Wednesday, June 14, 2006

11 settembre: la fantaverità

New York (Stati Uniti)

Sulle Torri gemelle l'ombra del sospetto

«Crollarono perché qualcuno le aveva minate», sostengono i teorici del complotto riuniti in convegno a Chicago. Ecco tutto ciò che non quadra nella versione ufficiale dell’attacco agli Stati Uniti. E che lascia incredulo un americano su tre

Oggi, 14 giugno 2006

di Mauro Suttora

La Cia sapeva. Un anno prima che i quattro aerei dei terroristi islamici si schiantassero sulle Torri Gemelle e sul Pentagono l’11 settembre 2001, provocando tremila morti, una squadra speciale dei servizi segreti militari Usa aveva già individuato Mohamed Atta, capo del commando.

Si chiamava «Able Danger» (Pericolo possibile), quella squadra, ed era stata creata nel 1999 proprio per combattere il terrorismo internazionale e in particolare Al Qaeda, la rete di Osama Bin Laden. Perché non lo fermarono?

Di questo e di molti altri misteri si è parlato lo scorso fine settimana a Chicago, durante un congresso dell’associazione «9/11: Revealing the Truth» («11 settembre: Rivelare la verità»), che ha denunciato tutte le contraddizioni che avvolgono la strage. «Ci sono ancora un sacco di aspetti poco chiari sul crollo delle Torri a New York, sull’aereo che avrebbe colpito il Pentagono, e su quello che secondo le versioni ufficiali sarebbe stato fatto cadere dagli stessi viaggiatori, opponendosi ai terroristi che volevano farlo schiantare sulla Casa Bianca», dice Janice Matthews, direttrice dell’organizzazione.

Molti liquidano i sostenitori della «teoria del complotto» come visionari. Ma ben 70 milioni di americani, secondo i sondaggi, non credono al governo e ritengono impossibile che 19 terroristi abbiano potuto circolare impunemente per anni negli Usa.
Curt Weldon, per esempio, è il contrario di un pacifista: 58 anni, da ben venti deputato repubblicano per la Pennsylvania (stesso partito del presidente George Bush junior), vicepresidente della commissione Forze armate.
Nell’estate 2005 Weldon ha lanciato un’accusa gravissima: «L’unità Able Danger aveva identificato Atta e tre complici. Non solo l’allarme cadde nel vuoto, perchè la Cia era gelosa e non voleva invasioni di campo da parte di un’altra agenzia spionistica, ma la squadra venne sciolta nel 2000».

Le accuse di Weldon sono confermate dall’ex direttore dell’Fbi Louis Freeh, dal colonnello decorato che dirigeva la squadra segreta e da quattro suoi colleghi. La traduttrice dell’Fbi Sibel Edmonds, 33 anni, aggiunge: «Ho visto con i miei occhi documenti che dettagliavano attacchi di quel tipo, contro città con grattacieli». Ma il Congresso, nonostante le firme di 235 deputati, non ha mai aperto un’inchiesta sul perchè la Cia insabbiò la preziosa segnalazione.

Il Pentagono, dopo aver sostenuto per mesi che tutta la documentazione sull’attività di Able Danger era stata distrutta, tre settimane fa ha ammesso che esistono 9.500 pagine di documenti che riguardano la squadra. Ha negato però che contengano riferimenti scritti ad Atta. In ogni caso rifiuta di rendere pubbliche le pagine, e impedisce ai propri dirigenti di affrontare l’argomento sotto giuramento davanti al Congresso.

Gli scettici non capiscono come i terroristi abbiano potuto frequentare scuole di volo americane senza essere notati, e chiedono altre indagini sul fallimento delle ben quindici agenzie di spionaggio americano, che nonostante costino ai contribuenti una trentina di miliardi di dollari annui (perfino la cifra totale è segreta), sembrano passare la maggior parte del loro tempo a farsi la guerra fra loro, e non sono riuscite a localizzare né Osama Bin Laden, né il suo vice Al Zawahiri, né il capo dei talebani afgani mullah Omar.

D’altra parte, è da 43 anni che dura il mistero sull’assassinio del presidente John Kennedy. E certo non aiuta a stabilire la verità il comportamento di Cia e Pentagono, che a quasi cinque anni dall’avvenimento oppongono ancora il segreto a una completa ricostruzione dei fatti. «Se rivelassimo certi particolari danneggeremmo la lotta al terrorismo», sostengono le gerarchie militari. Ma quando lo fanno, a volte peggiorano le cose. Come con la recente pubblicazione di alcuni fermo-immagine dell’aereo che si abbatté sul palazzo del Pentagono, quartier generale delle forze armate statunitensi a Washington (che per ironia della sorte venne inaugurato l’11 settembre 1941, esattamente sessant’anni prima dell’attacco).

«L’Fbi tiene sotto sequestro ben 85 videotape dell’attacco al Pentagono», hanno commentato gli scettici a Chicago, «ma ci permette di vedere solo poche e confuse inquadrature di un qualcosa che forse è un aereo, incredibilmente in volo per quasi un chilometro rasoterra, con manovra degna più di un pilota acrobatico che di un terrorista arabo apprendista pilota. Ma potrebbe essere un missile, anche perché un tecnico della Rolls Royce non ha riconosciuto fra i resti quelli del motore abitualmente montato sui Boeing 757. Mostrateci piuttosto le immagini provenienti dalle telecamere del vicino hotel Sheraton, del benzinaio Citgo o del ministero dei Trasporti della Virginia, che presumibilmente sono più chiare».
«Il video del Pentagono non chiarifica nulla, non si vede un aereo in quelle immagini», conferma Michael Berger, portavoce di 911Truth.org.

Fra gli scettici ci sono, comprensibilmente, parecchi familiari delle tremila vittime. E anche dei trecento fra poliziotti e pompieri newyorkesi che si sarebbero salvati se le Torri non fossero cadute. Ed è proprio questo uno dei punti controversi: alcune foto mostrano infatti delle piccole esplosioni avvenire poche secondi prima del crollo, come se nella struttura ci fossero state delle cariche esplosive. Che potrebbero essere benissimo degli scoppi provocati dall’incendio: ma anche in questo caso occorrerebbe più trasparenza da parte delle autorità.

«È impossibile che le strutture di acciaio delle Torri gemelle si siano sciolte per l’incendio», accusa Kevin Ryan, chimico di professione e dirigente della società che ne certificò la solidità. Ed è strano anche che le Torri siano crollate su se stesse, come accade appunto quando si vuole abbattere un edificio sotto controllo, piazzando esplosivi in punti determinati.

Molte altre risposte non sono state date. Eccone alcune.

1) L’antrace: chi mise la micidiale polverina su alcune lettere spedite per posta, ammazzando cinque persone e spargendo terrore per settimane in tutti gli Stati Uniti?

2) Condoleezza Rice: che cosa ha veramente scritto nel suo memorandum su Al Qaeda del 6 agosto 2001 al presidente? Bush non ha mai voluto rivelarne il testo.

3) Perché il ministro della Giustizia John Ashcroft e alcuni dirigenti del Pentagono cancellarono i loro viaggi su voli di linea, prendendo aerei privati nei giorni precedenti l’attacco? Era circolato un allarme?

4) Come mai la potentissima difesa aerea americana, allenata da decenni a intercettare immediatamente il più piccolo aereo sospetto, ci mise 25 minuti per capire che un aereo era stato dirottato e si stava dirigendo su New York? Perché non fece nulla per 47 minuti contro l’aereo che colpì il Pentagono? E come mai nessuno è stato punito per l’inefficienza più grave dai tempi di Pearl Harbor?

5) Viceversa, perché non ipotizzare che il volo 93, caduto in Pennsylvania, sia stato abbattuto da caccia militari? Sarebbe stata un’azione agghiacciante ma necessaria, visto che i terroristi lo stavano dirigendo verso la Casa Bianca. Ora anche un film (che presto arriverà sugli schermi italiani) prende automaticamente per buona la tesi ufficiale di un’eroica resistenza da parte dei passeggeri, che avrebbe causato la caduta.

6) Dove sono finite le quattro scatole nere «indistruttibili» dei due aerei delle Torri Gemelle?

7) Perché il ministro della Difesa Donald Rumsfeld cercò subito di incolpare dell’attacco Saddam Hussein? Aveva bisogno di un casus belli? Nel 2000 un centro studi neocon (servatore) aveva profetizzato testualmente che per far accettare agli americani un aumento delle spese militari c’era bisogno di «un evento catastrofico e catalizzante, come una nuova Pearl Harbor».

I sostenitori della teoria del complotto non arrivano ad accusare Bush di avere provocato deliberatamente l’11 settembre, nè di aver chiuso un occhio. Però constatano che le spese militari Usa, che erano di 300 miliardi di dollari annui nel 2001, oggi superano l’astronomica cifra di 500 miliardi.
Esattamente come Bush aveva promesso ai suoi finanziatori delle industrie di armamenti e ai generali in campagna elettorale. «In questo senso, purtroppo, l’11 settembre è stato come il cacio sui maccheroni», commenta il professore universitario Chalmers Johnson, autore del libro 'Le Lacrime dell’Impero', tradotto in Italia l’anno scorso da Garzanti.

Mauro Suttora

Scadono i termini per i bond argentini

Sveglia, a dicembre scatta la prescrizione: non si potrà più farsi rimborsare dalle banche

Oggi, 14 giugno 2006

Settecentomila euro dalla Banca di Desio: questo è (per ora), il record italiano di rimborso per la truffa dei titoli di stato argentini. Li ha ottenuti per conto di un industriale milanese, l’avvocato di Formia (Latina) Angelo Castelli, docente di diritto finanziario all’università di Cassino. «E il 30 maggio il tribunale di Roma mi ha dato ragione su altre sette cause per 600 mila euro, contro il Montepaschi di Siena, la Cassa di risparmio di Padova e Rovigo, il San Paolo, la Banca del Fucino e la Banca delle Marche», annuncia l’avvocato.

Salgono così a 38 i processi che ha vinto, per un totale di cinque milioni di euro, su un migliaio che ne ha intentati a banche italiane, colpevoli di avere venduto titoli argentini ai loro clienti senza informarli del rischio. Altre 360 cause simili sono state vinte da altri legali per un totale di circa 400 iniziative coronate da successo.

«Tango Bond»: niente a che fare con la danza o con l’agente 007. Questa è solo l’incredibile vicenda del crac finanziario più grosso dai tempi di Wall Street del 1929, che ha alleggerito 450 mila risparmiatori italiani di quasi 15 miliardi di euro. Trentamila miliardi di lire, una cifra immensa persa per lo più da investitori del nord, non particolarmente esperti di questioni finanziarie, che si sono lasciati convincere dai consigli delle proprie banche. E ora sono gli istituti di credito a pagare, in mancanza di un rimborso da parte del governo argentino.

«Ma chi vuole ottenere giustizia, recuperando non solo tutto il capitale investito ma anche gli interessi e le spese legali, deve spicciarsi», avverte l’avvocato Castelli. «Fra sei mesi, infatti, scatterà la prescrizione e non sarà più possibile far causa alle banche per “omessa o carente informativa sul rischio”. Sono passati cinque anni, infatti, dal crac che venne annunciato dall’Argentina nel dicembre 2001».

Qualche decina di migliaia di truffati ha aderito al premio di consolazione concesso dal governo di Buenos Aires: rimborso del trenta per cento del capitale investito, ma senza interessi e soprattutto con scadenza fra vent’anni. Insomma, soltanto una mancetta per i propri figli. «Però anche chi ha accettato questa offerta può far causa alla propria banca per il restante 70 per cento», precisa Castelli.

Trecento fra i 70 mila risparmiatori coinvolti nel crac Cirio e i centomila della Parmalat si sono rivolti a Castelli, ma in questi casi la percentuale di vittorie è assai minore: solo quattro sentenze favorevoli, finora. Sono infatti ancora in corso i processi penali, ed è più difficile arrivare a una sentenza. «Invece nel caso dell’Argentina si è ormai formata una giurisprudenza consolidata per cui le banche non potevano non sapere del rischio di quei bond che hanno rifilato ai propri clienti», dice Castelli, «perché già dagli anni Novanta le agenzie di rating davano a quel Paese il livello B, e non certo le A, doppie A e triple A degli investimenti sicuri».

Ma non c’è stata, chiediamo, una certa ingenuità da parte dei risparmiatori, magari attratti dagli alti tassi d’interesse promessi? «Il regolamento della Consob è chiaro. Le banche devono informare esplicitamente dei rischi cui si va incontro, e non limitarsi a una dizione generica come “operazione a rischio”. Quindi chi non è stato informato per iscritto, chi non ha firmato fogli in cui c’erano avvertimenti dettagliati e ha tenuto la documentazione dell’investimento, può fare causa. C’è poi stato un conflitto d’interessi degli stessi istituti. In molti casi, infatti, essi avevano già in cassaforte quei titoli e poi li hanno rivenduti ai clienti senza far loro firmare alcuna liberatoria. In questo caso hanno lucrato due volte: rivendendo il titolo e attraverso le commissioni che tali vendite comportano. Difendo risparmiatori del Veneto, nella provincia di Treviso, che hanno perso addirittura tre-quattro milioni di euro ciascuno. Un’altra aggravante per alcune nostre grandi banche come la ex Comit, è che esse stesse operavano in Argentina, ed erano addirittura proprietarie della terza banca più grande a Buenos Aires».

Gli istituti di credito ora propongono ai clienti danneggiati di rivalersi contro il governo argentino. «Quella dell’Abi, l’Associazione banche italiane, è un’azione internazionale dal risultato incerto, perchè non esistono precedenti. E poi, anche se fra vari anni si vincesse, quali beni potranno essere pignorati? L’Argentina in Europa non ne ha, e le ambasciate godono dell’immunità diplomatica. Rischia di essere un diversivo fuorviante per acquietare i clienti, e intanto far passare il tempo fino alla prescrizione che scatterà in dicembre».

Qualcuno sostiene che per questi reati la prescrizione è di dieci anni, non di cinque. «Ma è un orientamento minoritario, di pochissimi tribunali. Viceversa, grazie alla nuova legge societaria le cause sontro le banche si sono rivelate relativamente veloci, perché sono tutte documentali, senza bisogno di testimonianze. In due anni in media si arriva alla sentenza, che è esecutiva già in primo grado, senza più possibilità di appelli dilatori. Per questo ormai le banche mi propongono accomodamenti per cifre rilevanti».

Le ultime obbligazioni argentine emesse nel 2000 e 2001 sono di rimborso più facile, visto che le agenzie internazionali le dichiararono «spazzatura»? «No, ci sono sentenze che riconoscono la colpa delle banche anche per i bond emessi in precedenza». E la legge di tutela del risparmio tante volte promessa, potrebbe risolvere questi problemi? «Per il futuro, certamente sì. Ma per più di mezzo milione di italiani già truffati, l’unico modo di rivalersi è portare le banche in tribunale».

Mauro Suttora

Monday, June 12, 2006

Christian Rocca, Sofri, Bonino

UMANITARISMO, NUOVA FRONTIERA DEL MILITARISMO?

Pacificar mi è caro questo mondo

I soldati in missione umanitaria costano come se facessero la guerra, ovvero quello che fanno davvero. Il giornalista Rocca, portavoce italiano dei neocon Usa, insegna alla sinistra come fare politica estera

Diario, 9 giugno 2006

Vent’anni. Tanto prevedono di rimanere in Afghanistan gli stati maggiori inglesi e americani: “Inutile illudersi, per pacificare tutto il territorio ci vorranno tempi lunghi”. E’ un calcolo realistico ma folle, perchè non tiene conto di due fattori: l’esperienza della storia e il consenso dell’opinione pubblica sia locale che occidentale.
Dell’Afghanistan infatti è proverbiale la resistenza al primo tentativo di occupazione coloniale inglese: nell’Ottocento fallì il tentativo di annessione al dominio imperiale indiano. Quanto all’invasione russa del dicembre 1979, fu addirittura una delle cause principali per il crollo dell’impero sovietico e del comunismo dieci anni dopo.
La simpatia dei locali per quelle che ormai, dopo cinque anni, vengono viste solo come truppe d’occupazione permanente, si è ridotta ai minimi termini. La settimana scorsa è bastato un tamponamento con sparatoria da parte dei soldati americani per causare un sollevamento popolare in tutta Kabul.

Quanto al consenso nei Paesi Nato che formano l’Isaf (International Security Assistance Force), esso è direttamente proporzionale ai risultati raggiunti e inversamente proporzionale al numero dei morti. I risultati sono finora disastrosi: dal 2001 non sono stati catturati nè Osama Bin Laden, nè il suo vice egiziano Al Zawahiri, nè il capo talebano mullah Omar. Sul campo la situazione invece di assestarsi peggiora. E’ iniziata l’offensiva primaverile/estiva dei talebani, e l’elegante presidente Hamid Karzai riesce a malapena a controllare la zona di Kabul. Tutto il resto è come sempre in mano ai capitribù, alcuni suoi alleati, altri no: vengono chiamati ‘signori della guerra’, e sono paragonabili ai nostri feudatari medievali. Quasi tutti ricavano il loro sostentamento dalla coltivazione e contrabbando dell’oppio.
Quel che è peggio è che le truppe americane, fuori dal comando Nato, si concentrano nella mission impossible di trovare Osama (probabilmente nascosto in qualche periferia pakistana), stanando i talebani dalle loro grotte sparse in un territorio immenso e non controllabile.

Ai militari Nato, fra i quali mille italiani, è stato rifilato il mantenimento dell’ordine pubblico. Che però oggi in Afghanistan non si chiama ne peace keeping, nè peace enforcing, nè nation building, nè difesa della democrazia. L’unica definizione seria, molto meno romantica, politicamente corretta e sofisticata, è “guerra”. Questo è ciò che stanno facendo oggi i nostri soldati, diecimila chilometri troppo lontani dai confini che dovrebbero difendere (quelli dell’Italia): una guerra. Ma non hanno il controllo del territorio. In Afghanistan non è sicura neppure l’unica autostrada, la Kabul-Kandahar.

Liberare gli oppressi. Come?

A questo pensavo il primo giugno mentre assistevo, in un ex cinemuzzo proprio davanti a Montecitorio, alla presentazione di un libro di Christian Rocca: ‘Cambiare regime’. Sottotitolo: ‘La sinistra e gli ultimi 45 dittatori’. Editore: Gli struzzi (appunto) Einaudi. Rocca scrive su un giornale di destra, il Foglio, e pure lui si lancia in una mission impossible: insegnare alla sinistra quel che deve fare in politica estera. “Lottare contro le dittature e liberare i popoli oppressi”, spiega il pedagogo Rocca al segretario dei Ds Piero Fassino, che ha abboccato e partecipa al seminario. Educato, si sorbisce pure i pistolotti degli unici due intellettuali di sinistra americani favorevoli alla guerra di George Bush junior in Iraq: Christopher Hitchens, come sempre simpaticamente etilico, e Paul Berman, il quale ribadisce che gli occidentali devono appoggiare le “guerre antifasciste” di Bush in Iraq e in Afghanistan.
Poi Fassino risponde e non può che concordare sulle ovvietà: la democrazia è bella, le dittature sono brutte, conviene abbatterle non solo perchè è giusto ma anche perchè conviene (le democrazie non fanno guerra fra loro). Lui personalmente ha le carte in regola: è stato l’unico politico italiano a ricevere il comandante afghano Massud prima che i talebani lo assassinassero nel 2001, si è sempre battuto per la liberazione dei popoli e non condivide gli eccessi dei pacifisti. che escludono la guerra comunque. Poi però fa una piccola domanda: “Come?” Come eliminiamo i dittatori? Come promuoviamo la democrazia? Visto com’è finita in Iraq, Rocca non può più rispondere: “Con la guerra”.

Nel 2003, sull’onda dell’entusiasmo per liberazione di Baghdad (che quasi tutti abbiamo condiviso), aveva scritto un altro libro, in cui proponeva non di esportare la democrazia, ma l’America tout court, e spiegava agli italiani quanto sono bravi i neocon(servatori). Accreditatosi come il loro bardo in Italia, oggi però, dopo tre anni di disastri, non può più esibirli orgogliosamente: e infatti in questo libro li confina in un sottocapitolo di otto paginette, per ribadire la sua tesi balzana che trattasi non di fascistoni militaristi, ma di ex di sinistra i quali per “idealismo pragmatico” passarono con Reagan e da allora chiedono instancabili di aumentare le spese militari (anche quando gli avversari degli Usa spendono dieci volte meno di loro). I neocon sarebbero un po’ come l’ex compagno Mussolini fino al 1914, insomma.
In un altro paragrafo Rocca sostiene che c’è una via nonviolenta nella lotta contro i dittatori, ma la fa coincidere con i dollaroni che Bush distribuisce a quelli che si dicono d’accordo con lui. Presumibilmente, d’ora in poi, anche Gheddafi: lo ha dovuto dolorosamente notare perfino Magdi Allam. Ma, in sostanza, Fassino e Rocca convengono che la guerra può essere solo una “extrema ratio” (molto estrema per il primo, poco per il secondo).

“L’intervento umanitario”

Nel dibattito poi interviene, con la maestria che gli è propria, Adriano Sofri, al suo rientro pubblico dopo la grave malattia. Il quale introduce la parola magica che da diciassette anni, cioè dalla fine della Guerra fredda, è diventata la parola d’ordine di tutti i generali di questo mondo: “Intervento umanitario” (optional: “d’emergenza”). Cosa sarebbe infatti degli eserciti occidentali, dopo la sparizione del nemico nell’89, senza l’alibi dell’umanitarismo? Come giustificherebbero la propria esistenza, i bilanci astronomici, la loro ferraglia micidiale ma ormai obsoleta (contro i terroristi), senza la scusa degli “interventi di pace”?
“Umanisteria”, l’ha definita velenosamente Milan Kundera. Però, nota giustamente Sofri, quando ce vo’ ce vo’: “Nel ‘95 bastarono poche ore di bombardamenti Nato, e quasi senza morti, per far cessare le stragi in Bosnia...” Idem in Kosovo nel ‘99. “Gli americani sarebbero dovuti intervenire anche in Ruanda nel ‘94, per far cessare il genocidio”. E dovrebbero farlo oggi in Sudan. Poi però precisa: “Nel quadro di azioni di polizia internazionale, con diritto internazionale e tribunali internazionali”. Cioè l’esatto contrario delle guerre preventive teorizzate da Bush, dell’impunità per i suoi soldati, del rifiuto della Corte internazionale dell’Aia e di ogni giurisdizione Onu.

Quella individuata da Sofri è ‘la’ questione fondamentale di questi anni, e non solo per la sinistra italiana. Perchè con la scusa della promozione della democrazia, del peacekeeping e delle missioni umanitarie, tutti i complessi militari industriali (da quello Usa, giunto quest'anno a 700 miliardi di dollari di spesa annua, al nostro molto più pastasciuttaro) continuano prosperare.

Il giorno dopo, 2 giugno, a poche centinaia di metri da quella saletta romana si sono confrontati i due corni della “politica estera” italiana: in via dei Fori imperiali (appunto) la parata militare, a Castel Sant’Angelo le tesi angelicate dei pacifisti. Ma fuori dalla retorica e dalla commedia sui distintivi del presidente della Camera, quali sono in concreto i termini del problema oggi in Italia? Dall’Iraq siamo già fuori, inutile attardarsi a discuterne: perfino la destra aveva annunciato il ritiro entro un anno.

Il paradosso italiano

Resta tuttavia l’immenso equivoco delle “missioni di pace”. Perchè alla nuova ideologia buonista abboccano anche benintenzionati come Gianni Riotta e Massimo D’Alema sul Corriere della Sera, per non parlare della regina dell’interventismo umanitario, Emma Bonino. La sua nomina a ministra della Difesa avrebbe coronato il sogno degli eserciti democratici e buoni. Solo in Italia potrebbe diventare capo delle Forze armate l’esponente di un partito, quello radicale, che tuttora si definisce antimilitarista e vanta Gandhi come simbolo. Un’operazione da manuale di neo-lingua orwelliana: ecco avanzare i militari pannelliani nonviolenti, così come la prima guerra mondiale era quella che avrebbe “fatto terminare tutte le guerre”.

A che prezzo, tuttavia, proseguiamo in queste imprese benefiche per “mostrare la bandiera” nel mondo? Le cifre sono opime: attualmente abbiamo 28 missioni in 18 Paesi con 8.500 militari. I tremila soldati stanziati (inutilmente) a Peja in Kosovo da sette anni sono costati finora tre miliardi di euro. Per i tre anni in Iraq ci vorranno alla fine due miliardi. Ogni militare in missione guadagna in media 4.500 euro in più al mese oltre lo stipendio. Nel golfo Persico vaga da anni senza scopo la fregata Scirocco con 240 marinai a bordo, mentre la Aliseo pattuglia non si sa bene perchè il Mediterraneo orientale. Nei mari ad alta salinità l’usura delle navi è più rapida. Ma niente paura: dall’anno prossimo costruiremo dieci nuove fregate europee multimissione (Fremm), al prezzo di 400 milioni l’una. Quattro miliardi, invece, costerà il nuovo giocattolo inutile e prezioso strappato dagli ammiragli: la portaerei Cavour, in varo l’anno prossimo a Muggiano (La Spezia). Stazza doppia rispetto all’attuale portaerei Garibaldi, sarà lunga 242 metri (misura massima per entrare nel porto di Taranto), avrà 1.210 marinai, trasporterà sia i caccia Harrier, sia i futuri Jsf (Joint Strike Fighters), oltre a 80 autoblindo Dardo o 24 carri armati Ariete. Per “andare a portare la pace”, ovvio. Ma dove?

“L'Italia spende per la difesa 484 dollari pro-capite, ben più di Germania (411 dollari), Giappone (332 dollari) e Canada (377 dollari)”, denuncia Giorgio Beretta della Campagna di pressione sulle ‘banche armate’. Anche un commentatore certo non pacifista come il direttore di ‘Analisi Difesa’ Gianandrea Gaiani ha criticato le missioni estere, notando che “non sembra esistere una dottrina che stabilisca in quali contesti e in base a quali interessi nazionali l’Italia sia disponibile ad inviare proprie forze nell’ambito di contingenti multinazionali.Ci limitiamo a rispondere positivamente a tutte le richieste dell’Onu, come se la presenza di truppe oltremare potesse da sola rappresentare quella politica estera che negli ultimi 50 anni l’Italia non è mai riuscita a elaborare”.

I tre quarti dei 25 miliardi delle nostre spese militari annue finisce in stipendi. Le gerarchie militari sono riuscite a ottenere forze armate di 190mila professionisti, mentre ne basterebbero la metà, integrati con l’Europa. “E poi basta con il gioco di nascondere le vere spese della difesa”, avverte Massimo Paolicelli, presidente dell’Associazione obiettori nonviolenti, “non includendo i carabinieri, ormai quarta forza armata, le missioni all’estero e le spese per i sistemi d’arma allocate alle attività produttive. Chi pensa che ci siano alternative alla difesa armata, chi da anni lavora per proporre modelli alternativi, non si accontenta di essere definito da Fassino ‘eticamente apprezzabile’ ma utopista, perchè chi governa non potrebbe escludere l’uso della forza. Oggi”, conclude Paolicelli, “è un utopista chi pensa che si vinca il terrorismo con le guerre, ma soprattutto chi sperpera denaro in inutili e mastodontici eserciti e costosissimi sistemi d’arma”.

Mauro Suttora

Wednesday, May 31, 2006

Paul McCartney divorzia

Oggi, 24 maggio 2006

«Avrai ancora bisogno di me, mi darai da mangiare, quando avrò 64 anni?»: così cantava Paul McCartney in una delle canzoni più famose dei suoi Beatles (When I’m Sixty-Four) durante la favolosa estate del 1967. Allora la vecchiaia sembrava lontanissima, trionfava il flower power degli hippies. Sir Paul compirà 64 anni il 18 giugno, ma non sarà la seconda moglie Heather Mills, di un quarto di secolo più giovane, ad accudirlo. I due si sono separati, dopo solo quattro anni di matrimonio.

Lei, ex modella, soprannominata crudelmente «gambadilegno» da quando perse la gamba in un incidente, è impegnata in cause animaliste e contro le micidiali mine antiuomo. Lui, l’uomo più ricco d’Inghilterra dopo la regina, guadagna milioni di euro al giorno anche senza far nulla, solo con i diritti d’autore delle canzoni trasmesse ogni secondo da radio e Tv di tutto il pianeta, e i dischi dei Beatles ancora popolarissimi fra i giovani, tanto che non vengono mai scontati e non si possono scaricare con i-Tunes.

Stella McCartney, figlia di Paul e stilista, si era opposta alle nozze e detestava la troppo giovane matrigna. Ma l’ex scarafaggio alle mattane politiche delle mogli era abituato, e anzi le assecondava. Era stato convertito al vegetarianesimo dall’adorata prima moglie Linda morta di cancro nel ’98.

Poco a poco la troppo intraprendente Heather gli ha rubato la scena. Un anno fa si è fatta arrestare mentre, con dei compagni di lotta, urlava contro un negozio di pellicce a Manhattan. Gli attivisti del Peta (People for Ethical Treatment of Animals) approfittavano dello status della signora McCartney, la quale grazie al cognome riceve inviti a tutte le sfilate di moda, intrufolandosi con lei per gettare vernice sugli ospiti impellicciati. Durante uno di questi scontri Heather ha subìto un infortunio tragicomico, perdendo la gamba finta nel tafferuglio. Senza perdersi d’animo se l’è subito riavvitata rialzandosi in piedi.

Niente di più lontano dalle placide abitudini di Paul, nominato Sir dalla regina nove anni fa (baronetto lo era già dal ’65), e amante delle provocazioni, sì, ma solo se effettuate con stile e humour britannico. Il massimo della trasgressione per McCartney è stato ammettere di aver fatto sporadicamente uso di Lsd ai tempi di Sgt.Pepper’s, e venire arrestato in Giappone nel 1980 per qualche spinello.

Neanche la nascita di Beatrice, due anni e mezzo fa, è riuscita ad affievolire le imbarazzanti smanie protagoniste della neosignora McCartney. E così, sempre più spesso, i due venivano fotografati da soli: lui mentre portava a spasso in bici la figlia sulla spiaggia degli Hamptons (New York), lei a battersi per qualche causa a Londra o a Los Angeles. L’ultimo colpo alla travagliata relazione l’ha dato il tour mondiale di Paul: un successo eccezionale dal punto di vista artistico, battuto ogni record d’incasso e perfino la sfida con Rolling Stones e Coldplay, contemporaneamente on the road. Più spettatori di McCartney li raccolgono solo gli U2. Ma la lontananza ha fatto «dimenticare chi non s’ama», e Paul e Heather si sono estraniati.

Ora lei dichiara disperata: «Essere chiamata cacciatrice di soldi è peggio che aver perso la gamba». Dice che per lo stress è costretta sulla sedia a rotelle, che non dorme da due settimane e che piange sempre. Vuole che si continui a chiamarla Lady McCartney, visto il titolo del marito, e per i problemi coniugali dà la colpa ai media.

«Nei suoi occhi non vedi nulla / nessun segno di affetto dietro alle lacrime / Un amore che avrebbe dovuto durare anni»: così il malinconico e già smaliziato Paul cantava quarant’anni fa nella canzone For No One. Era fidanzato con l’attricetta inglese Jane Asher, ma anni di tournée e di separazioni forzate anche allora fecero svanire l’amore.

Poi arrivò il ciclone Linda Eastman, figlia non bella di un miliardario newyorkese della quale McCartney si innamorò perdutamente. Tre figli (Mary, Stella, James), ispirazione per due delle canzoni d’amore più belle della storia (Maybe I’m Amazed e My Love), per trent’anni la coppia più solida nel mondo del rock. Non si lasciavano mai, neppure sul palco, dove Linda canticchiava e faceva finta di suonare le tastiere. Una storia simile e parallela a quella di John Lennon con Yoko Ono, uniti al limite del plagio (da parte di lei) fino all’assassinio del Beatles nel 1980. Ma almeno Linda non voleva assistere come Yoko a tutte le registrazioni in studio del complesso, pretesa che portò presto allo scioglimento del gruppo.

Anche gli altri «Fab Four» hanno avuto vite sentimentali avventurose. La prima bella moglie di George Harrison, Patty Boyd, lo piantò per mettersi con il suo migliore amico, il chitarrista Eric Clapton, dopo che questi le dedicò la canzone Layla. Ma George, imbevuto di filosofia indiana, li perdonò subito: «Meglio che stia con un ubriacone come Eric che con qualche altro mascalzone drogato». La seconda moglie Olivia invece gli è stata vicina, fino alla morte di Harrison per tumore nel 2001, a soli 58 anni. Quanto a Ringo Starr, resiste il suo matrimonio con l’attrice Barbara Bach, indimenticata Nausicaa nell’Odissea televisiva del ’68. Il simpatico batterista, amante della bottiglia quanto la moglie, è scomparso dalla scena artistica.

McCartney, invece, è il musicista più ricco e attivo del mondo. Ha un patrimonio personale di un miliardo e mezzo di euro, che non rimarrà indenne dopo la separazione dalla vorace Heather. È di McCartney la canzone regina dell’era pop-rock, Yesterday. Speriamo che ora, senza l’assillo della mogliettina arrivista e attivista, la smetta almeno di tingersi i capelli. E cominci ad assomigliare a uno splendido sessantaquattrenne.

Mauro Suttora

I "prodi" di Prodi

Oggi, 24 maggio 2006

Prodi 2, si ricomincia. Dieci anni dopo tocca ancora a lui, al Professore, sedere a Palazzo Chigi. Ma stavolta al suo fianco c’è una maggioranza più complicata da gestire. Basta guardare la lista dei 25 ministri, messi rigorosamente insieme col manuale Cencelli: 9 diessini, 6 della Margherita, 4 prodiani, e poi 1 ministro per Italia dei Valori, Pdci, Verdi, Udeur, Prc e Rosa nel Pugno.

Un cocktail da maneggiare con cura. «D’altra parte Prodi ha fatto quel che poteva», dice Emma Bonino, che puntava alla Difesa e s’è dovuta accontentare delle Politiche comunitarie e del Commercio internazionale. «La legge elettorale, con questo sciagurato ritorno al proporzionale, ha ridato peso ai partiti. Ma se faremo una buona politica riusciremo a governare». Da ministro, lei ha già le idee chiare: «L’Italia è al venticinquesimo posto nel recepimento delle direttive europee. Bisognerà fare ordine. Quanto al commercio internazionale, farò di tutto per sostenere le piccole e medie imprese. Curando con particolare attenzione i rapporti con i Paesi del Golfo».
Il governo Prodi ha come punto di forza la presenza in squadra di tre pezzi da novanta: Giuliano Amato all’Interno, Massimo D’Alema agli Esteri, Tommaso Padoa Schioppa all’Economia. Ma ha due debolezze. I numeri risicati al Senato. E la frammentazione di alcuni ministeri, vedi lo spacchettamento dell’ex Welfare in Lavoro e previdenza (Cesare Damiano, diessino) e Solidarietà sociale (Paolo Ferrero, bertinottiano).

Riuscirà Padoa Schioppa a tenere dritta la barra del programma di risanamento? Gli ulivisti ci contano, la sinistra radicale diffida e fa i capricci, non sarà troppo moderato? Il supertecnico di via XX Settembre deve vedersela con numeri da far tremare i polsi: debito al 108 per cento del Pil, crescita zero nel 2005. Lui ha già dettato la linea. Primo, verificare lo stato di salute dei conti. Poi, mettere insieme un patto di stabilità interno. «Una nuova Maastricht nazionale», l’ha definita Prodi. Intanto, a dare la caccia agli evasori ci penserà Vincenzo Visco, un altro che è tornato. La sua mission impossible: recuperare oltre 200 miliardi di euro che dovrebbero entrare nelle nostre casse (e invece restano nelle tasche altrui). «Per ora posso solo dire che bisogna ridurre le tasse e farle pagare a chi non le paga», ci dice Visco, che come primo atto dopo il suo insediamento ha chiesto un rendiconto analitico delle entrate. E ha promesso grande determinazione.
Tutti la promettono. Ma intanto affiorano le prime beghe. Vedi il ponte sullo Stretto. «Non è una priorità del governo, lo abbiamo scritto nel programma», ci dice il ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio. «Finalmente si faranno opere utili per il Paese, come il miglioramento delle autostrade Adriatica e Salerno-Reggio Calabria, invece di perdere energie sul Ponte. E nessuna penale dovrà essere pagata dallo Stato, perché è previsto solo un risarcimento per le spese effettuate sinora dall’Impregilo, la società che si era aggiudicata l’appalto».

Niente penale. E la Tav, il Treno ad alta velocità Torino-Lione che ha causato la rivolta della val di Susa? Anche qui, secondo Pecoraro Scanio, indietro tutta: «Non procederemo con la legge dell’ex ministro Lunardi, che ha creato solo le proteste della comunità locale e dei sindaci. Noi verdi pensiamo che sarebbe meglio potenziare le linee esistenti, ma il governo cercherà di discutere con la popolazione locale». E anche di discuterne al suo interno. Perché su Ponte e Tav già si nota qualche scaramuccia.

Entrambe le questioni sono infatti di competenza del neoministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro. E lui tiene a precisarlo, anche di fronte ad alcune «invasioni di campo». Vedi le dichiarazioni del neoministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, che ha definito il Ponte «inutile e velleitario». «Tutto ciò che riguarda la costruzione di infrastrutture fa capo a me», ricorda Di Pietro, «mentre il ministro dei Trasporti si occupa del traffico automobilistico, ferroviario, aereo e navale. Di tutto ciò che si muove, insomma». Di Pietro invita a ragionare bene sulle cose da fare e da non fare: «L’Italia ha bisogno di infrastrutture, ma da costruire nel rispetto dell’ambiente e del territorio. Bisogna assumersi delle responsabilità, individuare le priorità e impegnare le risorse disponibili. Io in questi primi giorni sto facendo come mia nonna prima di andare a fare la spesa: controllare quanti soldi ci sono nel borsellino».

Non ce ne sono molti. Ma è solo uno dei tanti problemi in pole position. C’è la questione della legge Biagi. Riscriverla? Rivederla in alcuni punti? Rivoltarla come un calzino? Per il nuovo ministro del Lavoro, l’ex sindacalista Fiom Cesare Damiano, «la Biagi non va abrogata, ma modificata sostanzialmente, per combattere la precarietà». Però una parte dei moderati dell’Ulivo la pensa diversamente: più che cambiata, la legge andrebbe arricchita, per esempio con una «seria normativa sugli ammortizzatori sociali».

Altro problema spinoso: l’Iraq. Lo slogan è quello di sempre: via da Baghdad. Sul come e sul quando si discute. Il neotitolare della Farnesina, Massimo D’Alema, reduce da una telefonata («molto cortese e calorosa») con Condoleezza Rice, mostra una certa fretta di mettere in agenda Nassiriya. Prodi un po’ meno. E Bonino ricorda che «non siamo lì a colonizzare. Giusto andarsene, ma con un accordo con il governo locale. Quanto all’Afghanistan, sta riprendendo l’offensiva talebana, guai ad abbandonarli».

Meno problematico, sul piano dei rapporti umani, il compito di Clemente Mastella: dopo i cinque anni di rissa furibonda con Roberto Castelli, i magistrati hanno accolto il suo nome col sorriso. E lui ricambia con una gentilezza: «Non inviterò l’Anm a venire da me, andrò io da loro». E promette «un decreto che sospenda i passaggi più contestati dell’ordinamento giudiziario». I magistrati ringraziano.

E ringrazia anche il cardinal Ruini, visibilmente soddisfatto del nuovo ministero della Famiglia. «Era ora di istituirlo», ci dice Rosy Bindi, che ne è titolare. «In Gran Bretagna, Francia e Germania esiste già da tempo. Due le mie priorità: assistenza agli anziani e sostegno ai genitori. Questo Paese deve invertire la curva demografica. Devono nascere tutti i bambini che si desiderano. Quindi più asili nido, più servizi, una politica fiscale amica. E poi il baby bond: un assegno annuale a ogni bimbo che nasce, fino ai 18 anni». Ma anche Bindi si è subito trovata nelle polemiche. C’è chi ha scritto che fa il tifo per i Pacs. «Io sono qui per difendere la famiglia», precisa. «Ma è anche giusto regolare diritti e doveri di chi ha scelto altre forme di convivenza. Che però non si chiamano famiglia».
Altro problema di cui si è discusso in questi primi giorni di marcia prodiana, le donne del governo. Poche, solo 6, e solo due in ministeri con portafoglio (Livia Turco alla Salute ed Emma Bonino al Commercio Internazionale). Dovevano essere il 30 per cento. Non lo sono. «Avevamo le migliori intenzioni», s’è giustificato Prodi nel discorso di insediamento. «Ma senza regole che ci costringano a dare spazio alle donne, da soli non ce la faremo mai». Frase folgorante, nella sua sincerità. Ogni donna in più è un uomo in meno. O si fa una legge, o le signore restano a casa. «Le quote rosa saranno uno dei primi impegni del mio ministero», promette Barbara Pollastrini, neotitolare delle Pari Opportunità. Ma anche qui, non è che tutti siano d’accordo, e le lacrime di Prestigiacomo insegnano...

In effetti c’è un sola cosa su cui sono tutti, ma proprio tutti, d’accordo: fare vincere i «no» al referendum sulla riforma federale della Costituzione. Perché la Devolution bossiana, a conti fatti, ci costerebbe un sacco di soldi. Ma soprattutto perché, se il centrodestra perde il referendum, la Lega si sgancia e i numeri della maggioranza diventano più brillanti.
Perché è così: al di là dei bisticci, Ponte o non Ponte, Pacs o non Pacs, via dall’Iraq subito o fra un po’, il vero problema di questo governo è uno solo: i numeri. Al Senato o si vota compatti o si va a casa. E dunque, al momento, si naviga con circospezione. Ce la farà Prodi a durare cinque anni? O, come dice (e spera) l’opposizione, non arriverà al panettone? Chi conosce bene il Professore invita a non sottovalutarne le qualità. Soprattutto due. La formidabile tenacia. E una sana dose di fortuna.

Anna Checchi
Mauro Suttora

Monday, May 29, 2006

I'm gonna cook you dinner

MAURO OF MANHATTAN (No Sex in the City)

New York Observer, May 29, 2006, page 2

“Tonight I’m gonna cook you dinner”.
Wow. Upper East Side women are able to turn into a memorable event what for Italian women is just boring routine. Marsha is going to feed me. It’s a rare treat she offers me about twice a month. Usually, our home dinners are independent. We open the fridge whenever we come back from work, at different hours. The maximum I do is cooking pasta (just for myself, she’s no-carb). The maximum she does is buying something at the deli (just for herself, I’m no-organic).

She has prepared me a huge hot dog. “I know it’s your favourite, I saw you going downstairs from Rizzoli for lunch, getting one at 56 and Sixth. You like both ketchup and mustard, right?”
She sounds so proud and sweet. I love her. She brings me the plate with the hot dog on the couch in front of the tv, smiling. I give one bite. Revolting. Nevertheless I swallow silently and eat it all: I don’t want to disappoint her. She spent a considerable time in the kitchen, I’m sure she tried hard and did her best. Besides, she would get offended, and her sulks are neverending. I don’t want to ruin the night. She once cooked me spinach with philadelphia cheese. But she mixed them, creating a disgusting cream. I told her I didn’t like it: “Next time, let’s have them together, but separately”. She kept silent until the next day.
“How did you like it?”, she asks hopefully.
“Terrific. Yummy yummy. Come here, let’s watch the movie. I’ll massage your feet”.

At the end of the tv movie I get up, go to the kitchen and, careful not to be seen, open the fridge. There are two remaining hot dogs, with a big ‘Meatless’ written on them. Ah. I check the ingredients: tofu, soy, the things she likes. Anything but the real thing: milkless milk, flourless bread, sugarless sugar...

Marsha doesn’t cook: she heats up in the microwave. She buys everything prepared, paying 3-400% more. Little transparent plastic boxes with salad, mostly. I read that Manhattan supermarkets make most of their profits from this: they would have to close down if they were to sell only basic food such as vegetables, milk, bread.
Actually, Marsha loves to eat directly at the supermarket. She must have been tens of times at Whole Foods in the Time Warner towers since they opened, and her other favourite is the second floor at Fairway.
“Doesn’t it bother you to eat all alone?”, I asked her.
“Not at all”.
“But it’s so sad. If you eat alone you die alone, we say in Italy”.
“It’s so relaxing, Mauro”.
I hate it when she relaxes in ways different the making love to me. Relax should occur in bed. I’m jealous of all her other ways to get it: jogging, nails, shopping, yoga, talking to her mom and friends on the phone. I can accept only massage, provided it’s me doing it to her.

The maximum of alienation, to my stupid Italian eyes, is reached by Marsha when she buys coffee on the go, sipping it through a straw in the subway or walking on the street.
“Let’s sit down at home before leaving in the morning, that’s a good way to relax. I’ll make us one,” I proposed.
“Sorry hon, I’m in a hurry.”
“What’s so urgent? Take it easy.”
“I got stuff to be done.”
“Let’s go and sit at a table at Starbucks, then.”
“I got things to be taken care of. Sorry for being so antsy, dear. It’s not you fault. I adore you.”
Marsha appears to be constantly overwhelmed, even when she doesn’t have appointments to go to nor deadlines to meet. But that’s also her charm to my eyes: the busy, powerful and businesslike New York woman.

So, after discovering her humongous ‘meatless hot dogs’ in the fridge, I go back to the sitting room and kiss her on her forehead. I am sincerely grateful for her good will and the lovely bimonthly dinner. Luckily she doesn’t notice it’s such a patronising gesture. If she knew the truth, she would spit in one eye of mine. Exactly as, if I were sincere and didn’t love her, I would have spit out her fake hot dog.

Mauro Suttora

Monday, May 22, 2006

Dep deb

Le nuove deputate

Oggi, 10 maggio 2006

Le hanno soprannominate «dep deb»: sono le deputate debuttanti, la maggioranza delle 108 nuove elette alla Camera. Un bel gruppo, in crescita rispetto alla scorsa legislatura: ora la presenza femminile in Parlamento ha raggiunto il 17 per cento. Sempre lontano dal 40 per cento dei Paesi scandinavi, ma abbiamo superato il 15 per cento degli Stati Uniti. Certo, non abbiamo ancora una Condoleezza Rice, terza carica pubblica in America (la segretaria di stato, ovvero ministra degli Esteri, viene subito dopo il presidente George Bush e il suo vice), nè una Hillary Clinton probabilissima candidata democratica alle presidenziali fra due anni. Ma Emma Bonino e Anna Finocchiaro erano considerate valide pretendenti al Quirinale, e a quest’ultima è andata la presidenza di tutti i senatori dell’Ulivo.

Peccato che nel Transatlantico (la sala adiacente all’aula di Montecitorio) non possano entrare i fotografi. Era uno spettacolo, nel giorno dell’elezione del presidente Fausto Bertinotti, il gruppetto delle debuttanti di Forza Italia formatosi di fronte alla buvette: l’ex valletta Mara Carfagna, l’attrice Fiorella Ceccacci (in arte Rubino), la portavoce Elisabetta Gardini, la bionda Michaela Biancofiore (famosa per essere stata immortalata con Silvio Berlusconi a Bolzano durante il suo «gesto del dito») e la ex cognata del Cavaliere Mariella Bocciardo, raccolte attorno alle «veterane» Valentina Aprea e Gabriella Carlucci che le iniziavano ai misteri del Palazzo. «Berlusconi avrà anche perso le elezioni, ma ha le deputate più belle», ha commentato invidioso un parlamentare di sinistra, senza osare avvicinarsi per socializzare con le avvenenti avversarie.

Stefania Prestigiacomo (Forza Italia), Daniela Santanchè (An) e Giovanna Melandri (Ds) splendono sempre, ma ormai i colleghi si sono abituati alle loro grazie. Più curiosità, invece, suscitano le «nuove»: «Un deputato sconosciuto si è presentato sorridente e mi ha chiesto a quale gruppo appartengo», racconta Silvana Mura, «ma quando gli ho detto Italia dei Valori mi pare sia rimasto deluso, e dopo un po’ se n’è andato». Fra le «new entries» spicca Giorgia Meloni di Alleanza Nazionale, e non solo perchè con i suoi 29 anni è la più giovane dell’intero Parlamento: già finita sulla copertina di qualche settimanale, è assurta alla gloria istituzionale da quando Gianfranco Fini, segretario del suo partito, l’ha voluta issare addirittura alla vicepresidenza della Camera. Sarà curioso vederla concedere o togliere la parola a onorevoli settuagenari, carichi di esperienza e prestigio: «Non nascondo la mia sensazione di ansia e anche di inadeguatezza di fronte a colleghi con una, due o dieci legislature alle spalle», ci confida, «ma questo è un segnale importante lanciato ai giovani, che si sentono estremamente distanti dal Parlamento». Non ha paura di fare la fine di Irene Pivetti, mummificata in tailleur? «No, perchè penso di riuscire a rimanere quella che sono: una militante politica, capace dell’aplomb istituzionale che mi è richiesto, ma con i jeans nella borsa, da indossare quando esco da Montecitorio».

Trent’anni fa la Bonino sfoderò jeans e zoccoli dentro la Camera, sfidando i regolamenti, ma quella ventata di novità e di rivolta sembra lontana. Tutte le debuttanti, infatti, confessano di essersi emozionate entrando la prima volta in aula: «L’impatto è stato molto forte», ci dice Fiorella Ceccacci, «e mi ha fatto effetto vedere il mio nome in grande sul tabellone elettronico. Ora voglio presenziare il più possibile alle sedute, e assorbire come una spugna tutto ciò che mi circonda. Data la mia professione mi occuperò di spettacolo: la cultura è libertaria e democratica, e occorre ridurre gli sprechi».

«L’aula mi ha trasmesso una sensazione di sacralità laica», conferma Elisabetta Rampi, diessina, «e io come sindaco di un piccolo paese di duemila abitanti, Borgolavezzaro in provincia di Novara, avverto la responsabilità di questa mia nuova carica. Sono dipendente e sindacalista delle ferrovie, dirigevo il dopolavoro del Cral aziendale, e mi occuperò di trasporti». Anche Giuseppina Castiello (An) non è una novizia, in politica: «Nel ‘95 mi sono candidata nel mio comune, Afragola vicino a Napoli, e dopo il consiglio comunale sono entrata in quello regionale della Campania, dove ero l’unica donna. Non sono favorevole alle quote rosa, ma ammetto che se non fosse stato per una norma che imponeva di candidare dieci donne al Comune non sarei mai entrata in politica. Anche perchè mio padre non era d’accordo. E ho dovuto sgomitare parecchio per farmi valere, anche all’interno del mio partito. Ora però questo mestiere non solo mi appassiona, ma lo considero una missione: mi sento delegata dai miei elettori per dar loro voce».

Ci ha messo invece parecchio tempo Paola Pelino, 51 anni, imprenditrice di Sulmona (L’Aquila), prima di decidersi a scendere in campo per Forza Italia: «Nel ‘93 Berlusconi mi convocò ad Arcore quando non aveva ancora fondato il partito, ma fino all’anno scorso ho preferito sostenerlo economicamente continuando a occuparmi dell’azienda di familiare, che produce confetti dal 1783. Poi mi sono candidata alla regione Abruzzo, e ora eccomi qui. Questo ambiente mi affascina, e addirittura mi manca durante i weekend: quando sono a casa vorrei tornare subito a Roma. La politica per me è diventata quasi una droga... Anche perchè noi donne di Forza Italia siamo raddoppiate, ora siamo 23 su 134 deputati, e formiamo un bel gruppo».

«Io per fare politica mi sono dovuta letteralmente ammazzare», ci confessa Sandra Cioffi, 61 anni, nata a Zogno (Bergamo) ma cresciuta a Napoli. Unica donna fra i 17 parlamentari dell’Udeur di Clemente Mastella, sposata a vent’anni, mamma a 21, era diventata presidente di circoscrizione ma poi ha dovuto smettere: «E’ inutile, senza quote rosa noi donne non ce la facciamo a fare politica. Io ci sono riuscita soltanto perchè ero spinta da una passione smodata, provenendo dal volontariato cattolico. Ma bisogna stabilire per legge che gli eletti dello stesso sesso non possano superare i due terzi in ogni assemblea».

«Sarà anche una stupidata, ma qui alla Camera c’è un barbiere per i maschi, e invece manca un parrucchiere», nota Silvana Mura. La cosa che ha colpito di più Giorgia Meloni, invece, è la professionalità del personale di Montecitorio: «Dopo un giorno funzionari e commessi ci conoscevano già una per una con nome e cognome. Incredibile. Sono rimasta anche stupita dai prezzi al ristorante interno: incredibilmente bassi. Con lo stipendio che prendiamo, forse potremmo permetterci di pagare qualcosa di più. Ma questo non lo scriva, altrimenti i colleghi mi uccidono...»

Mauro Suttora

Donne e politica

settimanale Grazia, 10 maggio 2006

Sette anni fa avrebbe potuto farcela: Emma Bonino vinceva tutti i sondaggi popolari per il Quirinale. Per disinnescarla, i professionisti (maschi) della politica dovettero ricorrere a Carlo Azeglio Ciampi. Questa volta, invece, l’ex commissaria europea non solo è sparita dalla lista dei presidenziabili, ma è stata esclusa anche da qualsiasi ministero di serie A, come la Difesa. Gli uomini politici (uomini, appunto: in inglese invece si dice “politician”, sostantivo neutro) si sono reimpadroniti di ogni poltrona che conta. Nessuna donna è mai stata in lizza per le tre poltrone più importanti dello stato: presidenza della Repubblica, Senato, Camera. E neanche per la quarta, la quinta o la sesta: premier, ministro degli Esteri, degli Interni...

“Però noi deputate di Forza Italia siamo raddoppiate rispetto alla scorsa legislatura”, si consola Paola Pelino di Sulmona (L’Aquila), imprenditrice dell’omonima azienda di confetti e neoeletta nel partito di Silvio Berlusconi: “Eravamo tredici su 170, ora siamo 23 su 134”. Il 17 per cento, quindi. In linea con la quota rosa dell’intera Camera: 108 deputate su 630. Contro il 42% in Svezia, il 37 in Finlandia, il 35 in Norvegia... Fra i ministri, poi, le donne in Svezia detengono la maggioranza assoluta. Ma non è detto che ci sia una corrispondenza le percentuali di elette e il potere effettivo detenuto al femminile. Negli Stati Uniti, infatti, nonostante le donne al Congresso siano in numero perfino minore che in Italia (15%), per il voto presidenziale fra due anni si profila uno scontro tutto rosa: la democratica Hillary Clinton contro Condoleezza Rice per i repubblicani. E se questi ultimi le preferissero Rudy Giuliani o John McCain come candidato, le verrebbe probabilmente offerta la poltrona di vicepresidente.

Già oggi la Rice ricopre la terza carica più importante del Paese più potente della Terra, dopo George Bush e il suo vice Dick Cheney: segretaria di stato, ovvero ministra degli Esteri. È lei, nel bene e nel male, il volto pubblico dell’America nel mondo, quella che va a farsi fischiare ad Atene o applaudire a Varsavia. E l’italoamericana Nancy Pelosi guida il partito democratico alla camera dei Rappresentanti. Qui da noi Anna Finocchiaro è riuscita a farsi eleggere capogruppo dell’Ulivo al Senato. Ma a molti questo è sembrato solo un premio di consolazione per la brava e autorevole diessina siciliana, mancata ministra della Giustizia (il suo nome era stato fatto anche come possibile capo dello stato, assieme alla Bonino e all’astronoma Margherita Hack).

Come mai le donne fanno così fatica a emergere nella politica italiana? La risposta è semplice: tutti i partiti oggi sono guidati da maschi, dopo rare eccezioni in passato come la compianta Adelaide Aglietta per i radicali e la verde Grazia Francescato. Con la nuova legge elettorale, il ritorno al proporzionale e l’abolizione delle preferenze, gli unici a decidere chi verrà eletto sono i segretari di partito. Coloro che conquistano un buon posto in lista, infatti, vanno automaticamente in Parlamento, senza dovere neppure farsi campagna elettorale. Si può quindi dire che il vero momento della verità non è quello del voto, ma quello della composizione delle liste. E qui le donne sono state tagliate fuori: sembra che non “portano voti”, come si dice, intendendo le clientele. E i volti famosi o piacevoli giocati per attrarre consenso (Manuela Di Centa, Mara Carfagna) sono un abbellimento che non scalfisce il duro nocciolo del potere.

“Io per fare politica ho dovuto letteralmente ammazzarmi”, confessa Sandra Cioffi, unica donna fra i 17 parlamentari dell’Udeur di Clemente Mastella, “e ce l’ho fatta solo perchè mi ha sempre sorretto una passione smodata prima per il volontariato cattolico e poi per la politica”. Sposata a vent’anni, mamma a 21, un cursus honorum cominciato come consigliere di quartiere a Napoli, l’onorevole Cioffi è il classico esempio della donna che a un certo punto (nel 1993) è stata costretta a rinunciare all’impegno pubblico per non sacrificare troppo il suo ruolo di moglie e madre. Per questo oggi invoca con decisione le “quote rosa”, cioè la percentuale obbligatoria di elette che ha fatto scattare la rivoluzione al femminile nei Paesi scandinavi: “Però, per non rischiare di nuovo la bocciatura da parte della corte Costituzionale, sarebbe bene che il famoso articolo 51 della costituzione si limitasse a prevedere che ogni assemblea elettiva non può essere composta per più dei due terzi da rappresentanti dello stesso sesso”.

Una quota minima garantita del 33%, quindi, che rappresenterebbe comunque un raddoppio rispetto alle percentuali italiane attuali. Ma osservando la composizione dell’attuale Parlamento, si nota subito che soprattutto a sinistra anche fra le debuttanti prevalgono le funzionarie di partito, oppure le detentrici di cariche elettive: ex sindache, ex consiglieri regionali. Insomma, fra i maschi come fra le femmine ormai in Italia si è creata una ‘nomenklatura’ di politici di mestiere. Un ceto separato di circa centomila persone, ha calcolato il senatore diessino Cesare Salvi in un suo recente libro, che cominciano lavorando come portaborse o in circoscrizione, e che poi sono costrette ad andare avanti semplicemente per salvaguardare lo stipendio. Esigenza legittima e comprensibile, ma addio passione (e indipendenza di giudizio).

In Italia, quindi, sarebbe impossibile un ‘fenomeno Condi Rice’, ovvero di una donna che avendo raggiunto importanti vette nella propria vita professionale (direttrice amministrativa dell’università di Stanford, consigliere d’amministrazione di multinazionali del petrolio), decide a un certo punto della carriera di “mettersi al servizio della comunità”. Capita anche in Italia, ma sempre più raramente. Nel suo piccolo, è rimasta stregata dalla politica l’onorevole Pelino, debuttante a 51 anni: “Le prime sedute alla Camera mi hanno talmente affascinato che durante i week-end a Sulmona non vedo l’ora di tornare a Roma. Sì, ormai sono ‘drogata’ di politica...”

Wednesday, May 10, 2006

Inchiesta: risparmio di energia

La terra si spegne RIACCENDIAMOLA

DOSSIER Tra mega bollette e caro benzina: cosa ci riserva il futuro

Le risorse sono agli sgoccioli: sole e vento ci aiuteranno a superare la crisi energetica ? La natura non basta, assicurano gli esperti. Bisogna abolire gli sprechi e costruire case "intelligenti". Il problema è mondiale, ma l' Italia rischia molto di più. Perché dipendiamo quasi completamente dall' estero per riscaldarci, muoverci e produrre. E per cambiare c' è un solo modo: risparmiare

di Mauro Suttora

Oggi, 10 maggio 2006

Ce ne accorgiamo ogni mese, quando arrivano le bollette: gas, benzina ed elettricità aumentano ormai del dieci per cento all' anno. Questa primavera fredda è stata una batosta non solo per fiori e alberi, ma anche per le nostre tasche. E poi la benzina che rimane a prezzi stratosferici, i russi che tagliano il gas, i blackout estivi... Cosa sta succedendo ? Rischiamo di rimanere senza riscaldamento ed elettricità, o di pagarli una fortuna ? Perché l' energia di cui abbiamo bisogno è diventata così cara ? E che possiamo fare per spendere meno ?

Per capirlo, abbiamo interpellato esperti dei tre grandi rami in cui vanno a finire tutto il petrolio e il gas che utilizziamo: riscaldamento, trasporti, elettricità. Ognuno di questi settori utilizza un terzo dell' energia complessiva, che per l' 85 per cento dobbiamo importare dall' estero, pagando più di trenta miliardi di euro l' anno. L' Italia, infatti, produce soltanto un quinto dell' elettricità che consuma, un sesto del gas e un ventesimo del petrolio: "Siamo totalmente dipendenti, e per di più da Paesi instabili e a rischio politico come Algeria e Russia per il gas, e Libia e Iran per il petrolio", spiega Riki Sospisio della società Etf Ga.

Consumare meno.
Siamo vulnerabili, quindi. Come ridurre i rischi ? "Innanzitutto consumando di meno", risponde Maria Grazia Midulla del Wwf. Il che non vuol dire diminuire il nostro tenore di vita, ma ridurre gli sprechi e usare le varie fonti in modo più intelligente. Per quanto riguarda il riscaldamento tutte le abitazioni dovrebbero essere isolate e coibentate. Sia quelle di nuova costruzione, sia quelle vecchie, ogni volta che vengono ristrutturate. Questo significa installare doppi vetri per non disperdere il calore, utilizzare materiali di qualità, coprire i tetti con pannelli solari per garantirci l' acqua calda. È da trent' anni che se ne parla, ma in concreto è stato fatto pochissimo. Tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, per esempio, dalla Spagna a Cipro, dalla Grecia a Israele, oggi al posto delle tegole hanno i pannelli per il "solare termico", con grandi risparmi nelle bollette.
"In Italia invece mancano gli incentivi fiscali per le famiglie", spiega Midulla, "che sono l' unico modo per ottenere risultati. Le nostre città hanno cambiato volto negli ultimi anni grazie alle detrazioni per le ristrutturazioni delle facciate delle case. Lo stesso potrebbe avvenire per i consumi energetici".

Riscaldarsi.
Nel 1971 il 70 per cento del riscaldamento era a gasolio, oggi appena il 20 per cento. La sostituzione col gas è stata un' ottima cosa per la qualità dell' aria, ma dal punto di vista del costo e della dipendenza dall' estero non è cambiato nulla. Il costo del metano infatti è agganciato automaticamente a quello del dollaro, e dobbiamo importarne l' 83 per cento (vedi la tabella qui sotto). "Occorre una certificazione edilizia energetica per tutte le nuove costruzioni e le ristrutturazioni", avverte Matteo Leonardi del Wwf. Altrimenti succede come per le soffitte e mansarde trasformate (spesso abusivamente) in abitazioni negli ultimi anni: tirate su alla svelta con materiale edilizio di seconda qualità, annullano ogni risparmio di costruzione con i costi di riscaldamento invernale e aria condizionata estiva.

Il boom dei condizionatori dopo il gran caldo del 2003 è un altro spreco: usare elettricità, cioè energia pregiata, per riscaldarsi e rinfrescarsi, è costoso e inefficiente. Meglio le classiche stufe, o le pale al soffitto per la ventilazione. Ma alcune regioni, come Lombardia e Trentino, ora proibiscono l' uso di legna per le stufe. Con scopi apparentemente ecologici (diminuire le emissioni di anidride carbonica che causano l' effetto serra), i quali cozzano però contro i costi, visto che la legna da ardere spesso viene raccolta gratis, e anche contro l' interesse nazionale di non dipendere dall' estero: "Mi vietano di usare la mia stufa ad alta efficienza con legna raccolta qua intorno, e mi costringono invece a pagare un occhio della testa il gas russo o algerino", protesta Alessandro Ghezzer da Trento.

Muoversi.
I trasporti ingoiano un terzo dell' energia che consumiamo, e un terzo di secolo dopo il primo choc petrolifero della guerra del Kippur (ricordate l' austerity del ' 73 ?) nonostante tutti i bei discorsi ecologici il 98 per cento dei nostri veicoli va ancora a benzina o a gasolio. Dai pozzi italiani (soprattutto in Basilicata) riusciamo a estrarre solo il 5 per cento dell' oro nero che consumiamo. Continuiamo quindi a regalare decine di miliardi a personaggi come gli sceicchi, Gheddafi, gli ayatollah e i russi (vedere la tabella).

Purtroppo le alternative sono in teoria molte (auto a gas, ibride, a etanolo), ma in pratica si tratta di vetture ancora poco convenienti per prezzo, peso o difficoltà di approvvigionamento. La rete dei rifornitori di gas infatti non è estesa come quella dei benzinai. Il sogno delle auto ad acqua (idrogeno) resta per ora confinato nei laboratori. L' etanolo è sviluppato solo in Brasile. Le auto elettriche sono appesantite da batterie enormi e di scarsa autonomia. E comunque anche l' elettricità proviene in gran parte da gas e petrolio.

"Per risparmiare non resta che usare di più i trasporti pubblici", predicano gli ecologisti, e in effetti il cosiddetto "costo energetico" di treni, tram e bus, cioè l' energia necessaria per trasportare una persona, è nettamente inferiore a quello delle auto. All' interno del trasporto pubblico, poi, sono preferibili i mezzi su rotaia. Per questo molte città adottano la "cura del ferro", ripristinando tram e scavando metropolitane. E per fluidificare il traffico, evitando i motori accesi di macchine quasi ferme, sono importanti piccoli accorgimenti come i "semafori intelligenti", con la luce verde sincronizzata sulle grandi arterie.

Elettricità.
L' 80 per cento delle nuove centrali in Italia funzionerà a gas. "Bene", applaudono gli ecologisti, nemici di petrolio, carbone e nucleare. "Assurdo", ribatte Suspisio, "sciupare energia pregiata come il gas per produrre elettricità equivale a riscaldarsi bruciando banconote. Meglio il carbone, che oggi si può liquefare e gassificare, con nuove tecniche per evitare l' inquinamento. E che, soprattutto, proviene da Paesi senza rischi come Canada, Australia, Germania".
Quanto al nucleare, stiamo importando parecchia elettricità dalla Francia, che la ricava dalle sue numerose centrali atomiche. Noi abbiamo rinunciato a questa energia vent' anni fa, con il referendum dopo il disastro di Chernobyl. Da allora però non ci sono stati più incidenti. Oggi perfino il Vaticano si dichiara favorevole al nucleare e alla proposta dell' ingegnere Giuseppe Rotunno di utilizzare l' uranio delle testate atomiche per scopi civili, destinando il ricavato al Terzo Mondo. Tuttavia per costruire nuove centrali atomiche ci vogliono una dozzina d' anni, e neanche gli Stati Uniti hanno finora risolto il problema delle scorie, che rimangono radioattive per migliaia di anni.

Acqua, vento, sole.
Sono le uniche energie "rinnovabili", perché non si esauriscono mai, e "dolci", perché non inquinanti e gratuite. Ma l' idroelettrico può aumentare di poco la sua capacità in Italia: è difficile progettare altre dighe sui fiumi, e i valligiani protestano se si alterano troppo gli equilibri ecologici. Perfino il vento ha i suoi oppositori fra gli ambientalisti (come l' ex ministro Carlo Ripa di Meana, oggi presidente di Italia Nostra), perché deturpano il paesaggio e costerebbero troppo. Ma i Paesi più avanzati, come Germania e Danimarca, stanno costruendo molti mulini a vento con turbine che già coprono il 20 per cento del consumo energetico. In Navarra (Spagna) addirittura la metà dell' elettricità viene prodotta così. L' Italia li ha installati sull' Appennino: il paese di Varese Ligure (La Spezia) soddisfa tutti i propri consumi col vento, e fra Puglia, Campania e Basilicata ne sono sorti a decine sui crinali della Daunia. Per evitare "inquinamenti visivi" i generatori eolici si possono comunque installare in mare, vicini alle coste più ventose. Il sole, infine: risulta ancora relativamente poco efficiente produrre elettricità con celle fotovoltaiche, mentre il "solare termico" è già conveniente dal punto di vista economico.


Consigli pratici per pagare meno.

In casa, stare sotto i 20 gradi e spegnere la luce. Fuori, non accelerare. Come spendere meno ? Come ridurre le bollette e i conti dal benzinaio ? Ecco alcuni consigli pratici.
l Riscaldamento. Se siete "termoautonomi", non superate mai i 20 gradi (lo impone anche la legge). Un maglione e una coperta in più fanno pure bene alla salute. Se invece avete il riscaldamento centralizzato di un condominio, date battaglia nelle riunioni: ci sarà sempre un inquilino che si lamenterà per il freddo. Siate crudeli: minacciatelo di spedire i vigili a ispezionargli l' appartamento.
l Aria condizionata. Sì, le ultime estati sono state calde, e abbiamo acquistato tanti condizionatori. Ma non diventiamo fanatici: si sopravvive anche a 30 gradi, senza pretenderne 25. Non tutte le stanze hanno bisogno di essere raffreddate: in alcune può bastare una bella corrente d' aria o le pale sul soffitto. Chiudete le porte fra i locali "condizionati" e gli altri. E le finestre.
l Elettricità. Spegnete le luci quando uscite da ogni stanza. Sembra stupido, ma si risparmia parecchio. Controllate la potenza delle lampadine, che è indicata in watt. Comprate quelle ad alto rendimento: costano di più, ma alla lunga convengono. Date un' occhiata agli elettrodomestici. Alcuni consumano molto, altri sorprendentemente poco, ed è quindi inutile preoccuparsi di spegnerli (Tv, computer). Togliete lo scaldabagno elettrico e sostituitelo con un bruciatore a gas. O, meglio, con pannelli solari.
l Auto. Esistono addirittura gare di guida "risparmiosa": evitando accelerazioni e frenate brusche si riduce il consumo di carburante fino al 30 per cento. Informatevi sempre dei chilometri che un' auto percorre con un litro prima di acquistarla. Preferite i modelli a bassa cilindrata. l Siate drastici. Non serve l' auto per accompagnare sempre i figli se la scuola è vicina. Usate di più i mezzi pubblici. E andate a piedi: oltre a risparmiare sulla benzina, non pagherete le palestre.


Tutti i trucchi del fai da te.

Il sogno: non dipendere più da sceicchi, ayatollah e Gheddafi... Non volete più regalare soldi a Putin per il suo gas o agli arabi per il petrolio ? Oltre a consumare meno, ecco qualche consiglio su come rendersi più autonomi.
l Condominio. Se abitiamo in condominio è difficile adottare decisioni individuali. Ma quando il palazzo deve rinnovare la facciata, il tetto o le finestre, pretendete dall' amministratore che vengano utilizzati materiali e infissi coibentanti: che garantiscano, cioè, più isolamento contro il freddo d' inverno, e contro il caldo d' estate.
l Casa di proprietà. Informatevi sulle possibili migliorie termiche: ormai esistono esperti che garantiscono risparmi anche del 20/30 per cento sui costi del riscaldamento. Di rigore i pannelli solari per l' acqua calda sul tetto, soprattutto sul lato sud. Non preoccupatevi se vivete in Italia settentrionale e se le giornate grigie sono molte: docce e termosifoni caldi sono sempre garantiti, grazie a un' integrazione col bruciatore del gas che scatta quando non si ottiene col sole la temperatura minima. Ma il risparmio c' è sempre.
l Riscaldamento a legna. Se non si ha la fortuna di avere un bosco privato o di vivere vicino a una foresta pubblica, bisogna pagar cara anche la legna da ardere. Ma una buona provvista può durare tutto l' inverno, sempre che la cappa tiri bene (consultate lo spazzacamino) o che la stufa abbia un buon rendimento. Occhio alle esalazioni di ossido di carbonio, però.
l Alberi. Piantatene il più possibile attorno a casa. La loro ombra è il miglior rinfrescante contro le arsure estive. E se avete una fontana in disuso, riattatela: un velo d' acqua scrosciante garantisce vari gradi in meno.

Le citta' piu' efficienti.

Bolzano e Roma offrono incentivi, Milano ha ottimi trasporti pubblici. Quali sono le città più efficienti in termini di energia ? E quali invece le più sprecone ? Ogni anno Legambiente e Sole 24Ore stilano una classifica dei capoluoghi più ecologici. Ecco i migliori e peggiori.
Risparmio. Bolzano offre incentivi per la coibentazione delle case, il risparmio e l' installazione di pannelli solari. Anche Roma fa qualcosa. Alessandria può vantare il primo villaggio "solare". Fra le grandi città sono invece a zero Milano, Genova, Bari e Trieste.
Trasporti. Quelli pubblici migliori sono a Milano, i peggiori a Napoli. Fra le grandi città, bene Trieste e Catania, male Bari e Verona. Fra le medie primeggiano Trento e La Spezia, ultima Pesaro. Fra le piccole, bene Aosta e Chieti, male Verona e Massa. Udine detiene il record per i mezzi a metano (55) ed elettrici (5) su un totale di 77 bus. Quanto all' utilizzo effettivo dei mezzi pubblici, bene Roma, Bologna, Ancona, Siena e Cosenza. Male Torino, Napoli, Messina, Siracusa, Latina, Vercelli e Sondrio.
Elettricità. Al Sud i consumi sono la metà del Nord: 837 kwh annui per abitante ad Avellino, contro i 1.523 di Aosta. Sassari, curiosamente, è a 1.470. Ma la richiesta di elettricità aumenta del 2 3 per cento annuo (del 7 per cento nel 2004 a Catanzaro, Trapani e Crotone).
Carburanti. Enna è la provincia col minor consumo a testa, 236 litri annui, mentre la vicina Ragusa è la più prodiga con 681, superando Grosseto. Ogni 100 italiani, 63 hanno l' auto: record europeo. In testa Biella e Viterbo con 72, in coda Genova e La Spezia (50) e Foggia (52).


Da dove viene e dove finisce la nostra energia
Il pianeta spaccato in due dalla fame di energia in questa immagine emblematica c' è la sintesi dei problemi che attanagliano il pianeta. alla lista dei paesi industrializzati si aggiungono india e cina che consumano quantità esorbitanti di energia facendo lievitare i prezzi. energia più pulita e atomi sicuri per andare avanti eliche giganti a costo zero l' energia prodotta dal vento è conveniente. sulle nostre montagne questo spettacolo sarà sempre più frequente. una cascata di luce l' idroelettrico soddisfa una parte importante del bisogno energetico, ma bisogna anche salvare l' equilibrio delle valli. ritorno al nucleare passati 20 anni (e senza incidenti) da chernobyl, molti suggeriscono di tornare all' energia atomica. petrolio: un mare di guai il greggio è la principale fonte di energia. il guaio è che molti dei paesi produttori sono instabili politicamente.

quando i rifiuti domestici possono valere oro
brescia è la numero uno
Brescia. nel "termoutilizzatore" (foto sotto), la città lombarda brucia la spazzatura rispettando le norme antinquinamento. e riutilizza l' energia prodotta per il riscaldamento e l' elettricità. così un acino d' uva accende una lampadina a faenza si produce energia dalle bucce della frutta faenza (ravenna). sopra, scarti delle lavorazioni (vinacce, bucce d' uva e noccioli di frutta) e residui delle potature consentono a questa azienda agricola, la maggiore produttrice di vino in italia, un' autonomia energetica del 90 per cento. l' elettricità che avanza viene pure rivenduta.

ecco da dove viene la nostra energia...
petrolio e gas la fanno ancora da padroni fra le nostre fonti di approvvigionamento: un terzo di secolo dopo l' austerity per la guerra del kippur, siamo tuttora dipendenti dall' oro nero. le fonti pulite (sole e vento) rappresentano una quota minima.

...e dove finisce:
regnano petrolio e gas riscaldamento, trasporti ed elettricità si dividono equamente l' uso finale dell' energia in italia. negli ultimi anni c' è stato un grosso aumento nell' uso del gas per il riscaldamento e nelle centrali elettriche. importiamo energia nucleare dalla francia.

trivelle per il petrolio nelle vigne piemontesi
dilemma a vercelli gattinara (vercelli). c' è un giacimento petrolifero sotto le preziose vigne dell' omonimo vino. così sono iniziate le trivellazioni, rese convenienti dal petrolio a 72 dollari al barile. sopra: la raffineria di trecate (novara).

Ad Alessandria è nato il primo quartiere dove funziona tutto grazie al sole

Il villaggio fotovoltaico del quartiere Cristo di Alessandria produce da sei mesi con pannelli solari 170 kw di energia elettrica, utilizzata nei 192 appartamenti di otto palazzine. ogni famiglia risparmia così dai 500 agli 800 euro all' anno. Queste case popolari, autonome al 60 per cento, hanno un doppio contatore che registra la produzione di energia propria e quella erogata dall' Enel. il complesso occupa 75 mila metri quadri. gli affitti variano da 30 a 150 euro al mese a seconda del reddito.

Mauro Suttora

Giorgio Napolitano

Oggi, 10 maggio 2006

La disciplina e l’imperturbabilità, innanzitutto. «Nel 1962 il segretario del Partito comunista Palmiro Togliatti comunicò al Comitato centrale i nomi dei prescelti per entrare in direzione», ricorda Abdon Alinovi, 83 anni, già deputato e segretario della federazione comunista di Napoli. «Io ero seduto vicino a Giorgio Napolitano, e quando Togliatti fece il mio nome e non il suo mi dispiacque. Emozionato e contrariato, glielo dissi. Ma lui, tranquillo come sempre, mi rispose: “No, è giusto così”».

Aveva 37 anni allora, il nuovo capo dello Stato. Era già deputato da una decina d’anni, ma per un dirigente comunista il massimo del prestigio era far parte della direzione del partito. Poco dopo Togliatti morì e del nuovo segretario Luigi Longo, Napolitano divenne in pratica il vice. Fu proprio lui nell’agosto ’68, in una Roma deserta per le vacanze, a preparare il comunicato con cui il Pci per la prima volta osò muovere qualche timida critica all’Unione Sovietica, dopo l’invasione della Cecoslovacchia.

«Siamo rimasti in pochi di quella giovane schiera che fu ai vertici del Pci», aggiunge Alfredo Reichlin, coetaneo di Napolitano ed eletto come lui alla Camera nel ’53. Oggi presiede il Cespe (il Centro studi di politica economica dei Ds) ed è vice di Massimo D’Alema alla guida della Fondazione Italianieuropei. Ma alla fine della Seconda guerra mondiale era uno di quei ventenni borghesi di ottima famiglia come Napolitano e Berlinguer che Togliatti valorizzò, preparandoli a dirigere un partito dei proletari ancora stalinista: «Quei giovani, il meglio dell’Italia di allora, abbandonarono libri, studi, carriere e professioni per mobilitarsi in nome di un profondo bisogno di riscatto, dopo che la patria italiana era stata fatta a pezzi dal fascismo e dalla guerra».

Ad affascinare il giovane Napolitano, in contraddizione con le sue origini di classe, fu Giorgio Amendola, considerato il successore di Togliatti. Poi non andò così e, anzi, gli amendoliani venivano criticati da Pietro Ingrao e dai suoi seguaci (fra i quali Reichlin) perchè considerati troppo di destra. Ma in quel partito, come nell’esercito, gli ordini non potevano essere discussi. Massimo Caprara, ex segretario di Togliatti, nel ’69 consegnò proprio a Napolitano, suo coetaneo, concittadino, amico e migliore compagno da un quarto di secolo, la sua sofferta lettera di dimissioni: «Lui la lesse e se ne andò indifferente, senza una parola o un gesto». La politica può essere crudele. Ma dà anche soddisfazioni: come quella che gli Stati Uniti regalarono a Napolitano nel ’78, quando per la prima volta invitarono un comunista italiano a Washington.

Mauro Suttora

Friday, April 21, 2006

Condi Rice musicista

CONDI RICE: GUERRA DA SOLA, MUSICA IN COMPAGNIA

Grazia, 21 aprile 2006

Sarà anche la dura teorica della guerra unilaterale, degli Stati Uniti che attaccano da soli, ma quando si dà alla musica Condoleezza Rice si trasforma, si addolcisce, e riesce a suonare soltanto se accompagnata. Da tre anni la segretaria di Stato americana si rilassa eseguendo musica da camera al pianoforte assieme a un quartetto d’archi composto da amici avvocati e professori di diritto: “Non mi diverto più a suonare da sola”, ha confidato al New York Times.

Si riuniscono nei week-end, ogni volta che possono, quando la donna più potente della Terra (terza nella gerarchia di Washington dopo il presidente George Bush e il vice Dick Cheney) non si trova in giro per il mondo. La prima domenica di aprile, per esempio, l’abituale appuntamento è saltato: lei era a Bagdad assieme al collega ministro degli Esteri britannico Jack Straw per sollecitare i governanti iracheni a mettersi d’accordo su un premier, quattro mesi dopo le elezioni. E anche il prossimo fine settimana Condi sarà in missione. Nel solo 2005 ha visitato 49 Paesi con 19 viaggi, percorrendo una distanza superiore a quella fra la Terra e la Luna.

Ma quando resta a casa, nel proprio spazioso appartamento del palazzo Watergate, la Rice non dimentica mai di convocare quelli che ormai “sono diventati i miei migliori amici, fanno quasi parte della famiglia”: due violinisti, un suonatore di viola e un violoncellista. Eseguono brani complicati anche per dilettanti di lusso come loro: Shostakovich, Schumann, Brahms. “Il mio sogno è di imparare un giorno il secondo concerto per piano di quest’ultimo, lo considero la miglior musica mai scritta, appassionata ma non sentimentale”, confida Condi, alla quale la nonna materna insegnò a leggere le note quando aveva quattro anni.

La Rice si ricorda il momento in cui le esplose dentro questa passione: “Fu quando mia madre portò a casa un disco con la Marcia trionfale dell’Aida di Verdi”. In febbraio è corsa al teatro dell’Opera della capitale per assistere alla Turandot di Puccini, messa in scena dal teatro Kirov di San Pietroburgo. Ma non disdegna di salire sul palco anche lei, in occasioni speciali. Lo fece la prima volta a Washington nel 2002, quando accompagnò al piano il celebre violoncellista Yo-Yo Ma durante una premiazione. Fino al college era questo che voleva fare: musicista professionista. “Poi però mi accorsi che per avere successo in questo campo l’impegno non basta: bisogna essere geniali”. E figurarsi se Condi, bambina-prodigio entrata all’università a soli 15 anni, avrebbe rinunciato a primeggiare. Così cambiò subito curriculum di studi, dalla musica alla sovietologia. Da lì l’impegno sulla politica estera che l’ha portata alla guida dell’unica superpotenza mondiale.

Ma l’amore per la musica, e per le armonie che si intersecano con perfezione matematica, le è rimasto. Anche perchè la Rice non ha famiglia, non le si conoscono avventure sentimentali, a 51 anni è rimasta un’elegante zitellona, quindi di tempo libero ogni tanto se ne trova fra le mani. Lo impiega con rigore, svegliandosi presto al mattino per far ginnastica, pesi, tapis roulant. La sua forma è perfetta, le gambe affusolate, il povero Ariel Sharon prima di entrare in coma ne andava pazzo: “Se le guardo perdo il filo del discorso”, confessò pubblicamente.

Quando non risponde accigliata alle domande difficili dei reporters e alle obiezioni di avversari e alleati, o non digrigna i denti minacciando l’Iran (pochi giorni fa ha ribadito di “non escludere l’opzione militare” contro Teheran), Condi coltiva la sua femminilità civettuola. Lo stesso giorno dell’uragano Katrina sfortuna volle che lei si trovasse sulla Quinta avenue di Manhattan a far incetta di borse nella maxiboutique di Ferragamo: “Cosa ci fa qui mentre a New Orleans annegano?”, le urlò una passante. Poveraccia, che c’entrava? Le sue responsabilità riguardano l’estero, non certo la protezione civile interna.

Mai un capello in disordine, mai una piega sul tailleur, la Rice vuole tenere tutto sempre sotto controllo. Nel suo ufficio privato ha fatto installare due specchi: uno per vedersi davanti, l'altro per controllarsi in ogni momento anche dal didietro. Perfetta e perfezionista, impiega ore a scegliere un vestito nello showroom privato newyorkese del suo stilista preferito, Oscar De La Renta. Adora lo shopping: “Alla domenica mattina, dopo aver guardato ‘Meet the Press’ (il talk show politico più importante d’America, ndr), mi piace girare in incognito dentro a qualche centro commerciale attorno a Washington”, ha rivelato.

Quale futuro politico ci sarà per Condi Rice? Qualcuno sogna un duello presidenziale tutto femminile tra due anni: lei per i repubblicani contro la democratica Hillary Clinton. Ma Condi continua a smentire ogni velleità di farsi eleggere, anche perchè non lo ha mai fatto: è sempre stata nominata a tutte le cariche che ha ricoperto. È perciò priva di una base politica. Difficile anche che continui a guidare la politica estera sotto un altro presidente, seppure del suo partito. Più probabile che Rudy Giuliani o John McCain se la scelgano come vice. Oppure che lei riesca a coronare un altro sogno: quello di diventare presidente della Nfl (National football league). Perchè Condi vanta grande dimestichezza anche con la palla ovale. Solo come tifosa, però: le sue domeniche pomeriggio appartengono a Brahms.

Thursday, April 20, 2006

Il presidente cinese visita gli Usa

PER TRATTARE CON LA CINA BUSH S’ISPIRA AL PING PONG DI NIXON

Il Foglio, 20 aprile 2006 pag III

Ping, pong. Sono passati 35 anni dall’inizio della diplomazia omonima, con cui Henry Kissinger e Richard Nixon aprirono alla Cina. Ma oggi il presidente George Bush si trova nello stesso dilemma in cui si trovavano loro allora, e nel quale si dibattè anche suo padre quando per un anno, nel 1975, Gerald Ford lo inviò ambasciatore a Pechino. Sfidare o contenere? Arrabbiarsi o ammonire? Il presidente cinese Hu Juntao arriva in queste ore a Washington: dopo aver incontrato a Seattle l’uomo più ricco del mondo, Bill Gates, parla con quello più potente. L’unico ‘sgarbo’ che questa volta gli Stati Uniti si permettono di fare a quello che resta un dittatore, è che non è prevista alcuna cena ufficiale. Quindi, non è una visita di Stato. Per il resto, Hu ha ottenuto tutto quello che dopo la strage di Tien an men dell’89 i suoi predecessori non erano riusciti a strappare. Comprese le 21 salve di cannone sul prato della Casa Bianca.

Ping, pong. Fra alti e bassi di rapporti politici, quelli economici diventano ogni giorno più stretti. Ormai l’oceano Pacifico settentrionale è diventato un corridoio dove transitano, in viavai continuo, le navi container che trasportano merci made in China nella West Coast. I porti californiani sono così sovraccarichi che i mercantili, per evitare ritardi nello scarico, trovano conveniente passare il canale di Panama approdando in scali meno affollati, fino a New York. E’ il più grosso switch industriale della storia: la Cina che cresce del dieci per cento annuo mentre gli Stati Uniti rinunciano all’attività manifatturiera.

In questo quadro, continuare a insistere di liberalizzazione risulta superfluo. Bush richiama a Washington il suo fidato rappresentante per il commercio estero Rob Portman, nominato appena un anno fa, e lo promuove direttore del budget (ministro del Bilancio). Portman è stato lo sparring partner di Dick Cheney per i dibattiti vicepresidenziali 2000 e 2004. Pazienza se i negoziati di Doha, senza di lui, languiranno senza prospettiva: “Portman dovrà assicurare che il governo spenda saggiamente il denaro dei contribuenti, e che il deficit si dimezzi entro il 2009”, dichiara Bush.

Concentriamoci sul deficit interno, ragiona l’amministrazione, visto che su quello commerciale c’è poco da fare: la bilancia import/export continuerà a premiare per centinaia di miliardi di dollari annui Cina ed estremo Oriente, almeno finchè i salari degli operai cinesi saranno un centesimo di quelli statunitensi. L’unico interrogativo è: quando si verificherà il sorpasso? In che anno la Cina diventerà la prima potenza economica mondiale? Per la verità qualcuno non ci crede. Desmond Lachman dell’Aei (American Enterprise Institute) sostiene: “Sono paure esagerate. La crescita cinese non deriva da innovazione e aumenti di produttività, ma dal solo export, in cui viene investito metà del suo pil. Il giochetto per ora funziona grazie al trasferimento della massa lavoro contadina sottopagata nella produzione industriale. Ma finchè la Cina non adotterà riforme di libero mercato, non raggiungerà mai la produttività americana”.

Il presidente Hu spera di calmare i nervosismi Usa sul potere crescente della Cina, sulla sua moneta sottovalutata, sull’enorme fetta di debito americano in mano a Pechino, e soprattutto sulla fame di petrolio che lo ha portato a stringere accordi di fornitura diretta con i peggiori nemici degli Stati Uniti: gli ayatollah di Teheran e Hugo Chavez del Venezuela. Prima della sua visita la Cina ha mollato il contentino di un accordo per l’import di 16 miliardi di dollari in beni Usa. Per ricompensare Gates della collaborazione fornita da Microsoft sulla censura governativa di Internet, Hu si è impegnato a combattere la pirateria sui brevetti elettronici.

Queste concessioni ovviamente non placano i critici della Cina, i quali spostano le proprie critiche su Bush se questi si dimostra troppo conciliante. Frederick Kempe avverte sul Wall Street Journal che “la Cina sta guadagnando influenza mondiale assai velocemente, senza che i suoi governanti abbiano il senso di responsabilità necessario per esercitarla”. Governanti non eletti democraticamente, e quindi secondo la stessa dottrina Bush inaffidabili e forieri di conflitti. Nelle strade di New York si intensificano le proteste di Falun Gong perseguitata dal regime, gli organismi per i diritti umani (Freedom House, Human Rights Watch, Amnesty) non registrano la minima apertura. Che la liberalizzazione economica porti a quella politica è un miraggio smentito dalla storia degli ultimi trent’anni, dopo la morte di Mao (1976).

Per gli Usa è però cruciale ottenere l’appoggio della Cina per premere sull’Iran. Pechino e Mosca porranno il veto a risoluzioni Onu troppo severe contro Teheran, e la diplomazia Usa è al lavoro per allentare questo fronte comune. Ma Pechino aumenta le spese militari con la scusa di Taiwan (la Boeing non vede l’ora di vendergliele), e Hu Juntao si è fatto campione in Brasile di un modello sociale che ridurrebbe la povertà meglio del capitalismo statunitense.

Bush pronuncerà un solo nome nei suoi colloqui con Hu: Kim Chun Hee. E’ una dissidente nordcoreana che aveva chiesto asilo in Cina, ma è stata rispedita indietro. Non si hanno più sue notizie. Gli Usa continuano nella loro politica di perorare casi umani singoli. Ma la base elettorale conservatrice di Bush gli ricorda che in Cina manca ogni libertà elementare: di parola, stampa, riunione, associazione. Dilemma: che fare? Ping, pong.

Tuesday, April 18, 2006

Darfur: parla Barbara Contini

Oggi, 12 aprile 2006

Centomila morti, due milioni di profughi: questo è il bilancio (provvisorio) della grave crisi umanitaria che si sta consumando in Darfur, nel Sudan. Una strage spaventosa, anche perché nascosta nel silenzio e nell’indifferenza della comunità internazionale. L’Italia però è in prima linea nell’affrontare la situazione, grazie all’impegno di Barbara Contini. L’energica 44enne milanese, famosa per essere stata governatrice civile di Nassiriya (Iraq) nel 2003/4, ha infatti trascorso gli ultimi sedici mesi nel Darfur a coordinare gli aiuti italiani.

Spesso gli inviati nelle zone di crisi preferiscono non allontanarsi dalle capitali: un po’ per ragioni di sicurezza, ma anche perché nel Terzo Mondo le condizioni di vita lontano dalle città sono proibitive. La nostra Barbara, invece, con spirito garibaldino ha subito scelto di «andare sul campo», e invece di restare a Khartum si è trasferita a Nyala, capoluogo meridionale del Darfur.

«Era l’unico modo per avere il polso della situazione», ci racconta, «fuori dai preconcetti e dalle burocrazie. Stare in contatto diretto con chi si aiuta serve per capire quali sono le possibili soluzioni al problema. Nel caso del Darfur, si tratta di un conflitto etnico: gli arabi, che comandano in Sudan, non vogliono cedere neppure in parte alla popolazione locale il controllo di questa immensa regione, grande il doppio della Francia. Islamica anch’essa, ma di pelle nera. Darfur, infatti, significa “terra degli africani”.

«Lì le distanze sono immense, basti pensare che il Sudan è grande quanto tutta l’Europa occidentale. Nyala sta a quattro ore d’aereo da Khartum. E attualmente ospita mezzo milione di sfollati: donne, bambini, vecchi scappati dai loro poveri villaggi rasi al suolo e bruciati dalle bande dei “janjaweed”, tribù di nomadi che fanno piazza pulita di tutto. Molte donne vengono stuprate e poi magari rapite, i maschi sgozzati per non farli entrare nei ranghi della guerriglia.

«Ma sarebbe sbagliato dare tutta la colpa dei massacri a queste tribù. Loro, infatti, vengono mandati avanti, ma il vero interesse sta nelle mani dei governanti locali interessati alle ricchezze del Darfur: petrolio, oro, ferro, rame. Il dissidio fra i nomadi arabi allevatori e gli stanziali neri agricoltori è sempre esistito. Un po’ come nell’America del vecchio West, è quasi naturale che chi migra attraverso tutto il Nordafrica con mandrie di migliaia di cammelli non vada d’accordo con chi recinta i propri campi impedendo il libero passaggio. Ma dal 2004 il conflitto si è acuito, e ha causato vere e proprie stragi».

Il film The Constant Gardener, tratto da un libro di John Le Carré, illustra bene i massacri: bande di guerrieri a cavallo o in dromedario si avventano su villaggi inermi e li distruggono in un battibaleno.

«Il governo italiano ha finanziato trenta progetti di aiuto con quattro milioni di euro», ci spiega la Contini, «ma per farli funzionare abbiamo prima dovuto garantire la sicurezza dell’area. Così ho agito come a Nassiriya: sono andata dai capitribù locali, mi sono fatta conoscere personalmente, ho chiarito che siamo neutrali, e una volta ottenuto l’impegno a non attaccare quell’area abbiamo scavato pozzi, riparato acquedotti e aperto ambulatori e scuole. Con la colletta di mezzo milione raccolta al Festival di Sanremo di Paolo Bonolis l’anno scorso abbiamo costruito un ospedale.

«Ormai sono vent’anni che giro il mondo con gli aiuti umanitari, ho visto bimbi morire a Calcutta e in Bangladesh, purtroppo sono abituata a certi spettacoli drammatici. Ma quel che distingue il Sudan da altri disastri è la dimensione della devastazione: due milioni di persone costrette a vivere tuttora sotto un telo di plastica, anche d’inverno quando la temperatura di notte crolla di venti gradi. Questi profughi non hanno speranza di rientrare nelle loro capanne di paglia e fango, dove vivevano coltivando sorgo, finché non ci sarà un accordo politico.

«Ci sono due movimenti di guerriglieri del Darfur che combattono contro il governo del Sudan: lo Sla (Sudan Liberation Army) e, più a nord, il Jem. Sono in corso trattative ad Abuja, la capitale della Nigeria, ma finchè non si coinvolgeranno anche le bande di nomadi arabi non si arriverà a nulla. L’Italia potrebbe prendere l’iniziativa e convocare tutte le parti a Roma».

Ma Barbara Contini è pessimista: «Non c’è coordinamento umanitario e diplomatico dell’Europa, ora si parla di inviare truppe Nato anche se il problema è politico. Io sono andata in giro con una scorta di due sole persone proprio per non dare nell’occhio: specialisti del corpo speciale Col Moschin che sanno l’inglese e affrontano le questioni non solo con le armi, ma anche con un approccio psicologico. È così che occorre comportarsi in quei posti: pragmaticamente, senza inutili sceneggiate».

Mauro Suttora

Wednesday, March 22, 2006

Sharon Stone a Roma

AVE SHARON! SEI TU L’IMPERATRICE DI ROMA

Diciotto valigie, 40 vestiti e un baule di scarpe. Così la star è sbarcata nella Capitale per presentare “Basic Instinct 2”. Al suo fianco, uno staff tutto rosa e nessun fidanzato. Allora il nostro cronista ne ha approfittato: “Vieni a prender un drink da me?” E lei...

Oggi, 22 marzo 2006

«Sharon, sei proprio l’ultima diva...»
«Come sei gentile a dirmi così...»
Trinità dei Monti, venerdì, quattro del pomeriggio. L’attrice più bella del mondo scende lentamente la scalinata più bella del mondo. Anche il primo sole primaverile scende lentamente, verso la cupola di San Pietro. I turisti impazziscono. Avevo notato una limousine nera in attesa davanti all’uscita secondaria del Grand Hotel St.Regis. Sharon Stone aveva appena finito la conferenza stampa per presentare il film Basic Instinct 2, in sala dal 31 marzo. Mi ero messo ad aspettare, e improvvisamente un gruppetto di donne esce per infilarsi in fretta nell’auto. Non sono sicuro che in mezzo ci sia anche lei, ma le seguo in taxi. Via Bissolati, via Veneto, un dedalo di strade e svolte, infine su per via Sistina. Davanti all’hotel Hassler la macchina si ferma e il gruppetto esce. Sì, c’è anche Sharon, con la sorella muscolosa Kelly e due guardie del corpo italiane.

Si avviano verso gli scalini, i passanti non fanno in tempo a rendersi conto che è proprio l’attrice americana. Lei, con gli occhiali neri, è già avanti. Mi avvicino, faccio finta di appartenere al suo gruppo, la affianco. Abito da poco in un loft di via Margutta: la stessa stradina dove 53 anni fa il giornalista Gregory Peck nascose per una notte la principessa Audrey Hepburn nel film Vacanze Romane. Tento anch’io il colpaccio, chiedo a Sharon in inglese: «Come for a drink», vieni a bere un bicchiere. Lei mi risponde: «Sorry, we gotta go to Fendi», dobbiamo andare da Fendi.

In piazza di Spagna l’assembramento s’ingrossa, ma Sharon non s’infastidisce. Anzi, il bagno di folla sembra piacerle. Si fa immortalare assieme a un tizio vestito da centurione accanto alla Barcaccia del Bernini. Poi imbocca via Condotti, ma si rischia il soffocamento, tutti a fotografarla coi telefonini, e allora Sharon svolta in via Mario dei Fiori. Alla fine si rifugia per una pausa di tranquillità dentro alla gioielleria Martinelli, che spranga la porta. E anche i successivi 200 metri di shopping prima di arrivare a palazzo Fendi in largo Goldoni sono come l’assedio a una regina. «Ammazza quant’è bbella», commenta un fan che è rimasto ad aspettarla giù. Quando la folla viene premiata dopo mezz’ora con un’apparizione della biondissima divina sul balcone accanto all’amica Carla Fendi, l’entusiasmo è alle stelle.

È durata meno di 24 ore la puntata italiana di Sharon Stone. Anche il suo aereo privato, un Gulfstream IV proveniente da Londra, era rimasto impigliato nel blocco dei radar romani giovedì sera. L’atterraggio a Ciampino è avvenuto in ritardo, verso le dieci. Ad accoglierla solo il presidente della Warner Brothers italiana e l’addetta stampa. È stata una scena surreale, perchè dal jet sono scese soltanto donne: una decina di signore in nero, sembrava la scena di un film poliziesco. La sorella di Sharon, che per questo tour promozionale europeo incassa 40mila dollari in qualità di «assistente al guardaroba», e poi la sua migliore amica, la truccatrice, la segretaria personale, la pierre, una guardia del corpo, una parrucchiera che si occupa delle favolose extension. Dopo Israele, Londra e Roma, via verso Parigi, Madrid e Berlino. Infine la prima statunitense a New York, il 27 marzo.

La diva si porta dietro un bagaglio di 18 valigie griffate Vuitton con 25 abiti da giorno e 15 da sera. Un baule alto un metro contiene solo scarpe. Al St.Regis ha dormito nella suite Ambassador, con acqua distillata tiepida nella vasca jacuzzi. Non è difficile immaginare Sharon mentre fa il bagno, perchè è anche una scena clou del film, che arriva ben quattordici anni dopo il primo Basic Instinct con Michael Douglas. Questa volta il personaggio diabolico che interpreta, e che un po’ le assomiglia, fa uscire pazzo uno psicanalista inglese. Il quale ha come unica colpa quella di non essere andato subito a letto con lei. Non ci sono scene con accavallamento di gambe, quindi resta il mistero sulla presenza o no di mutandine. E nessuno dei ben duecento giornalisti alla conferenza stampa ha osato chiederle delucidazioni in merito.

Sharon Stone, a 48 anni, è ancora sexy come non mai. La sua bellezza matura intimidisce, la voce profonda seduce sia nel film (doppiata sensualmente da Cristiana Lionello, figlia di Oreste) sia nella realtà. La voce è un punto debole di molte attrici americane, che parlano con intonazione da Topolino. Lei invece scandisce maestosamente le parole, e dopo le domande aspetta parecchio prima di rispondere, ieratica come un papa, creando suspense e rispetto. Insomma, altro che Julia Roberts, Angelina Jolie o Charlize Theron, eterne ragazze: Sharon Stone è ormai più di una donna, è un’icona. «Da piccola sognavo star come Ava Gardner, Barbara Stanwick, Bette Davis», confessa. Ebbene, le ha raggiunte a quei livelli di mito, quando basta un gesto o un’occhiata per far ammutolire ogni uomo. Lo conferma lei stessa: «Ho problemi con quelli che mi fanno la corte, gli ci vuole del tempo prima di considerarmi normale».

Non che abbia fatto film memorabili, negli ultimi quattordici anni: alzi la mano chi se ne ricorda più di uno o due. Anche la vita privata è passabilmente disastrosa: liti furibonde col secondo marito Phil Bronstein, direttore del quotidiano di San Francisco, sposato nel ‘98 e divorziato nel 2004. Alla fine il giudice ha partorito un’incredibile sentenza di affido per il figlio adottato Roan, 5 anni: starà dodici mesi con un genitore, e poi dodici mesi con l’altro. Una seconda figlia l’ha adottata da sola pochi mesi fa, alla maniera della Jolie.

Sharon sembra fare di tutto anche per confermare la propria fama di mangiatrice di uomini affamata di sesso. Ne cambia uno ogni dozzina di settimane, la lista è ormai sterminata. Dopo l’avvocato Bernie Cahill, solo quest’inverno è stata avvistata con il produttore Gavin Polone, il comico Craig Ferguson e il giocatore di pallacanestro Rick Fox. Tutti più giovani di lei di una decina d’anni, ovviamente, come nei film che interpreta. Lei li domina, irresistibilmente capricciosa: un anno fa partì per i Caraibi portandosene appresso uno, ma lo licenziò dopo appena due tumultuosi giorni. I paparazzi immortalarono il tapino cacciato improvvisamente dalla villa con le valigie in mano. E il giorno dopo lei stava già con un altro.

L’aspetto più incredibile della vita di Sharon Stone è che fino a 34 anni non era nessuno: «C’è voluto il primo Basic Instinct per convincere anche me che sono una bella donna e una brava attrice», ci ha detto. Quasi vent’anni di gavetta, anche a Roma. È giusto, quindi, che ora si goda il successo, dopo l’aneurisma al cervello che l’ha risparmiata per miracolo. Così la sua magica giornata romana si è conclusa, dopo un’apparizione al Tg5 in cui ha rifiutato l’invito da parte di Cesara Buonamici ad accavallare le gambe, in un tripudio di folla alla prima serale in un cinema di piazza Esedra. Con lei sul tappeto hanno sfilato le sorelle Fendi al completo, e fra gli altri i gioiellieri Silvia e Giorgio Damiani, Renzo Rosso della Diesel e Michele Goldschmied della Ag Jeans. Poi, via di corsa all’aeroporto verso Parigi. Quanto al bicchierino in via Margutta col sottoscritto, sarà per la prossima volta. Tanto Sharon non invecchia mai.

Mauro Suttora

Wednesday, March 15, 2006

Berlusconi incriminato

Roma, 10 marzo 2006

Ci risiamo. A un mese dalle elezioni, Silvio Berlusconi è stato incriminato per l’ennesima volta. Ora a metterlo nei guai sono 500 mila euro che la procura di Milano lo accusa di aver girato nel 1999 all’avvocato inglese David Mills, in cambio di testimonianze favorevoli in due processi: quello sulla Guardia di Finanza nel '97 e l’All Iberian nel '98. In entrambi i procedimenti il presidente del Consiglio è stato assolto. L’ipotesi di reato, però, ora è di «corruzione in atti giudiziari»: Mills avrebbe reso testimonianze addomesticate, e per queste sarebbe stato ricompensato. Chi paga un testimone per condizionarlo di solito commette il reato di «subornazione». Ma in questo caso Mills testimoniava in aula, assumendo la veste di pubblico ufficiale. Di qui l’accusa più grave di «corruzione».

L’avvocato Mills è stato il creatore, negli anni Novanta, del sistema off-shore di conti esteri di Fininvest. Nulla di illegale: tutte le grandi società hanno disponibilità finanziarie in banche di varie parti del mondo. Soprattutto nei cosiddetti «paradisi fiscali», dove le tasse sono più basse o addirittura inesistenti. Il problema, però, è che Berlusconi è accusato di aver usato alcune sue società off-shore (Accent e Timor, poi diventate Century One e Universal One) per aggirare il fisco italiano e creare fondi neri, a disposizione per pagare eventuali tangenti come quella a Mills, o a politici italiani. Una vera e propria «tesoreria occulta» dei gruppi Fininvest e Mediaset, insomma. Almeno secondo la pubblica accusa.

Gli imputati hanno sempre respinto questa ricostruzione, sostenendo di non avere mai avuto fondi neri e di aver agito rispettando le regole di trasparenza a tutela degli investitori. Fininvest e Mediaset sono infatti società quotate in Borsa: eventuali distrazioni di fondi da parte degli azionisti di maggioranza (Berlusconi e i suoi figli) rappresenterebbero un danno per quelli di minoranza.

L’inchiesta che si è conclusa venerdì 10 marzo con la richiesta di rinvio a giudizio deriva da un altro procedimento, in mano agli stessi procuratori Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo: quello sull’acquisto di diritti tv e cinematografici di società Usa per 470 milioni di euro, effettuato da Fininvest attraverso le sue due società off-shore nel 1994-1999. La procura ipotizza che le major americane abbiano ceduto i diritti alle società berlusconiane, le quali li avrebbero poi rivenduti con una forte maggiorazione di prezzo a Mediaset. Si sarebbe quindi creato lo spazio per fondi neri ed evasione di tasse. Per questo filone principale nel febbraio 2005 sono state incriminate quattordici persone, fra le quali il premier, il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri e l’avvocato Mills. Tra le ipotesi di reato ci sono falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita, riciclaggio e ricettazione. Questo processo si trova ora nello stadio dell’udienza preliminare.

Dall'inchiesta principale sono nati due «stralci». Nel primo sono indagati i due figli maggiori di Berlusconi, Pier Silvio e Marina (vice presidente Mediaset e presidente di Mondadori), indicati da Mills come beneficiari economici delle società off-shore. Il secondo è quello dei 500 mila euro (600 mila dollari) a Mills, per i quali il gup (giudice delle udienze preliminari) Fabio Paparella dovrà ora fissare l’udienza (probabilmente a maggio) in cui deciderà se accogliere le richieste dei pubblici ministeri o prosciogliere gli imputati.

La difesa di Berlusconi sostiene che il versamento dei 500 mila euro è stato effettuato dal conto alle Bahamas di Diego Attanasio, armatore salernitano. Il quale però nel giorno del bonifico risulta essere stato in carcere, e quindi impossibilitato a effettuarlo. Mills non nega di aver ricevuto la somma, ma sostiene che era per conto di Carlo Bernasconi, manager Fininvest nel frattempo deceduto, come ringraziamento per «gli spettacolari guadagni di oltre il 70 per cento» da lui realizzati grazie ai consigli finanziari di Mills. In una lettera precedente, tuttavia, Mills aveva collegato la somma direttamente a Berlusconi. In ogni caso, il difensore del premier Niccolò Ghedini protesta soprattutto per l’incriminazione avvenuta in periodo di campagna elettorale.

L’inchiesta sta provocando un terremoto politico anche in Gran Bretagna. L’avvocato Mills, infatti, è marito del ministro della Cultura e degli spettacoli Tessa Jowell. Il 26 febbraio il Sunday Times ha svelato che i 500 mila euro sarebbero serviti per estinguere il mutuo per una casa di Londra comprata dalla coppia. Impossibile che la signora non conoscesse l’origine sospetta di quei soldi. Il 4 marzo, colpo di scena: la Jowell annuncia la separazione dal marito. Ma l’opposizione continua a chiederne le dimissioni. Il 6 marzo il premier Tony Blair in persona è stato costretto a sostenerla: «Deve andare avanti nel suo lavoro». Diranno lo stesso gli elettori italiani a Berlusconi il 9 aprile?

Mauro Suttora