopo la disavventura di un anno fa?
«È a New York, sta benissimo ed è felice, nonostante sia braccato dai paparazzi. Da padre, sono orgoglioso di come si sia risollevato da solo. Sono contento per lui, ora lo vedo tranquillo. Ha saputo superare questo incidente della vita con carattere, coraggio e forza di volontà. Sono qualità che apprezzo molto in lui. Si sapeva già che Lapo è generoso e disponibile, ora ha dimostrato di essere anche un uomo forte».

Che rapporto ha con i suoi figli?
«Ottimi rapporti con tutti e tre, mi piacciono le famiglie unite. Con la nascita di Leone ho provato una gioia immensa, perché vedo la famiglia che continua: diventare genitori è una grande e bella avventura, lo è stato per me e lo è oggi per mio figlio Yaki».

Lei però è sempre in giro per il mondo: Roma, New York, Parigi, Londra. Come fa a stare vicino ai figli?
«Ho avuto l’onore di essere nominato presidente della fondazione del Museo egizio a Torino. Così ora mia moglie Rosi ed io viviamo metà del nostro tempo a Moncalieri, nella casa di mia madre, e metà a Roma. Sono contento che Rosi si trovi bene a Torino, è diventata anche per lei una seconda patria elettiva. Per me questo incarico nel museo è un grande privilegio. E, ovviamente, ci permette di stare più vicini a Lavinia, Leone e Yaki».

E sua figlia Ginevra?
«Sta a Londra, fa la regista, il suo primo film 'Vado a messa' è stato apprezzato nei festival di Miami, Venezia, Guadalajara... Con lei ho un ottimo rapporto, che in parte descrivo anche nel mio libro, con confessioni abbastanza profonde e rivelatrici. A proposito, quando parliamo del libro? Perché lei continua a chiedermi dei parenti...»

Caro Elkann, siamo un settimanale familiare, quindi di famiglie e parenti siamo curiosissimi. D’altra parte, anche questo suo ultimo libro (L’Invidia, edito da Bompiani) è parecchio autobiografico. Per esempio, la sua seconda moglie Rosi Greco [che durante l’intervista siede sempre accanto ad Alain, sul divano della bella casa romana, ndr] è presentissima nel libro. Aver chiamato «Rossa» la moglie del protagonista, il quale scrive in prima persona, è un indizio plateale. E lei ne sembra assai geloso: non vuole che Rossa incontri il pittore Julian Sax (di cui è invidioso) perché teme che alla fine, con la scusa di farle un ritratto, quello riuscirebbe a portarsela a letto.

A proposito, chi è nella realtà questo Sax che la ossessiona tanto?
«Sax è un grande artista, un pittore internazionale quotatissimo che il protagonista del mio libro vorrebbe intervistare. Ma si rivela inarrivabile, strafottente, antipatico. E alla fine il protagonista pensa perfino di ucciderlo».

Ci riesce?
«Lo scoprirà il lettore».

Lei ha mai invidiato qualcuno in questo modo?
«L’invidia è un peccato tremendo, uno dei sette vizi capitali. Ma esiste anche un tipo di invidia positiva che è una forma di rispetto e venerazione verso qualche personaggio assai speciale, da parte di qualcuno ben conscio di non possedere quel talento. L’invidia è un difetto diffusissimo in Italia, dove si tende a essere riduttivi e a non riconoscere il genio. Quando invece si prova sincera ammirazione per un grande artista - o uno scienziato, un politico, un industriale - non c’è niente di male se la si vive ed esprime. Senza arrivare all’ossessione, come capita al mio personaggio».

Non ha risposto alla domanda. Fuori i nomi.
«Tutti i grandi pittori, alcuni dei quali ho conosciuto personalmente. Francis Bacon, per esempio, l’ho addirittura pedinato a Parigi una trentina d’anni fa, dopo averlo incrociato per caso in boulevard Saint Germain vicino alla brasserie Lipp. Era un uomo piccolo, camminava fermandosi davanti alle vetrine di negozi di vestiti. Volevo scoprire dove andava. Ho potuto invece soddisfare la mia curiosità con Balthus, che ho conosciuto in Svizzera: elegante come un principe, fumava in continuazione e gli portavano sigarette e whisky su un vassoio. Aveva una moglie giapponese, pittrice anche lei, ma sinceramente non l’ho invidiato. Ammiro la sua opera, tanto che ho messo un suo quadro del 1949 nella copertina del libro: un gatto che mangia un pesce, sta appeso in un ristorante a Parigi».

Perché è attratto dai pittori?
«Perché da piccolo avrei voluto dipingere. Ma tutti gli artisti mi affascinano, desidero conoscerli. Ho incontrato Truman Capote agli Hamptons, vicino a New York: piccolo di statura, voce da bimbo, possedeva acutezza di giudizio e un’intelligenza cattiva, che amava esercitare contro il suo avversario Gore Vidal. Fra gli italiani mi colpì molto Leonardo Sciascia. Una sera lo incontrai alla libreria Einaudi di Milano con Elvira Sellerio, e poiché andavo a Parigi mi chiese di chiedere a Milan Kundera una prefazione per Jacques le Fataliste di Diderot. Così conobbi Kundera. Ma sono attratto da tutti gli uomini che creano qualcosa di grande da soli, i self-made men...»

Mentre i suoi figli portano avanti l’eredità Fiat.
«Provo un grande... mi lasci trovare la parola giusta... rispetto per i miei figli, che hanno dovuto assumere ruoli aziendali in età molto giovane. Questo ha tolto loro la giusta spensieratezza che i ragazzi dovrebbero avere. Il loro è un destino privilegiato, ma anche molto difficile».

Mauro Suttora

I vizi onorevoli

Dopo le «Iene». Nel Palazzo il peccato non è solo lo spinello

Tossicomani (tracce di hashish e cocaina per 16 su 50), ignoranti (non sanno cosa sono Consob e Darfur), strapagati, scansafatiche. E molti hanno conti aperti con la giustizia

Oggi, 16 ottobre 2006

Sono 952. Sono ignoranti: alcuni di loro non sanno cos’è la Consob, dov’è il Darfur, chi è Nelson Mandela. Si drogano: un test a sorpresa del programma tv Le Iene ha trovato tracce di hashish e cocaina addirittura in tre su dieci di loro. Sono i più pagati d’Europa: novemila euro netti al mese, più varie migliaia in benefit. E decidono da soli i propri stipendi, senza controlli esterni. Però lavorano in media solo tre giorni alla settimana. E sono fra i più numerosi al mondo: gli Stati Uniti hanno cinque volte i nostri abitanti, ma meno di un terzo dei nostri senatori.

Uno su dodici ha guai con la giustizia: 80, infatti, risultano i pregiudicati, imputati e indagati. «Diversamente onesti», li definisce sarcastico Marco Travaglio. E occupano sempre più spazio: vent’anni fa Senato e Camera avevano sei palazzi nel centro di Roma, ora ne hanno una trentina. Ma li abbiamo eletti noi, si potrebbe obiettare. Non è più così: alle ultime politiche di aprile una nuova legge ci ha permesso di votare i partiti, non i singoli candidati. Le liste infatti erano «bloccate», prendere o lasciare.

Sono i nostri parlamentari: quasi un migliaio, fra 630 deputati e 322 senatori. La scorsa settimana hanno subìto un duplice attacco da parte delle Iene. Hanno dovuto rispondere a bruciapelo a domande di attualità, e alcuni hanno esibito strafalcioni notevoli.
Elisabetta Gardini, portavoce di Forza Italia, non sapeva cos’è la Consob (Commissione nazionale per le società e la Borsa), l’organo che controlla le aziende quotate. Il Darfur, secondo il suo collega di partito Giuseppe Fini, «sono cose fatte in fretta»: si è confuso col fast food, «è una moda non italiana, noi siamo il popolo del buon mangiare...». Ma anche a sinistra emergono lacune. Pietro Squeglia dell’Ulivo è in difficoltà a spiegare che il Darfur è una regione del Sudan devastata da un genocidio.

Francesco Paolo Lucchese (Udc) crede che Mandela, premio Nobel della Pace, liberatore e presidente del Sudafrica, sia brasiliano. Neanche Francesco De Luca (Dc) e Maria Ida Germontani (An) sanno bene chi sia. Aleandro Longhi (Ulivo) confonde il presidente del Venezuela Chavez con un non meglio precisato «Gomez». E Giampaolo Fogliardi (Margherita) sostiene che con l’effetto serra la Terra si raffredda.

«Embè? Che c’è di strano? I parlamentari sono lo specchio del Paese, i rappresentanti degli italiani», commenta Clemente Mastella. «Quindi li rappresentiamo, con tutti i loro vizi, virtù e piccole ignoranze. Non siamo né meglio né peggio».

«Rivendico il mio diritto a non ricordare che cosa sia la Consob», si spiega la Gardini con Oggi, «figurarsi se fra le migliaia di sigle in circolazione si possono memorizzare tutte. E poi le Iene mi hanno fatto una quindicina di domande, ma hanno mandato in onda solo l’unica cui non ho saputo rispondere. Così sono stati trattati tutti i miei colleghi, le risposte esatte le hanno cancellate. L’unico scopo era prenderci in giro. Io le pagine di economia dei quotidiani le leggo, devo dire che se magari la Consob fosse un po’ piu’ attiva a tutelare i risparmiatori, forse ci si ricorderebbe meglio il suo nome...».

Un terzo di 50 onorevoli testati risulta aver consumato hashish (in 12 casi) o cocaina (in quattro) nelle 36 ore precedenti. Anche in questo caso la colpa è delle Iene. Grazie a uno stratagemma, gli inviati del programma si sono procurati campioni del sudore dei parlamentari: facendo finta di intervistarli, li hanno prelevati con un tampone con la scusa di detergere loro la fronte prima delle riprese. Ne è nato un caso politico così imbarazzante che il garante della privacy ha vietato la messa in onda della trasmissione. «No, abbiamo solo vietato la raccolta illegittima di dati sanitari privati», si arrampica un po’ sui vetri Mauro Paissan dell’Authority, anch’egli un ex politico.

«Ma i cittadini hanno il diritto di sapere se i parlamentari che hanno eletto sono tossicodipendenti», obietta l’ex presidente della Camera Pierferdinando Casini. E propone che l’antidoping sia obbligatorio. Detto fatto: il suo collega di partito Carlo Giovanardi è corso subito a farsi analizzare, per dimostrare di essere «pulito: «I controlli devono essere effettuati a sorpresa, altrimenti sono inutili», precisa Casini. A onor del vero, molti dei 50 parlamentari «tamponati» hanno poi firmato una liberatoria per far andare in onda Le Iene. Ma il garante è stato più realista del re, anche se la trasmissione avrebbe evitato di divulgare i nomi dei singoli trovati con tracce di stupefacenti.

«Altro che privacy: io, Lapo Elkann e tanti sportivi siamo stati sbattuti in prima pagina per la droga. Vengono tutelati solo i politici», commenta Fiorello. «Capisco che per noi parlamentari, in quanto persone pubbliche, ci sia un maggiore obbligo di pubblicità», ragiona con Oggi Marina Sereni, vicepresidente dei 218 deputati dell’Ulivo, «però chi viene sottoposto a controlli medici dev’essere consenziente. Altrimenti la vita di tutti potrebbe essere attraversata da scorrerie di programmi tv. Io non discuto gli stili di vita di certi miei colleghi...»

Però i suoi colleghi, a maggioranza, hanno approvato una legge che spedisce in galera chi si droga: predicano bene ma razzolano male. «Mi auguro che costoro abbiano votato contro la legge sulla droga, che noi non abbiamo approvato», risponde l’onorevole Sereni, «ma quanto al predicare in un modo e al razzolare in un altro l’ipocrisia abbonda: quanti divorziati e conviventi fra certi difensori della famiglia, per esempio... Mi preme dire, tuttavia, che non mi pare giusto che a fare notizia siano pochi parlamentari ignoranti o con problemi di droga, e non le decine di colleghi che svolgono con competenza il proprio lavoro quotidiano. Certo, non c’è niente di clamoroso nelle attività delle commissioni, per esempio, ma se si dà rilievo solo a episodi marginali per stupire o far ridere il pubblico non si coglie la sostanza di quel che succede ogni giorno in Parlamento».

Ma è normale che i deputati ignorino certe cose? «No, e ammetto che sono rimasta sconcertata», dice la vicepresidente Sereni, «perché basta leggere i giornali e guardare i Tg per essere informati sugli argomenti chiesti. Quanto al dilemma se i rappresentanti debbano o no essere migliori dei propri rappresentati, spero solo che essi mantengano il contatto con la realtà della vita di ogni giorno. Solo così si possono conoscere i problemi veri che i nostri elettori ci chiedono di risolvere».

Non si fa qualunquismo, però, se si nota, come ha fatto Travaglio nel suo libro Onorevoli Wanted (Editori Riuniti, 2006), che ben altre nuvole, oltre all’ignoranza, offuscano la credibilità dei nostri parlamentari. Fra di loro, infatti, i pregiudicati (cioè condannati penalmente con sentenza definitiva) sono ben 25. E aggiungendo indagati (19), imputati (18), prescritti (10) e condannati in primo grado (8), si arriva a 80. Tutti i partiti sono rappresentati in questo elenco, tranne Verdi e Comunisti italiani.
I condannati definitivi hanno commesso reati che vanno dalla banda armata alla corruzione, dal concorso in omicidio alla bancarotta, dall’incendio aggravato alla fabbricazione e detenzione di ordigni esplosivi... Oltre che spinellare, sniffare e leggere poco i giornali, anche questo hanno fatto i nostri «onorevoli».

Mauro Suttora

Monday, October 09, 2006

intervista a Debora Sottile

Oggi, 20 settembre 2006

«No, non l’ho mai fatto dormire sul divano. No, non l’ho cacciato dalla nostra stanza, neppure per una notte. Siamo sempre stati nello stesso letto. Anche perché ho paura di dormire da sola».
Uomini d’Italia, trovatevele così le vostre mogli. Paurose, premurose, affettuose. Perennemente e ineluttabilmente innamorate. Come la «sottiletta»: così avevano soprannominato dalle parti di via della Scrofa (sede del Msi, oggi di An) Deborah Chiappini, 32 anni, bellissima ragazza della Spezia laureata in legge a Parma, conosciuta nove anni fa e sposata nel 2000 da Salvatore (Salvo) Sottile, 48 anni, già numero due del numero due d’Italia.
Sì, perché lo sventurato Sottile fino a giugno era portavoce di Gianfranco Fini, vice di Silvio Berlusconi. Poi è arrivata Vallettopoli, e lui è passato alla storia per certi epiteti intercettati al telefono, come il «Porcella doc» riferito a Maria La Rosa in arte Monsé, quasi sua concittadina (lui di Milazzo, lei di Catania). Oppure il «piccola ma compatta come una Smart» riferito a un’altra attricetta in cerca di fortuna alla Rai. Definizioni impagabili, ma pagate da Salvo con il ludibrio nazionale e la fama di maiale. E, oggi, con una «vacanza e pausa di riflessione».

Lei però, la moglie Deborah, non ci sta. E per la prima volta apre la porta di casa Sottile a un giornalista. Ecco, ora mi tocca intervistare la cornuta che difende il marito, penso incattivito dal caldo umido mentre salgo sull’autobus 913 per i tornanti di Monte Mario. Mi ammansisco quando vedo l’entrata della casa di Belsito: appartamento al primo piano di un palazzo piccolo-borghese, quasi popolare, rumore infernale di traffico dalla strada. Dopo tutto il gran parlare della Destra che ha perso la testa, degli ex fascisti che appena arrivati al potere per la prima volta si sono messi a magnare come tutti gli altri politici e per di più a trombarsi donne alla Farnesina come il Duce a palazzo Venezia, questa non sembra proprio la dimora principesca di un arricchito a spese del contribuente. Nessuna villa sulla via Appia come ai tempi di Bettino, tanto per intenderci.
Poi, quando Deborah mi apre la porta, rimango colpito positivamente nell’ordine da: i suoi occhi azzurri, la scollatura e la minigonna. Quale onore per il fotografo di Oggi. L’addetta stampa di Sottile mi prega di scrivere il nome del truccatore, Simone Belli, che le darà una ripassata fra l’intervista e la seduta fotografica. Come no.

Ci sediamo imbarazzati sul divano. Io non ho domande. «Mi racconti tutto dall’inizio», le propongo. Lei ci sta: «Nel tardo pomeriggio di un venerdì di giugno ero fuori a far spese. Salvo mi telefona: “Raggiungimi subito a casa”. Aveva un tono strano, di solito è sempre allegro. Quando arrivo lui non c’è. Dopo un po’ entra assieme all’avvocato e a tre poliziotti in borghese. Vengono dal commissariato, dove gli hanno notificato gli arresti domiciliari. “Non preoccuparti, dovrò stare a casa qualche giorno”, mi dice. Ma vedo che è sconvolto. Né lui né io eravamo preparati a una cosa del genere. Non c’era stato sentore di nulla, un fulmine a ciel sereno. Sull’ordinanza si parla di Vittorio Emanuele e di altri personaggi che mio marito non ha mai conosciuto. Neanche a lui avevano detto bene i motivi dell’arresto».
Quando li avete saputi?
«Il mattino dopo. Sono scesa a comprare i giornali in edicola. C’erano tutte le intercettazioni. Mi sono fermata per strada a leggerle, non ci potevo credere».
E quando è risalita in casa? Non vedo segni di piatti rotti sulle pareti, avete ripittato?
«Abbiamo solo parlato, parlato molto. Ma è quello che abbiamo sempre fatto: alla sera ci raccontavamo tutto quello che ci era successo durante la giornata. E spesso non ce n’era neanche bisogno, perché uscivamo molto assieme. Quasi tutti i personaggi delle intercettazioni li conosco anch’io. Che avesse visto Elisabetta Gregoraci a pranzo alla Farnesina era stato lui il primo a dirmelo, e aveva invitato pure me. Quindi, anche se all’inizio ero perplessa, ho ripercorso i suoi racconti e li ho confrontati con i testi delle telefonate...»
Che però sono lì, innegabili.
«Sì, ma sono sposata a un giornalista, e so come vengono costruite le notizie. Bisogna vedere il contesto. Fra una frase e l’altra delle intercettazioni c’erano molti puntini, chissà cos’avevano detto lì. E poi il tono. Mio marito è uno che scherza sempre, come tutti gli uomini si vanta molto. Perfino a me, in una conversazione privata con un’amica, può scappare un apprezzamento colorito nei confronti di un uomo, un “Ma guarda che bel ragazzo” e magari anche peggio... E poi, un conto è parlare, un conto è vederle scritte, certe cose. Può fare impressione, ma vorrei sapere quanti uomini, in privato fra loro, non usano certi linguaggi».
Insomma, lei salva Salvo.
«È un giocherellone, un buon siciliano tutto fumo e niente arrosto. Vanterie, con Cristiano Malgioglio eravamo amici, ci conoscevamo tutti. Anch’io lavoro in tv, sono autrice per Mediaset, e conosco bene l’ambiente. Insomma, Salvo non poteva avere una doppia vita. Era fisicamente impossibile. Oppure è un caso di sdoppiamento della personalità, dottor Jekill e mister Hyde, e io ho conosciuto e amato un’altra persona. Ma mi fido del mio istinto: non è così».

Tre settimane agli arresti domiciliari. Con la moglie. La peggiore delle pene, per un marito accusato di concussioni sessuali. Quasi quasi, meglio la prigione...
«Infatti lui mi aveva soprannominato “il mio gip”: gli interrogatori più duri e imbarazzanti sono stata io a farglieli, non i magistrati. Il fatto è che lui può avere sbagliato, ma solo con me, da un punto di vista privato. Non ha commesso reati, e spero che arrivi presto la sentenza di proscioglimento. Lui ha sempre chiarito tutto, e d’altra parte tutte le signorine tirate in ballo hanno anche loro confermato la sua versione. Se entrambe le parti concordano sul fatto che non ci sono stati favori in cambio di prestazioni sessuali, dov’è il problema?»
E quella «compatta come una Smart»? Si sa che per una particina in Tv c’è gente disposta a tutto.
«Nel caso specifico, quella era addirittura la ragazza dell’interlocutore di Salvo, ero andata anch’io al suo compleanno. In generale, il mondo dello spettacolo non è diverso dagli altri. Come se medici e avvocati non corteggiassero le loro segretarie, e viceversa. La differenza è che i personaggi di cinema e tv stanno sempre sotto i riflettori. Ripeto: io credo a mio marito quando afferma di avere segnalato senza chiedere e ottenere niente in cambio. E credo anche alla Gregoraci, che dice la stessa cosa».
E che ora è stata ripescata da Silvio Berlusconi.
«La Rai può anche far bene a tutelarsi sospendendo alcuni personaggi in attesa che si chiariscano le cose, ma quanto deve durare quest’attesa? Il commento che più mi ha divertito, in questa vicenda, è di Simona Ventura: “Ma se quelle gliela tiravano dietro con la mazzafionda, cosa doveva fare il povero Sottile?” La verità è che Salvo non aveva tutto il potere che si pensava. E se lo avesse avuto, avrebbe prima aiutato me».
Siete stati in vacanza assieme?
«Sì, venti giorni in Toscana all’Elba dai miei, poi un po’ in Sardegna. Adesso Salvo è in Sicilia dai suoi».
Suo marito è un capro espiatorio?
«I magistrati possono sbagliare. Se sono in buona fede, si accorgeranno che le cose non sono andate come avevano ipotizzato».
E Fini?
«Gianfranco si è comportato come una persona di famiglia. Ma in questa vicenda nessun amico o conoscente mi ha deluso».

Insomma, signora Sottile: lei si è trasformata da giudice ad avvocato difensore di suo marito. Il suo matrimonio non ne ha sofferto?
«Ogni mattina, quando si alzava, Salvo mi diceva “Ciao vita mia”. Continua a dirmelo, mi ha scritto molte lettere, pure a me piace scrivergliene anche se viviamo assieme, ci mandiamo sms, e ora siamo più vicini di prima. Non abbiamo figli, perché finora ho pensato più al lavoro. Ma entro due anni mi piacerebbe dargliene uno».

Mauro Suttora

Wednesday, September 13, 2006

Da Sex and the City a Il Diavolo veste Prada

Ora ve le racconto io le diavolesse di New York

Un nostro giornalista, dopo lunga esperienza personale, svela i segreti più intimi delle favolose donne di Manhattan: amore, sesso, lavoro, soldi, cucina. E le manie per shopping, vestiti e unghie... Proprio come nei film

di Mauro Suttora

13 settembre 2006

Le donne di New York. Esseri leggendari e misteriosi, celebrati in tv dal serial Sex and the City, e che ora tornano alla ribalta nel film Il Diavolo veste Prada. Presentato al festival di Venezia, questo affresco della tumultuosa vita a Manhattan con Meryl Streep ha già incassato più di 120 milioni di dollari negli Stati Uniti, e arriverà sui nostri schermi il 13 ottobre.

«Ma come sono veramente le donne di Sex and the City?», hanno continuato a chiedermi gli amici italiani negli ultimi quattro anni, mentre ero corrispondente di Oggi dalla Grande Mela. Perché la guerra di Bush in Iraq avrà anche appannato l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, ma New York resta sempre la metropoli più grande e affascinante della Terra. La capitale dell’impero.

Sono arrivato a Manhattan da single, ho conosciuto varie donne newyorkesi, ho convissuto per un anno con una di loro. Conosco quindi bene il mondo delle «fashion victims», le vittime della moda prese in giro sia da Sex and the City, sia da Il Diavolo veste Prada. Anche perché la mia ex fidanzata e le sue amiche proprio in quell’ambiente lavoravano. Con boss tremende e nevropatiche come la direttrice di giornale femminile interpretata dalla Streep.

La mia risposta alla domanda degli amici quindi é: «Tutto vero». Le stranezze e le follie raccontate nel serial tv e nel film (e anche in Desperate Housewives, le casalinghe disperate dei quartieri residenziali) dipingono bene la realtà. Per carità, anche in Italia, nel mondo del lavoro, nelle grandi città, nell’ambito isterico della moda e del business in generale c’è competizione, arrivismo, stress. Ma a Manhattan, forse a causa dell’energia sprigionata dall’ammasso di grattacieli in cui si vive e lavora, tutto sembra moltiplicarsi.

Lei, Marsha, era bella, sexy, irresistibile. Un pò come Andrea, l’altra protagonista di Il Diavolo veste Prada, interpretata dalla giovane ma già sofisticata Anne Hathaway (che nella vita reale è fidanzata con un giovane italiano, Raffaello Follieri). Lavorava moltissimo, era ossessionata dalla carriera. Ma trovava il tempo di venirmi a trovare nella redazione di Oggi, sopra la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada. Le piaceva, perchè questo è il centro della zona dei negozi: fra Tiffany, Bulgari, Luis Vuitton, Fendi, Ferragamo. In pratica era come se lavorassi a Roma in via Condotti, o a Milano in via Montenapoleone.

Ho capito l’importanza di questa mia location strategica pochi giorni dopo il mio arrivo a New York, quando femmine fredde appena conosciute si accendevano entusiaste solo al comunicar loro il mio indirizzo. «Passerò sicuramente a trovarti», mi disse anche l’incantevole Marsha. Grazie a lei sono entrato in un mondo di limousines, ricevimenti al Waldorf Astoria e club esclusivi che è quello tipico di Manhattan. Non l’unico, ovviamente: ci sono anche gli artisti del Greenwich Village, gli impiegati di Wall Street, gli intellettuali ebrei dell’Upper West Side (dove abitavo io). O i milioni di immigrati che pendolano con le periferie di Brooklyn e Bronx: arrivano ogni mattina a Manhattan con la metropolitana, fanno funzionare il circo dei miliardari, ma alla sera devono tornare a casa perché non possono permettersene gli affitti.

Tuttavia, come appare chiaro dal film e dal serial tv, il mondo apparentemente fastoso e festoso di New York soffre anch’esso di un male. Incurabile: la solitudine. Questa è la città con la più alta concentrazione mondiale di single: quasi la metà degli abitanti vive da sola. Il consumo dell’antidepressivo Prozac è decuplicato negli ultimi dieci anni. E la sera e nei weekend tutti sono alla ricerca di compagnia, anche occasionale, nei ristoranti come nei parchi.
«Are you George?», mi ha chiesto una domenica una bella signorina mentre leggevo il New York Times su una panchina di Central Park. No, ho risposto interdetto. Poi ho capito: era una delle migliaia di persone che si danno appuntamento «al buio», poco dopo essersi conosciute su internet. Tante volte sono finito a parties di compleanno di businessmen nei loro attici di Park Avenue. Non li conoscevo, non li conosceva neppure Marsha, e poi scoprivamo che non erano neppure amici delle amiche di Marsha che ci invitavano. Ma si sentivano soli, e così convocavano più gente possibile.

Mi sono capitate avventure esilaranti, in positivo e negativo, proprio come quelle in cui incappano la Carrie Bradshaw di Sex and the City, o la Andrea di Il Diavolo veste Prada. La mia prima fidanzata americana mi lasciò in tronco con un’e-mail, dopo un mese che stavamo assieme. Il giorno prima preparavamo un viaggio in Italia e lei voleva presentarmi ai suoi, il giorno dopo non voleva neppure vedermi o sentirmi al telefono. «Non può funzionare Mauro, minimizziamo le perdite, non perdiamo altro tempo», mi scrisse su quell’ultima e-mail. Poi scoprii che usciva contemporaneamente anche con un altro, e che per qualche settimana ci aveva soppesato, paragonandoci. Alla fine ha scelto quello che le sembrava il migliore. «Non stupirti, è un metodo crudele ma pragmatico, lo fanno in molti qui», mi ha consolato un amico.

Sono passati esattamente cinque anni dalla strage dell’11 settembre 2001, quando molti sentenziarono: «Nulla sarà più come prima». E invece piano piano a New York tutto è tornato come prima, con milioni di persone che ogni sera si addobbano in vestiti costosissimi ed escono per divertirsi: cinema, teatri a Broadway, musica, musei, feste. Gli americani sono estroversi, ottimisti, simpatici. Pieni di divertenti tic.

Marsha si svegliava alle sei del mattino, dava un’occhiata alla sua e-mail sul computer, poi scendeva a fare jogging al parco e quando risaliva a casa aveva giusto il tempo di farsi una doccia ascoltando alla tv le notizie del mattino, per poi scaraventarsi al lavoro in metrò. La colazione la faceva di corsa per strada, come tutti si comprava al volo un bicchierone di polistirolo e se lo portava in mano bevendo il caffè con la cannuccia fino al suo grattacielo.

Alla sera, se non mi trascinava a qualche «evento» (vernice di mostra, inaugurazione di negozio, prima di un film), tornava a casa esausta dal lavoro, apriva il frigo e mangiava le sue insalatine biologiche non condite, tofu, latte di soia. Era magrissima, eppure aveva il terrore di ingrassare. Dormiva addirittura a pancia in giù, «altrimenti il sedere mi si allarga». Una volta al mese mi faceva da mangiare. Un gran regalo. Sapendo che sono ghiotto di hot dog, una volta mi ha cotto un enorme wurstel. Era così orgogliosa di questa sua impresa che non osai dirle quanto facesse schifo. Poi però andai a controllare in frigo. Sull’etichetta c’era scritto: «Hot dog senza carne». Lei era convinta che fosse il massimo.
Marsha era innamoratissima, ma a letto spesso era così stanca che mi sussurrava: «Ho bisogno di rilassarmi, Mauro. Accarezzami la schiena, massaggiami i piedi, fammi il solletico sulle braccia...». Io eseguivo speranzoso, illudendomi che fossero preliminari. Ma poi si addormentava.

Per sfogarmi, ho raccontato queste mie (dis)avventure sul settimanale New York Observer. Mi hanno subito affidato entusiasti una rubrica, quella del maschio europeo che osserva incuriosito i riti della femmina americana: shopping, manicure, pedicure, ginnastica (anzi: pilates), lotta contro le carte di credito sempre in rosso, gala di beneficenza, telefonate alle amiche, weekend obbligatori agli Hamptons... Poco spazio per l’amore e anche per il sesso. Eppure New York è sempre la città dove - più di ogni altro posto al mondo - quando ci si alza al mattino non si sa mai bene in quale letto si finirà alla sera. Ma tutta questa promiscuità alla fine sembra di scarsa soddisfazione: le statistiche registrano calo del desiderio, aumento di frigidità, viagra, autoerotismo. I più annoiati si dichiarano bisessuali.

Per questo il titolo delle mie rubriche è No Sex in the City. Le ho raccolte e tradotte in un libro omonimo che l’editore Cairo pubblicherà in Italia fra un mese, un giorno prima dell’uscita nei cinema de Il Diavolo veste Prada. Il 12 ottobre: anniversario della scoperta dell’America. In ogni senso. Ah, le allegre, aggressive e vitaminizzate donne americane, in tacchi a spillo o ciabatte infradito, con le loro unghie pittatissime di colori fosforescenti! Come ameremmo amarle: se solo ce lo permettessero...

Mauro Suttora