Wednesday, September 13, 2006

Da Sex and the City a Il Diavolo veste Prada

Ora ve le racconto io le diavolesse di New York

Un nostro giornalista, dopo lunga esperienza personale, svela i segreti più intimi delle favolose donne di Manhattan: amore, sesso, lavoro, soldi, cucina. E le manie per shopping, vestiti e unghie... Proprio come nei film

di Mauro Suttora

13 settembre 2006

Le donne di New York. Esseri leggendari e misteriosi, celebrati in tv dal serial Sex and the City, e che ora tornano alla ribalta nel film Il Diavolo veste Prada. Presentato al festival di Venezia, questo affresco della tumultuosa vita a Manhattan con Meryl Streep ha già incassato più di 120 milioni di dollari negli Stati Uniti, e arriverà sui nostri schermi il 13 ottobre.

«Ma come sono veramente le donne di Sex and the City?», hanno continuato a chiedermi gli amici italiani negli ultimi quattro anni, mentre ero corrispondente di Oggi dalla Grande Mela. Perché la guerra di Bush in Iraq avrà anche appannato l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, ma New York resta sempre la metropoli più grande e affascinante della Terra. La capitale dell’impero.

Sono arrivato a Manhattan da single, ho conosciuto varie donne newyorkesi, ho convissuto per un anno con una di loro. Conosco quindi bene il mondo delle «fashion victims», le vittime della moda prese in giro sia da Sex and the City, sia da Il Diavolo veste Prada. Anche perché la mia ex fidanzata e le sue amiche proprio in quell’ambiente lavoravano. Con boss tremende e nevropatiche come la direttrice di giornale femminile interpretata dalla Streep.

La mia risposta alla domanda degli amici quindi é: «Tutto vero». Le stranezze e le follie raccontate nel serial tv e nel film (e anche in Desperate Housewives, le casalinghe disperate dei quartieri residenziali) dipingono bene la realtà. Per carità, anche in Italia, nel mondo del lavoro, nelle grandi città, nell’ambito isterico della moda e del business in generale c’è competizione, arrivismo, stress. Ma a Manhattan, forse a causa dell’energia sprigionata dall’ammasso di grattacieli in cui si vive e lavora, tutto sembra moltiplicarsi.

Lei, Marsha, era bella, sexy, irresistibile. Un pò come Andrea, l’altra protagonista di Il Diavolo veste Prada, interpretata dalla giovane ma già sofisticata Anne Hathaway (che nella vita reale è fidanzata con un giovane italiano, Raffaello Follieri). Lavorava moltissimo, era ossessionata dalla carriera. Ma trovava il tempo di venirmi a trovare nella redazione di Oggi, sopra la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada. Le piaceva, perchè questo è il centro della zona dei negozi: fra Tiffany, Bulgari, Luis Vuitton, Fendi, Ferragamo. In pratica era come se lavorassi a Roma in via Condotti, o a Milano in via Montenapoleone.

Ho capito l’importanza di questa mia location strategica pochi giorni dopo il mio arrivo a New York, quando femmine fredde appena conosciute si accendevano entusiaste solo al comunicar loro il mio indirizzo. «Passerò sicuramente a trovarti», mi disse anche l’incantevole Marsha. Grazie a lei sono entrato in un mondo di limousines, ricevimenti al Waldorf Astoria e club esclusivi che è quello tipico di Manhattan. Non l’unico, ovviamente: ci sono anche gli artisti del Greenwich Village, gli impiegati di Wall Street, gli intellettuali ebrei dell’Upper West Side (dove abitavo io). O i milioni di immigrati che pendolano con le periferie di Brooklyn e Bronx: arrivano ogni mattina a Manhattan con la metropolitana, fanno funzionare il circo dei miliardari, ma alla sera devono tornare a casa perché non possono permettersene gli affitti.

Tuttavia, come appare chiaro dal film e dal serial tv, il mondo apparentemente fastoso e festoso di New York soffre anch’esso di un male. Incurabile: la solitudine. Questa è la città con la più alta concentrazione mondiale di single: quasi la metà degli abitanti vive da sola. Il consumo dell’antidepressivo Prozac è decuplicato negli ultimi dieci anni. E la sera e nei weekend tutti sono alla ricerca di compagnia, anche occasionale, nei ristoranti come nei parchi.
«Are you George?», mi ha chiesto una domenica una bella signorina mentre leggevo il New York Times su una panchina di Central Park. No, ho risposto interdetto. Poi ho capito: era una delle migliaia di persone che si danno appuntamento «al buio», poco dopo essersi conosciute su internet. Tante volte sono finito a parties di compleanno di businessmen nei loro attici di Park Avenue. Non li conoscevo, non li conosceva neppure Marsha, e poi scoprivamo che non erano neppure amici delle amiche di Marsha che ci invitavano. Ma si sentivano soli, e così convocavano più gente possibile.

Mi sono capitate avventure esilaranti, in positivo e negativo, proprio come quelle in cui incappano la Carrie Bradshaw di Sex and the City, o la Andrea di Il Diavolo veste Prada. La mia prima fidanzata americana mi lasciò in tronco con un’e-mail, dopo un mese che stavamo assieme. Il giorno prima preparavamo un viaggio in Italia e lei voleva presentarmi ai suoi, il giorno dopo non voleva neppure vedermi o sentirmi al telefono. «Non può funzionare Mauro, minimizziamo le perdite, non perdiamo altro tempo», mi scrisse su quell’ultima e-mail. Poi scoprii che usciva contemporaneamente anche con un altro, e che per qualche settimana ci aveva soppesato, paragonandoci. Alla fine ha scelto quello che le sembrava il migliore. «Non stupirti, è un metodo crudele ma pragmatico, lo fanno in molti qui», mi ha consolato un amico.

Sono passati esattamente cinque anni dalla strage dell’11 settembre 2001, quando molti sentenziarono: «Nulla sarà più come prima». E invece piano piano a New York tutto è tornato come prima, con milioni di persone che ogni sera si addobbano in vestiti costosissimi ed escono per divertirsi: cinema, teatri a Broadway, musica, musei, feste. Gli americani sono estroversi, ottimisti, simpatici. Pieni di divertenti tic.

Marsha si svegliava alle sei del mattino, dava un’occhiata alla sua e-mail sul computer, poi scendeva a fare jogging al parco e quando risaliva a casa aveva giusto il tempo di farsi una doccia ascoltando alla tv le notizie del mattino, per poi scaraventarsi al lavoro in metrò. La colazione la faceva di corsa per strada, come tutti si comprava al volo un bicchierone di polistirolo e se lo portava in mano bevendo il caffè con la cannuccia fino al suo grattacielo.

Alla sera, se non mi trascinava a qualche «evento» (vernice di mostra, inaugurazione di negozio, prima di un film), tornava a casa esausta dal lavoro, apriva il frigo e mangiava le sue insalatine biologiche non condite, tofu, latte di soia. Era magrissima, eppure aveva il terrore di ingrassare. Dormiva addirittura a pancia in giù, «altrimenti il sedere mi si allarga». Una volta al mese mi faceva da mangiare. Un gran regalo. Sapendo che sono ghiotto di hot dog, una volta mi ha cotto un enorme wurstel. Era così orgogliosa di questa sua impresa che non osai dirle quanto facesse schifo. Poi però andai a controllare in frigo. Sull’etichetta c’era scritto: «Hot dog senza carne». Lei era convinta che fosse il massimo.
Marsha era innamoratissima, ma a letto spesso era così stanca che mi sussurrava: «Ho bisogno di rilassarmi, Mauro. Accarezzami la schiena, massaggiami i piedi, fammi il solletico sulle braccia...». Io eseguivo speranzoso, illudendomi che fossero preliminari. Ma poi si addormentava.

Per sfogarmi, ho raccontato queste mie (dis)avventure sul settimanale New York Observer. Mi hanno subito affidato entusiasti una rubrica, quella del maschio europeo che osserva incuriosito i riti della femmina americana: shopping, manicure, pedicure, ginnastica (anzi: pilates), lotta contro le carte di credito sempre in rosso, gala di beneficenza, telefonate alle amiche, weekend obbligatori agli Hamptons... Poco spazio per l’amore e anche per il sesso. Eppure New York è sempre la città dove - più di ogni altro posto al mondo - quando ci si alza al mattino non si sa mai bene in quale letto si finirà alla sera. Ma tutta questa promiscuità alla fine sembra di scarsa soddisfazione: le statistiche registrano calo del desiderio, aumento di frigidità, viagra, autoerotismo. I più annoiati si dichiarano bisessuali.

Per questo il titolo delle mie rubriche è No Sex in the City. Le ho raccolte e tradotte in un libro omonimo che l’editore Cairo pubblicherà in Italia fra un mese, un giorno prima dell’uscita nei cinema de Il Diavolo veste Prada. Il 12 ottobre: anniversario della scoperta dell’America. In ogni senso. Ah, le allegre, aggressive e vitaminizzate donne americane, in tacchi a spillo o ciabatte infradito, con le loro unghie pittatissime di colori fosforescenti! Come ameremmo amarle: se solo ce lo permettessero...

Mauro Suttora

Wednesday, August 09, 2006

Intervista a Vittorio Cecchi Gori

"Il mio amore è Mara Meis"

di Mauro Suttora per Oggi

Sabaudia (Latina), agosto

«Ma neanche per sogno. Io Valeria non l’ho più sentita». Vittorio Cecchi Gori smentisce Valeria Marini, che a un settimanale ha dichiarato: «Lui chiama spesso, mi chiede consigli». Otto mesi dopo la rottura, il produttore 64enne ci appare disteso e felice con la nuova fidanzata Mara Meis, splendida 34enne pugliese. Si fanno fotografare per la prima volta assieme (in esclusiva per i lettori di Oggi) nella famosa villa di Sabaudia, quella delle furibonde liti con l’ex moglie Rita Rusic. Ma ora con Rita le acque si sono calmate: «È la madre dei miei figli e la rispetto, anche perchè credo nella famiglia», dice Cecchi Gori. Tutti e tre (Rita e Mara e lui) sono stati visti mangiare tranquillamente da Saporetti, il celebre ristorante di questa Malibu del Lazio.

«Mara ha portato serenità nella mia vita», ci confida Cecchi Gori, sdraiato nel giardino con piscina davanti al mare, appena riprogettato dall’architetto Giansandro Schina. «Non ero mai stato con una donna del sud: con lei sto scoprendo deliziose doti di attaccamento genuino. Viviamo quasi in simbiosi, e questo per me è importante, in un mondo che tende invece a disarticolare tutto».

È finalmente un periodo felice, questo, per l’ex presidente della Fiorentina. Contento per il salvataggio in extremis della sua squadra, che rimane in serie A? «Sono felice per i tifosi e per la città di Firenze, ma io con quella società non ho più nulla a che fare. Mi è stata tolta con un complotto, perché io fui uno dei primi a denunciare la cupola del calcio. Truccavano tutto».

Anche dal punto di vista finanziario sembra che le cose si stiano mettendo meglio per Cecchi Gori. Soltanto due mesi fa pareva fosse destinato alla bancarotta, invece ora i creditori che reclamano 600 milioni stanno per accettare un concordato. «Cos’è questa cifra, in confronto ai 40 miliardi di debiti di qualcun altro?» La banca Capitalia ha cancellato l’ipoteca sul cinema Adriano, la sua multisala di piazza Cavour a Roma. È in corso una causa contro Telecom, per il modo in cui gli strapparono la proprietà di Telemontecarlo (ora La Sette). Così Cecchi Gori, nonostante le decine di milioni che gli costano gli avvocati, riuscirà a conservare i suoi beni: non solo questa villa, ma anche quella di Beverly Hills e gli appartamenti a Manhattan e Londra.

La cosa che ora più gli sta a cuore, però, è il ritorno all’attività di produttore: «A dicembre inizieranno in Cile le riprese del nuovo film tratto da un romanzo di Antonio Skarmeta, quello de Il Postino». Altri progetti sono in cantiere con Antonio Albanese e Francesca Archibugi, e per portare sullo schermo i libri di successo di Federico Moccia: Ho voglia di te e Tre metri sopra il cielo. «C’è anche un accordo verbale con Roberto Benigni per tornare a lavorare insieme».

Dall’altro lato della piscina la sua Mara Meis - nome d’arte di Loreta De Gennaro da San Severo (Foggia) - sta posando per il fotografo di Oggi. «Il segreto della vita, oltre a dormire e a far sport, è avere una compagna un po’ più giovane e bella», confida Cecchi Gori, chiaramente innamorato. «Cosa volete, io sono cresciuto nel mondo del cinema, quindi sono sempre un po’ viziato, abituato ad avere attorno donne giovani e attraenti».

Mara lavorerà in una fiction che Cecchi Gori produrrà nel 2007 per Raiuno, Inviati Speciali: sarà una giornalista d’assalto. «Mi hanno ferito le accuse di opportunismo», dice, «non mi sono certo messa con lui perché voglio fare l’attrice. Non amo vivere di riflesso. Vittorio mi ha attratto trasmettendomi qualcosa di positivo e pulito. La cosa che più mi ha colpito in lui è la simpatia: siamo simili, e più si è simili più ci si avvicina. Poi, quando è arrivata l’intimità, abbiamo saputo raccontarci, fidarsi, lasciarsi andare. Per me l’amore è fusione con l’altra persona, dedizione, passione».

Ora Mara Meis e il suo «bimbo», come lei chiama Cecchi Gori, sguazzano sereni e giocosi a villa Vittoria (nome dell’amatissima madre di Vittorio e di sua figlia). Lei, fisico perfetto e gambe da gazzella, lo guarda rapita. Quello che l’ha sedotta, dal primo incontro a una partita di tennis al circolo dell’Hilton, non è stato il fisico, ma lo sguardo ingenuo da «cucciolo».

La nuova fiamma di Cecchi Gori aveva debuttato col nome di Labelle come cantante trasformista nelle discoteche, dove si esibiva con parrucca a caschetto. Coincidenza: anche Valeria Marini iniziò la carriera al Gilda imitando Jessica Rabbit e facendosi chiamare Lolly. E le analogie non finiscono qui: sia Mara sia Valeria successivamente parteciparono a concorsi di bellezza. Con più successo la Meis, finalista di Miss Mondo, mentre la Marini come Eva Orrù si presentò al concorso Look of the Year, ma non arrivò alle semifinali.

Dopo i cinque anni di rapporto turbolento con la Marini, Cecchi Gori lo scorso novembre è passato immediatamente a Mara: «E io ho sentito subito che quello che credevo fosse solo un uomo duro e risoluto era in realtà anche un Peter Pan da proteggere e difendere», dice lei. Anche Vittorio ha impostato la relazione con Mara in modo diverso: poco dopo averla conquistata ha voluto conoscere i suoi genitori in Puglia e regalarle uno splendido diamante di Tiffany come pegno d’amore. Così il romano palazzo Borghese, svuotato da ogni «testimonianza» del passato, è diventato la loro casa.

Si avvicina l’ora del tramonto. Il fotografo ci chiama tutti in spiaggia, per scattare le ultime inquadrature con il sole che si tuffa nel Tirreno agitato. Si forma una piccola folla di curiosi, arrivano anche i vicini di villa di Cecchi Gori: Roberto D’Agostino e Paolo Giaccio della Rai. «Macché Cecchi Gori, tu ora sei Cecchi Godi...», lo apostrofa scherzoso l’inventore di Dagospia, vedendo Mara che gli si abbarbica addosso con movenze da vamp. «Ma se non posso neanche cambiarmi costume, questo è l’unico che m’hanno lasciato», risponde lui, alludendo alle traversie finanziarie. E poi: «Non fatemi andare in mezzo al mare, che se affogo farei un favore a troppe persone...».

Cecchi Gori si sente perseguitato, ma anche sul fronte familiare le soddisfazioni ultimamente non gli mancano. La sua figlia primogenita Vittoria, 20 anni, ha debuttato come giornalista sulla rivista A(nna). Ha scritto un’articolo sul concerto dei Rolling Stones a San Siro, dov’è andata con mamma Rita Rusic. «Vive a Miami, fa l’università, e ho letto un altro suo articolo che mi è piaciuto, sui succhi di frutta nei supermercati americani».

Quasi duecento film prodotti, tre premi Oscar, calcio, tv, la principale dinastia cinematografica italiana con i De Laurentiis: nella sua vita Vittorio Cecchi Gori non s’è fatto mancare nulla. Neppure la politica: già senatore del partito popolare, alle ultime elezioni s’è presentato con la Lega Nord a Roma. Un suicidio annunciato, eppure è riuscito a prendere 6.500 voti. «Ma quel che m’è più pesato, è che per tutta la campagna elettorale ho dovuto rinunciare alle mie due ore giornaliere di tennis...» Scherza sempre, il vecchio Vittorione. Marameis...

Mauro Suttora

Saturday, July 15, 2006

Indietro Savoia

I paesi sardi vogliono cambiare nome alle loro vie

Santa Teresa di Gallura (Sassari), 15 luglio

Al posto di viale Umberto I°, «viale Graziano Mesina, uomo libero». E invece di largo Principe di Piemonte, «Largo ai pastori sardi». Una mattina della scorsa settimana i santeresini (cinquemila d’inverno, sessantamila adesso, con i turisti) si sono svegliati con parecchie targhe delle loro vie cambiate. «Uno scherzo da buontemponi», minimizza il sindaco di Santa Teresa Piero Bardanzellu, 67 anni. Però, a oltre un mese dalle intercettazioni di Vittorio Emanuele, questo episodio goliardico significa che non si sono ancora sopite le polemiche sulle dichiarazioni anti-sarde dell’erede Savoia.

«I sardi non si lavano, puzzano, sono capaci solo di andare con le capre», aveva detto il principe in una delle sue telefonate pubblicate su tutti i giornali. Apriti cielo. Dichiarazioni sdegnate da parte di tutti i politici sardi, sedute di consigli comunali e provinciali convocate sull’argomento, mozioni di condanna votate all’unanimità. Due comuni, Bitti e Atzara in provincia di Nuoro, hanno preso una decisione drastica, l’unica in grado di danneggiare concretamente la memoria dei Savoia: cambiare la toponomastica. Cancellare dallo stradario cittadino tutte le intestazioni di vie recanti i nomi della casa sabauda. In altri paesi sono state presentate mozioni per «desabaudizzarsi», copiando la protesta pacifista dei comuni «denuclearizzati».

L’episodio più clamoroso è avvenuto all’interno del palazzo del consiglio provinciale di Sassari: Gavino Sale, 50 anni, rappresentante del partito Irs (Indipendentzia Repubrica de Sardinia), ha coperto con la bandiera sarda dei quattro mori il busto di Vittorio Emanuele I° che ancora adorna la sala consiliare. Non pago, ci ha poi scaricato sopra della spazzatura, lasciando esterrefatti gli altri 29 consiglieri e guadagnandosi una reprimenda da parte del presidente del consiglio provinciale.

«Non mi limito a chiedere maggiore autonomia per la Sardegna, come da sempre fa il partito sardo d’azione», dichiara a Oggi il consigliere Sale: «Dopo quest’ultimo gravissimo episodio, a maggior ragione voglio che la nostra regione sia indipendente». «Indipendenza»: parola proibita e particolarmente delicata in queste settimane, dopo l’incarcerazione di una ventina di bombaroli sardisti e comunisti che da quattro anni piazzavano ordigni nell’isola (uno era scoppiato a Porto Cervo nel 2004, a pochi giorni dall’incontro fra l’allora premier Silvio Berlusconi e l’inglese Tony Blair).

«Io sono per la nonviolenza», precisa Sale, «ma sarebbe anche ora che nelle nostre scuole si parlasse del secolo e mezzo di dominazione dei Savoia, i quali uccisero più sardi della peste del Quattrocento. Potremmo intitolare le nostre piazze e strade al patriota Giovanni Maria Angioi, che nel 1793 capeggiò la rivolta antifeudale prima di rifugiarsi in esilio in Corsica e poi a Parigi, oppure alla regina Eleonora d’Arborea, unica sovrana sarda della storia. Ai nostri figli insegniamo ancora di Muzio Scevola, però se nel nostro statuto regionale qualcuno osa proporre di inserire la parola “sovranità”, il governo di Roma ce lo proibisce. E poi, perchè la nostra superstrada principale, la 131 che collega la Sardegna da nord a sud, dev’essere ancora intestata a Carlo Felice?»
«Quella strada fu costruita in soli sei anni, con i mezzi disponibili nell’Ottocento, grazie ai laboriosi operai sardi ma anche a bravi tecnici piemontesi», ribatte Maria Carla Sanna da Quartu Sant’Elena (Cagliari): «Siamo o non siamo consci che in Continente quello che ha detto Vittorio Emanuele lo pensano in molti? Non andiamo così fieri delle nostre varie faide mortali e delle orecchie tagliate a bimbi sequestrati...»

Al di là delle generalizzazioni, Marina Doria, moglie di Vittorio Emanuele, ha chiesto scusa ai sardi a nome del marito. Scuse accolte dal sindaco di Atzara, Alessandro Corona: lì il cambio di nome delle vie non si farà più. E anche a Santa Teresa l’intestazione di una strada all’ex bandito Mesina è durata poche ore, finchè un operaio comunale ha rimosso la copertura abusiva. (Graziano Mesina, comunque, è ormai diventato un vip in Gallura: ha appena partecipato al premio letterario Cala di Volpe e all’inaugurazione del Country, il locale più chic di Porto Rotondo).

«In realtà quasi nessuno sa che, se i Savoia sono diventati re, lo devono proprio alla nostra regione», commenta divertito Bardanzellu, sindaco santeresino, «perchè nel Settecento loro erano solo duchi di Savoia e principi di Piemonte, mentre la Sardegna era già un regno. Quindi il titolo regale arrivò loro grazie a noi. Santa Teresa di Gallura fu fondata da Vittorio Emanuele I° nel 1808, la pianta urbanistica con vie perpendicolari ricalca quella di Torino. Lo stesso nostro nome ci viene da Maria Teresa, moglie del fondatore. E abbiamo ben tre patroni: san Vittorio in onore di lui, santa Teresa in onore di lei, e infine Sant’Isidoro - lo spagnolo San Isidro - per il popolo, al quale dei Savoia tutto sommato è sempre importato ben poco».

Quindi la «capitale» dei Savoia in Sardegna, la Santa Teresa nata per decreto regio sabaudo 198 anni fa, non cambierà le intestazioni delle proprie vie. Per indifferenza. E anche perché, se lo facesse, dovrebbe rinunciare perfino al proprio nome. «Che recuperi il precedente appellativo di Longonsardo», propone l’indipendentista Sale. Certo è che di acqua ne è passata, nello stretto di Bonifacio, da quando il precedente sindaco di Santa Teresa (diessino, ma insignito dell’ordine sabaudo di San Maurizio) andava a omaggiare i Savoia ancora esiliati in acque internazionali: si incontravano a metà strada con l’isola francese di Cavallo, da dove arrivavano Vittorio Emanuele e Marina. Poi, con la fine dell’ostracismo, negli ultimi anni la coppia reale è capitata spesso qui in motoscafo, a far spesa. Gite non più consigliabili.

Mauro Suttora

Thursday, June 29, 2006

Vittorio Emanuele di Savoia

Quella notte che il principe imbraccio' il fucile

Oggi, 19 giugno 2006

Un ragazzo di 19 anni colpito mentre dormiva da un fucile Winchester M1 per la caccia agli elefanti, ferito gravemente a una coscia e morto dopo una terribile agonia durata 111 giorni, durante i quali subì l’amputazione della gamba destra e altri tredici interventi. Sua madre morta di crepacuore dopo sette anni, senza riuscire a vedere l’assassino del proprio figlio sul banco degli imputati. Un processo celebrato solo tredici anni dopo e concluso con l’assoluzione dell’imputato, condannato solo a 6 mesi con la condizionale per porto abusivo di arma da fuoco.

È questa, in estrema sintesi, la storia dell’uccisione dello studente tedesco Dirk Hamer in cui venne coinvolto Vittorio Emanuele di Savoia, una vicenda oscura cominciata nella notte del 17 agosto 1978 a Cavallo, un’isola fra la Corsica e la Sardegna, e conclusa il 18 novembre 1991 davanti alla Corte d’Assise di Parigi. Uno dei processi più lunghi della storia di Francia, e che ripercorriamo oggi non perché siano emersi fatti nuovi, ma perché, in questo momento delicato, è inevitabile ripensare all’altra brutta storia legata al nome di Vittorio Emanuele. Ci sembra giusto non dimenticare questa vicenda e i suoi lati rimasti misteriosi.

Hamer dormiva a bordo dello yacht di suoi amici, ormeggiato nella baia dell’isola di Cavallo. Per una lite con il medico Niky Pende, animatore della dolce vita romana, fratello della giornalista Stella e già compagno di Stefania Sandrelli, Vittorio Emanuele, armato di un fucile di micidiale potenza, sparò nel buio. Fu arrestato, ma scarcerato dopo sette settimane. Quattro mesi, invece, durò il calvario del giovane Dirk nell’ospedale di Heidelberg (Germania). «Perché ritirassimo le accuse contro di lui», sostiene la famiglia Hamer, «Vittorio Emanuele ci offrì inutilmente prima mezzo, poi due, infine dieci milioni di marchi [che equivalgono a cinque milioni di attuali euro, ndr]». «Non è vero», ha testimoniato Marina Doria, moglie del principe, al processo di Parigi, «gli Hamer mi chiesero soldi per far fronte alle spese mediche e io, senza neppure consultare mio marito che in quei giorni era in prigione, inviai loro un centinaio di milioni di lire, a puro titolo umanitario. Ma non rappresentavano una confessione di colpevolezza. Quando poi il signor Hamer mi chiese altri soldi, rifiutai e allora lui si costituì parte civile».

«Non è normale in Francia che le inchieste per omicidio durino così a lungo», ha ammesso il giudice Gaston Carasco di Ajaccio, «di solito ci mettiamo uno o due anni. Però il principe di Savoia aveva degli ottimi avvocati». Aveva anche ottimi amici. Uno di questi era il presidente francese, Valéry Giscard d’Estaing. Il quale, però, nel 1981 perse le elezioni con François Mitterrand. Ma questo non accelerò l’inchiesta. Anzi, il padre di Hamer arrivò a denunciare per corruzione il ministro della Giustizia di Mitterrand, Robert Badinter, colpevole a suo avviso di essere anch’egli troppo amico di Paul Lombard, avvocato di Vittorio Emanuele.

Pare che il principe Savoia, al momento della sentenza, fosse preoccupato soprattutto per il figlio Emanuele Filiberto, allora diciannovenne, che avrebbe subìto un trauma in caso di condanna per omicidio. Invece, dopo due ore di camera di consiglio, la corte di Parigi (con tre magistrati di carriera e nove giurati popolari) condannò Vittorio Emanuele a sei mesi con la condizionale. Unica sua colpa: possesso illegale di arma da guerra.

Ma cosa successe esattamente nella notte maledetta fra il 17 e 18 agosto a Cavallo? Quella sera Vittorio Emanuele va a cena con la moglie Marina Doria e sei amici a Les Pecheurs, unico ristorante dell’isola. Nel locale c’è anche un altro gruppo, assai più numeroso e chiassoso: una trentina di giovanotti e signorine belli e ricchi, appena arrivati dalla Costa Smeralda su tre motoscafi. Fanno parte dell’allegra brigata, fra gli altri, il playboy Niky Pende, allora trentacinquenne, la principessa Paola Torlonia, i conti Paolo Poma e Giorgio e Vittorio Guglielmi, il marchese Clemente Gentiloni Silveri, l’imprenditore barese Gianfranco Amoruso, Fabiana Balestra figlia del sarto, l’avvocato Francesco Ago dello studio Carnelutti. Hanno ormeggiato nella Cala di Palma, vicino all’Aniram («Marina» alla rovescia) del principe, un cabinato Super America. Vittorio Emanuele, allora quantunenne, è infastidito. Spiegherà che temeva danni, un attacco brigatista (è l’anno del rapimento Moro) o il sequestro del figlio da parte di una banda di banditi sardi. E pare che qualche giovinastro sia anche salito sul suo panfilo, servendosi da bere.

Dopo mezzanotte la compagnia di Pende torna nei motoscafi, mentre i due Savoia portano in auto un’amica a casa. Al ritorno, Vittorio Emanuele si accorge che per salire a bordo gli italiani hanno usato il canotto Zodiac del figlio. Furibondo, va a casa e afferra il fucile calibro 7,62. Sono quasi le tre. Vuole recuperare subito il canotto. Sale sull’altro suo canotto e si dirige verso lo yacht Coke, al quale è rimasto legato lo Zodiac. Sua moglie gli fa luce da terra con i fari dell’auto. A questo punto le versioni del principe e di Pende divergono.
Sostiene il primo: «Stavo liberando lo Zodiac. Inavvertitamente ho urtato una bombola di ossigeno che è caduta nel pozzetto e ha cominciato a sibilare. Pende esce fuori e urla: “Che c.... vuoi, principe di m...?” Ho sparato in aria per intimorirlo, lui mi si è gettato addosso e mentre cadevamo in acqua è partito l’altro colpo». Racconta invece Pende: «Un rumore mi ha svegliato. Sono salito in coperta e ho visto quello lì armato di fucile che mi minacciava: “Italiani di m..., drogati, ora ve la faccio pagare”. Ha sparato una, due volte ad altezza d’uomo, mi sono abbassato per sfuggire ai suoi colpi, poi gli sono saltato addosso».

In ogni caso, il destino vuole che una pallottola trapassi lo scafo della barca vicina, dove dorme Dirk Hamer con la sorella Birgit (Miss Germania 1976), e gli spezzi un’arteria della coscia destra. Il proprietario della barca è Guglielmi, in odore di frequentazioni malavitose. A bordo viene trovata la mattina dopo una pistola Smith & Wesson calibro 38 con due proiettili mancanti. Il proprietario sosterrà di non averla usata da giorni. Per i legali del principe, invece, fu proprio quell’arma a colpire Hamer. La polizia francese non indagò.

Insomma, secondo la difesa quella notte non sparò soltanto il fucile M1. Alcuni testimoni giurano di aver sentito solo due colpi, altri ne ricordano quattro o cinque. La pallottola recuperata sul corpo del ferito è impossibile da attribuire, ne era rimasto solo uno spezzone del peso di quattro grammi e 25. «Non poteva provenire dalla mia carabina», sostiene il principe, «a parte la diversità di calibro quella pallottola era di piombo, mentre le mie erano rivestite con una lega di rame e ottone». Ci sarebbero stati i fori sulla barca che, però, venne riparata prima che la polizia si decidesse a esaminarla.
In un primo tempo Vittorio Emanuele dichiara: «Mi prendo la responsabilità delle ferite causate dalle pallottole sfuggite». Poi però la sua linea difensiva cambia: salta fuori la pistola. La quale tuttavia, secondo Umberto Ercole che dormiva vicino a Guglielmi, «quella sera era dentro al cassetto a tre centimetri dalla mia testa». Quanto agli altri colpi uditi da alcuni testimoni, potrebbero essere stati quelli dei razzi lanciati da qualche vicino per illuminare la baia, per capire che cosa stava succedendo nella notte. Invece il principe sospetta perfino che la pallottola partita da quella pistola fosse diretta proprio contro di lui, e che il corpo Dirk Hamer gli abbia fatto da scudo. Insomma, un tragico e incolpevole incidente, come ha stabilito la giustizia francese, o un tentato omicidio (contro Niky Pende) che ha causato per fatalità la morte dell’ignaro Dirk Hamer, come continuano ad accusare a quasi un quarto di secolo di distanza amici e parenti del ragazzo tedesco?

«In quella notte maledetta ci sono state due vittime», sostiene Vittorio Emanuele, «e la seconda sono io. Fino al 18 agosto del 1978 ero un uomo tranquillo e felice, l’unica angoscia era costituita dall’esilio. Improvvisamente sono diventato “quello che va in giro con la carabina a sparare alla gente”. E invece io con la morte di Hamer non c’entro niente».
«Tutta la mia famiglia è distrutta», ha concluso invece Ryke Geerd, il padre di Dirk Hamer, «mia moglie Sigrid è morta e io stesso ho avuto il cancro. Con mio figlio sono morto un po’ anch’io».

Mauro Suttora

Wednesday, June 28, 2006

L'acqua minerale è inutile

Indagine sulle acque potabili delle città italiane

Roma, giugno

L’acqua potabile migliore d’Italia si beve ad Aosta, Bergamo, Cagliari, L’Aquila e Pavia. Dai rubinetti di Ancona, Benevento, Campobasso, Perugia e Roma esce acqua discreta. La meno buona (ma bevibile con tranquillità) è quella di Genova, Milano, Napoli, Torino e Catanzaro. Sono questi i dati principali dell’ultima indagine sull’acqua potabile effettuata da Altroconsumo. Dalla quale risulta che nella media la qualità dell’acqua di casa rivaleggia con quella delle migliori acque minerali, pagate a peso d’oro.

Ci abbiamo messo cinquemila anni per far arrivare l’acqua potabile in ogni casa, ma in meno di mezzo secolo abbiamo sciupato questa conquista di civiltà. Non ci fidiamo più dell’acqua dei nostri rubinetti, al punto che gli italiani sono diventati i maggiori consumatori di acqua minerale al mondo. E, così come i nostri bisnonni andavano con i secchielli al pozzo, oggi siamo costretti a trasportare pesanti confezioni di bottiglie e a farne scorta in casa.

Ma davvero la situazione è così drammatica? Veramente l’inquinamento ha reso imbevibile la nostra acqua? «Assolutamente no», risponde la biologa Claudia Chiozzotto, che ha coordinato lo studio di Altroconsumo: «Tutte le analisi che abbiamo effettuato nei venti capoluoghi di regione e in altre quindici città ci dicono che la qualità è sempre entro i limiti di legge e mediamente buona, anche se c’è spazio per migliorare».

L’ultima inchiesta era stata fatta tre anni fa. Da allora è entrata in vigore una nuova legge con limiti più severi, che però sono tutti rispettati. Nel 2003 un campione superava i valori massimi (per i nitrati a Palermo) e altri non si erano ancora adeguati alla legge attuale, per la presenza di trielina e percloroetilene a Milano e Torino. Questa volta a Milano ne restano tracce, me il problema dei solventi è stato sostanzialmente risolto: segno che con gli interventi giusti la qualità dell’acqua può essere garantita. Anche le città con i risultati meno soddisfacenti rispettano i limiti di legge: la loro acqua è assolutamente bevibile. Le nostre paure sono quindi immotivate. Le buone notizie non fanno mai notizia, però almeno in questo caso possiamo stare tranquilli. Ma esaminiamo più da vicino i risultati dell’indagine, partendo dal metodo utilizzato.

«Abbiamo effettuato un prelievo dalla fontanella della piazza centrale di tutti i capoluoghi regionali», spiega la dottoressa Chiozzotto, «tranne che a Roma, Milano e Napoli, dove abbiamo prelevato più campioni in parti diverse delle città. L’acqua delle fontanelle pubbliche, infatti, è accessibile a tutti, e la sua qualità è diretta responsabilità dell’acquedotto, senza intermediari. In Lombardia e Campania, poi, abbiamo fatto analisi più approfondite, in ogni capoluogo di provincia. E a Milano e Napoli abbiamo prelevato campioni d’acqua anche da case private».

È stata valutata la presenza di moltissime sostanze. Il grado di acidità (pH), che la legge vuole compreso fra 6,5 e 9,5, è nella norma per tutti i campioni. Gli scienizati hanno poi misurato la «durezza» dell’acqua, espressa in gradi francesi: la legge consiglia che sia compresa fra i 15 e i 50. Nessun campione supera il limite, ma alcuni restano sotto la soglia minima: Genova (piazza Campetto) e Catanzaro (piazza Matteotti) hanno l’acqua più «dolce»: sei gradi. Seguono Como con otto e Cagliari e Sondrio (nove). All’altro estremo, invece, Salerno e Napoli hanno l’acqua più dura, con 38 e 36. Seguono Roma (33 a piazza San Pietro e Tiburtina), Milano (32 in piazza Grandi e via Nervesa), Brescia e Firenze. «Un’acqua più dura», dice la dottoressa Chiozzotto, «è più ricca di carbonati di calcio e magnesio, non ha effetti negativi sulla salute, ma può causare incrostazioni nelle tubature. Un’acqua molto dolce, al contrario, è povera di sali minerali, importanti per le funzioni vitali dell’organismo. Il limite inferiore di quindici gradi serve per frenare trattamenti di addolcimento molto spinti da parte degli acquedotti».

I «residui fissi» sono il cavallo di battaglia nelle pubblicità delle acqua minerali. Rappresentano la quantità di sali sciolti nell’acqua, e meno ce ne sono, meglio è. Il massimo consigliato dalla legge è 1.500 milligrammi per litro, e il campione che vi si avvicina di più (Napoli), ne è molto lontano: 540. Si può quindi dire che quasi tutte le nostre acque di rubinetto sono paragonabili alle oligominerali («oligos» significa «poco» in greco). Da questo punto di vista (ma solo da questo) le migliori risultano Genova (94) e Catanzaro (115); seguono Como (128), Sondrio (130), L’Aquila (163), Campobasso (170), Benevento (174) e Pavia (181).

Quanto al sodio, non è la sua presenza nell’acqua a provocare il rischio di un consumo eccessivo. Il sodio infatti è contenuto in quantità ben maggiori in moltissimi alimenti. Meglio perciò limitarneil consumo nella dieta, che preoccuparsi di quanto ne contiene il nostro bicchiere. Il limite di legge è comunque 200 mg/litro, mentre i valori trovati in tutti i campioni sono assai bassi, fra uno (L’Aquila), due (Lecco e Sondrio), quattro (Roma), 15 (Milano) e 28 a Napoli.

E veniamo al punto dolente (ma solo per gusto e odore): il cloro. I gestori degli acquedotti usano il biossido di cloro come disinfettante. In Italia si clora molto l’acqua perchè le tubature sono in gran parte vecchie, e di fronte al pericolo di una contaminazione si preferisce prevenire, con la possibile formazione di cloriti. Il valore di legge (200 microgrammi al litro) si è rivelato troppo stringente: molti acquedotti non sarebbero riusciti a rispettarlo. Perciò è prevista una deroga fino alla fine di quest’anno con una tolleranza aumentata a 800. Residui di cloriti sono stati trovati a Bari, Caserta, Mantova e Cremona, ma tutti al di sotto degli 800 microgrammi. E senza preoccupazioni per la salute, perchè il valore guida dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) è 700.

I limite per i nitrati è 50 mg/llitro. Superano i 30 solo Milano e Napoli, Varese è a 23, Brescia a 22, Torino a 18, Palermo a 17. Ma la stragrande maggioranza delle nostre città (anche Roma) stanno sotto ai dieci. Quanto ai metalli, si trovano tracce di alluminio a Genova (ma solo 82 microgrammi per litro contro un limite di 2009), arsenico (inquinamento industriale) in valori innocui a Bolzano, Como, Cremona, Napoli e Sondrio, cromo a Brescia, Milano e Genova (può essere rilasciato anche dai rubinetti), nichel a Genova. Nessun problema neanche dal piombo, che può essere rilasciato dai tubi vecchi: la quantità massima è stata rilevata a Firenze, 3 microgrammi contro il limite di dieci.

In 28 campioni su 43, infine, i solventi sono assenti. Ma trielina e trialometani (cloroformio e bromoformio) sono stati riscontrati a Milano, Napoli, Genova, Catanzaro e Bari. Anche se i valori sono inferiori alla metà del massimo consentito, i trialometani sono assai volatili: «Passano facilmente dall’acqua all’aria», avverte la dottoressa Chiozzotto, «e perciò possono essere inalati. Basta insomma farsi la doccia con acqua molto clorata per inalare grandi concentrazioni di cloroformio. Non è comunque un rischio che si corre con le quantità dei nostri campioni, innocue per la salute anche se indice di qualità non eccelsa dell’acqua».

Mauro Suttora

Friday, June 16, 2006

La nuova donna di Paolo Berlusconi

Chi è la Cenerentola che ha conquistato il fratello del cavaliere

Mamma Rosa ha detto sì:
Patrizia merita un Berlusconi

Figlia di un emigrato, ex attrice ora produttrice, affascinante, un cerbero sul lavoro, dolce nella vita: Patrizia Marrocco, 29 anni, è una che brucia le tappe. Anche in amore. Paolo B. l’ha
subito presentata ai suoi. E lei dimostra di trovarsi a suo agio nella famiglia più potente d’Italia

Oggi, 16 giugno 2006

di Mauro Suttora

Che fine ha fatto Cenerentola? Questo è il titolo della prima commedia che ha prodotto due anni fa, scritta e interpretata dal comico romano Antonio Giuliani, che ha sbancato il botteghino del teatro Parioli di Roma. Ma oggi è lei, Patrizia Marrocco, 29 anni, bella, alta ed elegante pugliese, a essere la protagonista di una vicenda simile, dai contorni fiabeschi. 

Figlia di un muratore costretto a emigrare in Germania, nata a Colonia il primo giorno di primavera del 1977, arriva a Roma, s’impegna, fa l’attrice, smette, decide di voler fare la produttrice, s’impegna ancora di più, ci riesce, e alla fine s’innamora del suo principe: il fratello dell’uomo più ricco e potente d’Italia.

Nel giro di due settimane l’affascinante Patrizia ha avuto quello che Natalia Estrada, ex eterna fidanzata di Paolo Berlusconi, aveva messo sette anni per ottenere: un’accoglienza festosa da parte dell’intera famigliona di Arcore, compresa la mitica signora Rosa, mamma di Paolo e Silvio.

È stato un vero e proprio colpo di fulmine, quello che ha investito Patrizia e Paolo. «Sono un po’ perplesso per la differenza d’età, ma contento per mia figlia, perché al telefono l’ho sentita felice», ci dice papà Giovanni Marrocco da Giurdignano, il suo paesino di 1.700 abitanti in provincia di Lecce dov’è tornato con la famiglia e dove ora fa il piccolo costruttore. 

Sta raccogliendo le albicocche dagli alberi nel giardino dietro casa, e ha anche un ettaro e mezzo di uliveto. Patrizia ha una sorella più grande, Sonia di 37 anni, che vive con due figli in provincia di Ascoli Piceno assieme al marito carabiniere. 

«Per capire il carattere forte di Patrizia basta che le racconti questo», dice il signor Marrocco, «quando sua sorella stava aspettando la nipotina Miriana, che oggi ha nove anni, lei continuava a dirle che voleva che nascesse il 21 marzo, lo stesso giorno suo. E così è stato, incredibilmente. Patrizia l’ha battezzata, e ora farà da madrina per la cresima». Patrizia ha anche un fratello maggiore e una sorella di 22 anni, Maria Elena, parrucchiera.

I suoi colleghi la descrivono legatissima alla famiglia, agli amici, ai valori della sua terra. insomma una ragazza così seria che sul lavoro l’hanno soprannominata «bella per caso»: un connubio fra bellezza e carattere, tenacia, voglia di migliorarsi. 

Patrizia ha esordito da protagonista nel Morso del serpente, una fiction del ’99 con Gabriel Garko, Stefania Sandrelli e Aldo Giuffrè in cui era la sorella siciliana di un mafioso. Quindi è apparsa ne Il bello delle donne, ma poi ha chiuso con la carriera d’attrice: «Non mi piace apparire, preferisco stare dietro le quinte», ha spiegato.

E così è stato. Prima col teatro. Si è creato uno strettissimo sodalizio fra lei come produttrice, Giuliani come autore e protagonista, e l’attrice Eva Grimaldi. Dopo Che fine ha fatto Cenerentola?, lo scorso novembre altro successone al teatro Parioli di Maurizio Costanzo con Bravi a letto: due mesi e mezzo di repliche, record sia d’incassi che di presenze. 

«E l’anno prossimo ci riproveremo con una nuova commedia, Odio il rosso», annuncia Giuliani. Che è amicissimo di Patrizia, anche se all’inizio l’impatto fu difficile: «Si mostrava così dura che a un certo punto glielo dissi: “A Patri’, lo sai che mi stai proprio antipatica?”»

Poi il ghiaccio si è sciolto e oggi la giovanissima produttrice protegge il suo autore-perla in tutti i modi: «Per il mio compleanno lei e mia moglie avevano organizzato una festa a sorpresa, prendendomi di nascosto il telefonino e chiamando tutti i miei amici, compreso Francesco Totti», racconta Giuliani. «Poi nel locale ammise i fotografi, ma solo dalle dieci alle undici e mezzo, severissima come sempre. A un certo punto io ballavo su un cubo assieme a mia moglie e a Eva Grimaldi. Quando Patrizia si accorse che un fotografo cercava di inquadrare solo me ed Eva, per poi costruirci sopra una storia, si arrabbiò moltissimo e si precipitò a bloccarlo. Insomma, un vero cerbero. E invece nel privato è una ragazza dolcissima. Basta vederla quand’è a casa a Zagarolo assieme alla sua cagnolina Frida, una beagle».

Fino all’inizio di quest’anno Patrizia era fidanzata con un ragazzo pugliese. Stavano insieme da undici anni, si erano conosciuti sui banchi di scuola (Patrizia ha il diploma di operatrice aziendale). Poi si è gettata nel lavoro: produttrice esecutiva per le ultime puntate di Onore e Rispetto, sceneggiato diretto da Salvatore Samperi con Virna Lisi e Serena Autieri, che sarà il piatto forte per Canale 5 in autunno. 

Ora lavora a Roma per un altro film tv, Donne sbagliate, con Nancy Brilli e Manuela Arcuri. Subito dopo, a fine agosto, cominceranno le riprese per la seconda serie di Caterina e le sue figlie, sempre con Virna Lisi.

Paolo Berlusconi ha dietro di sé due matrimoni (con Mariella Bocciardo, appena eletta deputata di Forza Italia, e Antonella Costanzo), la lunga storia con la Estrada finita due mesi fa, e quattro figli. La più grande, Alessia, ha cinque anni più di Patrizia, e lo ha già reso nonno. È proprietario del quotidiano Il Giornale, del ramo immobiliare della Fininvest e di altre attività dell’impero berlusconiano.

Ma Patrizia Marrocco, nonostante la giovane età, non deve dimostrare niente a nessuno: la posizione cui è arrivata non gliel’ha regalata il principe azzurro. Cenerentola, quindi, ma solo fino a un certo punto.
Mauro Suttora

Wednesday, June 14, 2006

11 settembre: la fantaverità

New York (Stati Uniti)

Sulle Torri gemelle l'ombra del sospetto

«Crollarono perché qualcuno le aveva minate», sostengono i teorici del complotto riuniti in convegno a Chicago. Ecco tutto ciò che non quadra nella versione ufficiale dell’attacco agli Stati Uniti. E che lascia incredulo un americano su tre

Oggi, 14 giugno 2006

di Mauro Suttora

La Cia sapeva. Un anno prima che i quattro aerei dei terroristi islamici si schiantassero sulle Torri Gemelle e sul Pentagono l’11 settembre 2001, provocando tremila morti, una squadra speciale dei servizi segreti militari Usa aveva già individuato Mohamed Atta, capo del commando.

Si chiamava «Able Danger» (Pericolo possibile), quella squadra, ed era stata creata nel 1999 proprio per combattere il terrorismo internazionale e in particolare Al Qaeda, la rete di Osama Bin Laden. Perché non lo fermarono?

Di questo e di molti altri misteri si è parlato lo scorso fine settimana a Chicago, durante un congresso dell’associazione «9/11: Revealing the Truth» («11 settembre: Rivelare la verità»), che ha denunciato tutte le contraddizioni che avvolgono la strage. «Ci sono ancora un sacco di aspetti poco chiari sul crollo delle Torri a New York, sull’aereo che avrebbe colpito il Pentagono, e su quello che secondo le versioni ufficiali sarebbe stato fatto cadere dagli stessi viaggiatori, opponendosi ai terroristi che volevano farlo schiantare sulla Casa Bianca», dice Janice Matthews, direttrice dell’organizzazione.

Molti liquidano i sostenitori della «teoria del complotto» come visionari. Ma ben 70 milioni di americani, secondo i sondaggi, non credono al governo e ritengono impossibile che 19 terroristi abbiano potuto circolare impunemente per anni negli Usa.
Curt Weldon, per esempio, è il contrario di un pacifista: 58 anni, da ben venti deputato repubblicano per la Pennsylvania (stesso partito del presidente George Bush junior), vicepresidente della commissione Forze armate.
Nell’estate 2005 Weldon ha lanciato un’accusa gravissima: «L’unità Able Danger aveva identificato Atta e tre complici. Non solo l’allarme cadde nel vuoto, perchè la Cia era gelosa e non voleva invasioni di campo da parte di un’altra agenzia spionistica, ma la squadra venne sciolta nel 2000».

Le accuse di Weldon sono confermate dall’ex direttore dell’Fbi Louis Freeh, dal colonnello decorato che dirigeva la squadra segreta e da quattro suoi colleghi. La traduttrice dell’Fbi Sibel Edmonds, 33 anni, aggiunge: «Ho visto con i miei occhi documenti che dettagliavano attacchi di quel tipo, contro città con grattacieli». Ma il Congresso, nonostante le firme di 235 deputati, non ha mai aperto un’inchiesta sul perchè la Cia insabbiò la preziosa segnalazione.

Il Pentagono, dopo aver sostenuto per mesi che tutta la documentazione sull’attività di Able Danger era stata distrutta, tre settimane fa ha ammesso che esistono 9.500 pagine di documenti che riguardano la squadra. Ha negato però che contengano riferimenti scritti ad Atta. In ogni caso rifiuta di rendere pubbliche le pagine, e impedisce ai propri dirigenti di affrontare l’argomento sotto giuramento davanti al Congresso.

Gli scettici non capiscono come i terroristi abbiano potuto frequentare scuole di volo americane senza essere notati, e chiedono altre indagini sul fallimento delle ben quindici agenzie di spionaggio americano, che nonostante costino ai contribuenti una trentina di miliardi di dollari annui (perfino la cifra totale è segreta), sembrano passare la maggior parte del loro tempo a farsi la guerra fra loro, e non sono riuscite a localizzare né Osama Bin Laden, né il suo vice Al Zawahiri, né il capo dei talebani afgani mullah Omar.

D’altra parte, è da 43 anni che dura il mistero sull’assassinio del presidente John Kennedy. E certo non aiuta a stabilire la verità il comportamento di Cia e Pentagono, che a quasi cinque anni dall’avvenimento oppongono ancora il segreto a una completa ricostruzione dei fatti. «Se rivelassimo certi particolari danneggeremmo la lotta al terrorismo», sostengono le gerarchie militari. Ma quando lo fanno, a volte peggiorano le cose. Come con la recente pubblicazione di alcuni fermo-immagine dell’aereo che si abbatté sul palazzo del Pentagono, quartier generale delle forze armate statunitensi a Washington (che per ironia della sorte venne inaugurato l’11 settembre 1941, esattamente sessant’anni prima dell’attacco).

«L’Fbi tiene sotto sequestro ben 85 videotape dell’attacco al Pentagono», hanno commentato gli scettici a Chicago, «ma ci permette di vedere solo poche e confuse inquadrature di un qualcosa che forse è un aereo, incredibilmente in volo per quasi un chilometro rasoterra, con manovra degna più di un pilota acrobatico che di un terrorista arabo apprendista pilota. Ma potrebbe essere un missile, anche perché un tecnico della Rolls Royce non ha riconosciuto fra i resti quelli del motore abitualmente montato sui Boeing 757. Mostrateci piuttosto le immagini provenienti dalle telecamere del vicino hotel Sheraton, del benzinaio Citgo o del ministero dei Trasporti della Virginia, che presumibilmente sono più chiare».
«Il video del Pentagono non chiarifica nulla, non si vede un aereo in quelle immagini», conferma Michael Berger, portavoce di 911Truth.org.

Fra gli scettici ci sono, comprensibilmente, parecchi familiari delle tremila vittime. E anche dei trecento fra poliziotti e pompieri newyorkesi che si sarebbero salvati se le Torri non fossero cadute. Ed è proprio questo uno dei punti controversi: alcune foto mostrano infatti delle piccole esplosioni avvenire poche secondi prima del crollo, come se nella struttura ci fossero state delle cariche esplosive. Che potrebbero essere benissimo degli scoppi provocati dall’incendio: ma anche in questo caso occorrerebbe più trasparenza da parte delle autorità.

«È impossibile che le strutture di acciaio delle Torri gemelle si siano sciolte per l’incendio», accusa Kevin Ryan, chimico di professione e dirigente della società che ne certificò la solidità. Ed è strano anche che le Torri siano crollate su se stesse, come accade appunto quando si vuole abbattere un edificio sotto controllo, piazzando esplosivi in punti determinati.

Molte altre risposte non sono state date. Eccone alcune.

1) L’antrace: chi mise la micidiale polverina su alcune lettere spedite per posta, ammazzando cinque persone e spargendo terrore per settimane in tutti gli Stati Uniti?

2) Condoleezza Rice: che cosa ha veramente scritto nel suo memorandum su Al Qaeda del 6 agosto 2001 al presidente? Bush non ha mai voluto rivelarne il testo.

3) Perché il ministro della Giustizia John Ashcroft e alcuni dirigenti del Pentagono cancellarono i loro viaggi su voli di linea, prendendo aerei privati nei giorni precedenti l’attacco? Era circolato un allarme?

4) Come mai la potentissima difesa aerea americana, allenata da decenni a intercettare immediatamente il più piccolo aereo sospetto, ci mise 25 minuti per capire che un aereo era stato dirottato e si stava dirigendo su New York? Perché non fece nulla per 47 minuti contro l’aereo che colpì il Pentagono? E come mai nessuno è stato punito per l’inefficienza più grave dai tempi di Pearl Harbor?

5) Viceversa, perché non ipotizzare che il volo 93, caduto in Pennsylvania, sia stato abbattuto da caccia militari? Sarebbe stata un’azione agghiacciante ma necessaria, visto che i terroristi lo stavano dirigendo verso la Casa Bianca. Ora anche un film (che presto arriverà sugli schermi italiani) prende automaticamente per buona la tesi ufficiale di un’eroica resistenza da parte dei passeggeri, che avrebbe causato la caduta.

6) Dove sono finite le quattro scatole nere «indistruttibili» dei due aerei delle Torri Gemelle?

7) Perché il ministro della Difesa Donald Rumsfeld cercò subito di incolpare dell’attacco Saddam Hussein? Aveva bisogno di un casus belli? Nel 2000 un centro studi neocon (servatore) aveva profetizzato testualmente che per far accettare agli americani un aumento delle spese militari c’era bisogno di «un evento catastrofico e catalizzante, come una nuova Pearl Harbor».

I sostenitori della teoria del complotto non arrivano ad accusare Bush di avere provocato deliberatamente l’11 settembre, nè di aver chiuso un occhio. Però constatano che le spese militari Usa, che erano di 300 miliardi di dollari annui nel 2001, oggi superano l’astronomica cifra di 500 miliardi.
Esattamente come Bush aveva promesso ai suoi finanziatori delle industrie di armamenti e ai generali in campagna elettorale. «In questo senso, purtroppo, l’11 settembre è stato come il cacio sui maccheroni», commenta il professore universitario Chalmers Johnson, autore del libro 'Le Lacrime dell’Impero', tradotto in Italia l’anno scorso da Garzanti.

Mauro Suttora

Scadono i termini per i bond argentini

Sveglia, a dicembre scatta la prescrizione: non si potrà più farsi rimborsare dalle banche

Oggi, 14 giugno 2006

Settecentomila euro dalla Banca di Desio: questo è (per ora), il record italiano di rimborso per la truffa dei titoli di stato argentini. Li ha ottenuti per conto di un industriale milanese, l’avvocato di Formia (Latina) Angelo Castelli, docente di diritto finanziario all’università di Cassino. «E il 30 maggio il tribunale di Roma mi ha dato ragione su altre sette cause per 600 mila euro, contro il Montepaschi di Siena, la Cassa di risparmio di Padova e Rovigo, il San Paolo, la Banca del Fucino e la Banca delle Marche», annuncia l’avvocato.

Salgono così a 38 i processi che ha vinto, per un totale di cinque milioni di euro, su un migliaio che ne ha intentati a banche italiane, colpevoli di avere venduto titoli argentini ai loro clienti senza informarli del rischio. Altre 360 cause simili sono state vinte da altri legali per un totale di circa 400 iniziative coronate da successo.

«Tango Bond»: niente a che fare con la danza o con l’agente 007. Questa è solo l’incredibile vicenda del crac finanziario più grosso dai tempi di Wall Street del 1929, che ha alleggerito 450 mila risparmiatori italiani di quasi 15 miliardi di euro. Trentamila miliardi di lire, una cifra immensa persa per lo più da investitori del nord, non particolarmente esperti di questioni finanziarie, che si sono lasciati convincere dai consigli delle proprie banche. E ora sono gli istituti di credito a pagare, in mancanza di un rimborso da parte del governo argentino.

«Ma chi vuole ottenere giustizia, recuperando non solo tutto il capitale investito ma anche gli interessi e le spese legali, deve spicciarsi», avverte l’avvocato Castelli. «Fra sei mesi, infatti, scatterà la prescrizione e non sarà più possibile far causa alle banche per “omessa o carente informativa sul rischio”. Sono passati cinque anni, infatti, dal crac che venne annunciato dall’Argentina nel dicembre 2001».

Qualche decina di migliaia di truffati ha aderito al premio di consolazione concesso dal governo di Buenos Aires: rimborso del trenta per cento del capitale investito, ma senza interessi e soprattutto con scadenza fra vent’anni. Insomma, soltanto una mancetta per i propri figli. «Però anche chi ha accettato questa offerta può far causa alla propria banca per il restante 70 per cento», precisa Castelli.

Trecento fra i 70 mila risparmiatori coinvolti nel crac Cirio e i centomila della Parmalat si sono rivolti a Castelli, ma in questi casi la percentuale di vittorie è assai minore: solo quattro sentenze favorevoli, finora. Sono infatti ancora in corso i processi penali, ed è più difficile arrivare a una sentenza. «Invece nel caso dell’Argentina si è ormai formata una giurisprudenza consolidata per cui le banche non potevano non sapere del rischio di quei bond che hanno rifilato ai propri clienti», dice Castelli, «perché già dagli anni Novanta le agenzie di rating davano a quel Paese il livello B, e non certo le A, doppie A e triple A degli investimenti sicuri».

Ma non c’è stata, chiediamo, una certa ingenuità da parte dei risparmiatori, magari attratti dagli alti tassi d’interesse promessi? «Il regolamento della Consob è chiaro. Le banche devono informare esplicitamente dei rischi cui si va incontro, e non limitarsi a una dizione generica come “operazione a rischio”. Quindi chi non è stato informato per iscritto, chi non ha firmato fogli in cui c’erano avvertimenti dettagliati e ha tenuto la documentazione dell’investimento, può fare causa. C’è poi stato un conflitto d’interessi degli stessi istituti. In molti casi, infatti, essi avevano già in cassaforte quei titoli e poi li hanno rivenduti ai clienti senza far loro firmare alcuna liberatoria. In questo caso hanno lucrato due volte: rivendendo il titolo e attraverso le commissioni che tali vendite comportano. Difendo risparmiatori del Veneto, nella provincia di Treviso, che hanno perso addirittura tre-quattro milioni di euro ciascuno. Un’altra aggravante per alcune nostre grandi banche come la ex Comit, è che esse stesse operavano in Argentina, ed erano addirittura proprietarie della terza banca più grande a Buenos Aires».

Gli istituti di credito ora propongono ai clienti danneggiati di rivalersi contro il governo argentino. «Quella dell’Abi, l’Associazione banche italiane, è un’azione internazionale dal risultato incerto, perchè non esistono precedenti. E poi, anche se fra vari anni si vincesse, quali beni potranno essere pignorati? L’Argentina in Europa non ne ha, e le ambasciate godono dell’immunità diplomatica. Rischia di essere un diversivo fuorviante per acquietare i clienti, e intanto far passare il tempo fino alla prescrizione che scatterà in dicembre».

Qualcuno sostiene che per questi reati la prescrizione è di dieci anni, non di cinque. «Ma è un orientamento minoritario, di pochissimi tribunali. Viceversa, grazie alla nuova legge societaria le cause sontro le banche si sono rivelate relativamente veloci, perché sono tutte documentali, senza bisogno di testimonianze. In due anni in media si arriva alla sentenza, che è esecutiva già in primo grado, senza più possibilità di appelli dilatori. Per questo ormai le banche mi propongono accomodamenti per cifre rilevanti».

Le ultime obbligazioni argentine emesse nel 2000 e 2001 sono di rimborso più facile, visto che le agenzie internazionali le dichiararono «spazzatura»? «No, ci sono sentenze che riconoscono la colpa delle banche anche per i bond emessi in precedenza». E la legge di tutela del risparmio tante volte promessa, potrebbe risolvere questi problemi? «Per il futuro, certamente sì. Ma per più di mezzo milione di italiani già truffati, l’unico modo di rivalersi è portare le banche in tribunale».

Mauro Suttora

Monday, June 12, 2006

Christian Rocca, Sofri, Bonino

UMANITARISMO, NUOVA FRONTIERA DEL MILITARISMO?

Pacificar mi è caro questo mondo

I soldati in missione umanitaria costano come se facessero la guerra, ovvero quello che fanno davvero. Il giornalista Rocca, portavoce italiano dei neocon Usa, insegna alla sinistra come fare politica estera

Diario, 9 giugno 2006

Vent’anni. Tanto prevedono di rimanere in Afghanistan gli stati maggiori inglesi e americani: “Inutile illudersi, per pacificare tutto il territorio ci vorranno tempi lunghi”. E’ un calcolo realistico ma folle, perchè non tiene conto di due fattori: l’esperienza della storia e il consenso dell’opinione pubblica sia locale che occidentale.
Dell’Afghanistan infatti è proverbiale la resistenza al primo tentativo di occupazione coloniale inglese: nell’Ottocento fallì il tentativo di annessione al dominio imperiale indiano. Quanto all’invasione russa del dicembre 1979, fu addirittura una delle cause principali per il crollo dell’impero sovietico e del comunismo dieci anni dopo.
La simpatia dei locali per quelle che ormai, dopo cinque anni, vengono viste solo come truppe d’occupazione permanente, si è ridotta ai minimi termini. La settimana scorsa è bastato un tamponamento con sparatoria da parte dei soldati americani per causare un sollevamento popolare in tutta Kabul.

Quanto al consenso nei Paesi Nato che formano l’Isaf (International Security Assistance Force), esso è direttamente proporzionale ai risultati raggiunti e inversamente proporzionale al numero dei morti. I risultati sono finora disastrosi: dal 2001 non sono stati catturati nè Osama Bin Laden, nè il suo vice egiziano Al Zawahiri, nè il capo talebano mullah Omar. Sul campo la situazione invece di assestarsi peggiora. E’ iniziata l’offensiva primaverile/estiva dei talebani, e l’elegante presidente Hamid Karzai riesce a malapena a controllare la zona di Kabul. Tutto il resto è come sempre in mano ai capitribù, alcuni suoi alleati, altri no: vengono chiamati ‘signori della guerra’, e sono paragonabili ai nostri feudatari medievali. Quasi tutti ricavano il loro sostentamento dalla coltivazione e contrabbando dell’oppio.
Quel che è peggio è che le truppe americane, fuori dal comando Nato, si concentrano nella mission impossible di trovare Osama (probabilmente nascosto in qualche periferia pakistana), stanando i talebani dalle loro grotte sparse in un territorio immenso e non controllabile.

Ai militari Nato, fra i quali mille italiani, è stato rifilato il mantenimento dell’ordine pubblico. Che però oggi in Afghanistan non si chiama ne peace keeping, nè peace enforcing, nè nation building, nè difesa della democrazia. L’unica definizione seria, molto meno romantica, politicamente corretta e sofisticata, è “guerra”. Questo è ciò che stanno facendo oggi i nostri soldati, diecimila chilometri troppo lontani dai confini che dovrebbero difendere (quelli dell’Italia): una guerra. Ma non hanno il controllo del territorio. In Afghanistan non è sicura neppure l’unica autostrada, la Kabul-Kandahar.

Liberare gli oppressi. Come?

A questo pensavo il primo giugno mentre assistevo, in un ex cinemuzzo proprio davanti a Montecitorio, alla presentazione di un libro di Christian Rocca: ‘Cambiare regime’. Sottotitolo: ‘La sinistra e gli ultimi 45 dittatori’. Editore: Gli struzzi (appunto) Einaudi. Rocca scrive su un giornale di destra, il Foglio, e pure lui si lancia in una mission impossible: insegnare alla sinistra quel che deve fare in politica estera. “Lottare contro le dittature e liberare i popoli oppressi”, spiega il pedagogo Rocca al segretario dei Ds Piero Fassino, che ha abboccato e partecipa al seminario. Educato, si sorbisce pure i pistolotti degli unici due intellettuali di sinistra americani favorevoli alla guerra di George Bush junior in Iraq: Christopher Hitchens, come sempre simpaticamente etilico, e Paul Berman, il quale ribadisce che gli occidentali devono appoggiare le “guerre antifasciste” di Bush in Iraq e in Afghanistan.
Poi Fassino risponde e non può che concordare sulle ovvietà: la democrazia è bella, le dittature sono brutte, conviene abbatterle non solo perchè è giusto ma anche perchè conviene (le democrazie non fanno guerra fra loro). Lui personalmente ha le carte in regola: è stato l’unico politico italiano a ricevere il comandante afghano Massud prima che i talebani lo assassinassero nel 2001, si è sempre battuto per la liberazione dei popoli e non condivide gli eccessi dei pacifisti. che escludono la guerra comunque. Poi però fa una piccola domanda: “Come?” Come eliminiamo i dittatori? Come promuoviamo la democrazia? Visto com’è finita in Iraq, Rocca non può più rispondere: “Con la guerra”.

Nel 2003, sull’onda dell’entusiasmo per liberazione di Baghdad (che quasi tutti abbiamo condiviso), aveva scritto un altro libro, in cui proponeva non di esportare la democrazia, ma l’America tout court, e spiegava agli italiani quanto sono bravi i neocon(servatori). Accreditatosi come il loro bardo in Italia, oggi però, dopo tre anni di disastri, non può più esibirli orgogliosamente: e infatti in questo libro li confina in un sottocapitolo di otto paginette, per ribadire la sua tesi balzana che trattasi non di fascistoni militaristi, ma di ex di sinistra i quali per “idealismo pragmatico” passarono con Reagan e da allora chiedono instancabili di aumentare le spese militari (anche quando gli avversari degli Usa spendono dieci volte meno di loro). I neocon sarebbero un po’ come l’ex compagno Mussolini fino al 1914, insomma.
In un altro paragrafo Rocca sostiene che c’è una via nonviolenta nella lotta contro i dittatori, ma la fa coincidere con i dollaroni che Bush distribuisce a quelli che si dicono d’accordo con lui. Presumibilmente, d’ora in poi, anche Gheddafi: lo ha dovuto dolorosamente notare perfino Magdi Allam. Ma, in sostanza, Fassino e Rocca convengono che la guerra può essere solo una “extrema ratio” (molto estrema per il primo, poco per il secondo).

“L’intervento umanitario”

Nel dibattito poi interviene, con la maestria che gli è propria, Adriano Sofri, al suo rientro pubblico dopo la grave malattia. Il quale introduce la parola magica che da diciassette anni, cioè dalla fine della Guerra fredda, è diventata la parola d’ordine di tutti i generali di questo mondo: “Intervento umanitario” (optional: “d’emergenza”). Cosa sarebbe infatti degli eserciti occidentali, dopo la sparizione del nemico nell’89, senza l’alibi dell’umanitarismo? Come giustificherebbero la propria esistenza, i bilanci astronomici, la loro ferraglia micidiale ma ormai obsoleta (contro i terroristi), senza la scusa degli “interventi di pace”?
“Umanisteria”, l’ha definita velenosamente Milan Kundera. Però, nota giustamente Sofri, quando ce vo’ ce vo’: “Nel ‘95 bastarono poche ore di bombardamenti Nato, e quasi senza morti, per far cessare le stragi in Bosnia...” Idem in Kosovo nel ‘99. “Gli americani sarebbero dovuti intervenire anche in Ruanda nel ‘94, per far cessare il genocidio”. E dovrebbero farlo oggi in Sudan. Poi però precisa: “Nel quadro di azioni di polizia internazionale, con diritto internazionale e tribunali internazionali”. Cioè l’esatto contrario delle guerre preventive teorizzate da Bush, dell’impunità per i suoi soldati, del rifiuto della Corte internazionale dell’Aia e di ogni giurisdizione Onu.

Quella individuata da Sofri è ‘la’ questione fondamentale di questi anni, e non solo per la sinistra italiana. Perchè con la scusa della promozione della democrazia, del peacekeeping e delle missioni umanitarie, tutti i complessi militari industriali (da quello Usa, giunto quest'anno a 700 miliardi di dollari di spesa annua, al nostro molto più pastasciuttaro) continuano prosperare.

Il giorno dopo, 2 giugno, a poche centinaia di metri da quella saletta romana si sono confrontati i due corni della “politica estera” italiana: in via dei Fori imperiali (appunto) la parata militare, a Castel Sant’Angelo le tesi angelicate dei pacifisti. Ma fuori dalla retorica e dalla commedia sui distintivi del presidente della Camera, quali sono in concreto i termini del problema oggi in Italia? Dall’Iraq siamo già fuori, inutile attardarsi a discuterne: perfino la destra aveva annunciato il ritiro entro un anno.

Il paradosso italiano

Resta tuttavia l’immenso equivoco delle “missioni di pace”. Perchè alla nuova ideologia buonista abboccano anche benintenzionati come Gianni Riotta e Massimo D’Alema sul Corriere della Sera, per non parlare della regina dell’interventismo umanitario, Emma Bonino. La sua nomina a ministra della Difesa avrebbe coronato il sogno degli eserciti democratici e buoni. Solo in Italia potrebbe diventare capo delle Forze armate l’esponente di un partito, quello radicale, che tuttora si definisce antimilitarista e vanta Gandhi come simbolo. Un’operazione da manuale di neo-lingua orwelliana: ecco avanzare i militari pannelliani nonviolenti, così come la prima guerra mondiale era quella che avrebbe “fatto terminare tutte le guerre”.

A che prezzo, tuttavia, proseguiamo in queste imprese benefiche per “mostrare la bandiera” nel mondo? Le cifre sono opime: attualmente abbiamo 28 missioni in 18 Paesi con 8.500 militari. I tremila soldati stanziati (inutilmente) a Peja in Kosovo da sette anni sono costati finora tre miliardi di euro. Per i tre anni in Iraq ci vorranno alla fine due miliardi. Ogni militare in missione guadagna in media 4.500 euro in più al mese oltre lo stipendio. Nel golfo Persico vaga da anni senza scopo la fregata Scirocco con 240 marinai a bordo, mentre la Aliseo pattuglia non si sa bene perchè il Mediterraneo orientale. Nei mari ad alta salinità l’usura delle navi è più rapida. Ma niente paura: dall’anno prossimo costruiremo dieci nuove fregate europee multimissione (Fremm), al prezzo di 400 milioni l’una. Quattro miliardi, invece, costerà il nuovo giocattolo inutile e prezioso strappato dagli ammiragli: la portaerei Cavour, in varo l’anno prossimo a Muggiano (La Spezia). Stazza doppia rispetto all’attuale portaerei Garibaldi, sarà lunga 242 metri (misura massima per entrare nel porto di Taranto), avrà 1.210 marinai, trasporterà sia i caccia Harrier, sia i futuri Jsf (Joint Strike Fighters), oltre a 80 autoblindo Dardo o 24 carri armati Ariete. Per “andare a portare la pace”, ovvio. Ma dove?

“L'Italia spende per la difesa 484 dollari pro-capite, ben più di Germania (411 dollari), Giappone (332 dollari) e Canada (377 dollari)”, denuncia Giorgio Beretta della Campagna di pressione sulle ‘banche armate’. Anche un commentatore certo non pacifista come il direttore di ‘Analisi Difesa’ Gianandrea Gaiani ha criticato le missioni estere, notando che “non sembra esistere una dottrina che stabilisca in quali contesti e in base a quali interessi nazionali l’Italia sia disponibile ad inviare proprie forze nell’ambito di contingenti multinazionali.Ci limitiamo a rispondere positivamente a tutte le richieste dell’Onu, come se la presenza di truppe oltremare potesse da sola rappresentare quella politica estera che negli ultimi 50 anni l’Italia non è mai riuscita a elaborare”.

I tre quarti dei 25 miliardi delle nostre spese militari annue finisce in stipendi. Le gerarchie militari sono riuscite a ottenere forze armate di 190mila professionisti, mentre ne basterebbero la metà, integrati con l’Europa. “E poi basta con il gioco di nascondere le vere spese della difesa”, avverte Massimo Paolicelli, presidente dell’Associazione obiettori nonviolenti, “non includendo i carabinieri, ormai quarta forza armata, le missioni all’estero e le spese per i sistemi d’arma allocate alle attività produttive. Chi pensa che ci siano alternative alla difesa armata, chi da anni lavora per proporre modelli alternativi, non si accontenta di essere definito da Fassino ‘eticamente apprezzabile’ ma utopista, perchè chi governa non potrebbe escludere l’uso della forza. Oggi”, conclude Paolicelli, “è un utopista chi pensa che si vinca il terrorismo con le guerre, ma soprattutto chi sperpera denaro in inutili e mastodontici eserciti e costosissimi sistemi d’arma”.

Mauro Suttora

Wednesday, May 31, 2006

Paul McCartney divorzia

Oggi, 24 maggio 2006

«Avrai ancora bisogno di me, mi darai da mangiare, quando avrò 64 anni?»: così cantava Paul McCartney in una delle canzoni più famose dei suoi Beatles (When I’m Sixty-Four) durante la favolosa estate del 1967. Allora la vecchiaia sembrava lontanissima, trionfava il flower power degli hippies. Sir Paul compirà 64 anni il 18 giugno, ma non sarà la seconda moglie Heather Mills, di un quarto di secolo più giovane, ad accudirlo. I due si sono separati, dopo solo quattro anni di matrimonio.

Lei, ex modella, soprannominata crudelmente «gambadilegno» da quando perse la gamba in un incidente, è impegnata in cause animaliste e contro le micidiali mine antiuomo. Lui, l’uomo più ricco d’Inghilterra dopo la regina, guadagna milioni di euro al giorno anche senza far nulla, solo con i diritti d’autore delle canzoni trasmesse ogni secondo da radio e Tv di tutto il pianeta, e i dischi dei Beatles ancora popolarissimi fra i giovani, tanto che non vengono mai scontati e non si possono scaricare con i-Tunes.

Stella McCartney, figlia di Paul e stilista, si era opposta alle nozze e detestava la troppo giovane matrigna. Ma l’ex scarafaggio alle mattane politiche delle mogli era abituato, e anzi le assecondava. Era stato convertito al vegetarianesimo dall’adorata prima moglie Linda morta di cancro nel ’98.

Poco a poco la troppo intraprendente Heather gli ha rubato la scena. Un anno fa si è fatta arrestare mentre, con dei compagni di lotta, urlava contro un negozio di pellicce a Manhattan. Gli attivisti del Peta (People for Ethical Treatment of Animals) approfittavano dello status della signora McCartney, la quale grazie al cognome riceve inviti a tutte le sfilate di moda, intrufolandosi con lei per gettare vernice sugli ospiti impellicciati. Durante uno di questi scontri Heather ha subìto un infortunio tragicomico, perdendo la gamba finta nel tafferuglio. Senza perdersi d’animo se l’è subito riavvitata rialzandosi in piedi.

Niente di più lontano dalle placide abitudini di Paul, nominato Sir dalla regina nove anni fa (baronetto lo era già dal ’65), e amante delle provocazioni, sì, ma solo se effettuate con stile e humour britannico. Il massimo della trasgressione per McCartney è stato ammettere di aver fatto sporadicamente uso di Lsd ai tempi di Sgt.Pepper’s, e venire arrestato in Giappone nel 1980 per qualche spinello.

Neanche la nascita di Beatrice, due anni e mezzo fa, è riuscita ad affievolire le imbarazzanti smanie protagoniste della neosignora McCartney. E così, sempre più spesso, i due venivano fotografati da soli: lui mentre portava a spasso in bici la figlia sulla spiaggia degli Hamptons (New York), lei a battersi per qualche causa a Londra o a Los Angeles. L’ultimo colpo alla travagliata relazione l’ha dato il tour mondiale di Paul: un successo eccezionale dal punto di vista artistico, battuto ogni record d’incasso e perfino la sfida con Rolling Stones e Coldplay, contemporaneamente on the road. Più spettatori di McCartney li raccolgono solo gli U2. Ma la lontananza ha fatto «dimenticare chi non s’ama», e Paul e Heather si sono estraniati.

Ora lei dichiara disperata: «Essere chiamata cacciatrice di soldi è peggio che aver perso la gamba». Dice che per lo stress è costretta sulla sedia a rotelle, che non dorme da due settimane e che piange sempre. Vuole che si continui a chiamarla Lady McCartney, visto il titolo del marito, e per i problemi coniugali dà la colpa ai media.

«Nei suoi occhi non vedi nulla / nessun segno di affetto dietro alle lacrime / Un amore che avrebbe dovuto durare anni»: così il malinconico e già smaliziato Paul cantava quarant’anni fa nella canzone For No One. Era fidanzato con l’attricetta inglese Jane Asher, ma anni di tournée e di separazioni forzate anche allora fecero svanire l’amore.

Poi arrivò il ciclone Linda Eastman, figlia non bella di un miliardario newyorkese della quale McCartney si innamorò perdutamente. Tre figli (Mary, Stella, James), ispirazione per due delle canzoni d’amore più belle della storia (Maybe I’m Amazed e My Love), per trent’anni la coppia più solida nel mondo del rock. Non si lasciavano mai, neppure sul palco, dove Linda canticchiava e faceva finta di suonare le tastiere. Una storia simile e parallela a quella di John Lennon con Yoko Ono, uniti al limite del plagio (da parte di lei) fino all’assassinio del Beatles nel 1980. Ma almeno Linda non voleva assistere come Yoko a tutte le registrazioni in studio del complesso, pretesa che portò presto allo scioglimento del gruppo.

Anche gli altri «Fab Four» hanno avuto vite sentimentali avventurose. La prima bella moglie di George Harrison, Patty Boyd, lo piantò per mettersi con il suo migliore amico, il chitarrista Eric Clapton, dopo che questi le dedicò la canzone Layla. Ma George, imbevuto di filosofia indiana, li perdonò subito: «Meglio che stia con un ubriacone come Eric che con qualche altro mascalzone drogato». La seconda moglie Olivia invece gli è stata vicina, fino alla morte di Harrison per tumore nel 2001, a soli 58 anni. Quanto a Ringo Starr, resiste il suo matrimonio con l’attrice Barbara Bach, indimenticata Nausicaa nell’Odissea televisiva del ’68. Il simpatico batterista, amante della bottiglia quanto la moglie, è scomparso dalla scena artistica.

McCartney, invece, è il musicista più ricco e attivo del mondo. Ha un patrimonio personale di un miliardo e mezzo di euro, che non rimarrà indenne dopo la separazione dalla vorace Heather. È di McCartney la canzone regina dell’era pop-rock, Yesterday. Speriamo che ora, senza l’assillo della mogliettina arrivista e attivista, la smetta almeno di tingersi i capelli. E cominci ad assomigliare a uno splendido sessantaquattrenne.

Mauro Suttora

I "prodi" di Prodi

Oggi, 24 maggio 2006

Prodi 2, si ricomincia. Dieci anni dopo tocca ancora a lui, al Professore, sedere a Palazzo Chigi. Ma stavolta al suo fianco c’è una maggioranza più complicata da gestire. Basta guardare la lista dei 25 ministri, messi rigorosamente insieme col manuale Cencelli: 9 diessini, 6 della Margherita, 4 prodiani, e poi 1 ministro per Italia dei Valori, Pdci, Verdi, Udeur, Prc e Rosa nel Pugno.

Un cocktail da maneggiare con cura. «D’altra parte Prodi ha fatto quel che poteva», dice Emma Bonino, che puntava alla Difesa e s’è dovuta accontentare delle Politiche comunitarie e del Commercio internazionale. «La legge elettorale, con questo sciagurato ritorno al proporzionale, ha ridato peso ai partiti. Ma se faremo una buona politica riusciremo a governare». Da ministro, lei ha già le idee chiare: «L’Italia è al venticinquesimo posto nel recepimento delle direttive europee. Bisognerà fare ordine. Quanto al commercio internazionale, farò di tutto per sostenere le piccole e medie imprese. Curando con particolare attenzione i rapporti con i Paesi del Golfo».
Il governo Prodi ha come punto di forza la presenza in squadra di tre pezzi da novanta: Giuliano Amato all’Interno, Massimo D’Alema agli Esteri, Tommaso Padoa Schioppa all’Economia. Ma ha due debolezze. I numeri risicati al Senato. E la frammentazione di alcuni ministeri, vedi lo spacchettamento dell’ex Welfare in Lavoro e previdenza (Cesare Damiano, diessino) e Solidarietà sociale (Paolo Ferrero, bertinottiano).

Riuscirà Padoa Schioppa a tenere dritta la barra del programma di risanamento? Gli ulivisti ci contano, la sinistra radicale diffida e fa i capricci, non sarà troppo moderato? Il supertecnico di via XX Settembre deve vedersela con numeri da far tremare i polsi: debito al 108 per cento del Pil, crescita zero nel 2005. Lui ha già dettato la linea. Primo, verificare lo stato di salute dei conti. Poi, mettere insieme un patto di stabilità interno. «Una nuova Maastricht nazionale», l’ha definita Prodi. Intanto, a dare la caccia agli evasori ci penserà Vincenzo Visco, un altro che è tornato. La sua mission impossible: recuperare oltre 200 miliardi di euro che dovrebbero entrare nelle nostre casse (e invece restano nelle tasche altrui). «Per ora posso solo dire che bisogna ridurre le tasse e farle pagare a chi non le paga», ci dice Visco, che come primo atto dopo il suo insediamento ha chiesto un rendiconto analitico delle entrate. E ha promesso grande determinazione.
Tutti la promettono. Ma intanto affiorano le prime beghe. Vedi il ponte sullo Stretto. «Non è una priorità del governo, lo abbiamo scritto nel programma», ci dice il ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio. «Finalmente si faranno opere utili per il Paese, come il miglioramento delle autostrade Adriatica e Salerno-Reggio Calabria, invece di perdere energie sul Ponte. E nessuna penale dovrà essere pagata dallo Stato, perché è previsto solo un risarcimento per le spese effettuate sinora dall’Impregilo, la società che si era aggiudicata l’appalto».

Niente penale. E la Tav, il Treno ad alta velocità Torino-Lione che ha causato la rivolta della val di Susa? Anche qui, secondo Pecoraro Scanio, indietro tutta: «Non procederemo con la legge dell’ex ministro Lunardi, che ha creato solo le proteste della comunità locale e dei sindaci. Noi verdi pensiamo che sarebbe meglio potenziare le linee esistenti, ma il governo cercherà di discutere con la popolazione locale». E anche di discuterne al suo interno. Perché su Ponte e Tav già si nota qualche scaramuccia.

Entrambe le questioni sono infatti di competenza del neoministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro. E lui tiene a precisarlo, anche di fronte ad alcune «invasioni di campo». Vedi le dichiarazioni del neoministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, che ha definito il Ponte «inutile e velleitario». «Tutto ciò che riguarda la costruzione di infrastrutture fa capo a me», ricorda Di Pietro, «mentre il ministro dei Trasporti si occupa del traffico automobilistico, ferroviario, aereo e navale. Di tutto ciò che si muove, insomma». Di Pietro invita a ragionare bene sulle cose da fare e da non fare: «L’Italia ha bisogno di infrastrutture, ma da costruire nel rispetto dell’ambiente e del territorio. Bisogna assumersi delle responsabilità, individuare le priorità e impegnare le risorse disponibili. Io in questi primi giorni sto facendo come mia nonna prima di andare a fare la spesa: controllare quanti soldi ci sono nel borsellino».

Non ce ne sono molti. Ma è solo uno dei tanti problemi in pole position. C’è la questione della legge Biagi. Riscriverla? Rivederla in alcuni punti? Rivoltarla come un calzino? Per il nuovo ministro del Lavoro, l’ex sindacalista Fiom Cesare Damiano, «la Biagi non va abrogata, ma modificata sostanzialmente, per combattere la precarietà». Però una parte dei moderati dell’Ulivo la pensa diversamente: più che cambiata, la legge andrebbe arricchita, per esempio con una «seria normativa sugli ammortizzatori sociali».

Altro problema spinoso: l’Iraq. Lo slogan è quello di sempre: via da Baghdad. Sul come e sul quando si discute. Il neotitolare della Farnesina, Massimo D’Alema, reduce da una telefonata («molto cortese e calorosa») con Condoleezza Rice, mostra una certa fretta di mettere in agenda Nassiriya. Prodi un po’ meno. E Bonino ricorda che «non siamo lì a colonizzare. Giusto andarsene, ma con un accordo con il governo locale. Quanto all’Afghanistan, sta riprendendo l’offensiva talebana, guai ad abbandonarli».

Meno problematico, sul piano dei rapporti umani, il compito di Clemente Mastella: dopo i cinque anni di rissa furibonda con Roberto Castelli, i magistrati hanno accolto il suo nome col sorriso. E lui ricambia con una gentilezza: «Non inviterò l’Anm a venire da me, andrò io da loro». E promette «un decreto che sospenda i passaggi più contestati dell’ordinamento giudiziario». I magistrati ringraziano.

E ringrazia anche il cardinal Ruini, visibilmente soddisfatto del nuovo ministero della Famiglia. «Era ora di istituirlo», ci dice Rosy Bindi, che ne è titolare. «In Gran Bretagna, Francia e Germania esiste già da tempo. Due le mie priorità: assistenza agli anziani e sostegno ai genitori. Questo Paese deve invertire la curva demografica. Devono nascere tutti i bambini che si desiderano. Quindi più asili nido, più servizi, una politica fiscale amica. E poi il baby bond: un assegno annuale a ogni bimbo che nasce, fino ai 18 anni». Ma anche Bindi si è subito trovata nelle polemiche. C’è chi ha scritto che fa il tifo per i Pacs. «Io sono qui per difendere la famiglia», precisa. «Ma è anche giusto regolare diritti e doveri di chi ha scelto altre forme di convivenza. Che però non si chiamano famiglia».
Altro problema di cui si è discusso in questi primi giorni di marcia prodiana, le donne del governo. Poche, solo 6, e solo due in ministeri con portafoglio (Livia Turco alla Salute ed Emma Bonino al Commercio Internazionale). Dovevano essere il 30 per cento. Non lo sono. «Avevamo le migliori intenzioni», s’è giustificato Prodi nel discorso di insediamento. «Ma senza regole che ci costringano a dare spazio alle donne, da soli non ce la faremo mai». Frase folgorante, nella sua sincerità. Ogni donna in più è un uomo in meno. O si fa una legge, o le signore restano a casa. «Le quote rosa saranno uno dei primi impegni del mio ministero», promette Barbara Pollastrini, neotitolare delle Pari Opportunità. Ma anche qui, non è che tutti siano d’accordo, e le lacrime di Prestigiacomo insegnano...

In effetti c’è un sola cosa su cui sono tutti, ma proprio tutti, d’accordo: fare vincere i «no» al referendum sulla riforma federale della Costituzione. Perché la Devolution bossiana, a conti fatti, ci costerebbe un sacco di soldi. Ma soprattutto perché, se il centrodestra perde il referendum, la Lega si sgancia e i numeri della maggioranza diventano più brillanti.
Perché è così: al di là dei bisticci, Ponte o non Ponte, Pacs o non Pacs, via dall’Iraq subito o fra un po’, il vero problema di questo governo è uno solo: i numeri. Al Senato o si vota compatti o si va a casa. E dunque, al momento, si naviga con circospezione. Ce la farà Prodi a durare cinque anni? O, come dice (e spera) l’opposizione, non arriverà al panettone? Chi conosce bene il Professore invita a non sottovalutarne le qualità. Soprattutto due. La formidabile tenacia. E una sana dose di fortuna.

Anna Checchi
Mauro Suttora

Monday, May 29, 2006

I'm gonna cook you dinner

MAURO OF MANHATTAN (No Sex in the City)

New York Observer, May 29, 2006, page 2

“Tonight I’m gonna cook you dinner”.
Wow. Upper East Side women are able to turn into a memorable event what for Italian women is just boring routine. Marsha is going to feed me. It’s a rare treat she offers me about twice a month. Usually, our home dinners are independent. We open the fridge whenever we come back from work, at different hours. The maximum I do is cooking pasta (just for myself, she’s no-carb). The maximum she does is buying something at the deli (just for herself, I’m no-organic).

She has prepared me a huge hot dog. “I know it’s your favourite, I saw you going downstairs from Rizzoli for lunch, getting one at 56 and Sixth. You like both ketchup and mustard, right?”
She sounds so proud and sweet. I love her. She brings me the plate with the hot dog on the couch in front of the tv, smiling. I give one bite. Revolting. Nevertheless I swallow silently and eat it all: I don’t want to disappoint her. She spent a considerable time in the kitchen, I’m sure she tried hard and did her best. Besides, she would get offended, and her sulks are neverending. I don’t want to ruin the night. She once cooked me spinach with philadelphia cheese. But she mixed them, creating a disgusting cream. I told her I didn’t like it: “Next time, let’s have them together, but separately”. She kept silent until the next day.
“How did you like it?”, she asks hopefully.
“Terrific. Yummy yummy. Come here, let’s watch the movie. I’ll massage your feet”.

At the end of the tv movie I get up, go to the kitchen and, careful not to be seen, open the fridge. There are two remaining hot dogs, with a big ‘Meatless’ written on them. Ah. I check the ingredients: tofu, soy, the things she likes. Anything but the real thing: milkless milk, flourless bread, sugarless sugar...

Marsha doesn’t cook: she heats up in the microwave. She buys everything prepared, paying 3-400% more. Little transparent plastic boxes with salad, mostly. I read that Manhattan supermarkets make most of their profits from this: they would have to close down if they were to sell only basic food such as vegetables, milk, bread.
Actually, Marsha loves to eat directly at the supermarket. She must have been tens of times at Whole Foods in the Time Warner towers since they opened, and her other favourite is the second floor at Fairway.
“Doesn’t it bother you to eat all alone?”, I asked her.
“Not at all”.
“But it’s so sad. If you eat alone you die alone, we say in Italy”.
“It’s so relaxing, Mauro”.
I hate it when she relaxes in ways different the making love to me. Relax should occur in bed. I’m jealous of all her other ways to get it: jogging, nails, shopping, yoga, talking to her mom and friends on the phone. I can accept only massage, provided it’s me doing it to her.

The maximum of alienation, to my stupid Italian eyes, is reached by Marsha when she buys coffee on the go, sipping it through a straw in the subway or walking on the street.
“Let’s sit down at home before leaving in the morning, that’s a good way to relax. I’ll make us one,” I proposed.
“Sorry hon, I’m in a hurry.”
“What’s so urgent? Take it easy.”
“I got stuff to be done.”
“Let’s go and sit at a table at Starbucks, then.”
“I got things to be taken care of. Sorry for being so antsy, dear. It’s not you fault. I adore you.”
Marsha appears to be constantly overwhelmed, even when she doesn’t have appointments to go to nor deadlines to meet. But that’s also her charm to my eyes: the busy, powerful and businesslike New York woman.

So, after discovering her humongous ‘meatless hot dogs’ in the fridge, I go back to the sitting room and kiss her on her forehead. I am sincerely grateful for her good will and the lovely bimonthly dinner. Luckily she doesn’t notice it’s such a patronising gesture. If she knew the truth, she would spit in one eye of mine. Exactly as, if I were sincere and didn’t love her, I would have spit out her fake hot dog.

Mauro Suttora

Monday, May 22, 2006

Dep deb

Le nuove deputate

Oggi, 10 maggio 2006

Le hanno soprannominate «dep deb»: sono le deputate debuttanti, la maggioranza delle 108 nuove elette alla Camera. Un bel gruppo, in crescita rispetto alla scorsa legislatura: ora la presenza femminile in Parlamento ha raggiunto il 17 per cento. Sempre lontano dal 40 per cento dei Paesi scandinavi, ma abbiamo superato il 15 per cento degli Stati Uniti. Certo, non abbiamo ancora una Condoleezza Rice, terza carica pubblica in America (la segretaria di stato, ovvero ministra degli Esteri, viene subito dopo il presidente George Bush e il suo vice), nè una Hillary Clinton probabilissima candidata democratica alle presidenziali fra due anni. Ma Emma Bonino e Anna Finocchiaro erano considerate valide pretendenti al Quirinale, e a quest’ultima è andata la presidenza di tutti i senatori dell’Ulivo.

Peccato che nel Transatlantico (la sala adiacente all’aula di Montecitorio) non possano entrare i fotografi. Era uno spettacolo, nel giorno dell’elezione del presidente Fausto Bertinotti, il gruppetto delle debuttanti di Forza Italia formatosi di fronte alla buvette: l’ex valletta Mara Carfagna, l’attrice Fiorella Ceccacci (in arte Rubino), la portavoce Elisabetta Gardini, la bionda Michaela Biancofiore (famosa per essere stata immortalata con Silvio Berlusconi a Bolzano durante il suo «gesto del dito») e la ex cognata del Cavaliere Mariella Bocciardo, raccolte attorno alle «veterane» Valentina Aprea e Gabriella Carlucci che le iniziavano ai misteri del Palazzo. «Berlusconi avrà anche perso le elezioni, ma ha le deputate più belle», ha commentato invidioso un parlamentare di sinistra, senza osare avvicinarsi per socializzare con le avvenenti avversarie.

Stefania Prestigiacomo (Forza Italia), Daniela Santanchè (An) e Giovanna Melandri (Ds) splendono sempre, ma ormai i colleghi si sono abituati alle loro grazie. Più curiosità, invece, suscitano le «nuove»: «Un deputato sconosciuto si è presentato sorridente e mi ha chiesto a quale gruppo appartengo», racconta Silvana Mura, «ma quando gli ho detto Italia dei Valori mi pare sia rimasto deluso, e dopo un po’ se n’è andato». Fra le «new entries» spicca Giorgia Meloni di Alleanza Nazionale, e non solo perchè con i suoi 29 anni è la più giovane dell’intero Parlamento: già finita sulla copertina di qualche settimanale, è assurta alla gloria istituzionale da quando Gianfranco Fini, segretario del suo partito, l’ha voluta issare addirittura alla vicepresidenza della Camera. Sarà curioso vederla concedere o togliere la parola a onorevoli settuagenari, carichi di esperienza e prestigio: «Non nascondo la mia sensazione di ansia e anche di inadeguatezza di fronte a colleghi con una, due o dieci legislature alle spalle», ci confida, «ma questo è un segnale importante lanciato ai giovani, che si sentono estremamente distanti dal Parlamento». Non ha paura di fare la fine di Irene Pivetti, mummificata in tailleur? «No, perchè penso di riuscire a rimanere quella che sono: una militante politica, capace dell’aplomb istituzionale che mi è richiesto, ma con i jeans nella borsa, da indossare quando esco da Montecitorio».

Trent’anni fa la Bonino sfoderò jeans e zoccoli dentro la Camera, sfidando i regolamenti, ma quella ventata di novità e di rivolta sembra lontana. Tutte le debuttanti, infatti, confessano di essersi emozionate entrando la prima volta in aula: «L’impatto è stato molto forte», ci dice Fiorella Ceccacci, «e mi ha fatto effetto vedere il mio nome in grande sul tabellone elettronico. Ora voglio presenziare il più possibile alle sedute, e assorbire come una spugna tutto ciò che mi circonda. Data la mia professione mi occuperò di spettacolo: la cultura è libertaria e democratica, e occorre ridurre gli sprechi».

«L’aula mi ha trasmesso una sensazione di sacralità laica», conferma Elisabetta Rampi, diessina, «e io come sindaco di un piccolo paese di duemila abitanti, Borgolavezzaro in provincia di Novara, avverto la responsabilità di questa mia nuova carica. Sono dipendente e sindacalista delle ferrovie, dirigevo il dopolavoro del Cral aziendale, e mi occuperò di trasporti». Anche Giuseppina Castiello (An) non è una novizia, in politica: «Nel ‘95 mi sono candidata nel mio comune, Afragola vicino a Napoli, e dopo il consiglio comunale sono entrata in quello regionale della Campania, dove ero l’unica donna. Non sono favorevole alle quote rosa, ma ammetto che se non fosse stato per una norma che imponeva di candidare dieci donne al Comune non sarei mai entrata in politica. Anche perchè mio padre non era d’accordo. E ho dovuto sgomitare parecchio per farmi valere, anche all’interno del mio partito. Ora però questo mestiere non solo mi appassiona, ma lo considero una missione: mi sento delegata dai miei elettori per dar loro voce».

Ci ha messo invece parecchio tempo Paola Pelino, 51 anni, imprenditrice di Sulmona (L’Aquila), prima di decidersi a scendere in campo per Forza Italia: «Nel ‘93 Berlusconi mi convocò ad Arcore quando non aveva ancora fondato il partito, ma fino all’anno scorso ho preferito sostenerlo economicamente continuando a occuparmi dell’azienda di familiare, che produce confetti dal 1783. Poi mi sono candidata alla regione Abruzzo, e ora eccomi qui. Questo ambiente mi affascina, e addirittura mi manca durante i weekend: quando sono a casa vorrei tornare subito a Roma. La politica per me è diventata quasi una droga... Anche perchè noi donne di Forza Italia siamo raddoppiate, ora siamo 23 su 134 deputati, e formiamo un bel gruppo».

«Io per fare politica mi sono dovuta letteralmente ammazzare», ci confessa Sandra Cioffi, 61 anni, nata a Zogno (Bergamo) ma cresciuta a Napoli. Unica donna fra i 17 parlamentari dell’Udeur di Clemente Mastella, sposata a vent’anni, mamma a 21, era diventata presidente di circoscrizione ma poi ha dovuto smettere: «E’ inutile, senza quote rosa noi donne non ce la facciamo a fare politica. Io ci sono riuscita soltanto perchè ero spinta da una passione smodata, provenendo dal volontariato cattolico. Ma bisogna stabilire per legge che gli eletti dello stesso sesso non possano superare i due terzi in ogni assemblea».

«Sarà anche una stupidata, ma qui alla Camera c’è un barbiere per i maschi, e invece manca un parrucchiere», nota Silvana Mura. La cosa che ha colpito di più Giorgia Meloni, invece, è la professionalità del personale di Montecitorio: «Dopo un giorno funzionari e commessi ci conoscevano già una per una con nome e cognome. Incredibile. Sono rimasta anche stupita dai prezzi al ristorante interno: incredibilmente bassi. Con lo stipendio che prendiamo, forse potremmo permetterci di pagare qualcosa di più. Ma questo non lo scriva, altrimenti i colleghi mi uccidono...»

Mauro Suttora

Donne e politica

settimanale Grazia, 10 maggio 2006

Sette anni fa avrebbe potuto farcela: Emma Bonino vinceva tutti i sondaggi popolari per il Quirinale. Per disinnescarla, i professionisti (maschi) della politica dovettero ricorrere a Carlo Azeglio Ciampi. Questa volta, invece, l’ex commissaria europea non solo è sparita dalla lista dei presidenziabili, ma è stata esclusa anche da qualsiasi ministero di serie A, come la Difesa. Gli uomini politici (uomini, appunto: in inglese invece si dice “politician”, sostantivo neutro) si sono reimpadroniti di ogni poltrona che conta. Nessuna donna è mai stata in lizza per le tre poltrone più importanti dello stato: presidenza della Repubblica, Senato, Camera. E neanche per la quarta, la quinta o la sesta: premier, ministro degli Esteri, degli Interni...

“Però noi deputate di Forza Italia siamo raddoppiate rispetto alla scorsa legislatura”, si consola Paola Pelino di Sulmona (L’Aquila), imprenditrice dell’omonima azienda di confetti e neoeletta nel partito di Silvio Berlusconi: “Eravamo tredici su 170, ora siamo 23 su 134”. Il 17 per cento, quindi. In linea con la quota rosa dell’intera Camera: 108 deputate su 630. Contro il 42% in Svezia, il 37 in Finlandia, il 35 in Norvegia... Fra i ministri, poi, le donne in Svezia detengono la maggioranza assoluta. Ma non è detto che ci sia una corrispondenza le percentuali di elette e il potere effettivo detenuto al femminile. Negli Stati Uniti, infatti, nonostante le donne al Congresso siano in numero perfino minore che in Italia (15%), per il voto presidenziale fra due anni si profila uno scontro tutto rosa: la democratica Hillary Clinton contro Condoleezza Rice per i repubblicani. E se questi ultimi le preferissero Rudy Giuliani o John McCain come candidato, le verrebbe probabilmente offerta la poltrona di vicepresidente.

Già oggi la Rice ricopre la terza carica più importante del Paese più potente della Terra, dopo George Bush e il suo vice Dick Cheney: segretaria di stato, ovvero ministra degli Esteri. È lei, nel bene e nel male, il volto pubblico dell’America nel mondo, quella che va a farsi fischiare ad Atene o applaudire a Varsavia. E l’italoamericana Nancy Pelosi guida il partito democratico alla camera dei Rappresentanti. Qui da noi Anna Finocchiaro è riuscita a farsi eleggere capogruppo dell’Ulivo al Senato. Ma a molti questo è sembrato solo un premio di consolazione per la brava e autorevole diessina siciliana, mancata ministra della Giustizia (il suo nome era stato fatto anche come possibile capo dello stato, assieme alla Bonino e all’astronoma Margherita Hack).

Come mai le donne fanno così fatica a emergere nella politica italiana? La risposta è semplice: tutti i partiti oggi sono guidati da maschi, dopo rare eccezioni in passato come la compianta Adelaide Aglietta per i radicali e la verde Grazia Francescato. Con la nuova legge elettorale, il ritorno al proporzionale e l’abolizione delle preferenze, gli unici a decidere chi verrà eletto sono i segretari di partito. Coloro che conquistano un buon posto in lista, infatti, vanno automaticamente in Parlamento, senza dovere neppure farsi campagna elettorale. Si può quindi dire che il vero momento della verità non è quello del voto, ma quello della composizione delle liste. E qui le donne sono state tagliate fuori: sembra che non “portano voti”, come si dice, intendendo le clientele. E i volti famosi o piacevoli giocati per attrarre consenso (Manuela Di Centa, Mara Carfagna) sono un abbellimento che non scalfisce il duro nocciolo del potere.

“Io per fare politica ho dovuto letteralmente ammazzarmi”, confessa Sandra Cioffi, unica donna fra i 17 parlamentari dell’Udeur di Clemente Mastella, “e ce l’ho fatta solo perchè mi ha sempre sorretto una passione smodata prima per il volontariato cattolico e poi per la politica”. Sposata a vent’anni, mamma a 21, un cursus honorum cominciato come consigliere di quartiere a Napoli, l’onorevole Cioffi è il classico esempio della donna che a un certo punto (nel 1993) è stata costretta a rinunciare all’impegno pubblico per non sacrificare troppo il suo ruolo di moglie e madre. Per questo oggi invoca con decisione le “quote rosa”, cioè la percentuale obbligatoria di elette che ha fatto scattare la rivoluzione al femminile nei Paesi scandinavi: “Però, per non rischiare di nuovo la bocciatura da parte della corte Costituzionale, sarebbe bene che il famoso articolo 51 della costituzione si limitasse a prevedere che ogni assemblea elettiva non può essere composta per più dei due terzi da rappresentanti dello stesso sesso”.

Una quota minima garantita del 33%, quindi, che rappresenterebbe comunque un raddoppio rispetto alle percentuali italiane attuali. Ma osservando la composizione dell’attuale Parlamento, si nota subito che soprattutto a sinistra anche fra le debuttanti prevalgono le funzionarie di partito, oppure le detentrici di cariche elettive: ex sindache, ex consiglieri regionali. Insomma, fra i maschi come fra le femmine ormai in Italia si è creata una ‘nomenklatura’ di politici di mestiere. Un ceto separato di circa centomila persone, ha calcolato il senatore diessino Cesare Salvi in un suo recente libro, che cominciano lavorando come portaborse o in circoscrizione, e che poi sono costrette ad andare avanti semplicemente per salvaguardare lo stipendio. Esigenza legittima e comprensibile, ma addio passione (e indipendenza di giudizio).

In Italia, quindi, sarebbe impossibile un ‘fenomeno Condi Rice’, ovvero di una donna che avendo raggiunto importanti vette nella propria vita professionale (direttrice amministrativa dell’università di Stanford, consigliere d’amministrazione di multinazionali del petrolio), decide a un certo punto della carriera di “mettersi al servizio della comunità”. Capita anche in Italia, ma sempre più raramente. Nel suo piccolo, è rimasta stregata dalla politica l’onorevole Pelino, debuttante a 51 anni: “Le prime sedute alla Camera mi hanno talmente affascinato che durante i week-end a Sulmona non vedo l’ora di tornare a Roma. Sì, ormai sono ‘drogata’ di politica...”