Monday, August 08, 2005

Giuseppe Cipriani, successo a New York

Smentite e rivelazioni di Giuseppe Cipriani, il re della dolce vita newyorkese

IO E SIMONA VENTURA? 
BUGIE, AMO UNA MODELLA DI 29 ANNI

"Simona è solo un'amica, ci siamo incontrati al mare, tutto qui". L'irresistibile ascesa dell'ex genero di Gardini, ora fidanzato con Carolina Parsons, socio di Briatore e proprietario dei ristoranti più alla moda di Manhattan

dal corrispondente a New York Mauro Suttora

Oggi, 10 agosto 2005

Essere figli di un padre famoso è sempre un problema. Che raddoppia quando si sceglie il suo stesso lavoro. E triplica quando si eredita la sua azienda. A meno che non si riesca a superarlo.

Giuseppe Cipriani ci sta riuscendo. Il figlio del mitico Arrigo, proprietario dell'Harry's Bar di Venezia sbarcato vent'anni fa a New York, è diventato il re delle notti di Manhattan grazie ai ben otto ristoranti e sale di gala aperti negli ultimi anni. 

E' stato addirittura coniato un nuovo aggettivo, «ciprianesque», con cui gli americani invidiosi definiscono l'atmosfera di elegante dolce vita che si respira nei suoi locali. 
«Ormai posso stare tranquillo, qui negli Stati Uniti c'è Giuseppe», sorride soddisfatto papà Arrigo, 72 anni, carattere non facile.

Anche Giuseppe, 40 anni, è scontroso. Non ama i giornalisti, custodisce con cura la propria vita privata. Figurarsi quindi dieci giorni fa, quando qualche rotocalco italiano lo ha spacciato come il nuovo uomo di Simona Ventura. 
Non si è preoccupato neppure di smentire. Per lui lo fa la sua pierre di New York, Stefania Girombelli: «Bufala totale, Giuseppe è felicemente fidanzato da quattro anni con una modella cilena qui a New York». 

Understatement: Carolina Parsons, 29 anni, è «la» modella del Cile, famosa nel suo Paese quanto Valeria Mazza lo è nella vicina Argentina. Amiche e vicine di casa, le due bellezze sudamericane, e ad ogni Capodanno ospiti della magione Cipriani a Punta Del Este, la Portofino dell'Uruguay.

Giuseppe Cipriani si muove con disinvoltura e familiarità nel jet set internazionale. Pochi mesi fa lui e Carolina erano invitati al matrimonio americano del secolo (per ora): quello di Donald Trump in Florida con la sua Melania Knauss, modella slovena pure lei amica di Carolina. 

Ma è rimasto in ottimi rapporti anche con Ivana, ex di Trump, ed è gran compare dell'ex di Ivana, il principe Roffredo Gaetani Lovatelli d'Aragona, il quale a sua volta era l'uomo di fiducia di Gianni Agnelli a New York. E tutto questo giro vorticoso di uomini ricchissimi e donne bellissime si ritrova a ogni pranzo nel ristorante Cipriani sulla Quinta Avenue, davanti a Central Park, e ogni sera in quello di Soho, a West Broadway.

Lì si celebra il trionfo del Bellini, l'aperitivo prosecco/succo di pesca che è il simbolo dell'Harry's Bar di Venezia: inventato da nonno Giuseppe nel 1931, e assaporato da clienti come Ernest Hemingway, Truman Capote, Orson Welles e Peggy Guggenheim. 

Oggi le celebrità ai tavoli newyorkesi si chiamano Roberto Cavalli e Naomi Campbell, Leonardo DiCaprio e Nicole Kidman: tutti sono ghiotti di carpaccio e tartare di tonno. 
«Donne con scollature troppo basse e uomini col portafogli troppo grosso», brontola qualche vecchio americano bigotto dell'Upper East Side, di quelli che corrono a dormire alle dieci, insinuando che le prime siano quasi tutte prezzolate e che per i secondi si tratti di un infernale miscuglio fra protettori, spacciatori e mafiosi. 

Ma ormai lo stile stigmatizzato come «eurotrash» (spazzatura europea) dalle mummie benpensanti ha avuto la meglio, e ha conquistato le nuove generazioni del glamour statunitense. 
Un giorno sì e uno no «Page Six», la rubrica gossip più famosa d'America, pubblica l'elenco dei personaggi apparsi la sera prima da Cipriani Downtown.

Poi ci sono le altre gemme dell'impero di famiglia, che ormai fattura sui 150 milioni di euro all'anno. In primis la Rainbow Room, mitico ristorante con salone per feste al 65esimo piano del grattacielo più alto del Rockefeller Center, con la migliore vista a 360 gradi sui tramonti di Manhattan.

Costruita negli anni Trenta e incastonata da tempo in tutte le guide turistiche, la Rainbow Room è stata conquistata dai Cipriani nel '99. Anche qui, per vendicarsi, qualche geloso newyorkese dell'establishment Wasp (White Anglo Saxon Protestant) ha messo in giro la voce che, per piegare i potenti sindacati dei camerieri, Giuseppe avrebbe fatto intervenire addirittura Cosa Nostra.

Di che cosa può essere accusato un italiano di successo negli Stati Uniti, se non appunto di essere un novello Soprano, affiliato al clan Gotti? 
La verità è che la corporazione dei camerieri in America è così esosa che quasi tutti i ristoranti che impiegavano iscritti al sindacato hanno dovuto chiudere (compreso il più famoso di tutti, "Le Cirque" del lucchese Sirio Maccioni).

Stesso destino ha rischiato il Cipriani della Quinta Avenue, salvato in extremis poche settimane fa da un accordo che ha abbassato il costo del lavoro. Ma ormai la maggioranza dei ristoranti newyorkesi (una vera e propria industria, la maggiore della città) per sopravvivere è costretta ad arruolare sudamericani clandestini e studenti che campano di sole mance.

«Altro che dolce vita, io lavoro dalle nove del mattino alle due di notte», risponde Giuseppe Cipriani a chi lo definisce un playboy. Eppure quegli abbracci e baci alla Supersimo nazionale a Porto Cervo sono stati fotografati, non può negarli.

«Solo amici», tronca lui. Che si trovava in Costa Smeralda per un buon motivo, d'altronde: da due anni la cucina del Billionaire di Flavio Briatore è assicurata da Cipriani. Solo luglio e agosto, toccata e fuga, prezzi a livelli newyorkesi: cento euro a testa per il menù fisso al grill della piscina, ancora di più nel ristorante. 

Ma il successo maggiore, attualmente, è quello dell'altra recente joint-venture con Briatore: il ristorante di Londra, che sforna 400 coperti al giorno e che è stato così lodato dal critico del quotidiano Independent: «Dalla più antica città commerciale del mondo (Venezia) ci è giunto l'export che avevano sempre aspettato». 

Meglio così. Perchè quando una rubrica gastronomica newyorkese aveva invece azzardato una stroncatura, i Cipriani hanno ribattuto: «La prossima volta quel giornalista si levi il preservativo dalla bocca...»

«Ma ormai gli orizzonti di Giuseppe si stanno ampliando oltre la ristorazione», spiega il suo amico Paolo Zampolli, che lavora per Trump, «e grazie al suo brillante marketing si espandono nel settore immobiliare». 

Cipriani, alleato al potente gruppo ebraico Witkoff, costruirà sul fiume Hudson il salone per ricevimenti più grande di New York. E nella nuova sala di Wall Street (un'ex banca) ospita una serie di concerti privati di prestigio, da Rod Stewart a Stevie Wonder, da Sheryl Crow ad Alicia Keys. Prezzo per un tavolo: centomila dollari.

Giuseppe Cipriani ha due figli avuti dalla ex moglie Eleonora Gardini, figlia di Raul, il padrone del gruppo Ferruzzi-Montedison suicidatosi nel '93: Ignazio, 17 anni, e Maggio, 14. 

Quel matrimonio è finito. Ma l'ambitissimo cuore di Giuseppe sembra ancora saldamente occupato dalla bella Carolina cilena. La caccia al misterioso nuovo amore americano di Simona Ventura (sempre che ce ne sia mai stato uno) può continuare.
Mauro Suttora

Wednesday, August 03, 2005

Marchio "America"

mercoledi 3 agosto 2005

IL MARCHIO "AMERICA"
Stati Uniti in ribasso nella classifica dei "brand nazionali". Consigli per la scalata: tre parole e un manuale

New York. Non ha fatto notizia, perchè su di lei il consenso è stato unanime. Karen Hughes, la collaboratrice più fidata di George W. Bush dopo Karl Rove, ha ricevuto la settimana scorsa il via libera del Senato all'incarico di sottosegretario di stato per la “diplomazia pubblica”. Un posto delicato e importante: toccherà a lei promuovere l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, e combattere quella “battaglia delle idee” che appare sempre più cruciale per sconfiggere i terroristi islamici. Tutti d’accordo quindi sul nome di questa ex giornalista texana, alla quale è stato risparmiato il calvario di John Bolton e quello annunciato per John Roberts, nominato giudice supremo.

Quanto sia impegnativo l’incarico della Hughes lo conferma il risultato appena annunciato del secondo rapporto Anholt-Gmi sul valore dei “marchi nazionali”. Il “brand America” scivola dal quarto all’undicesimo posto nella percezione dei diecimila sondaggiati nei dieci Paesi più ricchi del mondo (lusinghiero sesto posto per l’Italia dopo Australia, Canada, Svizzera, Gran Bretagna e Svezia). Gli Usa primeggiano ancora nell’economia: qualità dei prodotti, investimenti. Risultati misti nel parametro “people”: quinti come “hireability” (americani sempre assai richiesti nelle assunzioni), ma tredicesimi nell’ospitalità: si pagano il giro di vite sui visti e le code per i nuovi controlli alle frontiere. E quando al campione internazionale è stato chiesto qual è il grado di fiducia nei governi sulla politica estera, gli Stati Uniti sono finiti in coda a tutte le nazioni occidentali: diciannovesimi, solo un po’ meglio di Cina e Russia.

“L’impopolarita’ della politica estera americana non è certo un fenomeno nuovo”, spiega il sondaggista Simon Anholt, “basti pensare a Corea e Vietnam. Ora occorre vedere se l’Iraq avrà un effetto cumulativo rispetto alle ‘antipatie’ consolidate nel passato, o se rientra nei ricorrenti alti e bassi dell’antiamericanismo. Perchè i ‘marchi nazionali’ funzionano esattamente come quelli commerciali: sono il portato di opinioni che si stratificano negli anni e addirittura nei decenni. E per cambiare queste percezioni occorrono tempi lunghi”.

“How to outrecruit Osama?” (Come reclutare meglio di Osama?), è la domanda provocatoria con cui commenta questi risultati Keith Reinhard, presidente di Bda (Business for democratic action), organismo bipartisan di cui fanno parte dirigenti di giganti pubblicitari come Tbwa e Bbdo, di multinazionali come McDonald’s, e studiosi di destra come Helle Dale (Heritage Foundation) e di sinistra come Joseph Nye (Harvard, autore di “Soft Power”) o Anne-Marie Slaughter (Princeton). “L’aumento dell’antiamericanismo”, dice Reinhard, “ci deve allarmare non solo per i nostri business e prodotti esportati all’estero, ma anche per il futuro delle nuove generazioni di americani. Il risentimento nei nostri confronti è alimentato dalla percezione che siamo arroganti come popolo, e che la nostra cultura - cinema, musica, tv - sia diventata troppo pervasiva. Nelle risposte al sondaggio, per esempio, spesso gli stranieri ci dipingono come ‘ambiziosi’. Il che a noi sembra un complimento, mentre in molte culture ha una connotazione negativa”.

“Il mio consiglio a Karen Hughes”, dice Anholt, “è quello di aggiungere ogni volta tre magiche paroline alle dichiarazioni degli uomini di governo americani: ‘If you like’, se volete. Perchè oggi la brand America ha bisogno di essere rebranded, ma questa non può essere un’operazione cosmetica: l’intero ‘prodotto’ necessita di una messa a punto. Quindi: vorremmo promuovere la democrazia in Medio Oriente, se volete...»

"Non esprimete giudizi perentori"

Poichè la praticità e’ un’altra caratteristica americana, il Bda ha pubblicato un libretto quasi commovente, destinato ai due milioni di statunitensi impiegati all’estero, ai sei milioni che ci vanno ogni anno per turismo, e ai 200 mila studenti americani in giro per il mondo. Vuole insegnare agli americani come rendersi simpatici, per tornare a farsi amare: “Prima di partire studiate la storia, la lingua, la cultura locale. Quando siete arrivati ascoltate, odorate, guardate, gustate, toccate... Non esprimete giudizi perentori, non date tutto per scontato... Prendete appunti, ricordatevi sempre che su cento persone al mondo solo cinque sono americani. Non paragonate sempre tutto agli Stati Uniti: non siete più nel Kansas... Se entrate in un negozio e nessuno si avvicina subito per chiedervi di cosa avete bisogno, non consideratela una maleducazione...” Normali consigli da guida turistica. Ma anche un’arma per Karen Hughes.

Mauro Suttora

Wednesday, May 04, 2005

Brooke Shields, depressa post parto

CONFESSIONE CHOC: "STRINGERE IL MIO TESORO ERA DIVENTATO UN INCUBO"
"Volevo buttarmi dalla finestra. Provavo tristezza, senso di vuoto. Mi sentivo una fallita", svela l'attrice. Dopo la nascita di Rowan, era stata colpita dalla depressione che affligge una puerpera su dieci. Per guarire? Farmaci, psicoterapia e affetto

dal nostro corrispondente a New York Mauro Suttora

Oggi, 4 maggio 2005

Dopo essere diventata mamma, due anni fa, Brooke Shields non ha cantato ninne nanne alla sua piccola Rowan con la voce dolce che mandava in estasi Broadway. «Guardavo le finestre del mio appartamento di New York», confessa l’attrice, «e mi veniva voglia di buttarmi giù. Non volevo più vivere. Mi ha salvato solo il pensiero che, stando al terzo piano, non sarei neppure riuscita a morire. Un mucchio di ossa rotte, e sarebbe stato ancora peggio...»

L’agghiacciante rivelazione è contenuta nell’autobiografia che la mamma quasi quarantenne (compleanno il 31 maggio) ha scritto con sincerità totale, terapeutica, come per levarsi di dosso un peso. E per condividere la propria pena estrema con le donne (una su dieci) che soffrono di depressione post-parto.

Perchè apparentemente l’ex modella di Calvin Klein aveva tutto: una splendida carriera cominciata ancora in fasce, quando fu scelta per reclamizzare un sapone dei neonati; un matrimonio finalmente felice con il produttore Tv Chris Henchy, dopo l’unione annullata dalla Sacra Rota con il tennista Andre Agassi e avventure sbagliate con Alberto di Monaco, Michael Jackson e George Michael; una laurea in letteratura francese nella prestigiosa università di Princeton, conquistata per dimostrare che dietro alla bellezza fisica c’è anche un cervello; battaglie vinte contro l’alcolismo e una temuta sterilità.

Ma per Brooke la conquista faticosa della gravidanza e lo scivolare improvviso nella depressione dopo i dolori del parto si sono rivelati il periodo più tumultuoso e imprevisto della vita. «Chris mi diceva: “Ehi, la bimba sta piangendo”. E io mi limitavo a rispondere immobile: “Sì, sta piangendo. Chissà cosa vuole...” Era come se uno spirito esterno si fosse impadronito del mio corpo e io rispondessi a ogni domanda con il contrario di quello che volevo».

Vergogna, segretezza, impotenza, disperazione: la ex Pretty Baby è passata attraverso tutti i sintomi della depressione post-parto. «Ma provavo anche tristezze infinite, senso di vuoto, sentivo lontanissimi famiglia e amici. Ero convinta di essere una fallita, e pensai al suicidio quando quelli che mi circondavano non davano peso alle mie parole: mi assicuravano che si trattava soltanto di normali malinconie passeggere». E invece, se non curata, la spossatezza del dopo gravidanza può trasformarsi in crisi cronica e durare anche un anno.

Oggi, quando Rowan piange, mamma Brooke si vanta di riuscire a capire immediatamente, anche da lontano, se la bimba ha fame o paura, se è arrabbiata o stanca o triste, oppure se sta semplicemente cercando Darla, il bulldog di sette anni: «Si tratta di quel tipo di istinto materno innato di cui avevo tanto sentito parlare, e che mi illudevo di possedere fin dal primo giorno», spiega. «Nulla di tutto questo, invece. Solo un gran disinteresse, da parte mia, e di conseguenza un senso di colpa così grande da non riuscire a confessarlo a nessuno. Così mi ritrovavo a piangere più di Rowan in certi giorni vuoti e interminabili. Mi venne un attacco di panico quando feci il primo provino dopo la gravidanza per lo spot di un prodotto per neonati. Avevo anche visioni terrificanti di mia figlia che volava in aria, colpiva un muro e poi scivolava giù, anche se grazie a Dio non ero io quella che la lanciava».

All’inizio la parola «depressione post-parto» non le diceva nulla. Fu un lontano conoscente, «anzi, praticamente uno sconosciuto», a farle aprire gli occhi sui sintomi che provava. Non si sa quali madri siano portate più di altre alla depressione, ma nel caso della Shields si sono manifestati alcuni chiari fattori di rischio: parto complicato e difficile, taglio cesareo con il cordone ombelicale annodato attorno al collo di Rowan, utero erniato durante l’operazione, con tale perdita di sangue che i dottori avevano quasi dovuto praticare un’isterectomia (rimozione dell’utero) per bloccarla.

Un altro fattore di rischio è una disgrazia improvvisa, come la morte di un parente. Il padre di Brooke era scomparso tre settimane prima della nascita di Rowan per un cancro alla prostata. C’era lo stress dovuto a vari tentativi falliti di fertilizzazione in vitro, e le iniezioni di ormoni cui doveva sottoporsi per stimulare le ovaie a produrre ovuli. La coppia viveva nella paura costante di essere accusata di drogarsi, viste le siringhe che doveva portarsi dietro nei viaggi. E poi il divorzio difficile da Agassi, un aborto, una tradizione di depressioni in famiglia, niente balia... insomma, la Shields era proprio la candidata ideale.

«Eppure per me fu una sorpresa. Non volevo crederci, mi vergognavo ad ammettere che avevo la depressione post-parto. Cercavo una giustificazione per tutto». Brooke Shields ignorava che la sua malattia viene curata in maniera assai efficace, con una combinazione di medicinali e terapie psicologiche, più tanto riposo e aiuto da amici e parenti: «Senza le medicine non sarei stata abbastanza lucida, ma senza lo psicologo non sarei riuscita a capire quel che mi stava succedendo. Per me poi è stato molto importante allattare: che mi piacesse o no, il contatto fisico con Rowan era quello di cui avevo veramente bisogno. Alla fine sono stata fortunata, con una diagnosi abbastanza rapida e un aiuto efficace».

Anche adesso le tocca alzarsi per accudire Rowan: «La scorsa notte ho dovuto farlo all’una, alle tre e alle cinque. Ma ora ho capito che con la maternità la mia vita è cambiata per sempre, e che questa nuova fase è migliore perchè arricchisce di più. Ho quasi abbandonato tutte le medicine, e stiamo pensando all’eventualità di un’altra gravidanza».

Le madri che hanno sofferto di depressione hanno un 50% di probabilità in più di ricaderci dopo il parto successivo: «Lo so, ma voglio un secondo figlio. E anche se sono una perfetta candidata, almeno questa volta so che cosa mi aspetta. Chissà, magari sarà peggio, oppure non succederà nulla. Ma sarò preparata. Dovrò ricorrere di nuovo alla fecondazione assistita, ma si spera che questa volta un mio genitore non muoia proprio prima del parto».
Mauro Suttora

Monday, April 11, 2005

Complete catalogue of Manhattan asses

The New York Observer
Mauro Suttora
April 11, 2005
“Hey, Marsha, read this: The Italian Supreme Court has given 14 months to a guy who bottom-pinched a young woman while she was calling from a phone booth in the Friuli region!”
My Upper East Side girlfriend raises her left eyebrow without smiling: “No wonder …. You come from there, don’t you?”
“Well, it’s a civilized region, no Mafia, hard workers. But this is an incredibly harsh sentence, it’s the first time that some jerks equate ass-touching to violence. It’s a total novelty for us! I guess the impact of this decision will be felt by buttocks all over our sunny peninsula …. "
“Don’t be sarcastic, I bet the pig totally deserved it.”
“Well, it’s a real revolution for Italy. The first one since Benito Mussolini invented fascism after First World War.”
I swear: I never pinch unknowns, nor I get pinched. I dread physical contact of any kind between strangers, unless they are adults, willing, introduced. And protected. That’s how germs travel. But these judges drive me crazy.
“So, Marsha, tell me: How many years of prison should we give rapists, if we are punishing aggressive caressing with more than one year? How much worse is rape than pinching? One hundred times?”
“Yes …. “
“So are Italian judges giving life sentences to rapists? No way. They keep giving 10 or 20 years. There’s no proportion!”
Bottom-pinching has suddenly turned into the least cost-effective way to get pleasure for a man (or a woman) in Italy. Imagine: one year and two months behind bars for just one second of a mere tactile passing satisfaction, involving only the fingertips of one hand.
Of course, we all know there are many different ways of going into it. I ignore the details of the historical and hysterical Friuli ruling, but I hope at least that the judges’ draconian severity was justified by the length of the contact. Or maybe by the use of both hands simultaneously: That would have made a spectacular grip.
I am sure our bon vivant premier Silvio Berlusconi would have been much more lenient with the unlucky pervert. First of all because, like half Italians, should he be forced into groping, he’d certainly prefer other body parts. He would go straight for the breast, the California governor’s way, more than for the back. 
His three television channels have been advocating big tits in the past quarter century, totally subverting the previous 20 years of anorexic fad, and recuperating the healthy tradition established by Sophia Loren and la Lollobrigida in the roaring 50’s.
Notwithstanding his TV brainwashing, our country remains evenly divided between bosom and bottom lovers. Our current main movie star, Monica Bellucci, climbed to fame thanks to a memorable mute scene of her promenading her legendary behind in Giuseppe Tornatore’s movie Malena. No words were needed for her presence on the screen.
Another recent movie which tackled the problem of sexual harassment in contemporary Italy is Under the Tuscan Sun. Diane Lane, starring in it, gets overwhelmed by Italian men as soon as she arrives in Rome. Now, I have to warn American tourists that reality in our streets is much duller. As a matter of fact, although Mrs. Lane would have deserved some punishment for cheating on husband Richard Gere in her previous movie Unfaithful, she gets less action in Trastevere than in Soho.
So, it’s all clichés? I’d say so. The only escape for today’s groper is doing it in an environment so crowded to reduce risks to the minimum. Subways and buses at peak time, for example, deploying what we call mano morta (“wandering hand”), which can always be excused as an involuntary contact. Although being restrained by education or fear doesn’t mean that my countrymen have canceled their centuries-old fetish for the lower back.
Fame, in any case, travels: “But I thought you were Italian … ,” whispered to me once a disappointed American woman (not Marsha, I swear) after we kissed standing, without my gentleman’s hands touching her where she was hoping. “You were supposed to sweep me away!” Go tell those Italian judges, lady. They are becoming so P.C. they might be American.
Italian philosopher Massimo Fini, in his Erotic Di(ction)ary, has listed more than a dozen different types of bottoms. According to him, “we can detect someone’s personality just by looking at his/her gluteus.”
But he goes more deeply than that. He turns anthropological: “Men, as we all know, are divided in two categories: the ones who love the breast (bosomen) and the ones who prefer the ass (bottomen). The first ones generally belong to coarse cultures, not so shrewd, childishly pragmatic, primitive, matriarchal, strongly tied to the woman-mother image and in any case too young for having had the time to develop adequate speculative skills. Bosomen are, for example, the Americans. Europe, the cradle of civilization, is on the contrary bottoman. Venus, the goddess of love and beauty, was surnamed ‘Callipygian’ from the Greek kallopygos (kallos, beautiful + pyge, buttock), and was born together with philosophy and mathematics. For a reason: because the ass is in the first place a metaphysical category. It possesses the geometrical perfection of abstract figures. Its form is similar to the sphere, which is the perfect geometrical concept. But it surpasses it, because it has something that the sphere lacks: symmetry. Like the sphere, it’s an object at the same time finite and infinite. And, because it is curved, the ass is very near to the essence of the truth (‘Every truth is curved,’ said Friedrich Nietzsche).”
This precious Massimo Fini’s book was written in 2000: well before the manifesto of the Bush-era intelligentsia, Of Paradise and Power, the neocon Bible in which Robert Kagan confirms that Europeans are from Venus and Americans from some other unfortunate cold, reddish and ass-less planet.
Mr. Fini goes on explaining: “Encapsulated in the ass, there lies the enigma of the relationship finite/infinite, space/time, which after all is the enigma of the whole universe. It’s no coincidence that Salvador Dali, when asked how he imagined the universe, replied: ‘As a four buttocks continuum.’ How this worrying apothegm, so charged with symbolic meanings, was dropped to the end of men’s back and, even worse, women’s, is a mystery. But here comes again the great ambiguity of the ass: being not human for the perfection of its proportions, it is at the same time very human. Because perfection is inherently blank, inexpressive, while the bottom is the body’s most eloquent part. The ass signals not only somebody’s character, but also his/her belonging to a particular class of people.”
So, with the help of my friend Massimo Fini, I have been trying to come up with a Manhattan ass map. We have, first of all, the typical Upper East Side ass, which I know all too well (it’s Marsha’s): cautious and stingy, with narrow apples, like usually in Italy the Tuscans have. 
The East Village behind on the contrary is trustworthy and hopeful: round, fat and with slightly open buttocks. The midtown is an aggressive one: firm and massive like a mountain range. Around Murray Hill, Beekman Place and Tudor City you find the volitive ass, small and muscular: And it doesn’t belong only to U.N. functionaries, diplomats and their spouses.
The Upper West Side is of course the conversational ass: elastic and malleable. Carnegie Hill can boast the noble one: high, long and with a small relief. Working-class asses (low and large) are unfortunately rare in Manhattan, but a few survive in the Lower East Side. The City Hall behind is unavoidably bureaucratic: fat and shapeless. 
Around Washington Heights the proletarian ass is large and high, while in Park Avenue you sometimes get the military one: narrow and muscular. Wall Street offers petty and fearful asses, which are skinny without being bony; from Hell’s Kitchen up to Columbus Circle and Lincoln Center you get the indifferent ass, small and curled up; the Village’s ass is usually laughing (large and flat); but the West Village one comes rather naughty: round, with a step and quivering. 
And in the end we have the submissive ass, which I couldn’t find any particular geographical liaison to. It’s the one which shows two tender folds between the buttocks and the thighs, and is round without being excessive. This is the real ass. The ass of asses. Because it possesses at the maximum level the two main features which are typical of each and every ass: defenselessness and ridicule (“The cheerful impotence of the bum,” described it Jean-Paul Sartre, another philosopher in the field).
Yes, the ass is helpless, because it can’t see: It can only be seen. It is harmless because it doesn’t have corners. It is defenseless because it doesn’t have brawn: Anybody can outrage it. It is naked and exposed because it’s hairless. And above all it is funny, like all things big but clumsily coward, maintains Massimo Fini, the maximum ass expert on our planet (neocons are from Mars).
Due to this marriage of powerlessness and foolishness, our behinds are the body part most relished by sadists. Nothing gets beaten up as much as the ass. Or at least pinched. But we have to say that it almost always does things to deserve it. It provokes: “Sometimes it shows up with an air of false innocence, some other time with impertinence, often times with arrogance, and a few times it even isolates itself, it doesn’t let on, pretending to ignore being an ass,” complains Massimo (whom at this point we can nickname ‘”My-ass-imo”).
All these attitudes draw an adequate punishment. Which the ass, after a first token resistance, seems to accept eagerly, as it bends, protrudes, opens, offers itself. Let’s confess: The ass is deeply, intimately masochist.
But the real reason behind the Italian behind-pinching penchant is that in the ass we find the ultimate element attracting the sadist: perfection. It is perfection which triggers the desire for profanation. Only things perfect merit to get damaged, violated, reviled (“A**hole!”) in order to downgrade them into imperfect ones. This is, also, the utmost demonstration of the enormous superiority of the ass on the breast. Breasts get caressed, fondled, pampered; at the worst you kindly nibble a nipple. Only a pervert would pinch them less than gently. But this is just to console them for their insignificance, for their being only breasts. While in the perfection of the ass lies a devilish pride which has to be brought down. 
The ass has become so omnipotent that in the U.S. it is nowadays widely and wildly used as a comprehensive synonym for pleasure: It stands for words such as sex, action, excitement, girls, boys, fun, quick love, cheap romance. “Let’s grab some ass tonight” is the most common single sentence used in contemporary American campuses. I learned this while reading I Am Charlotte Simmons by Tom Wolfe, the one and only novel I understand President George Bush junior has been enjoying recently.
So we can jail all ass-grabbers of the world as much as we want, and give them disproportionate penalties, but we’ll never be able to kill the will to touch down there. The maximum we can achieve is to inhibit it: for our behinds are too precious and glamorous not to be pinched, after all.
Mauro Suttora

Monday, April 04, 2005

Le modelle di Sports Illustrated

mensile 'Capital', aprile 2005

MEZZO SECOLO DI SPORTS ILLUSTRATED

New York. Con i suoi tre milioni di copie è il settimanale più venduto degli Stati Uniti, superato solo da Time (quattro milioni): Sports Illustrated compie quest’anno mezzo secolo di vita, ed è un evento per la cultura popolare americana. Anche perchè da quattro decenni, oltre che per lo sport, la rivista che tutti abbreviano familiarmente in SI è diventata importantissima per il suo numero annuale sui costumi da bagno: ogni modella sogna di conquistare la copertina col bikini in febbraio, passaporto definitivo per la celebrità nell’America profonda, quella dei grandi numeri, che garantisce decine di milioni di lettori, clienti, fans e dollari.

I lettori di SI sono i maschi statunitensi, i quali più di chiunque altro al mondo si nutrono di sport televisivo: il doppio degli italiani, secondo le statistiche. Perchè noi regaliamo grosse audiences solo a calcio e Formula uno, mentre i giganti dell’entertainment da stadio Usa sono quattro: football, basket, baseball e, più indietro, hockey. Molto pubblico anche per tennis, boxe, corse automobilistiche e golf. L’acme viene raggiunto ogni anno a fine gennaio, quando il Superbowl del football rastrella 140 milioni di spettatori.

E proprio per contrastare il calo di vendite che seguiva la fine del campionato di football, nel 1964 nacque la “swimsuit edition”. Fino al 1970 un po’ di mannequin (così le chiamavano) anonime andavano in una località esotica. Poi fu la volta di Cheryl Tiegs, una ragazzone del Minnesota figlia di un becchino, la prima a finire in copertina per tre anni. Nel ‘78 però osò mostrare i capezzol, sotto un costume intero bianco a rete: scandalo per l’America puritana, e 340 abbonamenti a SI annullati da lettori benpensanti.

Dall’anno seguente fino all’81 lo scettro della covergirl passò a Christie Brinkley, futura moglie del cantante Billy Joel. A sua volta detronizzata da Carol Alt e poi (‘84/’85) da Paulina Porizkova. Nell’86 iniziò il regno triennale dell’australiana Elle MacPherson, che fece poi poker nel ‘94 assieme a Kathy Ireland e a Rachel Hunter, futura moglie del cantante Rod Stewart.

Tranne Claudia Schiffer e Linda Evangelista, non c’è modella di nome che non sia apparsa almeno una volta nelle pagine interne dello Sports Illustrated: Naomi Campbell, Sarah O’Hare (che ha appena dato un figlio a Lachlan Murdoch, figlio del magnate di Sky), Stacey Williams (bellissima mora di Filadelfia), Daniela Pestova (cover del ‘95), Tyra Banks (in copertina l’anno dopo con Valeria Mazza), Heidi Klum (‘98), fino a Rebecca Romijn e alla nostra Monica Bellucci (nel ‘91).

La nascita di SI appartiene alla leggenda. Henry Luce, proprietario e fondatore del settimanale Life, volle estenderne la formula vincente (grandi foto a colori) allo sport, e nel ‘55 pubblicò la rivista contro il parere dei dirigenti di Time-Life. Ci vollero parecchi anni per raggiungere il pareggio e poi il profitto, ma alla fine la scommessa fu vinta. E nell’ultimo decennio il marchio SI è diventato così redditizio (il costo di una pagina di pubblicità sfiora i 200mila dollari) che si è passati alla brand extension: sono nate SI per le donne e la versione per i kids (i bambini). La redazione sta a New York, sempre nel grattacielo Time-Life al Rockefeller Center. Ormai SI fa parte dell’impero Time-Warner-Cnn, con tutte le sinergie del caso (comprese le interviste compiacenti ai propri giornalisti sul canale di Ted Turner), ma nelle due nuove torri gemelle Time Warner del Columbus Circle i giornalisti della carta stampata non hanno voluto trasferirsi. La concorrenza comunque è stata sbaragliata: il settimanale della Espn (il canale sportivo della Disney), lanciato con grandi mezzi nel ‘98 rubando i migliori giornalisti a SI, staziona sul milione e mezzo di copie.

Come dice la testata, in SI le illustrazioni prevalgono sul testo. E, nonostante l’overdose quasi giornaliera di sport in tv, non sembra che i lettori siano sazi di immagini. I fotografi della rivista sono superspecializzati e iperpagati, quasi quanto i colleghi del National Geographic. Quel che manca negli Usa rispetto all’Italia è la polemica continua pre o post partita: la chiacchiera di contorno non attrae lo “sport junkie”, il drogato di sport che si piazza ogni domenica pomeriggio e lunedì sera di fronte allo schermo tv. Piuttosto, sembra che il “fantasy football” (o basket, o baseball) attragga schiere sempre più ampie di tifosi in cerca di attività collaterali: unire sport e scommesse, d’altronde, è una ricetta vincente universale. Ma SI, imperterrito, non si lascia distrarre e continua ad applicare la ricetta classica del giornalismo popolare: nessun problema senza una storia, e nessuna storia senza un personaggio.

Quest’anno per il cinquantenario Sports Illustrated si autocelebra in un libro apposito, riproponendo foto del passato ormai impensabili: giocatori di hockey senza casco, campioni del baseball che fumavano nel dopopartita. Ma le immagini segretamente preferite dai lettori rimangono quelle delle bellezze in costume da bagno: sono loro ad aver scandito l’educazione sentimentale di tre generazioni di americani, ormai. Così, per l’anniversario, la californiana Marissa Miller, 25 anni, modella per Hilfiger scoperta dal fotografo italiano Mario Testino mentre faceva surf, ha reindossato tutti i costumi più famosi della storia di Sports Illustrated.

Mauro Suttora

Saturday, March 05, 2005

Ari Fleischer, portavoce di Bush jr


















di Mauro Suttora

Il Foglio, 5 marzo 2005

New York. "Tedioso, tendenzioso, tristissimo, inutile, affrettato, totalmente banale". Non capita spesso che la 'politically correct' critica letteraria del New York Times, la 50enne Michiko Kakutani, stronchi così nettamente un libro. Il bersaglio della severa sacerdotessa del giornalismo è Ari Fleischer, 45enne ex portavoce della Cada Bianca, che sicuramente è stato piuttosto prevedibile nello scrivere il solito libro di memorie dopo aver lasciato lo staff presidenziale due anni fa - lo fanno tutti, e neanche lui ci ha risparmiato 381 pesanti pagine di amarcord.

Sunday, February 20, 2005

Peggy Guggenheim

INTERVISTA A KAROLE VAIL, LA NIPOTE

Oggi, febbraio 2005

dal nostro corrispondente a New York.

«Nella camera da letto dove dormivo era appesa L’Aurora di Paul Delvaux, che sarà in mostra a Roma. Ma quelle donne nude ritratte per metà come tronchi d’albero non mi facevano così paura quanto i quadri surrealisti di Max Ernst...»

Se le ricorda bene, Karole Vail, le tante vacanze estive e pasquali trascorse a casa della nonna Peggy Guggenheim a Venezia negli anni Settanta, in quel palazzo Venier dei Leoni oggi trasformato in museo. Lei era un’adolescente, abitava a Parigi col padre Sindbad e andava al liceo dalle suore. La tremenda nonna Peggy, che neppure a settant’anni aveva perso il gusto per la provocazione, le rivolgeva domande imbarazzanti: «Hai un fidanzatino? Ci sei già andata a letto?» Poi, quando la nipote aveva diciott’anni, le propose scherzando: «Perchè non ti metti con tuo cugino Sandro?» Se la portava in giro per i canali in gondola, la faceva scendere da sola davanti a qualche chiesa e poi, tornata a casa, pretendeva una dettagliata relazione sulle opere d’arte che la ragazza aveva visto. «Potete immaginare che voglia avessi io allora di studiare gli affreschi della scuola veneziana...», ride la signora Vail, «ma per mia nonna ormai la pittura classica italiana era diventata molto più interessante di quella contemporanea, alla quale pure aveva dedicato tutta la sua esistenza».

Scene di una vita inimitabile, quella della più importante e famosa collezionista d’arte del Ventesimo secolo, italiana d’adozione (visse a Venezia dal 1947 alla morte, nel dicembre ‘79). Ora 75 fra le più importanti opere provenienti da varie sedi del museo Guggenheim (New York, Venezia, Bilbao) sono in mostra per tre mesi a Roma, nelle Scuderie del Quirinale a partire dal 3 marzo. E Karole Vail, che lavora per il Guggenheim e nel ‘98 curò la grande mostra per il centenario della morte della nonna, ci aiuta a ripercorrere le tappe della vita di quella che fu anche una straordinaria mecenate. Peggy, infatti, non si limitava ad acquistare le opere di un artista promettente (da Vasily Kandinsky a Marcel Duchamp, da Francis Bacon ad Alexander Calder): si occupava di loro, li frequentava, si faceva frequentare (a volte anche intimamente: pare fosse di un appetito sessuale insaziabile). Le sue case di Parigi, Londra, New York e Venezia sono state per più di mezzo secolo il crocevia dell’intellighenzia culturale e politica internazionale.

«Il mio pittore preferito era Jackson Pollock», ricorda per esempio Karole Vail (nella mostra romana sono esposte varie opere dell’artista americano). Ma Pollock divenne famoso solo negli anni Cinquanta. Prima era misconosciuto, vendeva pochissimo. Ciononostante, Peggy Guggenheim negli anni Quaranta credette in lui, gli organizzò ben quattro mostre personali nella propria galleria newyorkese (la leggendaria “Arte di questo Secolo” sulla Cinquantasettesima Strada, proprio di fronte all’attuale libreria Rizzoli), gli fece dipingere un “murale” a casa propria e gli pagava uno stipendio mensile. Fra i giovani da lei valorizzati ci fu anche il padre di Robert De Niro, pittore che in seguito raggiunse buone quotazioni.

La vita di Peggy Guggenheim fu scandalosa. «Nacque da due delle famiglie ebree più ricche di New York, i proprietari di miniere Guggenheim emigrati dalla Svizzera, e i banchieri Seligman», racconta Karole Vail. «Allo scoppio della Prima guerra mondiale i Guggenheim controllavano l’85 per cento della produzione mondiale di argento, rame e piombo. Benjamin, padre di Peggy, passava il tempo a Parigi tradendo la moglie Florette e lavorando nella ditta che installò gli ascensori sulla torre Eiffel. Morì nel naufragio del Titanic, dopo aver dato il proprio giubbotto di salvataggio e il posto in scialuppa all’amanteche viaggiava con lui, e che nell’elenco dei passeggeri figurava come “signora Guggenheim”. Peggy, rimasta orfana a 14 anni, soffrì molto per la morte del padre che adorava. Lo cercò sempre negli uomini che amò. A 22 anni cercò di ingentilire il proprio naso a melanzana con una plastica, ma l’operazione fallì e da allora il naso si trasformò in una specie di barometro: “Quando sta per arrivare il cattivo tempo si gonfia”, scrisse in una delle sue ben tre autobiografie.

«Durante i sei mesi in cui lavorò a New York nella libreria radicale del cugino, che ispirò a Ernest Hemingway un personaggio in Fiesta, Peggy conobbe mio nonno Laurence Vail, un intellettuale bohemien franco-americano. Si trasferì a Parigi, lui le chiese la mano in cima alla torre Eiffel, si sposarono nel ‘22 e fecero il viaggio di nozze da Capri a Saint Moritz. A Parigi negli anni Venti frequentarono gli ambienti artistici, ebbero due figli - mio padre Sindbad e Pegeen - e litigarono molto. Si lasciarono nell‘estate del ‘28, quando mia nonna dopo aver ballato sui tavoli di un locale a Saint Tropez si mise con lo scrittore John Holms. Ma nel ‘34 Holms morì durante una banale operazione, perchè il livello alcolico nel suo sangue interagì con l’anestetico causandogli un collasso.

«Nel ‘37 Peggy Guggenheim aprì la sua prima galleria d’arte a Londra e conobbe Samuel Beckett, col quale ebbe un’amicizia intima. Espose le opere di Jean Cocteau, Kandinsky, René Magritte, Piet Mondrian, e degli scultori Constantin Brancusi ed Henry Moore. Poi arrivarono Yves Tanguy e Max Ernst: del primo si innamorò, il secondo lo sposò. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale Peggy, tornata a Parigi, approfittò del crollo dei prezzi delle opere d’arte per comprare un quadro al giorno. Fra questi, i Giacomo Balla, Giorgio De Chirico, Salvador Dalì e Francis Picabia ora in mostra a Roma, e due sculture di Alberto Giacometti».

«Dopo l’invasione nazista della Francia», continua Karole Vail, «mia nonna si rifugiò a New York con la sua collezione, e aiutò vari intellettuali come André Breton a scappare negli Stati Uniti. Nel frattempo suo zio Solomon aveva aperto a New York il museo della Pittura non-Oggettiva, predecessore dell’attuale museo Guggenheim, ma Peggy lo definì “una presa in giro”. Nel ‘42 aprì la propria galleria-museo Art of this Century, ma nel ‘47 volle tornare nella sua Europa e scelse Venezia come dimora definitiva. Alla Biennale del ‘48 la Grecia, in preda alla guerra civile, le prestò il proprio padiglione che altrimenti sarebbe rimasto vuoto, e lì Peggy espose la sua collezione. Fu un successo senza precedenti: gli italiani reduci dal fascismo non avevano mai visto tanta arte astratta e surrealista, e gli europei conobbero le avanguardie americane che avrebbero dominato la scena artistica degli anni Cinquanta.

«Peggy Guggenheim conquistò l’ammirazione dei veneziani, che la soprannominarono “Ultima dogaressa”. Nel suo palazzo Venier passavano a farle visita tutti gli artisti più famosi del mondo: attori, scrittori, musicisti, da Marlon Brando a Ian Fleming, da Eugenio Montale a Patricia Highsmith, dal futuro Lord Snowdon a Igor Stravinsky. Il libro degli ospiti è una lista infinita del gotha della cultura mondiale: nessun personaggio passava da Venezia senza fermarsi a far visita a mia nonna. E lei, a sua volta, accompagnava la propria collezione nelle numerose mostre all’estero, da Londra a Stoccolma, da Amsterdam a Parigi. Andò anche a New York a vedere l’edificio rotondo che Frank Lloyd Wright aveva progettato nel ‘58 per il museo Guggenheim: “Un grande garage che si attorciglia come un serpente maligno”, lo liquidò mia nonna. Ciononostante, nel ‘76 accettò che la propria collezione si unisse a quella dello zio Solomon Guggenheim. Nel ‘79, pochi mesi prima di morire, accolse a Venezia lo scrittore Gore Vidal con Paul Newman e sua moglie Joan Woodward. Peggy si entusiasmò quando Newman accettò di baciare una delle sue domestiche: «Così in cambio lei resterà con me ancora per un anno», disse con la sua solita lingua tagliente. Morì in un ospedale di Padova due giorni prima di Natale. Proprio quel giorno Venezia fu invasa dall’acqua alta. Mio padre e mia madre si preoccuparono di mettere in salvo la sua collezione».

Fotografiamo per Oggi Karole Vail di fronte a quel museo Guggenheim di New York che sua nonna aveva disprezzato, o finto di disprezzare. Forte e decisa come Peggy, posa imperterrita per il nostro fotografo a dieci sottozero. Di fronte, Central Park è invaso dalle tende arancioni di Christo: «Il primo grande evento d’arte di questo secolo», lo ha definito il New York Times. Quanto alla grande arte del secolo scorso, quella targata Guggenheim è in mostra a Roma da giovedì: un’occasione unica per gustarla.

Mauro Suttora

Friday, February 18, 2005

L'insopportabile Marco

L'inchiesta vecchio stile

Diario, 18 febbraio 2005 (storia di copertina)

La svalutazione del Marco

Vengono da una lunga storia, da gloriose lotte per i diritti civili, da digiuni eclatanti e campagne verbosissime, hanno contrattato con destra e sinistra. Una canzone popolare sembra fatta apposta per i radicali e dice così: «Mamma Ciccio mi tocca, toccami Ciccio che mamma non vede»

di Mauro Suttora

E' il partito più antico d’Italia, fra quelli in circolazione: compie cinquant’anni a dicembre. «Non abbiamo mai dovuto cambiar nome», proclama orgoglioso Marco Pannella. Coincidenza quasi incredibile: il Partito radicale è nato negli stessi giorni in cui una signora di Montgomery (Alabama), Rosa Parks, rifiutò di alzarsi dal suo sedile in un autobus segregato, iniziando così la lotta per i diritti civili dei negri d’America. Pannella come Martin Luther King? Il paragone è lusinghiero, probabilmente azzardato, ma non campato in aria. Lui, il Marco transnazionale che va per i 75, si ritiene perfettamente maturo per il Nobel, oltre che per il laticlavio perpetuo che Carlo Azeglio Ciampi continua a negare a lui e a Mike Bongiorno. I senatori a vita sono quattro, ci sarebbe ancora un posto, che se però finisse a Pannella provocherebbe un suicidio eccellente: quello di Eugenio Scalfari. E viceversa, perché l’invidia e la gelosia sono reciproche.

Entrambi i grandi vecchi del liberalismo di sinistra italiano erano presenti, quell’11 dicembre 1955, al cinema Cola di Rienzo dove nacque il Partito radicale di Ernesto Rossi e Mario Pannunzio. Si detestavano cordialmente già da anni, galletti troppo ambiziosi nel prestigioso ma angusto pollaio della corrente di sinistra del partito liberale. Da allora, Pannella ha sempre fatto politica praticando in realtà il giornalismo: invincibile il suo penchant per le provocazioni intellettuali, invece di limitarsi a raccogliere comodi consensi surfando fra rassicuranti luoghi comuni come un Fini o un Casini qualsiasi. Scalfari, al contrario, ha fatto giornalismo macinando in realtà politica. E oggi eccoli sempre lì, i due uomini che hanno contato di più per i diritti civili in Italia: l’uno con i suoi digiuni e comizi, l’altro con le copertine dell’Espresso e le prime pagine di Repubblica.

A letto con chiunque.

«Divorzio, aborto, obiezione di coscienza, Tribunale internazionale Onu...»: quando Marco ingrana in tv la litania delle sue conquiste assomiglia all’eterno nonno reduce italiano che ha via via tediato i nipoti con i ricordi dei Mille garibaldini, dei ragazzi del ’99, della Resistenza, del ’68. Questo però è un vecchiaccio felice che ancora il primo agosto scorso volantinava da solo in mezzo al milione di persone arrivate per Simon e Garfunkel davanti al Colosseo: «Firmate i referendum sulla libertà della scienza», urlava sorridente ai passanti. E dove lo si trova nel mondo intero un politico professionista ultrasettuagenario che se va per strada a mendicare una firma per i diritti civili (questa volta dei malati)?

Verso la fine del concerto Simon e Garfunkel hanno intonato una delle loro canzoni più belle e famose, The boxer: «E il pugile si porta addosso il ricordo di ogni guantone che lo ha sbattuto a terra e distrutto/ e lui che urlava con rabbia e vergogna “Io vivo, io vivo!”/ ma il combattente resiste sempre, lailalai...». Peccato che il bilingue Pannella (mamma svizzera francese) non conosca anche l’inglese, altrimenti avrebbe egocentricamente concluso che quella canzone era sicuramente dedicata a lui. Anche perché, serendipity, risale allo stesso anno della legge del divorzio, quel 1970 in cui assieme a Roberto Cicciomessere fece il primo sciopero della fame davanti al Parlamento.

I ragazzi radicali, che da trent’anni continuano testardi a raccogliere firme inutili, perché tanto i referendum vengono sterminati in embrione dalla Corte costituzionale o in culla dagli astenuti, si fidano ciecamente di Pannella. Anche Emma Bonino, che lo segue con una fedeltà commovente. «Sei solo una sua protesi», la insultò Silvio Berlusconi sei anni fa. Fosse vero, lei magari ne sarebbe contenta. Ora è con lui anche in questa stranissima richiesta dell’ospitalità, rivolta contemporaneamente a destra e a sinistra. C’è qualcosa di muliebre nel bisogno di venire corteggiati a 360 gradi, di essere scelti invece di scegliere, e qualcosa di francamente puttanesco nella disponibilità a finire a letto con qualsiasi ospitante. Ma quando una cosa la fanno i radicali, chissà perché assume quasi sempre un sapore diverso, magari grottesco, eppure in qualche modo affascinante. Come quella volta di Toni Negri, nel 1983. O di Cicciolina, quattro anni dopo. O della propria pipì bevuta da Pannella-Don Pisciotte in tv, con Maurizio Costanzo e Ciampi ridotti a implorarlo in diretta a Buona domenica.

Partito mio, quanto mi costi.

Poi, certo, ci sono le ragioni prosaiche e spregiudicate di un partito che, seppur minimo, ha anch’esso un apparato da stipendiare. C’è la convenzione miliardaria di Radio Radicale di Massimo Bordin col Parlamento da rinnovare nel 2006: chi sarà al governo allora? A buttarsi con Silvio Berlusconi oggi, si verrà puniti in caso di vittoria della sinistra, e viceversa. Il call center radicale continua instancabile a telefonare ai simpatizzanti e alla nuova mailing list dei firmatari per i referendum sulla procreazione assistita, ma l’autofinanziamento (comunque il più alto, in percentuale, fra tutti i partiti italiani) non basta a pareggiare i conti. «Duemila iscritti a Radicali italiani hanno versato nell’ultimo anno mezzo milione di euro», riassume la tesoriera Rita Bernardini.

Ma i Radicali italiani guidati da lei e dal segretario Daniele Capezzone sono soltanto una delle tante organizzazioni pannelliane. C’è l’associazione «Nessuno tocchi Caino» contro la pena di morte, guidata da Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, che raccoglie un buon numero di contributi spontanei (in primis quelli di Vasco Rossi, che fa loro propaganda nei suoi concerti), e anche finanziamenti dall’Unione europea per i programmi organizzati. «Non c’è pace senza giustizia» avrebbe potuto chiudere i battenti dopo la vittoria sul Tribunale internazionale Onu, finalmente nato dopo che 60 Paesi hanno firmato il trattato di Roma (non gli Usa, fieri nemici), ma continua a fare lobbying internazionale per aumentare i Paesi firmatari e ora si è riconvertita nella campagna contro le mutilazioni genitali femminili. La Bonino non ha partecipato al bailamme delle trattative sull’ospitalità perché è andata a organizzare con l’ex eurodeputato Gianfranco Dell’Alba un convegno a Gibuti in cui pare che alcuni preti africani abbiano fatto marcia indietro sull’obbligatorietà del taglio della clitoride.

Nel 2004 è nata l’associazione Luca Coscioni, dal nome del malato di sclerosi laterale ridotto all’immobilità che si batte per la ricerca sulle cellule staminali. L’anno scorso, oltre alla raccolta di firme per i referendum, il suo segretario Marco Cappato è riuscito a bloccare una risoluzione Onu sponsorizzata da Vaticano e Usa contro la ricerca sugli embrioni.

Altre associazioni specializzate, infine, gravitano attorno ai radicali: quella anticlericale (animata da Maurizio Turco) e quella antiproibizionista, che portano avanti le battaglie dei decenni scorsi e che avranno vita dura in caso di accordo con Forza Italia. Proprio lunedì scorso Pannella e la Bernardini sono stati assolti per aver distribuito pubblicamente spinelli. Esattamente trent’anni dopo la prima volta.

C’è poi il Prt (Partito radicale transnazionale), rappresentato a New York dai fiorentini Marco Perduca e Matteo Mecacci. Dal loro ufficietto di fronte all’Onu fanno vedere i sorci verdi al Vietnam sulla questione dei Montagnard (la minoranza perseguitata degli altipiani), alla Russia sui ceceni, alla Cina su Tibet, Xinjiang e Falun Gong, e a tutte le dittature in genere. Si battono per la nascita della Omd (Organizzazione mondiale delle democrazie), che dovrebbe innervare l’Onu di spirito nuovo ed emarginare i Paesi autoritari. Una delegazione radicale è andata in Ucraina durante la rivoluzione arancione, mentre Pannella a Capodanno è volato in Cambogia dove i revenants filovietnamiti e polpottisti minacciano la vita democratica. In cambio, periodicamente Vietnam, Russia, Cina e Cuba cercano di far togliere al Prt lo status di ong (organizzazione non governativa) presso l’Onu. Ci hanno provato anche durante l’estate 2004, senza riuscirci.

Tutta questa attività ha subìto un duro colpo con la sconfitta alle europee lo scorso giugno, quando la lista Bonino è crollata dall’8 al 2 per cento. Gli eurodeputati si sono ridotti da sette a due, e di conseguenza anche tutto il corredo di portaborse e finanziamenti (per esempio, i convegni con traduzione simultanea). Inoltre, tutti gli eletti versavano metà stipendio al partito: in lire almeno 10 milioni al mese ciascuno, 70 in totale, quasi 1 miliardo all’anno. Perso pure questo. Poi un mese fa è arrivata la tegola della bocciatura della Consulta all’unico referendum sulla legge della procreazione assistita promosso solo dai radicali. Ed è evaporato un rimborso di 250 mila euro. Per questo Pannella la scorsa estate è dovuto ricorrere a un prestito da parte di George Soros (già convertito in fidi con banche italiane). Il miliardario americano nemico di George Bush junior è vicinissimo ai radicali: con la sua Open Society condivide la battaglia per la Omd, e finanzia la Lia (Lega internazionale antiproibizionista) guidata dal radicale Perduca.

Un neocon chiamato Capezzone.

Come si vede, quasi tutte le attuali campagne italiane e internazionali dei radicali pencolano verso sinistra. Risulta incomprensibile, quindi, l’infatuazione di Capezzone e di qualche altro pannelliano per il movimento neocon Usa. Sulla guerra in Iraq Pannella aveva escogitato una posizione mediana: la mozione «Iraq libero», che invitava Saddam all’esilio per bloccare l’attacco statunitense. Ma da allora sono passati due anni, e in nome della lotta per la democrazia (la più recente scusa di Bush per il proprio militarismo) alcuni radicali sembrano aver dimenticato il loro classico antimilitarismo.

Capezzone, soprattutto, il quale imperversa dappertutto. È lui ormai il nuovo componente della trinità radicale, assieme a Pannella e Bonino. Il sito internet radicale risulta quasi comico nel declamarne le gesta: Capezzone dichiara, Capezzone puntualizza, Capezzone di qua, Capezzone di là, Capezzone a Marchette, Capezzone imitato da Neri Marcorè a SuperCiro, comprate i due libri di Capezzone, per arrivare infine all’imbarazzante «Capezzone a Washington». Che purtroppo non è una missione alla Frank Capra, ma il resoconto audio di una conferenza che lo sventurato ha tenuto pochi mesi fa all’Aei (American Enterprise Institute), cioè il maggiore think tank (molto tank e poco think, per la verità) dei falchi di estrema destra Usa. «Sono gli unici ad avermi invitato», si giustifica lui, segretario di un partito che ha tuttora Gandhi nel simbolo. In effetti nel suo discorso, pronunciato in un ottimo inglese, Capezzone non fa sconti ai neocon: concorda sull’espansione della democrazia, ma dissente educatamente sul mezzo adottato (la guerra). Un’altra missione in partibus infidelium da parte dei non violenti radicali sembrano essere i numerosi commenti che Capezzone-prodigio e Mecacci hanno pubblicato sul Washington Times, cioè il quotidiano reazionario (è la voce del Pentagono) pubblicato dalla setta del reverendo Moon (sì, quello della moglie-lampo filippina del vescovo Milingo...)

Qui in Italia, stranamente, a sinistra uno dei più entusiasti nell’auspicare l’ospitalità verso i radicali è Fausto Bertinotti. Eppure proprio Rifondazione comunista è stata dagli anni Novanta la più implacabile nel denunciare il liberismo e il filoamericanismo pannelliani. Nel 1999, durante la raccolta delle firme per i 20 referendum, i rifondatori organizzarono in varie città comitati per il no contro i nove quesiti «economici» (abrogazione articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, pensioni d’anzianità, Inail, monopolio statale obbligatorio sull’assistenza sanitaria, ritenuta d’acconto e liberalizzazione di collocamento, lavoro a termine, a domicilio e part-time). I militanti comunisti volantinarono vicino ai tavoli radicali, invitando i passanti a non firmare. Poi ci pensò come sempre la Corte costituzionale a far fuori 13 referendum su 20. E alla fine, quando il 21 maggio 2000 si votò, l’astensione annullò tutti gli altri. Ma l’unico che non avrebbe comunque vinto, anche con il quorum del 50 per cento, sarebbe stato quello sull’articolo 18 (reintegro obbligatorio dei dipendenti licenziati ingiustamente). Su questi temi Bertinotti e Pannella sono sempre stati agli antipodi.

Quanto alla non violenza, il recente entusiasmo gandhiano di Rifondazione si dipana in polemica proprio contro i radicali, accusati di aver tradito l’antimilitarismo già con l’astensione del 1991 sulla prima guerra del Golfo, e poi con la sollecitazione degli interventi armati umanitari in Bosnia e Kosovo, nonché dei bombardamenti angloamericani in Iraq del 1998.

Eppure c’è una vicenda sepolta nel passato che forse può spiegare questa bizzarra attrazione fra opposti. Per ben due volte, negli anni Sessanta, i radicali si allearono con il Psiup. E in quel partito militava l’allora ventenne Bertinotti. Alle amministrative del novembre 1964 i radicali invitarono a votare psiuppino. E alle elezioni comunali del giugno 1966 a Roma il Psiup ricambiò, praticando l’ospitalità tanto invocata oggi. Ci fu una lista comune. Non ritenendosi sufficientemente appoggiati, prima del voto i radicali si ritirarono dalle liste. Ciononostante, Pannella arrivò terzo con 1.120 preferenze, anche se non riuscì a entrare in Consiglio comunale.

C’è da dire che nel 1965 i radicali erano riusciti a mandare in galera il sindaco dc di Roma Amerigo Petrucci sollevando lo scandalo Onmi (Opera nazionale maternità e infanzia) sulle truffe dc nel settore dell’assistenza. Quindi, contrariamente a oggi, c’erano battaglie concrete combattute assieme a livello locale. Ma il feeling con la sinistra durò pochissimo: nell’estate 1966 Pannella attaccò il Pci con un’intervista a Giano Accame sul settimanale di destra Nuova Repubblica. «Pannella demistificato», reagì subito sull’Unità Maurizio Ferrara (padre di Giuliano). Che dieci anni dopo raddoppiò con questo epigramma: «I radicali sono gente assai lasciva/Finocchi e vacche nude alla Godiva».

È passato veramente tanto tempo anche da quel 1976 quando Pannella si prese uno sganassone da un portinaio comunista a Botteghe Oscure, e dal 1979 quando fu fischiato al congresso Pci dove il suo loden blu venne scambiato per un «mantello di Dracula»: oggi l’omosessuale comunista Nichi Vendola sollecita l’ospitalità verso i radicali in Puglia. Gli altri due candidati del centrosinistra più filopannelliani sono Ottaviano Del Turco in Abruzzo e la ex radicale (corrente Massimo Teodori) Mercedes Bresso in Piemonte.

Con Berlusconi, politica & miliardi.

Ma insomma, chi sono veramente i radicali? Ovvero: chi è veramente Pannella? Lui l’ospitalità l’ha sempre praticata generosamente: nel 1976 voleva dare asilo a Lotta continua ostracizzata da Dp, nel 1979 ebbe il sogno grandioso di aprire a tutta la sinistra extraparlamentare (Marco Boato, Mimmo Pinto), portandola in dote al Psi per diventare vicesegretario di Bettino Craxi. La testata radicale Liberazione fu ospitata per qualche tempo dentro il quotidiano Lotta continua. Una dozzina d’anni fa Pannella la regalò a Bertinotti, così come regalò il simbolo antinucleare del Sole che ride ai Verdi. Fino agli anni Ottanta la linea ufficiale dei radicali era: «Rinnovamento, unità e alternativa di sinistra». All’inizio dei Novanta il libertarismo divenne anche economico, e quindi rivolta fiscale assieme alla Lega. Poi Umberto Bossi definì Pannella «Culosevich», e addio feeling. Nel 1994 cominciarono i giri di valzer con Berlusconi, terminati però sempre a pesci in faccia. Sostiene l’editorialista di Radio Radicale Iuri Maria Prado: «Oggi è difficile pensare che un elettore ‘’non’’ voti per questo o quello, perché è alleato della Bonino. È semmai facile immaginare che un tal nome possa solo portarne, di voti».

Nel 1999 la lista Bonino era diventata il secondo partito dopo Forza Italia in parecchie città del Nord, da Treviso a Monza. Una media del 12-13 per cento da Torino a Trieste, il quarto partito d’Italia. Se oggi i radicali si mettessero di nuovo con Berlusconi, oltre a portare il loro 2 per cento, acquisirebbero i voti di parecchi delusi della Casa delle libertà. È questo il ragionamento di Benedetto Della Vedova, eurodeputato radicale fino a otto mesi fa ed editorialista del Sole 24 Ore. Lui spinge da sempre per un accordo a destra, ha tenuto i rapporti con Berlusconi e alla fine ha convinto Pannella ad allearsi. Con chiunque, pur di uscire dall’isolamento che li ha cancellati dal Parlamento dal 1996.

Quell’anno, come lista Pannella-Sgarbi, i radicali siglarono anche un accordo finanziario con Berlusconi: se nella quota proporzionale non avessero raggiunto la soglia-ghigliottina del 4 per cento, Forza Italia avrebbe versato loro 10 miliardi: 1 come rimborso elettorale, più 9 miliardi in tranche annuali da 1,8 miliardi l’una. Ma Berlusconi dopo il voto non volle più onorare il contratto, considerandolo nullo perché il Polo aveva perso. La questione venne affidata a un arbitrato, nonostante i radicali avessero promosso un referendum proprio contro gli incarichi extragiudiziali ai magistrati. Nel dicembre 1996 un giudice, pagato 200 milioni per il disturbo, diede ragione a Pannella, e Forza Italia cominciò a pagare. In appello, però, un magistrato diverso ribaltò il verdetto: i radicali non solo non videro più una lira, ma dovettero restituire i miliardi incassati. Rimase loro il dubbio che il Cavaliere, anche in questo caso come in altri più famosi, si fosse mosso con argomenti estremamente «convincenti» nei confronti dell’arbitro d’appello.

«Quando si tratta con Berlusconi è solo un suk», ripete da allora Pannella, disgustato. Soprattutto dai cattolici di Pierferdinando Casini e Rocco Buttiglione, ai quali Berlusconi nel 1996 concesse 100 collegi contro i 43 della lista Pannella-Sgarbi. Lui, invece, aveva chiesto la parità con Ccd e Cdu come unica condizione. E quando non venne ottenuta ritirò i propri candidati. A quel punto Vittorio Sgarbi abbandonò Pannella per tornare da Berlusconi, anche se ormai era troppo tardi per togliere il suo nome dal simbolo. E i radicali per ripicca si candidarono anche nel maggioritario, senza alcuna chance ma con l’unico scopo di far perdere il Polo. Stesso comportamento da «muoia Sansone con tutti i filistei» anche alle politiche del 2001.

Oggi Pannella sembra aver abbandonato questo cupio dissolvi, ma il ricordo amaro delle trattative senza rete di sicurezza lo ha spinto a giocare uno schieramento contro l’altro: «Chiediamo ospitalità, ma se ci offrono le stalle dobbiamo avere un’alternativa», dice, e la preoccupazione suona ragionevole. Meno lo è il suo insistere con il linguaggio fiammeggiante: «Destra e sinistra rappresentano solo la cupola della mafiosità partitocratica, sono cosche contrapposte: allearsi coi corleonesi o con i palermitani per noi è lo stesso».

Cuore o portafogli: ecco il dilemma. Pessimismo cosmico, e un estremismo verbale pronto a scagliarsi indifferentemente, a seconda degli accordi, verso destra o verso sinistra. Eppure all’ospitalità passiva i radicali sono abituati. Abbiamo visto l’episodio col Psiup di Bertinotti, ma nel 1960 si registrò un risultato che ebbe conseguenze per i successivi trent’anni di politica italiana. Ben 51 consiglieri comunali radicali, infatti, furono eletti grazie all’ospitalità del Psi. Tranne a Torino dove l’alleanza fu con il Pri, in una lista dov’era candidato Norberto Bobbio. A Roma salirono in Campidoglio i radicali Antonio Cederna (lo scrittore) e Arnoldo Foà (l’attore). L’exploit fu a Milano: su 19 eletti nella lista Psi-Pr, ben quattro erano radicali: Scalfari, lo scrittore Elio Vittorini, il giornalista Sergio Turone e Alessandro Bodrero. Per Scalfari, in particolare, fu un trionfo: quinto fra i più votati con il quadruplo delle preferenze rispetto a un debuttante Craxi, relegato al quintultimo posto. La cronica antipatia di Craxi verso Scalfari risale a quella ospitalità. E la sua vendetta fu consumata nel 1972, quando Bettino non volle più ricandidare l’ospite Eugenio in parlamento dopo i quattro anni di Scalfari come deputato Psi. Quello fu l’unico quadriennio di politica a tempo pieno per il fondatore di Repubblica così come Pannella fece il giornalista per soli quattro anni a Parigi (per il Giorno) fino al 1963.

Alle europee 1989 il Marco transpartito, scomparsi Leonardo Sciascia ed Enzo Tortora, riuscì a far ospitare i radicali in ben quattro liste diverse: Verdi (Francesco Rutelli bocciato, Adelaide Aglietta eletta), Antiproibizionisti (Marco Taradash, eletto), Psdi (Giovanni Negri, bocciato) e Pri-Pli (se stesso, eletto): «Il più incredibile tentativo di quadratura del cerchio nella storia della politica italiana», commentò Gad Lerner sull’Espresso. «Strategia del cuculo», la definirono altri, ricordando l’uccello che depone le proprie uova nei nidi altrui.

E questa volta? Ammucchiata, orgia, digiuno? I radicali hanno il cuore a sinistra (libertarismo) e il portafogli a destra (liberismo). Ma con Pannella c’è una sola sicurezza: non ci si annoia mai. In politica, è già tantissimo. L’unico consiglio che ama seguire è quello datogli da Pier Paolo Pasolini (l’ennesimo comunista diventato radicale) nel 1975, tre giorni prima di morire: «Siate irriconoscibili, continuate a scandalizzare». Fatto, anche questa volta.

Mauro Suttora

Thursday, January 20, 2005

Famiglia cristiana sgozzata nel New Jersey

L'AMERICA TEME UN CASO VAN GOGH

Gli Armanious erano egiziani copti di Luxor. Il padre aveva contraddetto in internet alcuni fanatici islamici

da New York, Mauro Suttora

Il Foglio, 20 gennaio 2005



Siamo a Jersey City, la seconda città del New Jersey, lo stato più industrializzato d'America. Villette di legno in stile Soprano, la serie tv sui mafiosi nei sobborghi di New York. Immigrati, operai, milioni di pendolari che ogni mattina attraversano il fiume Hudson, vanno a Manhattan per farla funzionare, ma alla sera devono tornare in periferia perché non hanno i soldi per permettersela: "Living for the City", cantava Stevie Wonder trent'anni fa.

Comunque un sogno per la famiglia Armanious, immigrata da Luxor (Egitto) nel 1997. Una casa verde oliva di due piani a Oakland Avenue, comprata tre anni dopo con un mutuo di 85mila dollari. Sala e due stanze da letto, una per le due figlie: Sylvia di 15 anni e Monica di otto. Nomi americani, visto che il sogno è americano. Era. Perché la famiglia Armanious è stata sterminata, in perfetto stile Charles Manson. O Al Zarkawi, dato che il metodo è stato lo sgozzamento.

Da due giorni nessuno li aveva più visti uscire di casa. Non rispondevano al telefono. Il cognato Ayman Garas, preoccupatissimo, è andato a vedere di persona cos'era successo, verso mezzanotte di giovedì scorso, ma non è riuscito a entrare: porte e finestre chiuse. Così si è precipitato in commissariato e alla fine ha convinto i poliziotti a sfondare la porta principale, verso le quattro del mattino. 
Man mano che avanzavano nella silenziosa casa dell'orrore, uno spettacolo atroce: i corpi delle quattro vittime, uno dopo l'altro. Prima Hossam Armanious, 47 anni, legato, imbavagliato e con la gola tagliata nella stanza da letto matrimoniale al piano terra. Poi sua moglie Amal Garas, di dieci anni più giovane, nella stanza vicina: stesso rituale di morte, anche lei in una pozza del proprio sangue ormai raggrumato. Infine Sylvia, nella sua camera da letto, e la piccola Monica, trovata nel bagno dov'era riuscita a scappare.

Il signor Armanious lavorava all'università di Princeton, sua moglie alle poste di Kearney. La loro casa aveva ancora le luci e le ghirlande rosse di Natale. Perché la famiglia Armanious era di religione cristiana. Copti d'Egitto, come il dieci per cento dei loro connazionali. Rapporti abbastanza buoni con i musulmani, un ministro degli Esteri (Boutros Boutros Ghali) diventato poi segretario dell'Onu. Ma con scontri periodici, soprattutto negli ultimi tempi: "Non pochi di noi sono emigrati in America anche per sfuggire alle persecuzioni religiose", dicono i copti del New Jersey.

Ma qui comincia la seconda parte della storia. Quella politica, o religiosa. Perchè leggendo i due maggiori quotidiani di New York, il Times e il Post, si ottengono due versioni totalmente differenti. Il Times da sei giorni continua a trattare la vicenda come un semplice fattaccio di cronaca nera da periferia. Lunghi resoconti nelle pagine interne, ma mai un richiamo in prima pagina e nessun riferimento, nei titoli, sommari e didascalie, a un possibile movente religioso della strage. Che invece viene urlato a gran voce da tutti i fedeli della comunità copta di Jersey City, i quali esasperati hanno cacciato lo sceicco islamico egiziano arrivato a presentare le condoglianze al funerale di lunedì.

"Hossam Armanious è stato ucciso perchè aveva osato contraddire dei fanatici islamici in una seguitissima chatroom religiosa su internet", accusa Rafique Iscandar, 51 anni, il migliore amico della vittima. Il New York Post crede alla pista religiosa e martedì spara in prima pagina: "Holy War", guerra santa. L'incubo di Oriana Fallaci si sta avverando nel New Jersey? Un altro sgozzamento in stile Theo Van Gogh è avvenuto a pochi chilometri da Ground Zero, moltiplicato per quattro?

La polizia è cauta. All'inizio aveva ipotizzato la vendetta di un ex affittuario della stessa casa, ma questa versione è ormai evaporata. Adesso, per esorcizzare il movente peggiore, quello di cui nessuno in America vuole sentir parlare, si sta tirando fuori la rapina, visto che dalla tasca di Armanious manca il portafogli e dalla casa qualche gioiello. Ma altri gioielli e soldi sono restati in altri cassetti, e comunque quale maniaco avrebbe inscenato una strage simile, con rituali tanto macabri quanto metodici, per i pochi denari di una famiglia di immigrati indebitati?

Ai funerali è dovuta intervenire la polizia per calmare i mille cristiani copti infuriati della chiesa di San Giorgio. Inalberando cartelli con croci nere, tutti urlavano che la famiglia è stata assassinata perchè Armanious si era esposto troppo nelle polemiche internettiane con i musulmani: "Aveva paura, ce l'aveva detto, aveva già ricevuto minacce di morte. Hanno soltanto messo in pratica quello che gli avevano promesso". 
Un copto è stato arrestato quando è salito su un'auto parcheggiata per aggredire lo sceicco Tarek Yussuf Saleh di Brooklyn, che era incautamente arrivato per calmare gli animi fra le comunità: "Siete voi i killer!", gli ha urlato, e i poliziotti hanno dovuto scortare lo sceicco in fretta lontano dal funerale.

I musulmani del New Jersey sono costernati: "Qualsiasi crimine contro i civili viola tutte le leggi delle religioni e del mondo civile", ha dichiarato Aref Assaf, presidente dell'American Arab Anti-Discrimination Committee. Ma la rabbia dei cristiani copti egiziani non si placa, e qualcuno teme che Jersey City si infiammi come negli anni Sessanta, quando la vicina Paterson venne messa a ferro e a fuoco da una violenta rivolta dei neri.

L'unica risposta, a questo punto, può arrivare dalle indagini. L'Fbi sta collaborando con la polizia locale, ma non si è impadronito del caso: segno che la pista politico-religiosa non è considerata ancora quella più probabile. Un parente della famiglia sterminata è stato traduttore nel processo contro Lynne Stewart, un'avvocatessa accusata di aver aiutato i terroristi di al Qaeda, "ma da anni non aveva contatti con Armanious", precisano gli investigatori.

Lui però il terrorismo lo conosceva bene: proprio nella sua Luxor, nel 1997, gli islamisti provocarono una delle loro stragi più sanguinose, sterminando decine di turisti in visita nei templi egizi.
Mauro Suttora

com'è andata a finire

Wednesday, November 10, 2004

Tristi per la vittoria di Bush

DISPERAZIONE A HOLLYWOOD

di Mauro Suttora

10 novembre 2004

MICHAEL MOORE
Il regista 50enne premiato con l’Oscar nel 2003 per il documentario Bowling for Columbine, e con la Palma d’oro a Cannes quest’anno per il film anti-Bush Fahrenheit 9/11, mastica amaro. La sua propaganda cinematografica e i 63 comizi che ha tenuto in un mese non hanno avuto effetto sull’elettorato.
A Moore resta la consolazione pecuniaria: Fahrenheit 9/11 è distribuito da un mese in cassette e dvd negli Stati Uniti, e vende benissimo. Sul suo sito internet Moore ha pubblicato una nuova cartina dell’America con le zone pro-Kerry annesse al Canada e quelle pro-Bush, soprannominate «Jesusland».

BARBRA STREISAND
La cantante e attrice 62enne è stata la più impegnata contro Bush. Già dal 2001 ha incitato i democratici a «cacciare l’impostore» dalla Casa Bianca, e fino all’ultimo si è impegnata allo spasimo, anche mettendo mano al portafogli: ha finanziato i democratici con vari milioni di dollari.
Ma tutto questo attivismo, che ricorda quello del personaggio da lei interpretato in Com’eravamo con Robert Redford, è risultato inutile. Anche per lei, però, una consolazione: a dicembre esce il film Meet the Fockers (Ti presento gli stronzi), in cui fa la madre di Ben Stiller, la moglie di Dustin Hoffman e la consuocera di Robert de Niro e di Blythe Danner (mamma di Gwyneth Paltrow) nel seguito di Ti presento i miei.

REM
Il concerto del 4 novembre al Madison Square Garden di New York avrebbe dovuto essere una festa per la vittoria del democratico John Kerry. Invece ha vinto George Bush, e per i Rem è stata una serata tristissima. «Oggi è un giorno molto strano», ha ammesso il cantante e leader 45enne del complesso, Michael Stipe.
I Rem si erano impegnati molto nella campagna presidenziale: tutta la loro tournée di ottobre è stata dedicata a convincere i fans al voto contro Bush. Resta la musica, bella come sempre per questa band in attività da ben 23 anni, e ancora considerata fra le migliori del mondo assieme a U2 e Coldplay.

CAMERON DIAZ
La bella attrice 32enne era addirittura scoppiata a piangere durante un’apparizione tv nel talk show pomeridiano di Oprah Winfrey (il più seguito d’America), quando ha supplicato i giovani ad andare a votare: «Se volete che lo stupro diventi legale, non andateci», ha detto, dando così a intendere che Bush sia favorevole a legalizzare lo stupro.
La fidanzata del cantante Justin Timberlake (di nove anni più giovane) è riuscita a convincere i 18-24enni statunitensi a votare, e secondo le speranze i giovani si sono espressi per Kerry 54 a 46. Ma tutto ciò non è bastato per battere Bush.

BRUCE SPRINGSTEEN
Ha organizzato una mobilitazione di cantanti senza precedenti per un candidato presidenziale: 37 concerti in 30 città a favore di Kerry. «L’America non ha sempre ragione», aveva detto il «Boss» 55enne, «questa è una favola per bambini, però l’America è sempre vera, ed è cercando questa verità che troviamo un patriottismo più profondo».
Ha convinto molti a suonare con lui, dai Pearl Jam a Jackson Browne, da James Taylor alle Dixie Chicks. Ma non è riuscito a convincere il 51 per cento degli elettori che ha confermato Bush.

WHOOPI GOLDBERG
La simpatica attrice 49enne ha pagato di persona (e caro) il suo gioco di parole lo scorso luglio al Radio City Music Hall di New York, dove aveva fatto raccogliere sette milioni di dollari per i democratici durante un gala con Paul Newman, Meryl Streep, Jessica Lange e Jon Bon Jovi. Aveva preso in giro il cognome del presidente, associando «Bush» («cespuglio») a una zona intima del corpo. Subito la società Slim-Fast, con sede in Florida (stato governato da Jeb Bush, fratello di George), le ha tolto un contratto pubblicitario miliardario.

Barbara Bacci e Dominique Green

Un'italiana in Texas nel braccio della morte per dire addio a Dominique Green

Lei gli aveva scritto una cartolina. Lui aveva risposto chiedendole aiuto. Da allora Barbara Bacci è diventata la sua migliore amica. E ha voluto stargli vicino. Fino all'ultimo istante

dal nostro corrispondente a New York Mauro Suttora

Oggi, 10 novembre 2004

"Hanno sdraiato e legato Dominique con le mani e i piedi a un letto a forma di croce. Le braccia erano aperte, il corpo tutto coperto. Perfino le mani gli hanno nascosto con un panno, per non far vedere gli spasimi della morte. Solo la parte di un braccio era libera, con le vene dove gli avrebbero iniettato il veleno.

All'interno della stanza c'era un microfono, per far sentire a noi testimoni le sue ultime parole e i rantoli della morte. Lo Stato del Texas prevede che venga resa pubblica perfino la registrazione con la trascrizione di queste frasi. Dominique però parlava con grande difficoltà, per lui era terribile perché non voleva morire.

Era confuso, si sforzava di non piangere, aveva poco fiato. Per noi era molto difficile capire le sue parole. Nessuno riusciva a comprenderne il significato. Gli hanno praticato una prima iniezione, che lo ha reso insensibile. Poi quella con il veleno, che gli ha paralizzato poco a poco il cuore e i polmoni.

Per fortuna la sua agonia è durata soltanto pochi minuti, è morto in fretta. Abbiamo assistito a tre rantoli, poi nella stanzetta è entrato un dottore che ha constatato la morte. Un cappellano gli ha toccato un piede. È stata una scena di una bassezza umana incredibile".

Barbara Bacci, 42 anni, una signora di Cuneo che da anni vive e lavora a Roma come traduttrice, racconta la morte del suo amico Dominique Green. Un ragazzo trentenne di colore giustiziato alle otto di sera di martedì 26 ottobre alla periferia di Houston.

Houston, la città del Texas diventata famosa negli anni Sessanta perché ospita la Nasa, e nei collegamenti da lì i giornalisti di tutto il mondo raccontavano emozionati lo sbarco sulla Luna. Il Texas è lo Stato americano che uccide di più: 18 condannati a morte quest'anno e 331 dal 1977, quando gli Stati Uniti ripristinarono la pena capitale. Più di un terzo del totale, quindi, che è 938. Quest'anno l'America ha giustiziato 53 persone. L'unica notizia positiva è che il numero si è ridotto della metà rispetto a tre anni fa.

Barbara Bacci, sposata con Luis Moriones, spagnolo e traduttore a Roma anche lui, ha conosciuto Dominique per caso dieci anni fa, quando lesse una sua lettera disperata sul quotidiano italiano La Stampa.

Nel 1991 Green era stato arrestato con l'accusa di aver ucciso un uomo nel drugstore di una stazione di servizio, alle cinque del mattino: "Era l'appello di un ragazzo imprigionato nel braccio della morte che cercava qualcuno con cui corrispondere", ricorda Barbara, "e noi rispondemmo con una semplice cartolina, senza pensarci troppo, spinti dalla pietà.

Lui replicò subito con una lettera lunghissima in cui ci raccontava la storia della sua vita. Era nato a Houston, il padre era sempre stato assente dalla sua vita e probabilmente faceva uso di droga. Lo ha visto per l'ultima volta al momento della condanna a morte nel '92. Cinque anni fa abbiamo assoldato un investigatore per trovarlo, promise che sarebbe andato a trovarlo in carcere, ma non lo ha mai fatto. Gli ha solo scritto".

E la madre? "Alcolizzata, drogata, con problemi mentali gravissimi, una personalità multipla al limite della schizofrenia. Dominique non voleva vederla, l'ultima volta che lei andò a trovarlo in carcere fu un anno e mezzo fa. Ma ogni volta che s'incontravano c'erano problemi, cosicché lui la tolse dalla lista delle persone che potevano visitarlo. Al processo aveva pronunciato parole terribili contro di lui, al momento dell'arresto disse addirittura ai poliziotti: "Fate bene a toglierlo dalla circolazione".

In effetti la vita del ragazzo aveva preso una brutta piega. Completamente sbandato, a 18 anni era stato già arrestato per droga e aveva scontato due anni in riformatorio. Naturalmente frequentava cattive compagnie. Come quella di due ragazzi di colore e un bianco che scorrazzavano in auto facendo rapine. Cose di poco conto, bottini da venti dollari, ma alla fine c'è scappato il morto.

Il ragazzo bianco non s'è fatto neppure un giorno di galera, gli altri due hanno accusato lui all'unisono. Green nega di aver sparato, ma non sa chi può essere stato e quindi non fa nomi. Una perizia balistica sul pistolone che sparò, ritrovato nella macchina, non trova impronte di Dominique.

"Nel dicembre '94 dovevo andare negli Stati Uniti", racconta Barbara Bacci, "e quindi ne approfittai per raggiungere anche Houston e vedere in faccia il mio nuovo "amico di lettera". Trovai una persona intelligente, interessante, sensibile. Allora era ottimista, pensava che con un altro avvocato avrebbe potuto risolvere le cose. Ma per me fu una visita scioccante, perché fino ad allora non mi ero resa bene conto di cosa vuol dire essere condannati alla pena di morte: vivere per anni e anni dentro a un carcere in completo isolamento, aspettando di essere uccisi".

Fra la donna italiana e il ragazzo americano nasce l'amicizia. Lui negli Stati Uniti aveva pochi appoggi: soprattutto David Atwood, direttore del Comitato per l'abolizione della pena di morte nel Texas.

"Ma la triste verità è che anche in una città abbastanza grande come Houston", spiega la signora Bacci, "quando c'è un'esecuzione si trovano soltanto pochissime persone disposte a protestare di fronte al carcere: sette, otto, al massimo dieci. Tanto che ad assistere alla fine di Dominique eravamo solo in cinque: due avvocati, Atwood, io e una signora newyorkese, Lorna Kelly, che Dominique aveva conosciuto di recente".

Insomma, anche se del caso Green si sono interessati in Spagna, Francia, Svezia e Germania, l'unica grossa solidarietà è arrivata dall'Italia, con una cinquantina di milioni raccolti per pagare gli avvocati.

E l'animatrice a volte solitaria del comitato per la liberazione di Dominique è stata Barbara Bacci, che è andata in Texas due, tre, anche quattro volte all'anno per dieci anni: "Gli unici appoggi", rivela, "li ho avuti dalla comunità di Sant'Egidio e dalla organizzazione radicale contro la pena di morte Nessuno tocchi Caino, il cui segretario, Sergio D'Elia, è venuto una volta a trovare Dominique".

Ma Green era colpevole o innocente? "Noi siamo contro la pena capitale in ogni caso", risponde la signora Bacci, "ma in questa vicenda particolare sono convinta che Dominique non sia stato quello che ha sparato".

E proprio poche ore prima dell'esecuzione della sentenza, un giudice, con il classico colpo di scena dei film americani, aveva chiesto la riapertura del caso per controllare 280 scatole di documenti riguardanti la vicenda, rinvenute al commissariato.

Niente da fare. Anche questa volta il governatore del Texas si è dimostrato irremovibile. Così come peraltro lo era il suo predecessore George Bush junior, poi diventato presidente. E pensare che nel caso di Green perfino i parenti della vittima, la moglie Bernadette Luckett Lastrapes e i due figli, hanno firmato un appello per la grazia.

"Per me è stato naturale fare quello che ho fatto in questi dieci anni", conclude la signora Bacci, "e purtroppo non è finita qui. Perché io a Houston vengo ospitata nella casa di un altro condannato a morte, Anthony Fuentes, che dovrebbe essere giustiziato fra tre settimane. Era il migliore amico di Dominique, dormiva nella cella attigua e assieme a lui giocava a pallacanestro in cortile: ma solo in due, numero massimo consentito. C'era un terzo loro amico. È stato ammazzato tre settimane fa. Queste sono cose inumane, e spero che il nostro impegno per salvare Dominique sia servito a qualcosa".
Mauro Suttora

Saturday, October 09, 2004

Zalmay Khalilzad

Se per la prima volta in 5 mila anni Kabul elegge il presidente, molto del merito va all'afghano d'America

di Mauro Suttora

Il Foglio, sabato 9 ottobre 2004

New York. Nel 1968 un afghano diciassettenne
sbarcò negli Stati Uniti con una
borsa di studio Afs (American Field Service).
Frequentò l’ultimo anno di high
school, giocò a pallacanestro, s’innamorò
dell’America, ma poi dovette tornare a Kabul
a finire il liceo. Zalmay Khalilzad però
era così fissato con gli Usa e il basket che
riuscì a convincere i genitori a iscriverlo a
un’università a stelle e strisce. Unico compromesso:
quella più vicina a casa. L’American
University di Beirut, quindi.

Intanto gli era cresciuta la barba, Nixon gli
era antipatico, contestava. Ma studiava,
era bravo, e quindi eccolo sbarcare all’università
di Chicago: dottorato in scienze
politiche. Basta basket, e amicizia con
Paul Wolfowitz fresco di Ph.D. Ma quando
nel ’79 ci arriva lui, al Ph.D., i sovietici invadono
l’Afghanistan. Così Zalmay agguanta
un posto di assistant professor alla
Columbia e rimane negli Usa. Diventa un
esperto prezioso per l’Amministrazione
Reagan, che negli anni 80 arma la resistenza
anticomunista dei mujaheddin.

Consulente del dipartimento di Stato, fonda
il Centro per gli studi mediorientali alla
Rand Corporation e diventa vicesegretario
alla Difesa nel ’91, quando Dick Cheney
è capo del Pentagono. Durante una cena
ufficiale del dicembre ’97, a Houston,
Khalilzad litiga con il ministro della Cultura
talebano. Spinto da sua moglie, la
scrittrice femminista austriaca Cheryl Benard,
gli contesta il carcere per le donne
senza burqa. Quello si mette a citare il Corano,
Zalmad alza la voce e cambia idea:
coi talebani non si può trattare, bisogna
combatterli. Peccato che Michael Moore,
che ha inserito nel suo “Fahrenheit 9/11”
immagini di quella delegazione afghana
invitata in Texas dalla Unocal per il progetto
di un oleodotto, non abbia filmato
anche lo storico alterco.

Intanto Khalilzad, insieme a Cheney, Rumsfeld, Fukuyama,
Forbes, Kagan, Podhoretz, Armitage, Bolton,
Kristol, Perle, Woolsey e tanti altri, firma
gli appelli del Pnac (Project for the
New American Century) per la promozione
delle libertà politiche nel mondo e il ripristino
della leadership militare degli
Stati Uniti. Con la vittoria di Bush torna al
Pentagono da consulente, e dopo l’11 settembre
2001 passa all’azione. Coordina la
parte politica della campagna d’Afghanistan,
poi si occupa anche un po’ d’Iraq, ma
alla fine si concentra su Kabul come plenipotenziario
presidenziale. Un anno fa
viene nominato ambasciatore. E oggi può
festeggiare: per la prima volta in cinquemila
anni, come scrive lui stesso in un editoriale
sul Wall Street Journal, i suoi compatrioti
eleggono direttamente il loro capo dello Stato.

“Su dieci miglia ne abbiamo percorse tre”

Raggiungiamo Khalilzad in videoconferenza
da New York. E’ ottimista, ma guardingo:
“Ci vorranno come minimo altri
cinque anni di nostra presenza qui per ricostruire
la nazione e lo stato di diritto.
Forse anche di più: direi che su un cammino
di dieci miglia ne abbiamo percorse
tre”. Il che vuol dire sette anni.

Non vuole fare propaganda, ammette: “I signori
della guerra, i potentati locali, l’oppio, il
controllo del territorio non completo: tutto
vero. Ma questa è una battaglia che
dobbiamo vincere, e resteremo qui tutto il
tempo che occorre per vincerla. I nostri
nemici non s’illudano. Tre milioni di profughi
sono tornati, altre centinaia di migliaia
parteciperanno alle elezioni, se ne
sono registrati 700 mila solo in Pakistan.
La stragrande maggioranza della gente è
felice della nostra presenza qui, sperano
in un futuro di tranquillità e prosperità
dopo un quarto di secolo di disastri. Questa
volta non li abbandoneremo. Non ripeteremo
l’errore della metà degli anni
90, quando ce ne andammo e lasciammo
che nel vuoto di potere s’installassero gli estremisti”.

Gli oppositori di Bush lo definiscono
vicerè e proconsole, dicono che
il presidente Hamid Karzai non conta, è
una sua marionetta, e che è lui il vero capo
dell’Afghanistan. “Saranno i dieci milioni
di afghani che si sono registrati e
che voteranno liberamente a scegliere il
loro presidente. Certo, in Afghanistan c’è
ancora bisogno dei soldati della Nato e
degli Stati Uniti per mantenere la pace.
Ma le cose migliorano. Capisco anche i nostri
nemici, capisco che ci vogliano attaccare
sanguinosamente in questo periodo,
perché se riusciamo a far funzionare le
cose qui sarà un fatto rivoluzionario per
tutta l’area dal Marocco al Pakistan. Avremo
ancora giorni difficilissimi davanti a
noi. Ma ce la faremo”.

Mauro Suttora