Wednesday, October 08, 2003

Sharon Stone: io la conosco bene

PARLA IL DIRETTORE CASTING CHE L'HA SCOPERTA                             

dal corrispondente a New York Mauro Suttora

Oggi, 8 ottobre 2003

Riecco la diva, a tre anni dal suo ultimo film e a cinque dall’ultimo successo, Sphere: Sharon Stone è tornata in tutti i cinema statunitensi con il film Cold Creek Manor. Nel quale lei e il marito (interpretato da Dennis Quaid) si trasferiscono in una casa di campagna che si rivela luogo di mistero, paura e orrori. 

Accavalla le gambe, non lo fa, le allarga, indossa le mutandine oppure no? Tutte domande da Basic Instinct, ma irrilevanti: perchè basta la presenza magnetica di questa magnifica 45enne per riempire comunque lo schermo. Così come è successo all'ultimo Festival di Sanremo, quando la sua apparizione in qualità di ospite di Pippo Baudo ha fatto subito impennare gli indici d'ascolto.

E anche se passerà alla storia per Basic Instinct del '92, bisogna precisare che quattro anni dopo Sharon ha conquistato anche i favori dei critici, vincendo il Golden Globe grazie a Casinò di Martin Scorsese (con Robert De Niro e Joe Pesci), e mancando l'Oscar per un soffio.

Negli ultimi anni è stata soprattutto la sua vita privata a fare notizia: il matrimonio con il giornalista di San Francisco Phil Bronstein nel '98, il divorzio due mesi fa, il figlio Roan adottato nel 2000, l'improvvisa emorragia cerebrale che due anni fa l'ha quasi uccisa. Infine, quest'estate, il flirt con Oliver Hudson, 26 anni, figlio di Goldie Hawn, ma che vista l'età potrebbe essere anche il suo. 

Insomma, il simbolo del sesso è tornata a gustare la vita, e non intende farsi mancare niente. Ha presentato la cerimonia degli Oscar lo scorso marzo, in autunno apparirà su tutti gli schermi tv americani con un serial, e prossimamente sarà la cattiva contro Halle Berry nel film Catwoman.

«Questa fantastica resurrezione di Sharon non mi stupisce: dal primo momento che la vidi nel mio ufficio capii subito che sarebbe diventata una star». 
Per parlare della nuova Stone abbiamo scelto un interlocutore d'eccezione: Riccardo Bertoni, 69 anni, uno dei maggiori direttori di casting di New York. Che conosce benissimo l'attrice, perchè fu propr io lui a lanciarla nel 1979. 

Bertoni, svizzero italiano, allievo del Centro sperimentale cinematografico di Roma nel '51 (compagno di stanza di Domenico Modugno, ebbe Anna Magnani come insegnante e Federico Fellini come direttore), negli anni Cinquanta fu anch'egli attore: recitò accanto a Hedi Lamarr, Ivonne Sanson, Silvana Pampanini e Marcello Mastroianni (era suo fratello in La ragazza della salina, 1956).

Emigrato negli Stati Uniti quarant'anni fa, Bertoni ha messo in piedi con Esther Navarro un un'agenzia di casting fra le più importanti degli Stati Uniti: ha lavorato per otto film di Woody Allen (quasi tutti i più famosi, da Zelig a Manhattan, da Io e Annie a Broadway Danny Rose), e ha anche recitato con il regista newyorkese, suo grande amico, in Criminali da strapazzo del 2000 (era il maggiordomo). 

Con Francis Ford Coppola ha girato Cotton Club e Il Padrino parte terza, e poi Nove settimane e mezzo, Attrazione fatale, La scelta di Sophie, Rollerball, Independence Day, Crocodile Dundee, The Bostonians, Tè con Mussolini e Callas forever con Franco Zeffirelli. Ultimo film: Amore infedele con Richard Gere. Il prossimo: Die Hard 4 con Bruce Willis.

Insomma, uno che se ne intende. E che ricorda bene quel pomeriggio di agosto del 1979, quando una ragazza 21enne irruppe piena di vita nel suo ufficio di Central Park South, in pattini a rotelle: «Conservo ancora la prima scheda segnaletica di Sharon», racconta Bertoni, «con le sue misure - 36/26/36 in inches, che tradotto in centimetri fa 91/66/91 - il colore degli occhi - verde, dei capelli - biondo, e le sue "specialties": precisò che sapeva pattinare a rotelle e sul ghiaccio, sciare, nuotare, andare a cavallo, guidare auto e motociclette - come vedemmo poi in Basic Instinct - oltre che ballare. 
Nata in Pennsylvania, da due anni lavorava a New York come modella per l'agenzia di Eileen Ford, ed era venuta da me vestita con vertiginosi hot pants e accompagnata dalla sua amica Mindy Alberman, la segretaria di Dino De Laurentis. Voleva fare l'attrice, e si era anche iscritta al sindacato degli attori cinematografici, la Screen Actors Guild».

Bertoni procura subito a  Sharon Stone la prima particina, in Stardust Memories di Woody Allen (1980): «Era la ragazza vestita di bianco, un po’ alla Jean Harlow, con un’azalea in testa, che in un vagone di treno in partenza pieno di gente anziana bacia il regista posando le labbra sul vetro di un finestrino». 

Una scena breve ma memorabile, e soprattutto il debutto in un film di serie A. Al quale però non segue niente alla stessa altezza: nell’81, sempre grazie a Bertoni, una parte da coprotagonista in Deadly Blessing del regista horror Wes Craven.
«Che la prese scegliendola fra trenta altre modelle», ricorda Bertoni, «andarono a girare in Texas dove tutti naturalmente si innamorarono di lei. Quindi la presentai al mio amico Zeffirelli per la parte principale di Amore senza fine, ma lui la trovò troppo paffutella e le preferì Brooke Shields. Fra l’altro, in quel film esordì Tom Cruise».

Che tipo era Sharon Stone vent’anni fa? 
«Fiera, indipendente, disordinatissima», ricorda Bertoni. «Abitava in un appartamentino dell’Upper East Side di Manhattan vicinissimo al mio, a un solo isolato di distanza. Una volta andai a casa sua e trovai praticamente l’apocalisse... Gli uomini che frequentavano la palestra di fronte erano tutti contenti, perchè ogni tanto riuscivano a intravedere dalle finestre quella bellissima ragazza. Poi però andò un po’ in crisi, si mise con un uomo, volle andare con lui in California, fece una serie tv e della pubblicità. Sì, sopravviveva girando spot e alcuni film orrendi, di serie B».

Infine, nel 1990, la svolta: Sharon accetta di posare nuda a 32 per la rivista Playboy. I produttori di Total Recall con Arnold Schwarzenegger la notano, e le offrono la p arte della compagna del protagonista. 
«Niente di trascendentale», commenta Bertoni, «ma il vento aveva ricominciato a soffiare in suo favore, e così due anni dopo eccola in Basic Instinct del regista Paul Verhoeven. Non tornò più a girare film a New York, tranne Sliver, così la persi di vista. Però ogni volta che arrivava in città le mandavo un mazzo con una dozzina di rose rosse al Mark Hotel, dove scendeva abitualmente. Ci sentivamo al telefono, finchè nel ‘99 in qualche modo si sdebitò con me: chiese a Sidney Lumet, regista di Gloria in cui recitava, di prendermi come direttore del casting».

Da allora i due non si sono più visti. «O meglio, io ho visto in tv e sui giornali l’evolversi della sua carriera e della sua vita privata», dice Bertoni, «anche se devo confessare che non mi è piaciuta molto alla notte degli Oscar: era troppo nervosa, quasi esagitata, fuori di testa, fuori di tutto. Ma io sono sempre segretamente innamorato di lei...»
Mauro Suttora

Wednesday, September 24, 2003

Discorso di Bush all'Onu

BUSH INSISTE, INSISTE, INSISTE. CHIEDE AI 'WILLING', AI VOLONTEROSI, DI AGIRE. 
CHIRAC INSISTE ANCHE LUI 

di Mauro Suttora

Il Foglio

New York, 24 settembre 2003



Con un discorso di 25 minuti sapientemente calibrato, ieri mattina alle 11 George W. Bush non ha ceduto di un millimetro sulla giustezza della liberazione dell'Iraq, ma ha allo stesso tempo usato toni soffici e di riconciliazione verso gli oppositori della guerra: "Alcune delle nazioni qui presenti non sono state d'accordo con la nostra azione", ha detto il presidente degli Stati Uniti, "ma siamo tutti uniti nella difesa della sicurezza e dei diritti umani. E ora guardiamo avanti".

Naturalmente Bush ha sollecitato gli altri Paesi a impegnarsi nella ricostruzione, ma è stato attento a legare assieme Iraq e Afghanistan, e invece di chiedere truppe ha preferito puntare più in generale sull'"aiuto ai popoli di queste due nazioni nel loro cammino verso la libertà e la democrazia". 

Bush ha avvertito che, dopo aver trasformato due anni fa "New York in un campo di battaglia e in un cimitero", i terroristi di Al Qaeda hanno attaccato a Bali, Mombasa, Casablanca, Riad, Giakarta e Gerusalemme, e che quindi "si sono messi contro tutta l'umanità. Essi non trovano posto in alcuna fede religiosa, e non dovrebbero avere alcun amico in questa sala".

Utilizzando il condizionale il presidente ha voluto tracciare un chiaro confine: "Da una parte c'è chi vuole  in questa sala". Utilizzando il condizionale il presidente ha voluto tracciare un chiaro confine: "Da una parte c'è chi vuole la pace e l'ordine, dall'altra i banditi e assassini che seminano il caos".

Particolarmente forte è stato l'omaggio a Sergio Vieira de Mello, il capo della missione Onu a Bagdad ucciso in agosto assieme ad altri 22 funzionari. E subito dopo Bush ha definito la guerra contro Saddam come "conseguenza delle risoluzioni Onu" che gli chiedevano di disarmare: "Queste conseguenze ci sono state, oggi l'Iraq è libero e qui con noi ci sono ora i suoi rappresentanti. Non più camere di tortura, celle per gli stupri, killing fields e cimiteri collettivi: oggi in Medio Oriente la gente è più sicura perché un alleato del terrorismo è caduto".

Bush ha astutamente mescolato l'azione delle Nazioni Unite a quella degli Stati Uniti nel descrivere l'attuale situazione in Iraq: "L'Unicef sta vaccinando il 90 per cento dei bambini, il Programma per l'alimentazione mondiale sta distribuendo mezzo milione di tonnellate di cibo al mese. In un Paese dove il dittatore si costruiva lussuosi palazzi mentre lasciava crollare le scuole, stiamo ricostruendo mille edifici scolastici e stiamo ripristinando gli ospedali.
Saddam comprava armi mentre le infrastrutture decadevano, noi abbiamo intrapreso il maggior programma di aiuto dopo il piano Marshall e onoreremo le nostre promesse all'Iraq".

Insomma, per uscire dall'incipiente 'quagmire' (palude, pantano) dell'Iraq, Bush si rivolge a quello che la maggioranza degli americani considera il tempio del 'quagmire': l'Onu, dove un anno fa il presidente degli Stati Uniti aveva annunciato la sua nuova dottrina della guerra preventiva, prefigurando quindi la liberazione di Baghdad.

Un sondaggio Cnn/Usa Today lo avverte che 48 statunitensi su cento ritengono ora che non valesse la pena andare in Iraq, e il suo gradimento è calato dal 70 per cento di aprile all'attuale 50. Ma lui, intervistato l'altra sera dalla Fox Tv di Rupert Murdoch, assicura di non preoccuparsene: "I've got a job to do, ho un lavoro da fare, e mi giudicheranno gli elettori fra un anno".

C'è chi dice che non basta

Niente concessioni quindi a Jacques Chirac (che ha parlato subito dopo, chiedendo "il rapido trasferimento agli iracheni della sovranità sul proprio Paese"): "Nessuna fretta e nessun ritardo da parte nostra, in Iran il ruolo dell'Onu si può allargare per assistere nella scrittura della Costituzione e nell'organizzazione delle elezioni", ma nulla di più.

Lo scorso inverno, per gli ultimatum a Saddam, la Francia parlava di mesi mentre gli Stati Uniti ragionavano in termini di settimane. Oggi è l'esatto contrario: Parigi vorrebbe un governo iracheno nel giro di poche settimane, Washington parla di mesi. E Colin Powell, intervistato da Charlie Rose, ha buon gioco nello spiegare che "è nell'interesse degli stessi dirigenti iracheni non bruciarsi in questo momento", e nel prevedere "sei mesi per la Costituzione, un anno per il voto".

In ogni caso, nessuno parla più di trasferimento dei poteri all'Onu. L'appello di Bush è sempre individuale, ai Paesi "willing", volenterosi: "Tutte le nazioni di buona volontà dovrebbero farsi avanti per aiutare il popolo dell'Iraq". Basterà?

Fareed Zakaria, direttore di Newsweek, è scettico: "C'è un vuoto di leadership nel mondo in questo periodo, come ha dimostrato anche il fallimento di Cancun. L'unilateralismo di Bush ha prodotto un multilateralismo caotico, di cui gli Stati Uniti stanno perdendo il controllo".

Il prestigioso Council on Foreign Relations avverte: "L'Amministrazione agisca con urgenza per ridurre il crescente antiamericanismo che si sta sviluppando in Europa e nel mondo arabo.
Mauro Suttora 

Tuesday, August 12, 2003

Il nuovo film di Bob Dylan

MASKED AND ANONIMOUS

di Mauro Suttora

Il Foglio, 12 agosto 2003 

New York. Sei anni fa impressionò il mondo intero, con uno di quei suoi Twist of fate, scherzi del destino che sono ormai l'unica caratteristica che accetta. Bob Dylan andò a esibirsi di fronte al Papa, durante il Congresso eucaristico internazionale di Bologna.

Vestito come un buzzurro texano, non si tolse il cappello da cowboy quando si avvicinò a Giovanni Paolo II per salutarlo. Però l'omaggio del Santo padre della controcultura al Santo padre vero c'era tutto.

Ne è passato di tempo, da quel settembre '97. A 61 anni, dopo che il cuore lo ha portato a un passo dalla morte e i critici a un passo dal premio Nobel, il più grande cantautore americano torna a fare l'iconoclasta. 
Nel suo ultimo film appena uscito negli Stati Uniti, Masked and Anonymous, si aggira infatti un bianco sosia del Papa, assieme a un finto Gandhi e a una copia di Abramo Lincoln. 

La presa in giro è evidente, anche se questi personaggi storici nel film non fanno né dicono alcunché: si limitano a salire silenziosi nella scalcinata roulotte backstage di un concerto di Dylan.

L'effetto spiazzamento è notevole: sembra una scena di allucinazione surreale tratta dal periodo di Desolation Row a metà anni '60, quando Dylan scriveva lunghissimi testi assurdi che facevano impazzire il traduttore Fabrizio De Andrè.

Il film, come molta produzione dylaniana, è tutto e niente. Rolling Stone ne è entusiasta, il New York Post gli ha dato zero. L'intera Hollywood, però, ha fatto a gara per apparire almeno con un cameo non pagato: Jessica Lange, Mickey Rourke, Penelope Cruz, Val Kilmer, Chris Penn, Ed Harris, Angela Bassett...

Il Luke Wilson di fama Tenenbaumiama interpreta la parte del fan stupido e devoto, John Goodman è un sudatissimo promoter truffatore, Jeff Bridges fa il solito giornalista rompiballe che infastidisce Dylan con domande tipo: "Dicci la vera ragione per cui non sei andato a Woodstock". 

Lui non può che rispondere col silenzio, come fa da quarant'anni. E nel film interpreta se stesso, cantante che esce di prigione e alla fine ci ritorna senza bene capire perchè, accusato di un delitto che non ha commesso. Docile, mingherlino e stralunato come nella realtà.

Nel '73 il regista Sam Peckimpah lo diresse in un memorabile western, Pat Garrett & Billy the Kid. La sua fu una semplice comparsata, ma compose un capolavoro per la colonna sonora: Knocking on Heaven's Door.

Saturday, August 09, 2003

Newsweek: Vacationing with Mr.B

Vacationing With Mr. B

By Mauro Suttora

Newsweek, August 18, 2003

link: original article on Newsweek

"What's new, Salvo?" My paparazzo friend is sipping caipiroska in a seaside cafe, watching the yachts anchored off Porto Cervo. The smallest is 40 meters. It's cocktail time, and he's taking a break from chasing celebs all day. "I got Gwyneth Paltrow on Valentino's boat. Liz Hurley, too. But I'm still looking for Eric Clapton. He should be at Peter Gabriel's villa."

There's no place like Sardinia's Costa Smeralda for stalking stars in summer. Marbella, St. Tropez? Not even close. "Tonight Roberto Cavalli is throwing the wildest party," Salvo informs me breathlessly.

 The Sultan of Brunei could be there, though probably not Silvio Berlusconi, Italy's prime minister. Among the world's richest men, he owns four villas in Costa Smeralda: one each for his mother, his brother, his eldest son and himself. Salvo's fondest dream is to snap Berlusconi on holiday, preferably with a woman other than his wife. The picture would be gold - not worth as much as Princess Diana and Dodi Fayed's first and last kiss here in 1997, but enough to make his season. My friend is practically salivating.

Casually, I mention that I'm vacationing with Mr. B - or rather with three of them, all oddly linked to the real Mr. B by no more than a degree of separation. Salvo looks confused. Berlusconi recently bought a fifth piece of land for a fifth villa, I explain. He got it from another Mr. B--the most powerful man on the Costa, Tom Barrack, a Californian descended from a Lebanese grocer. This second Mr. B also just paid $340 million for a chain of luxury hotels in Porto Cervo, including the sumptuous Cala di Volpe. "I'm having breakfast with him tomorrow."
As it turns out, Barrack is aiming to develop some virgin shoreline but fears being blocked by local zoning authorities, who didn't let even the Aga Khan (the famous bazillionaire playboy-prince who essentially founded the Costa Smeralda) build on the site when he once owned the land. Will they now let Barrack fire up his bulldozers? I bet they do.
The two Mr. B's are now friends, I tell Salvo, especially since Silvio gets his fifth villa. Tom, clearly a smooth operator, lavishes compliments on the P.M. "A Renaissance man," he calls Berlusconi. "He even composes love songs for his wife that he sings himself." Salvo looks downcast.

My third Mr. B to be vacationing in Sardinia this year is Gigi Buffon, the renowned goal-keeper for Juventus and the Italian national football team. This has been a fantastic year for Italy: we swept three out of the four first places in the European Champions League for the first time in history. The winner was AC Milan - Berlusconi's team, of course.
A pity that the football players who flock to the Costa in search of glamour and girls are not more appreciated. They aren't elegant enough for the habitues, who despise them as newcomer wanna-bes. And the sleek young women who prowl about in the snippiest of bikinis and evening dresses are mostly after bigger fish than footballers.

At the ultra-glam Yacht Club annual gala, filled with everyone from the president of Mercedes to the most powerful and secretive Swiss bankers, Salvo and I hoped again to come across Berlusconi. But no. Instead we teamed up with the young and rowdy football champions--and thus fell in with still another famous Mr. B.
This one is Flavio Briatore, the Formula One racing-team manager who owns the most expensive nightclub in Porto Cervo, aptly named Billionaire. The big news this season is that the potbellied playboy Briatore has switched girlfriends: from high-attitude model Naomi Campbell to, well, high-attitude model Heidi Klum. A point in his favor, Salvo agrees. We left Billionaire at 5 in the morning, the not-quite-risen sun lighting the sea a tender pinky-violet to the east. No doubt the real Mr. B was home in bed. With his wife.

Copyright 2003 Newsweek

Benjamin Franklin

BOOM DELLE BIOGRAFIE SUL PADRE DELLA NAZIONE

di Mauro Suttora

Il Foglio, 9 agosto 2003

New York. “Niente è sicuro nella vita, tranne la morte e le tasse”. Chi l’ha detto? Benjamin Franklin. Formidabile aforista, ma anche giornalista, editore, scienziato, imprenditore e soprattutto padre fondatore degli Stati Uniti. Assieme a Thomas Jefferson, George Washington e John Adams, certo, “ma lui è l’unico che 250 anni dopo ci sembra ancora in carne e ossa, e non di marmo”.
Parola di Walter Isaacson, presidente dell’Aspen Institute, già direttore della Cnn e del settimanale Time nonché fortunato autore dell’ultima biografia di Franklin (ne esce in media una all’anno), che è fulmineamente salita in sole cinque settimane al secondo posto dei bestseller Usa, superata solo da quella di Katharine Hepburn. Stracciata Hillary Clinton. 

Un successo incredibile, anche perchè non si stanno festeggiando particolari anniversari: l’inventore del parafulmine nacque nel 1706 e morì nel 1790. Pure nei paperbacks Franklin spopola: dopo appena tre settimane la biografia dell’anno scorso, scritta dal professore di storia di Yale Edmund Morgan, ha conquistato il settimo posto in edizione economica.

“Era il più moderno dei Founding fathers”: così spiega l’exploit lo storico Arthur Schlesinger. In un momento in cui l’America si interroga profondamente sul proprio ruolo e la propria essenza, a quasi due anni dall’11 settembre e dopo due guerre, la vita del “rivoluzionario riluttante” (come l’ha brillantemente definito Morgan) serve a capire l’attuale riluttanza a sobbarcarsi un ruolo imperiale. 

Perchè “Ben”, com’è familiarmente conosciuto Franklin, è stato soprattutto il portavoce della classe media: quella che nel 1770 era disposta a un onorevole compromesso con Londra invece di muoverle guerra, e che oggi si sente umiliata dal crollo delle pensioni della New economy, oltre che da quello delle due Torri. Osama, Saddam? Certo, pericolosi terroristi da eliminare. Ma, come ammoniva il filosofo pratico di Filadelfia, “un penny risparmiato è un penny guadagnato”. Perciò oggi l’impiegato, già nervoso perchè fatica a pagare l’università del figlio, comincia a irritarsi ascoltando le notizie dall’Iraq: un nostro ragazzo ammazzato ogni giorno, al costo di un miliardo di dollari ogni settimana.

Franklin è sempre stato schifato dai romantici, racconta Isaacson, per chè era il piccolo borghese fiero della propria aurea mediocrità che nel suo annuale “Almanacco del povero Richard” proclamava: “I grandi distruttori del genere umano sono tre: la peste, la carestia e l’eroe. Non eroi ma scienziati servono all’umanità”. 

Grande impresa, quella del calendario. Per ben 26 anni, fino al 1758, Franklin ne vendette diecimila all’anno. La Pennsylvania, dov’erano concentrati gli abbonati, aveva soltanto 50mila abitanti (600mila il totale delle colonie). Quindi, se si escludono gli schiavi e gli analfabeti (metà della popolazione), l’almanacco entrava in ogni famiglia, era letto da tutti, e si era imposto come il più importante strumento di (in)formazione in una società dove l’influenza della chiesa stava declinando.

Il geniale ventenne, che era anche editore-direttore della Pennsylvania Gazette, aveva insomma in mano l’opinione pubblica del proprio stato. E guadagnò tanti di quei soldi che a 42 anni si ritirò dagli affari per dedicare la seconda metà della propria vita alla scienza e alla politica. George Washington combattè la rivoluzione sui campi di battaglia, ma fu Franklin a permettergli di vincerrla andando a Parigi a farsi dare i soldi dai francesi. 
E fu anche l’unico a firmare tutti e quattro i documenti che segnarono la nascita degli Stati Uniti: la Dichiarazione d’indipendenza del 1776, l’alleanza con la Francia due anni dopo, il trattato di pace con l’Inghilterra nell’82 e la Costituzione nell’87.

Il figlio di poveri immigrati, costretto a crescere in due stanze con tredici fratelli, finì a pranzo con tutti i re d’Europa. Voltaire lo abbracciò da pari a pari (“Oggi di fronte all’Academie Royale è come se si fossero incontrati Solone e Sofocle”, annotò Condorcet). Ma il poliedrico Franklin diresse anche un ufficio postale, fondò i pompieri di Filadelfia, escogitò l’assicurazione antincendio, inventò gli occhiali bifocali, organizzò il primo servizio di vigilantes e propose l’ora legale. 

Noi prendiamo in giro Silvio Berlusconi perchè si preoccupa dei fiori durante i summit (Genova 2001), ma il perfezionista Ben a Parigi fece di peggio (o meglio): giocò a scacchi con un amico nel bagno di madame Helvetius mentre lei assisteva nuda nella vasca, per ingraziarsi la ‘haute’ e far fuori il rivale Adams. Inguaribile burlone, a 75 anni preparò uno studio scientifico sull’emissione dei gas intestinali per l’Accademia reale di Bruxelles. Morì vecchio e felice. Max Weber lo disprezzò: “La sua etica si riduce al come far soldi”. L’America invece lo adora, e compra tutti i libri su di lui.
Mauro Suttora

Friday, August 01, 2003

Riapre l'ambasciata dell'Iraq a Roma

di Mauro Suttora, da New York

Il Foglio, 13 agosto 2003

La villona dell'ex ambasciata irachena a Roma è sempre lì, in quella invidiabile posizione a metà costa di Monte Mario, via della Camilluccia 355. Domattina, per la prima volta dopo la liberazione dell'Iraq più di quattro mesi fa, un rappresentante del nuovo governo (i 25 dirigenti iracheni del Consiglio nominato dalle Potenze occupanti) visiterà quella che è destinata a diventare una delle più importanti ambasciate irachene nel mondo. 

«Non c'è dubbio che, grazie alle scelte del vostro primo ministro, l'Italia sarà uno dei Paesi più vicini al nuovo Iraq», prevede Entifadh Qanbar, 44 anni, che raggiungiamo a Washington poco prima della sua partenza per Roma. Sarà lui a prendere conoscenza della situazione pratica dell'ambasciata: «Si tratta soltanto un'ispezione preliminare, vedremo se è rimasto ancora qualche ritratto di Saddam...», scherza Qambar.

Scherza, ma non troppo. Qambar, infatti, porta ancora sul proprio corpo i segni delle torture che gli aguzzini del regime gli inflissero nel 1987, durante i 47 giorni di prigionia che patì a Bagdad. Laureato in ingegneria civile, pilota militare per cinque anni, Qambar finì nella rete dei servizi segreti iracheni verso la fine della guerra contro l'Iran. Suo fratello e altri undici persone arrestate assieme a lui furono condannate a morte e fucilate. Lui riuscì a cavarsela e nel '90, poche settimane prima dell'invasione del Kuwait, scappò negli Stati Uniti. Ottenne l'asilo politico e da dieci anni è cittadino statunitense. 

La sua vicenda è stata raccontata da Kanan Makiya, architetto del Mit, uno dei più celebri fuoriusciti iracheni, nel terzo capitolo del libro "Crudeltà e silenzio", pubblicato nel '93. Anche nel libro, però, il vero nome di Qambar non appare: per evitargli ritorsioni da parte delle spie di Saddam attivissime anche all'estero, Makiya lo cambiò in Omar.

Oggi è arrivata la rivincita. Dopo un master in ingegneria ottenuto all'università Georgetech di Atlanta (Georgia), Qambar ha cominciato a collaborare con Ahmed Chalabi, il capo dell'Iraqi National Congress. Nel novembre 2000 si è trasferito da Atlanta a Washington, ha abbandonato il lavoro ed è diventato portavoce a tempo pieno di Chalabi. Nel marzo di quest'anno è andato a Doha (Qatar) come ufficiale di collegamento fra il Centcom del generale Tommy Franks e l'Iraqi National Congress. 

"Dopo la liberazione mi sono trasferito a Bagdad. Ho accompagnato Chalabi a Roma il 17 luglio per una riunione dell'Internazionale socialista, poi a New York per il suo incontro al Consiglio di sicurezza dell'Onu. E adesso, tornando a Bagdad, farò tappa a Roma per visitare l'ambasciata. Poi spero di ottenere un passaggio su un aereo militare italiano verso l'Iraq, come ho fatto all'andata».

La «liberazione» dell'ambasciata irachena a Roma non avrà niente di dannunziano, insomma. Però sicuramente almeno quattro persone proveranno il brivido della novità: Faris Ali Al Shoker, primo segretario e console della Sezione per la tutela degli interessi iracheni in Italia dal 2000, l'altro diplomatico Karim Kadhim Aagol e le signore Ayad Mahmoud ed Eman Amjad Mohammed. Sono sopravvissuti alla guerra e al cambio di regime, anche se lo status dell'ambasciata era stato da tempo retrocesso a semplice Ufficio ospitato presso la rappresentanza del Sudan. 

«Fino all'anno scorso la sede della nostra ambasciata ospitava una scuola araba aperta non solo agli iracheni», spiega al Foglio Al Shoker, «poi abbiamo dovuto chiudere anche quella. Si', so che domani arriverà un rappresentante del nuovo governo, anche se non l'ho ancora sentito al telefono. Io sono in partenza, sono stato richiamato a Bagdad come tutto il personale diplomatico iracheno. Ma il nostro ministero degli Esteri ha sempre continuato a funzionare, gli stipendi sono regolarmente arrivati, anche se noi non possiamo svolgere alcuna attività per i cittadini iracheni residenti in Italia».
L'ambasciatore in Italia verrà nominato appena il nuovo governo iracheno sarà riconosciuto, e si saprà il nome del ministro degli Esteri. «A settembre», spera Qambar.
Mauro Suttora

Sunday, July 06, 2003

Singing the Internationale

By Mauro Suttora

Newsweek

July 14, 2003

Communism in Europe collapsed 14 years ago, so I had to come to America to experience a real Marxist class struggle. In February a wealthy businessman bought the building where I live in Manhattan, along with a dozen others. Having spent $109 million, he now wants to maximize his profit. So he’s raising rents and trying to evict people. Also, he’s making a big fuss with the doormen. “I used to get $16 an hour,” complains Danilo Rodriguez from Puerto Rico, who covers the afternoon shift in my lobby on West End Avenue. “But he got rid of the pension benefits and the health insurance, so now I make only $10.”

My native Italy has the largest Communist Party in the West, and we are accustomed to powerful unions, labor strife and strikes. All I knew about the American variant was Joan Baez singing “Joe Hill” at Woodstock and Ronald Reagan screwing the air-traffic controllers. Never did I imagine that I, too, would soon be involved. Yet one day a sheet of paper slid under my door announcing a secret meeting in apartment 12C. “We gotta be united,” tenants admonished one another. This from folks who, before, hardly said hello in the elevator.

At first I was mystified by all the talk of “condoms.” Then I found out the word was “condos,” and that the landlord would be selling off the rentals as “owner-occupied apartments” - for big money, of course. To “protect our rights,” my fellow tenants hired a lawyer for the (to me) incredible sum of $13,000. Being an individualist, I refused to pay my $300 share. Why waste money against a phantom who hadn’t yet done anything against us?

The phantom finally showed up. His company’s name: Acquisition America. “He doesn’t even try to sound nice,” commented someone at the next meeting. So now we are all mobilized, Sacco and Vanzetti style, with aggressive direct actions unimaginable even in Italy. There’s a big, funny, gray inflatable rat at the front door - you get the symbolism - and there was the “picnic,” in reality a sit-in, one Sunday in front of the landlord’s mansion on Long Island. “To let his neighbors know” was our rationale. (Given the Gatsbyesque proportions of the estate, I doubted any of his “neighbors” could even see us.) This got much play in the New York press and soon unions, state senators, assemblymen and city councilmen were inviting me to raucous gatherings where the slogan is: “Tenants and workers united is our strength.” Am I living in the post-Reaganite wild West of capitalism, as my European friends think, or the last frontier of Sovietism?

Here, unions and laws (stabilizing and controlling) protect my rent. Thank you, but I’m skeptical that my rich company, which foots the bill, should pay $1,000 a month less than most individuals. And if the building goes coop, there will presumably be a board like so many others in New York. They have the power to keep you from owning pets, smoking in your apartment or inviting into your home whomever you please. Perhaps we should post one of those fat old babushkas in the lobby, just as in old Moscow.

There’s also an interesting ideological flavor to this struggle. Our new landlord happens to be a big shot in the Democratic Party, which puts him at odds with various other politicians from the same party who protect us. Discovering that he also has a big rug business, they question his possible exploitation of Third World labor. By contrast, we renters have developed a multiethnic solidarity with the African-American tenants of the owner’s Harlem buildings. Like any good communists, we are internationalists, too, and have forged alliances with our Latino and Montenegro doormen. The fight goes on, and on.

© 2003 Newsweek, Inc.

Friday, May 30, 2003

Onu/5: lo scandalo Oil for Food

DAL PALAZZO DI VETRO ESCE ALLO SCOPERTO LO SCANDALO MAZZETTARO "PETROLIO IN CAMBIO DI CIBO": ECCO PERCHE' FRANCIA E RUSSIA HANNO CHINATO LA TESTA A USA E GB.

Mauro Suttora per Il Foglio

da New York, 30 maggio 2003

Come mai francesi e russi hanno chinato così docilmente la testa? Dopo la fine della guerra contro Saddam Hussein, Parigi e Mosca avevano negato per un mese e mezzo a Stati Uniti e Gran Bretagna ogni legittimazione Onu sull'Iraq occupato. La risoluzione approvata il 22 maggio, invece, non solo ha cancellato le sanzioni contro Baghdad, ma ha anche affidato il controllo del petrolio iracheno alle potenze vincitrici, ponendo fine al programma "Oil for Food" gestito dalle Nazioni Unite.

L'Oip (Office of the Iraq Program), nato nel 1997 e guidato a New York dal cipriota Benon Sevan, chiuderà entro sei mesi. Il miliardo di dollari che gli rimane in cassa andrà al nuovo Idf (Iraq Development Fund), e i contratti ancora aperti saranno rivisti. Il loro valore ammonta a dieci miliardi di dollari, di cui quasi la metà con società russe e francesi (3,7 miliardi le prime, un miliardo le seconde).

Seguono società giordane, egiziane e turche, coinvolte solo per ragioni di prossimità geografica. Durante i sei anni del programma le società russe hanno incassato in totale 7,3 miliardi di business. Secondo l'Egitto con 4,3 miliardi, poi la Francia con 3,7, quindi Giordania, Emirati Arabi e Cina con tre miliardi ciascuna. La Gran Bretagna ha avuto contratti per soli 200 milioni di dollari, quasi tutti nel settore sanitario.

L'ammissione: "Tutti lo sapevano"

L'imbarazzo che ha indebolito l'opposizione franco-russa alla risoluzione Onu, fino a liquefarla, deriva dalle rivelazioni delle ultime settimane: le Nazioni Unite avevano tollerato tangenti per miliardi di dollari a Saddam e ai suoi gerarchi. Così, mentre per dieci anni no global e "pacifisti" di tutto il mondo strillavano di bimbi iracheni che sarebbero stati affamati e uccisi dalle sanzioni, i soldi che dovevano sfamarli e curarli venivano intascati dal dittatore e dalla sua famiglia: "Tutti lo sapevano - ammette oggi perfino Sevan - e quelli che erano nella posizione di poter fare qualcosa non hanno fatto nulla. Io stesso non avevo i poteri necessari".

Secondo il programma Oil for Food tutti gli introiti della vendita del petrolio iracheno sarebbero dovuti confluire sul conto bancario Onu gestito dalla Banque Nazionale de Paris, per poi essere utilizzati in acquisti di derrate alimentari e attrezzature umanitarie. Invece le società estere prima pagavano Saddam e i suoi figli per ottenere i contratti, poi versavano loro tangenti fisse sul valore del grezzo estratto. La quota era di 15-25 cent al barile, che in alcuni casi salivano fino a 75 cent. Mezzo miliardo di dollari all'anno, per un totale di tre miliardi.

"Scoprimmo presto che dovevamo 'ungere' parecchia gente", denuncia l'uomo d'affari britannico Swara Khadir, "conservo ancora i documenti iracheni con le istruzioni su come depositare le tangenti in conti bancari giordani e svizzeri. I dirigenti iracheni non dovevano neppure fare la fatica di nascondere la propria corruzione, perché tanto i funzionari dell'Onu facevano finta di non vedere".

Un intermediario petrolifero russo si lamentò con l'Onu per aver dovuto pagare 60 mila dollari a Uday Hussein, figlio di Saddam, senza aver poi ottenuto il contratto: la somma fu versata in una banca di Amman, su un conto privato di Uday, i documenti furono inviati all'Onu, ma il Consiglio di sicurezza non ne tenne mai conto. Anche perché, incredibilmente, proprio le Nazioni Unite avevano affidato all'Iraq, e non ai propri amministratori, il compito di selezionare le società partecipanti al programma Oil for Food.

"Ovviamente molte di queste erano sospette - spiega John Fawcett, consulente della Brookings Institution per i diritti umani - si andava dalla mafia al terrorismo al riciclaggio di denaro sporco, fino a chiunque volesse fare un po' di soldi in fretta. Due società avevano soltanto un ufficio di facciata nel Liechtenstein". Come ha potuto l'Onu non accorgersi di questo verminaio? "Non siamo l'Fbi, il nostro non è un ufficio investigativo", si giustifica Sevan.

Quando le inchieste si fanno, sono dolori

Quando le inchieste si fanno, per le Nazioni Unite sono dolori. La settimana scorsa un rapporto del General Accounting Office (Gao) al Congresso americano ha rivelato che milioni di donne e bambini, cioè l'80 per cento dei venti milioni di profughi censiti nel mondo, finiscono in campi dove gli abusi sessuali sono diffusissimi: "L'Onu non fa abbastanza per controllare la situazione e addestrare il proprio personale", accusa il Gao, braccio investigativo del Congresso Usa. Vengono citati in particolare i campi profughi di Birmania, Congo e Liberia.

Attenzione: a puntare il dito non è l'amministrazione Bush, ma un convinto multilateralista e sostenitore dell'Onu come il senatore Joe Biden, massima autorità del partito democratico in fatto di politica estera (è capogruppo della commissione Esteri): "Donne e bambine, dopo aver sofferto le ingiurie della guerra e dei disastri naturali ed essere state costrette a fuggire dalle proprie case, finiscono in campi dove invece di essere protette vengono brutalizzate e qualche volta violentate". Per questo Biden ha proposto che gli Stati Uniti stanzino 90 milioni di dollari nei prossimi due anni per rendere sicuri i campi dei rifugiati e addestrare il personale.

Le stesse Nazioni Unite, in una loro inchiesta del 2001, avevano ammesso che lo sfruttamento sessuale dei profughi da parte di alcuni dei propri dipendenti era "un problema serio". Ciononostante, i dirigenti dell'Unhcr (United Nations High Commissioner for Refugees), guidata dall'ex premier olandese Ruud Lubbers, hanno dichiarato agli investigatori del Gao di non considerare necessari cambiamenti radicali: l'agenzia non nega l'esistenza del problema, ma assicura di avere già compiuto un significativo sforzo che "mira specificatamente a migliorare la capacità da parte del nostro staff di prevenire e rispondere alla violenza sessuale". La replica del Gao è drastica: "Mezze misure e cambiamenti parziali non risolveranno nulla".

Come quasi sempre capita quando un'agenzia Onu è accusata di inefficienza, si sollecitano nuovi finanziamenti piangendo miseria. L'anno scorso l'Unhcr ha dovuto tagliare il proprio bilancio (di 730 milioni di dollari annui) del 10 per cento, perché alcuni paesi non hanno versato le cifre promesse. Non è questo il caso dei tanto deprecati Stati Uniti, che hanno contribuito per 265 milioni di dollari, circa un terzo del bilancio.

La verità è che il problema, più che nei fondi, sta nella loro distribuzione: l'Onu non manda i propri funzionari dove ce n'è più bisogno. Per esempio, soltanto il quattro per cento dei profughi sono in Europa, ma il 22 per cento del personale è stanziato qui, in uffici relativamente comodi. Viceversa, l'Africa "produce" l'80 per cento dei rifugiati, ma soltanto il 55 per cento del personale dell'agenzia Onu lavora sul campo in quel continente disagiato.

"Tutti gli esperti di assistenza internazionale - accusa il Gao - spiegano invece che una presenza visibile di dirigenti in loco è il deterrente più efficace contro gli abusi". Anche l'Organizzazione non governativa Save the Children ha pubblicato questo mese un rapporto in cui chiede più sicurezza per donne e bambini nei campi profughi.

Per la verità, la sicurezza nell'Onu manca perfino attorno al Consiglio di sicurezza. Un fatto increscioso è infatti accaduto pochi giorni fa nel Palazzo di Vetro. Un episodio piccolo, ma incredibile proprio per essere avvenuto nella sede dell'Onu, e per di più negli stessi giorni in cui il mondo assisteva ai saccheggi nelle strade di Baghdad. "Non credevo ai miei occhi: una folla di persone si è impadronita di qualsiasi cosa capitasse sottomano, fino a lasciare la sala completamente vuota", ha raccontato un testimone, non dall'Iraq ma dalla sede delle Nazioni Unite.

E' successo questo: la società Restaurant Associates ha perso la gara d'appalto per i cinque ristoranti, mense e bar interni dell'Onu che gestiva da 17 anni. Nell'ultimo giorno di servizio prima del subentro della nuova società il sindacato ha proclamato uno sciopero "selvaggio", per la mancata corresponsione dell'indennità di licenziamento ad alcuni dipendenti. Così a mezzogiorno, improvvisamente, tutto il personale dei ristoranti ha smesso di lavorare. Il segretario generale Kofi Annan aveva già convocato per l'una in una sala privata un pranzo di lavoro con i 15 membri del Consiglio di sicurezza, che ha quindi dovuto svolgersi a self service, senza camerieri (solo alcuni si sono offerti, per pura cortesia, di servire il caffè).

Sparite anche le suppellettili e l'argenteria

Frattanto la grande "cafeteria", che serve 5 mila pasti al giorno al personale Onu, era rimasta incustodita. E si è verificata una razzia colossale: tutti si sono serviti gratis delle porzioni del giorno (polli, insalate, tacchini, soufflé), ma sono sparite anche tutte le suppellettili, fra cui vassoi e posate d'argento. Stesse scene allo snack-bar "Viennese cafè", nel centro conferenze e nell'elegante sala da pranzo dei delegati, proprio accanto a quella dove Kofi stava mangiando.

Poi ai saccheggiatori è venuta sete. Perché non servirsi gratis al bar? Lì è stato beccato un diplomatico statunitense che, alla domanda su quanto avesse bevuto, ha risposto: "Non so, ho smesso di contare le bottiglie". Un rappresentante della nuova ditta appaltatrice, Aramark, ha valutato in 9 mila dollari il valore dei furti nella sola cafeteria, argenti esclusi. Molti frigobar privati negli uffici del palazzo, invece, rigurgitano. I guardiani Onu che avrebbero dovuto sorvegliare le sale si sono comportati come i Caschi blu in questi giorni nel Congo, o nel '95 a Srebrenica: inerti.

Mauro Suttora

Monday, May 19, 2003

On the Trail of Il Duce

Newsweek

Articolo originale sul sito di Newsweek

May 19, 2003, Atlantic Edition

Letter From America: On the Trail of Il Duce

By Mauro Suttora

I had come to Phoenix, among the Arizona saguaros and 6,000 miles from home, to look for one of my country's best-kept secrets. And here he is, watering the flowers outside his motor home, a tall and handsome man of 61, living on unemployment benefits. He greets me with a sad smile full of dignity. Ferdinando Petacci is the last living heir of Clara Petacci, who in April 1945 chose to be shot together with her lover, Benito Mussolini, the Italian dictator. Their corpses were then hung upside down in a Milan square.

In Italy, only Gypsies live in motor homes. But in America, going on the road, losing oneself, is commonplace. This man could be a millionaire, if the Italian government gave him back his aunt's diaries and the thousands of letters Mussolini sent her during their 12-year romance. Long ago the minders of state secrets told him he could have them in 50 years. Then in 1995 they invented a new law that would keep them out of his (and the public's) hands until 2015. He wonders, "Why are they so afraid?"

Ferdinando was just 3, fleeing with all his family in an Alfa Romeo along Lake Como, when the communist partisans caught them. His father, one of Mussolini's entourage, was executed on the spot, along with his aunt who asked to share Il Duce's fate. His mother was raped for days on end; his older brother never overcame the shock and died young. Ferdinando himself made a brilliant career as an executive in a French multinational in Europe and South America. He moved to the United States with his sons, divorced, set up a catering service in California, then slipped onto a downward path. He lost his last job in a restaurant in Colorado a few months ago.

Ferdinando's trailer is equipped with computer, phone, fax, e-mail. He is in constant contact with his Italian lawyer. Aunt Clara became Mussolini's political confidante during his last years, he explains. Many historians believe that his letters and her diary could contain proof of the contacts between the fascist dictator and Winston Churchill in 1944. The British prime minister allegedly tried to persuade Mussolini to accept a separate peace, in exchange for a truce on the southern front, and even to encourage Hitler to throw all his forces against the Russians.

Fantasies from a dead-end place in the American desert? Perhaps not. Ferdinando shows me a documentary by the History Channel, outlining this very hypothesis. Another suggests that Il Duce, leaving Milan hours before the Americans arrived, took with him in a leather bag the documents proving his contacts with Churchill. Apparently he thought they might save his life. On the contrary, Ferdinando tells me, they may have condemned him to immediate death instead of a public trial. Some historians speculate that he was shot in haste by British agents to neutralize his last blackmail. And Clara Petacci was executed because she knew, too.

My head is spinning. It' s too hot in this motor home. I go back to my hotel, past the luxurious Scottsdale golf courses, and spend the night reading two or three history books, as thrilling as spy stories. I learn that Churchill went for holidays in the summer of 1945 to... guess where? Lake Como. To paint, of course. But was he also looking for a leather bag?

Not long ago, news arrived from Italy. The government at long last had decided to release the first year of the secret Petacci papers. But lo, they could not be found. The director of the state archives blamed theft. Poor Ferdinando. Maybe he had better find a job, sell the motor home, settle down. Perhaps in Las Vegas. The infamous Alfa Romeo has wound up in a casino there.

Copyright 2003 Newsweek

Saturday, May 10, 2003

Paolo Mieli sull'Onu

Corriere della Sera, 10 maggio 2003

Boutros-Ghali e la democratizzazione dell' Onu

LETTERE AL CORRIERE
risponde Paolo Mieli

È trascorso un mese dalla vittoria degli americani a Bagdad e sono reduce dalla lettura sul Corriere degli ottimi servizi di Francesco Battistini e Guido Olimpio dedicati alla ricorrenza. Olimpio scrive che al momento gli Usa hanno rimesso in piedi il ministero del Petrolio, cercano di riattivare quello degli Esteri e puntano a ristabilire l' ordine con la polizia locale; stanno tornando a galla - come si temeva - i famigerati dirigenti del partito Baath e il generale Jay Garner, che pure ha indicato i cinque gruppi iracheni con i requisiti per formare il governo provvisorio, si è trovato di fatto commissariato dalla nomina di Paul Bremer a capo della amministrazione civile. Ma dove è finita l'Onu?

Emilio Galli Milano

Caro signor Galli,
ho scritto più volte che, secondo me, per un' infinità di motivi le Nazioni Unite dovrebbero avere un ruolo più che importante nella ricostruzione democratica dell' Iraq. Anche per questo ho fatto un salto sulla sedia quando ho letto che Richard Perle, autorevole membro del Defense Policy Board dell' Amministrazione Bush, ha scritto sul Guardian: «Ringraziamo Dio per la morte delle Nazioni Unite». Una battuta di cattivo gusto.
Però in tutta franchezza devo aggiungere che mi aspetto che l' Onu faccia dei passi che segnalino una discontinuità dal passato e un suo essere all' altezza dei compiti che le persone come lei e me vorrebbero vederle attribuite. Che tipo di discontinuità?

In una serie di articoli requisitoria contro l' Onu pubblicati sul Foglio, Mauro Suttora è tornato sulla «criminale omissione di intervento nel 1995 dei soldati Onu che provocò - fra le altre - la strage di Srebrenica, settemila morti» per sottolineare il fatto che «un governo è caduto in Olanda per le responsabilità di un comandante olandese nella città della ex Jugoslavia, ma nessun dirigente Onu ha avuto problemi con la propria carriera». È un fatto, purtroppo.

Così come è un fatto che «funzionari per l' Alto commissariato Onu per i diritti umani a Sarajevo - prosegue Suttora - furono coinvolti nel traffico di donne (anche minorenni) fatte prostituire contro la loro volontà e l' imbarazzante episodio venne salomonicamente risolto rispedendo a casa sia gli accusati, sia gli accusatori». A Nairobi c' è stata un po' più di giustizia: quattro funzionari della Commissione Onu per i rifugiati sono stati arrestati per aver organizzato una sorta di programma «Sex for food»; nei campi africani dove erano raccolti i fuggiaschi dalle stragi in Ruanda - avvenute sotto l' occhio distratto delle Nazioni Unite - donne e bambine erano costrette a offrire prestazioni sessuali in cambio della loro razione di cibo. Sì, l' Onu purtroppo è stata anche questo.

C'è poi un problema di rappresentatività. Sergio Romano ha denunciato di recente su queste colonne come sia assurdo che il voto dell' India valga come quello di Malta, che il Brasile pesi come una qualsiasi isola dei Caraibi e l' arma del veto resti quasi per diritto divino «nelle mani di cinque Paesi che vinsero la guerra, sessant' anni fa, con un' alleanza di cui constatammo rapidamente la fragilità». E ha proposto di introdurre il criterio delle maggioranze ponderate che tengano conto - per ogni Paese - del peso demografico, del prodotto interno lordo, dell' impegno assistenziale per i Paesi poveri, del livello culturale e scientifico, della quota di partecipazione al commercio mondiale. Sono del tutto d' accordo.

Mi limiterei ad aggiungere tra ciò che dovrebbe rientrare nella valutazione il «tasso di democrazia», cioè di libertà di espressione, culto, organizzazione politica, voto così da invogliare le leadership dei Paesi del Terzo mondo ad «acquisire punti» offrendo garanzie e tutele ai loro popoli.

L' ottantenne Boutros Boutros-Ghali, egiziano, segretario generale dell' Onu nei primi anni Novanta, ha testé ripreso in mano una battaglia che iniziò nel ' 92 per un vincolo più stretto tra Nazioni Unite e il concetto di democrazia. Ecco, mi piacerebbe che il suo successore Kofi Annan gli desse ascolto.

Paolo Mieli

Botte da radicali

Il segretario Olivier Dupuis se ne va

"Botte da radicali, un partito eccessivo nel bene e pure nelle liti"

Il Foglio, 10 maggio 2003

di Mauro Suttora

Anche in questi giorni, come sempre, i radicali stanno facendo un sacco di cose affascinanti. Emma Bonino entusiasma le donne yemenite che è andata a difendere, e scrive bei reportages per il Corsera. Marco Pannella incontra il governatore dell'Illinois che ha graziato 167 condannati a morte e incassa il sÏ del governo Berlusconi alla moratoria sulla pena capitale all'Onu. A Torino i due consiglieri regionali, Carmelo Palma e Bruno Mellano, presentano con il segretario del partito Olivier Dupuis un piano per la pace in Cecenia firmato da André Glucksmann, Daniel Cohn-Bendit e Elena Bonner Sacharov.

La presidente del partito Rita Bernardini passa la notte con agli extracomunitari davanti alla questura di Roma per capire le ragioni delle interminabili attese che vengono loro inflitte. L'eurodeputato Benedetto Della Vedova denuncia in un convegno che "la cultura degli enti privati diventa prefettizia". A Firenze Massimo Lensi presenta il suo libro sui diritti umani in Laos. A Bruxelles Marco Cappato si batte per la privacy nel mondo dei computer, e Maurizio Turco manda a Valéry Giscard d'Estaing le firme di 233 eurodeputati che chiedono laicità nella Costituzione Ue.

Da New York Marco Perduca denuncia che in Afghanistan la superficie coltivata a papavero per oppio è triplicata. Luca Coscioni convince Margherita Hack ad aderire alla sua associazione per la libertà scientifica, e 1.115 scienziati firmano l'appello per la clonazione terapeutica. Nei ritagli di tempo, poi, i radicali organizzano "maratone oratorie" per i dissidenti cubani, raccolgono firme per i montagnards vietnamiti, appoggiano i Falun gong cinesi e auspicano un'amministrazione Onu in Iraq.

Questa settimana, però, i militanti gandhiani hanno anche litigato fra loro. E non se la sono mandata a dire: come sempre, da perfetti libertari, hanno lavato i propri panni sporchi in pubblico. Sul loro sito internet, www.radicali.it, tutti possono seguire un gustoso psicodramma che surclassa Broadway.

Non capita tutti i giorni che il numero uno di un partito (il segretario "transnazionale" Dupuis) si dimetta sbattendo la porta, che il numero due (Daniele Capezzone, il segretario italiano) lo accusi di dire solo menzogne, e che il capo supremo lo tratti da oligofrenico. Dupuis scrive a Pannella una lettera di nove pagine per respingere "i tuoi tentativi di accreditare una lettura personale e psicologica (quando non psichiatrica) del mio disagio. E' escluso che la carica di segretario possa essere ricoperta da uno che tu consideri una via di mezzo fra un mascalzone e un mentitore recidivo".

I motivi della rottura? "Non ho la disponibilità delle risorse interne", lamenta Dupuis, "nessuna capacità effettiva di spesa, di gestire gli indirizzari, alcun effettivo potere. Ormai la mia carica serve solo per consentire a te di esercitare un controllo assoluto e irresponsabile. Non accetto di dovere rispondere io di quanto fai tu. Conosco la ferocia di cui puoi essere capace. Sei "dominus" di una organizzazione carismatica. La tua gestione della 'campagna Iraq' è stata segnata dall'esclusione di ogni momento di reale dibattito politico, e da un ricorso costante e parossistico all'imputazione di responsabilit‡ tecnico-organizzative. Si è parlato più di mailing che di scelte politiche, più di "volumi" che del significato di questa iniziativa".
E sulla Cecenia: "Falla tu una proposta che non serva solo a passare sul Tg1 e a esibire Umar Khambiev (ministro del governo ceceno in esilio iscritto al Pr, ndr) come una madonna pellegrina nella prossima campagna elettorale".

Pannella ha risposto on line dopo appena mezz'ora: "La mia è una critica ferma del segretario nell'esercizio delle sue funzioni, mentre da parte di Olivier v'è una vera e propria eruzione di giudizi che riguardano - in modo toccante - la confessione di avermi conosciuto per quale effettivamente sarei solamente dopo 22 anni di sua presenza nel Pr, otto di sua massima responsabilità politica, e sette da europarlamentare".

Un altro motivo di dissidio fra i radicali - ma questo tutto ideologico - riguarda la recente infatuazione di Capezzone nei confronti dei neo-con statunitensi. Da vent'anni Pannella e Bonino predicano il diritto di ingerenza umanitario e "democratico" contro le dittature, ma molti dirigenti storcono il naso nei confronti di quello che giudicano un eccessivo appiattimento sulle posizioni dell'amministrazione Bush, di pensatoi come l'American Enterprise Institute e di personaggi come Paul Wolfowitz.

Mauro Suttora

Wednesday, May 07, 2003

Onu/4: gli onusiani

Antropologia degli abitanti e autori di un labirinto

RITRATTO DEGLI INSTANCABILI FUNZIONARI DELLE NAZIONI UNITE, CHE DA 58 ANNI COSTRUISCONO GROVIGLI BUROCRATICI

di Mauro Suttora

Il Foglio, 7 maggio 2003

New York. Benvenuti fra gli onusiani. Non sono gli abitanti di un altro pianeta, bensì i rappresentanti di tutti gli Stati del nostro (pianeta), impegnati da 58 anni a realizzare un labirinto burocratico finora immaginato soltanto in letteratura, da Nikolaj Gogol’ a Franz Kafka, da George Orwell ad Aldous Huxley.

Già nel 1973 il IX Congresso internazionale delle Scienze antropologiche ed etnologiche a Oshkosh (Wisconsin) stabilì ufficialmente che una delle principali cause del mancato sviluppo del Terzo mondo è la burocrazia delle agenzie Onu. Verdetto imbarazzante, visto che nelle Nazioni Unite il 90 per cento delle risorse umane (oggi arrivate a 65 mila dipendenti fissi, più decine di migliaia di consulenti) e finanziarie (circa dieci miliardi di euro all’anno) sono destinate proprio al Terzo mondo.

Da allora le cose non sono migliorate. La crescita dell’Onu è stata impetuosa e inarrestabile: nel 1946 le sue agenzie erano tre (Fao, Unesco e Oil, l’Organizzazione internazionale del lavoro), oggi sono 27. Per raccapezzarsi, nel 2001 è nato un comitato di coordinamento, l’United Nations System Chief Executives Board (Ceb), assistito a sua volta da due altri comitati l’High Level Committee on Programmes (Hlcp) e l’High Level Committee on Management (Hlcm).

Tuttavia, chi vuole esaminare scientificamente la struttura delle Nazioni Unite si trova di fronte a grosse difficoltà “Nonostante la proliferazione di organismi e conferenze”, spiegano David Pitt e Thomas Weiss, curatori del libro “The nature of UN bureaucracies” (ed. Croom Helm, Londra), gli archivi interni Onu sono chiusi agli studiosi, i dipendenti e anche gli ex hanno l’obbligo di riservatezza, i consulenti non parlano perché sono ricattabili”.

Johann Galtung, già rettore dell’università dell’Onu a Tokyo, spiega qual è l’ethos, la cultura che sta alla base dell’organizzazione: “Vengono prodotte a volte ricerche eccellenti per esempio, gli studi epidemiologici dell’Oms o quelli sulla storia mondiale dell’Unesco. Ma l’approccio dell’Onu è necessariamente ‘statocratico’, mentre gran parte della vita del mondo sta fuori dagli Stati. Le Nazioni Unite si comportano come un sindacato di governi è sacrilego che un dirigente Onu critichi uno Stato con nome e cognome, soprattutto il proprio, ed è impossibile che lo faccia se si tratta di uno Stato privo di libertà politiche. Così, data la ricchezza di sapere ed esperienza accumulata da molti funzionari, prevale una frustrazione diffusa che si supera soltanto quando un organismo è guidato da un personaggio capace di muoversi al di là dei governi”.

Questo capita durante rari periodi di grazia ma anche di conflitto, come quelli della irlandese Mary Robinson commissaria per i Diritti umani o del volitivo francese Bernard Kouchner in Kosovo. Eccezioni decisioniste presto riassorbite dal grigiore del funzionariato basta scorrere la lista degli attuali capi delle 27 agenzie e programmi Onu per notare la mancanza di personalità politiche di rilievo, con l’eccezione del placido ex premier olandese Ruud Lubbers commissario per i Profughi, e della diafana norvegese Gro Harlem Brundtland all’Oms.

“I dirigenti Onu – accusa Galtung – si guardano bene dall’esercitare una qualsiasi leadership. Preferiscono adagiarsi in una routine di mediatori che cercano di galleggiare alleviando tensioni, e vengono ottimamente ricompensati per questo io, ad esempio, guadagnavo il triplo del premier del mio paese, la Norvegia. In più, i capi Onu godono di prerogative prenapoleoniche, quasi feudali comando assoluto sullo staff che lavora e pubblica documenti a loro nome, organizzazione verticale, contesto autoritario… Ai dipendenti Onu non è neppure permesso ricorrere ai tribunali per le cause di lavoro. In caso di doglianze esiste un foro interno che sembra funzionare più per gentile grazia che tramite regole di diritto”.

La sociologia interna delle Nazioni Unite tratteggiata da Galtung è spietata: “Il funzionario medio è il cosiddetto Mamu Middle Aged Man University educated. A 60 anni scatta inesorabile la pensione. Cosicché quando qualche agenzia Onu proclama l’Anno o il Decennio dell’Anziano, del Giovane o della Donna, si tratta veramente di un’esperienza esotica per l’apparato, composto per lo più da cinquantenni con le idee di trent’anni fa. I capi desiderano solo sopravvivere per essere confermati alla scadenza del mandato. Nelle lotte interne per la carriera hanno cinque scelte: giocare i governi contro il segretario generale, oppure un governo forte contro i piccoli, oppure molti piccoli contro un grande minacciando di togliere voti, oppure appoggiarsi alle Ong, le Organizzazioni non governative, oppure allearsi col segretario generale.
Le tre ultime manovre vanno effettuate congiuntamente, pena l’inutilità. Per soddisfare ogni appetito si frammentano le competenze e si moltiplicano gli organismi nelle Nazioni Unite non soltanto una mano non sa cosa fa l’altra, ma neppure un dito cosa fa l’altro dito. Ecco quindi innumerevoli riunioni di ‘coordinamento’, il passatempo preferito dei burocrati. Ma raramente uno di loro legge qualche studio che ha commissionato i documenti servono soltanto come incentivi per ulteriori documenti, sono sempre ‘esploratori’, per non esaurire la possibilità di confezionarne altri”.

Per evitare la leggendaria accidia dei dipendenti a tempo indeterminato (ma anche per vantare riduzioni di staff nelle proprie statistiche ufficiali), l’Onu ricorre sempre di più ad assunzioni temporanee. Il risultato è che tutti, per farsi rinnovare il contratto, si conformano al presunto volere del capo. Rimangono memorabili certi rapporti spediti dal Kosovo a New York, che quasi non menzionavano i guerriglieri albanesi del Kla diventati i reali padroni del territorio.

Precari o stabili, i ranghi si allargano comunque a un certo punto nei villaggi Ujama della Tanzania si contavano più ricercatori delle Nazioni Unite che abitanti. E si allungano i titoli dei seminari. Il record, segnalato da Geoffrey Steves sul giornale canadese Globe and Mail, appartiene all’“United Nations Seminar on the Existing Unjust International Economic Order of the Economics of the Developing Countries and the Obstacle that this represents for the Implementation of Human Rights and Fundamental Freedoms”, tenuto negli anni Ottanta dopo una trattativa serrata su ogni singola parola.

Il problema è che fino al crollo del comunismo il gioco era semplice e ovvio dentro l’Onu Stati Uniti e Unione Sovietica si fronteggiavano, e i non allineati propendevano più per l’orbita sovietica che per il mondo libero. Ma oggi, se è inevitabile che tutti i membri dell’Onu siano Stati, non è detto che tutti gli Stati ne debbano essere membri. L’Oas (Organizzazione degli Stati americani) dal 1962 ha sospeso Cuba, in quanto dittatura. L’Avana partecipa alle riunioni, ma senza diritto di voto. “Le Nazioni Unite, invece, sono la nuova Bisanzio”, denuncia il professor Pitt, già dirigente e consulente Onu, Oms, Fao, Unesco e Oil. “La disillusione nei confronti del multilateralismo è ampia anche nel Terzo mondo, non soltanto a Washington. E infatti molti paesi preferiscono gli aiuti bilaterali. Quanto agli Stati Uniti, provano ora la stessa sensazione ben descritta da Lord Robert Cecil, ministro britannico, Nobel della Pace nel 1937, che pure era un grande sostenitore della Società delle Nazioni Ginevra è uno strano posto dove funziona una nuova macchina che permette ad alcuni stranieri di influenzare e perfino controllare la nostra azione internazionale’”.

Se poi questi stranieri si rivelano fallimentari quando si occupano dei loro due compiti principali, pace e sviluppo, la nuova superburocrazia perde le qualità descritte da Max Weber e assume invece le sembianze di una patologia sociale alla Robert Merton. Nel Palazzo di Vetro a New York e in quello della Pace a Ginevra ogni documento dev’essere approvato da dieci o più persone. Qualche centesimo in più di tariffa postale dev’essere autorizzato a livello di direttore generale. In compenso, le Nazioni Unite si autoinvestono di poteri quasi biblici (“sradicare la fame, le malattie, l’analfabetismo”) e orizzonti d’oro (“entro cinque anni, dieci, venti”).

Di solito, dopo aver stabilito scintillanti traguardi, tutto si riduce a un costosissimo e affollatissimo congresso in qualche località pittoresca tipo Alma Ata, Rio o Durban, dove vengono annunciati ulteriori euforici obiettivi. Peccato che i dati Onu siano a volte selvaggiamente sbagliati: in un rapporto dell’Unep (United Nations Environmental Program) la stima sul legno usato come combustibile nell’Himalaya varia di un fattore 67. “Il grave di queste mitologie”, ironizza Pitt, “non è che siano false o sospette, ma che vengano così ampiamente accettate”.
Un esempio? La cantilena no global sui miliardi di persone che sarebbero “costrette a sopravvivere con un solo dollaro al giorno”. Senza specificare che in parecchie zone rurali del Terzo mondo un dollaro al giorno permette di vivere decentemente.

Vivono ottimamente, in ogni caso, i funzionari Onu. “Un mediocre tecnico indiano, che potrebbe essere utile per le sue competenze qui da noi”, spiega Hari Mohan Mathur, antropologo di Jaipur, “viene assunto dall’Onu e spedito in Sierra Leone a guadagnare uno stipendio dieci volte superiore a quello che prenderebbe a casa sua, per un lavoro che esegue male. Contemporaneamente, un ‘esperto’ Onu della Sierra Leone viene mandato in India. Risultato: si sviluppano soltanto i salari di questi due signori. Inoltre, i loro alti livelli di vita li alienano completamente dalle società in cui lavorano e, se provengono dal Terzo mondo, anche da casa propria non ci vorranno mai più tornare. Diventano come fiori senza radici che appassiscono. La soluzione? Abolire le quote nazionali nelle assunzioni Onu, e organizzare corsi e concorsi locali, basati sul merito. Con lo stipendio pagato a un esperto Onu, ne possiamo assumere trenta indiani”.
Mauro Suttora
(4. continua)

Tuesday, April 29, 2003

Onu/3: disastro Kosovo

Il fallimento delle Nazioni Unite in Kosovo, e i motivi per cui non se ne vogliono andare

Il Foglio, 29 aprile 2003

New York. Molti vorrebbero che l’Onu amministrasse l’Iraq. Ma qual è il bilancio della missione di peacekeeping (“mantenimento della pace”) delle Nazioni Unite in Kosovo?

“Poveri iracheni, se l’Onu arriverà anche da loro”, commenta Beqe Cufaj, 33 anni, giornalista e scrittore kosovaro. Dopo quattro anni di protettorato Onu, infatti, il Kosovo ha ancora l’economia a pezzi. Anzi, con la diminuzione degli aiuti internazionali la situazione sta peggiorando. Ogni giorno l’elettricità manca per ore, anche se le centrali elettriche kosovare non erano state bombardate dalla Nato quattro anni fa. “Prima esportavamo la nostra energia elettrica in Macedonia e Grecia, ora siamo al buio”, ha denunciato il 23 aprile Nexhat Daci, presidente del Parlamento.

Finora l’amministrazione delle Nazioni Unite ha speso nove miliardi di euro per ricostruire il Kosovo. Ma molti soldi sono finiti nel nulla sta per iniziare il processo contro Joseph Trutschler, un tedesco 36enne nominato presidente della società elettrica kosovara, accusato per tangenti da quattro milioni e mezzo di euro.

A capo della missione Unmik (United Nations Mission Kosovo) c’è da un anno il 53enne tedesco Michael Steiner, un diplomatico succeduto all’altrettanto opaco danese Hans Haekkerup, che resistette solo pochi mesi. Prima di loro si era misurato con il Kosovo il francese Bernard Kouchner.

Questo turbinio di capi si aggiunge a quello delle sigle. L’Onu ha infatti delegato alla Ue la ricostruzione e lo sviluppo economico, mentre il compito di riorganizzare la vita politica è stato subappaltato all’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), ente dalla dubbia utilità con sede a Vienna è un’ossificazione della Conferenza di Helsinki del 1975, sopravvissuto alla fine del loro la guerra fredda.

L’Osce ha in qualche modo portato a termine il suo compito, con i suoi 1.500 dipendenti ha organizzato le elezioni locali e poi le politiche nel 2001, che hanno eletto presidente Ibrahim Rugova. Presidente di che cosa, però, non si sa bene, perché lo status del Kosovo è ancora tutto da decifrare in teoria fa ancora parte della federazione Serbia-Montenegro, ma nella realtà è ormai indipendente. Resta la questione della minoranza serba nella zona settentrionale di Mitrovica, bubbone che l’Onu si guarda bene dall’affrontare.

Nella vita quotidiana, le Nazioni Unite gestiscono direttamente polizia, giustizia e amministrazione civile. Ma nessuno osa fare più previsioni sulla durata del mandato Onu. Il partito di Rugova continua a litigare con quello del rivale Hashim Thaci, e non si sa che cosa succederebbe se partissero i 30 mila soldati Nato (fra i quali settemila statunitensi e quattromila italiani) e i 4.389 poliziotti Onu ancora stanziati in Kosovo.

La composizione della polizia è esoticissima: fra gli altri, ci sono 84 agenti del Bangladesh, 500 indiani, 426 giordani, 16 senegalesi, 124 polacchi, 62 filippini, quattro kirghisi, cinque vengono addirittura dall’isola di Mauritius e ben 34 dalle isole Figi. Gli italiani sono 58. Un unico belga. Insomma, un vero e proprio Palazzo di Vetro trasferito sul campo.

Gli indiani sembrano andare d’accordo con i 182 pakistani. L’arruolamento, visti gli stipendi, è particolarmente attraente per i poliziotti del terzo mondo. I 522 statunitensi e gli altri europei occidentali, invece, provengono soprattutto dalla pensione. In che lingua riescano a comunicare fra di loro, non è dato sapere. Quanto alla loro efficacia, le rudi bande del leggendario crimine organizzato balcanico e i contrabbandieri albanesi sembrano abbastanza soddisfatti dell’attuale situazione.

Nel suo ultimo rapporto del 14 aprile, fatto proprio da Kofi Annan, il povero Steiner ammette che nei primi tre mesi del 2003 la criminalità è aumentata difficile parlare di Stato di diritto, gli assalti con granate contro la polizia sono all’ordine del giorno anche a Pec, nel settore in teoria sotto il controllo italiano. Nei 57 nuovi tribunali si è già accumulato un arretrato di 13 mila cause civili e 11 mila penali. Anche perché ogni documento dev’essere tradotto in quattro lingue inglese, albanese, serbo e turco. “Riusciamo a punire il 21 per cento dei reati contro la proprietà, una quota maggiore rispetto a molti paesi europei”, si consola l’Onu.

L’arresto di alcuni membri del Kla (Esercito di liberazione del Kosovo) da parte del Tribunale dell’Aia ha provocato nelle settimane scorse dimostrazioni di protesta in tutto il paese. Il partito di Thaci è un’emanazione del Kla, e tuttora il vero potere locale resta nelle mani dei suoi uomini, armati. Il partito di Rugova si oppone al disegno di Thaci di far arruolare in blocco gli ex partigiani del Kla nell’esercito regolare kosovaro e nella polizia. Così non c’è verso di far decollare un esercito accettato da tutti.

Gli ex guerriglieri continuano a controllare 59 caserme e postazioni, contro un piano quinquennale che si proponeva di ridurle a 27. Quanto al sogno di un “esercito multietnico” coltivato dalle ingenue Nazioni Unite, non se ne vedrà mai l’ombra a nessun serbo passa per la testa di arruolarsi nelle forze armate dei nemici.

Naturalmente anche il Kosovo, come ogni area di crisi umanitaria, ha subìto un’invasione da parte delle Ong (Organizzazioni non governative) se ne sono registrate ben 2.292, di cui 381 straniere. Tutte alla costante ricerca di fondi – per lo più pubblici – con i quali far funzionare il proprio apparato. Intanto l’Onu, invece di esercitare una salubre autocritica sui suoi fallimenti, se la prende con i giornalisti locali sono stati comminati 51 mila euro di multa ai giornali che hanno pubblicato articoli sgraditi (“Titoli infiammatori e sensazionalisti”, accusa la censura del Minculpop onusiano, e speriamo che la sua giurisdizione non si estenda anche al Foglio…).

L’economia kosovara non si risolleva. L’amministrazione Onu-Ue, invece di favorire una rapida privatizzazione che valorizzi l’innato spirito d’iniziativa individuale della gente locale, mette i bastoni fra le ruote finora ha privatizzato solo sei aziende sulle 480 lasciate in eredità dal comunismo jugoslavo. “I burocrati internazionali sono rimasti gli ultimi nostalgici dell’economia pianificata”, accusa il giornale di Pristina Koha Ditore.

La principale preoccupazione dell’Onu sembra quella di garantire la non discriminazione della minoranza serba, invece di affrontare alla radice un problema insolubile e proporre uno scambio territoriale alla Serbia è evidente, infatti, che la provincia di Mitrovica non ne vuole sapere di rimanere in un Kosovo dominato dagli albanesi. I serbi rifiutano perfino le nuove targhe automobilistiche kosovare preferiscono tenere quelle vecchie con la stella rossa, che permettono loro di viaggiare liberamente in Serbia (oltre che di risparmiare sull’assicurazione).

Per tutti gli anni Novanta i kosovari perseguitati da Slobodan Milosevic avevano sviluppato una rete di resistenza clandestina formata da istituzioni parallele scuole e università in lingua albanese, ambulatori, servizi di assistenza. Ora i serbi kosovari si vendicano, e praticano a loro volta il boicottaggio delle istituzioni ufficiali. L’Onu deve così tollerare uffici serbi in teoria vietati dalla risoluzione 1244 del 1999 che pose fine al conflitto, con dodici impiegati delle Poste nel paese di Kamenica i quali prendono ancora lo stipendio dalla Serbia, e altri dipendenti pubblici di uffici di collocamento e dell’anagrafe che continuano imperterriti a obbedire a Belgrado invece che a Pristina.

Quanto ai politici kosovari, rifiutano tuttora ogni contatto diretto con il governo serbo. Il presidente del Parlamento kosovaro Daci è durissimo: “L’Onu vorrebbe restare qui ancora per un secolo. Perché dovrebbero andarsene? Prendono stipendi molto più alti che nei loro paesi, le nostre donne sono belle e abbiamo i migliori ristoranti della regione. All’Occidente avevamo chiesto professionisti, e invece loro ci hanno mandato politici e burocrati del diciannovesimo secolo. Non vogliamo che l’Onu se ne vada domani, ma che acceleri il trasferimento delle competenze e riduca drasticamente il suo staff. Dicono che i nostri politici litigano fra di loro? E ci mancherebbe altro non è proprio questa, la democrazia?"

Continua Daci: "Non abbiamo bisogno né di zar né di dei calati dall’esterno. E che i diecimila dipendenti Onu in Kosovo la smettano di spedire a New York rapporti falsi, per farsi belli. Abbiamo bisogno soltanto di poche centinaia di esperti tecnici, non di decine di migliaia di funzionari il cui unico contributo alla nostra economia è quello di drogarla ormai il trenta per cento delle nostre entrate dipende dagli aiuti internazionali. Il mio stipendio è inferiore a quello di una qualsiasi donna delle pulizie pagata dall’Onu per lavorare nei suoi uffici di Pristina. E i giovani assunti come traduttori dalle Nazioni Unite guadagnano 750 dollari al mese, mentre un professore universitario ne prende cento”.
(3. continua)
Mauro Suttora

Tuesday, April 22, 2003

Onu/2: disastro Unesco

L’Unesco colleziona critiche, sprechi e quintali di carta griffata Onu. Tornano gli Stati Uniti. Basterà?

Il Foglio, 22 aprile 2003

di Mauro Suttora

New York. Tutto merito di Laura Bush, moglie di George W. Ex maestra elementare e bibliotecaria, ha convinto il presidente, contro l’opinione dei neoconservative, a far rientrare gli Stati Uniti nell’Unesco (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organisation), dopo ben 18 anni di polemicissimo autoesilio. E così, nel discorso del 12 settembre 2002 all’Onu, passato alla storia per l’annuncio della nuova strategia della guerra preventiva, Bush ha anche promesso che gli Stati Uniti torneranno dall’ottobre 2003 nell’organismo che ha sede a Parigi.

La pace Stati Uniti-Unesco è stata ufficializzata il 13 febbraio scorso, con una cena solenne nella Public Library di New York il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ha nominato la signora Bush ambasciatrice onoraria per il Decennio dell’Alfabetizzazione. Non che sia un grande onore: gli ambasciatori Unesco sono ben 37, e si va da Giancarlo Elia Valori a Pelè, da Claudia Cardinale a Pierre Cardin, da Catherine Deneuve a Renzo Piano. Ma la signora Bush è contenta, anche perché appena arrivata alla Casa Bianca aveva lanciato pure lei un suo programma “Ready to Read, Ready to Learn” (“Pronti a leggere, pronti a imparare”, peccato che traducendo si perda il gioco di parole).

Nel 1984 Ronald Reagan e l’anno dopo Margaret Thatcher fecero uscire Stati Uniti e Gran Bretagna dall’Unesco. Anche Singapore se ne andò. Gli inglesi sono rientrati nel ’97. E ora, in barba a tutte le accuse di unilateralismo, pure gli Stati Uniti tornano. E’ singolare che la mossa venga attuata da un’Amministrazione repubblicana. Ma l’apertura durante gli anni di Bill Clinton era resa impossibile dalle perduranti malversazioni: “L’Unesco ha ancora troppi problemi”, sentenziò la segretaria di Stato, Madeleine Albright, nel ’97.

L’Unesco è l’agenzia Onu che ha ricevuto più critiche durante i suoi 57 anni di vita. Il nuovo direttore generale giapponese Koichiro Matsuura, 66 anni, subentrato nel ’99 alle sciagurate gestioni del senegalese Amadou-Mahtar M’Bow e dello spagnolo Federico Mayor, sostiene di essere riuscito a dimezzarne l’esorbitante staff dirigenziale. “In realtà, confrontando il bilancio 2003 con quello del ’99, si legge che i dirigenti sono calati appena da 110 a 103. E che i 782 alti funzionari in carica cinque anni fa si sono ridotti soltanto di 40 unità”, avverte Brett Schaefer della Heritage Foundation, acerrimo avversario dell’Unesco.

Matsuura getta la croce su Mayor: “Ho ereditato un’organizzazione in pessime condizioni. In termini di management, era molto peggio di ciò che mi aspettavo. Il mio predecessore si era circondato di una trentina di consiglieri personali, cinque dei quali molto potenti. Spacciati per consulenti, in realtà avevano più potere dei vicedirettori generali. Erano totalmente fedeli al direttore generale, ma non necessariamente all’organizzazione”. Matsuura li ha confinati in cantina, aspettando che scadessero i loro contratti annuali.

Ma anche i dirigenti si erano moltiplicati vergognosamente: 200, quasi il doppio rispetto all’organico ufficiale (e questo spiega la discrepanza rilevata da Schaefer), molti dei quali nominati per raccomandazione politica, senza concorso. “Ai 20 di loro che erano stati promossi all’ultimo minuto ho annullato la promozione”, dice il tremendo giapponese, “agli altri ho dato incentivi per andarsene”.

L’Unesco spende 272 milioni di dollari all’anno. I dipendenti a tempo pieno, che erano 400 nel ’60, oggi sono quasi 2 mila. Ma la vera greppia sono consulenze (spesso agli ex dirigenti, che vanno in pensione a 60 anni) e contratti a termine. Il 60 per cento del bilancio finisce in stipendi, in alcuni casi la percentuale dei costi di struttura ha raggiunto l’80 per cento.

Tre anni fa Matsuura ha dovuto affrontare perfino uno sciopero della fame di dieci giorni da parte dei dirigenti che aveva retrocesso. E solo nel 2001 è riuscito a chiudere una rivista mensile che perdeva undici miliardi di lire all’anno: un miliardo a numero. Il principale problema dell’Unesco è che la sede centrale sta in una città molto bella, per cui i dipendenti sul campo appena possono si fanno trasferire a Parigi. Così i tre quarti del personale ingrossano le fila di una burocrazia centrale esorbitante, superiore anche ai due terzi dei dipendenti Fao concentrati a Roma.

Ma americani e inglesi se n’erano andati per motivi politici, oltre che gestionali. Negli anni 80, infatti, l’Unione Sovietica e i suoi satelliti volevano colorare di rosso i programmi culturali ed educativi dell’organizzazione. Si vagheggiava un orwelliano “nuovo ordinamento mondiale dell’informazione e della comunicazione”, che avrebbe dovuto ufficializzare la censura dei media da parte delle dittature del Terzo mondo, con la scusa che giornali e tv del Primo mondo non sarebbero liberi in quanto in mano a poteri forti industriali e finanziari (ritornello familiare anche in Italia).

Alla fine il piano è finito nel cestino. Gli Stati Uniti, accettando di rientrare, si accolleranno 60 milioni di dollari annui che corrispondono al 22 per cento del bilancio. Le spese Unesco, dopo anni di vacche magre, potranno aumentare del 12 per cento. C’è stata battaglia, all’ultima riunione dell’Ufficio esecutivo di aprile: i più rigorosi non avrebbero voluto allargare i cordoni della borsa. Alla fine, però, è prevalsa l’euforia per il ritorno degli odiati/amati americani.

Ma come mai l’Amministrazione Bush ha cambiato idea? “Gli Stati Uniti hanno bisogno anche dell’Unesco e dei suoi programmi educativi per controbilanciare le campagne di odio verso gli ideali occidentali che riescono a farsi strada solo se prevale l’ignoranza”, dicono le “colombe” del Congresso a Washington.

L’Unesco produce tonnellate di documenti che nessuno legge, e ha nostalgia dei piani quinquennali sovietici. Attualmente è in corso il Decennio dell’Alfabetizzazione, che si propone di dimezzare gli 861 milioni di analfabeti (che esattezza sospetta!) entro il 2013. Altri Decenni si intersecano fra loro, come quello per i Popoli indigeni (1995-2004) e quello per la Pace (2001-10). Vengono inoltre proclamate Giornate (proprio domani c’è quella “del libro e del diritto d’autore”), Settimane (dal 6 al 13 aprile si festeggiava l’Educazione per Tutti, che deve raggiungere i sei obiettivi stabiliti in un congresso a Dakar due anni fa), e il 2003 è l’Anno dell’Acqua Dolce.

L’Unesco tende a occuparsi di tutto: educazione familiare e della prima infanzia, strutture edilizie, introduzione ai computer, assistenza d’emergenza, programmi per donne in Africa, studi di specializzazione, insegnamento dell’“inclusione”, introduzione alla nonviolenza, corsi di sradicamento della povertà, istruzione secondaria, scuole elementari, scienza e tecnologia, bambini che lavorano o abbandonati in strada, scambi culturali con l’estero, sviluppo sostenibile, e chi più ne ha più ne metta.

“Mancanza di focus e mission”, direbbero gli esperti di marketing se si trattasse di un’impresa privata. Gran parte di questa programmazione disordinata e a pioggia, oltretutto, è un doppione rispetto a iniziative private o di altre agenzie Onu. Ma poiché lo scopo sottinteso dell’Unesco è quello di strappare schiere di sociologi e intellettuali alla disoccupazione, la sua missione può dirsi compiuta.
(2. continua)
Mauro Suttora

Friday, April 18, 2003

Answers in the Straits Times

The Straits Times (Singapore)

Is UN irrelevant?

April 18, 2003 Friday

MR MAURO Suttora ('The UN is the last thing the Iraqis need'; ST, April 16) sounds like an apologist for the United States action in Iraq.
He cited instances of the ineffectiveness of the United Nations, corruption and high salaries of its officials.
Even if those charges were true, his implicit proposition that the US is doing a better job is unacceptable. To use an analogy, just because democratic governments can become ineffective and corrupt does not mean that the concept of a democratic government is irrelevant. The alternative to a democratically elected government is dictatorship.

So whether it is an individual government or a world body, progress should be measured according to the implementation of democratic processes. Democracy encompasses as far as possible non-violent resolution of issues, consensus forging, will of the majority and respect for the minority and many more principles.
However, what has happened in Iraq shows that there is a retrogression of democracy in settling international issues.

If there are areas of weakness in the UN operations, member governments must suggest ways to tackle them. This is their responsibility to their own citizens and all citizens of the world.
It is not good enough if they are treating the UN principally as a forum for settling issues. They must look at how it is run at the bureaucratic level. The writer's accusations have certainly given us cause for concern.
Without an improved UN, big brother will likely usurp its role in policing the world. We can see how small the UN appears after the collapse of the regime in Iraq. If this trend continues, very soon more and more people will begin to believe the US is a better solution.

But that is depending on one nation to decide the fate of the world and the lives of citizens everywhere. This is going for a form of international dictatorship willingly. Do we want that to happen?
In any case, I see no serious fault in the current procedure used by the Security Council to approve military action on a member country. If the writer sees anything amiss with it, he should suggest better and democratic ways to improve it. He may also recommend any alternative global forum to settle international issues.

But in the end the alternative will more or less be similar in purpose and role. Why re-invent the wheel? Let's support the UN and urge member governments to treat it with more respect by improving its functions, checks and balances.
CHIA HERN KENG

NO
Depending on one nation to decide the fate of the world and the lives of citizens everywhere is going for a form of international dictatorship willingly. Do we want that to happen?
I see no serious fault in the current procedure used by the Security Council to approve military action on a member country. If the writer sees anything amiss with it, he should suggest better and democratic ways to improve it.
He may also recommend any alternative global forum to settle international issues.
But in the end the alternative will more or less be similar in purpose and role. Why re-invent the wheel?

YES
I AM pleased to finally see an honest and gutsy article ('The UN is the last thing the Iraqis need'; ST, April 16). Mr Mauro Suttora is right on the dot and if anyone disputes his report, they only have to look at the way Saddam Hussein and his regime have been living with the blessings of the United Nations' oil-for-food programme, while the Iraqi population lived in abject poverty.
The U in United Nations should read more like 'Useless' than anything else. I hope we have more articles like the above rather than the everyday wishy-washy ones that we see from AP, AFP, CNN and the gang. The credit goes to Newsweek and Mr Suttora.

WILMA ELIZABETH CHAI (MRS)

Wednesday, April 16, 2003

Iraq and the U.N.

THE LAST THING IRAQIS NEED

Newsweek, April 21, 2003

Keeping luxury hotels occupied is perhaps the main contribution of U.N. officials to the local economies they are unsuccessfully advising

by Mauro Suttora

http://www.newsweek.com/last-thing-iraqis-need-134083

Unfortunately, I am a lousy tennis player. Otherwise I would have had a great time in Sao Tome, a wonderful equatorial island off the Atlantic coast of Africa. My friend, a United Nations employee, played every day, early in the morning and at twilight, when the temperature was bearable. The tennis courts belonged to the only five-star hotel in the capital. The rest of the hot day, he retreated into the air-conditioned hotel, where he sometimes held meetings. I was the only 'normal' guest. All the others belonged to one U.N. agency or another, and I found this to be true for many of the luxury hotels in Africa. Keeping them occupied is perhaps the main contribution of U.N. officials to the local economies they are unsuccessfully advising.

I am amazed that as Saddam Hussein statues were toppled all over Iraq last week, all my fellow Europeans could talk about was the importance of U.N. rule in the country, and the danger of a long-term American occupation. They've got it backward. Wherever the United Nations goes, it tends to stay forever, and to perpetuate problems. It's been in Bosnia for eight years now, in Kosovo and East Timor for four, in the Palestinian territories since '48. In Gaza the U.N. agency running the refugee camps is the main purveyor of jobs. I am a refugee's son myself: my father fled the territories that Italy lost to Yugoslavia in 1945. After a few months all 350,000 refugees had found jobs, houses, new lives. There was no U.N. presence, which was perhaps their good fortune.

Today there is no sign that the United Nations will leave Bosnia or Kosovo. No solution for Cyprus after almost 30 years. Nevertheless, 'U.N.' has become a magic phrase, the last redoubt for pacifists. Even my paper - the largest Italian weekly, normally quiet and middle-of-the-road - has turned pacifist: for Christmas it published an article by a Catholic bishop against the war, and as counterbalance an article by a former communist against the war.

I was once a pacifist demonstrator myself, fighting the placement of U.S. nuclear cruise missiles in Sicily. But now I don't mind anybody getting rid of Saddam, by any means necessary. We Italians should know: Rome invented the word 'dictator', the first modern dictator was Italian (Adolf Hitler was a pupil of Benito Mussolini) and even Silvio Berlusconi, our current premier, has been called by his adversaries the model of the postmodern media dictator. Nevertheless, Europeans don't care anymore about dictators (or freedom). They rave about peace. They crave the United Nations.

Now, pardon my bluntness, but why should we condemn the poor Iraqis to be governed by lazy and incompetent bureaucrats? It's no secret that the United Nations has more tolerance than most for petty despots: Libya currently holds the presidency of the U.N. Human Rights Commission. The U.N. bureaucracy is a Gogolian monster with 65,000 employees and a budget of $2.6 billion a year. For each problem the United Nations has set up a special agency, and this week in Vienna the UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime - the longer the name, the more wasteful the body) is discussing how the war on drugs is going. It's a disaster, actually: halfway through a 10-year effort to eradicate drug cultivation, production has soared. Is the agency closing down because of this failure? No, it's asking for new funds.

The system is corrupt. When I give money for the hungry, I send it directly to the missionaries instead of UNICEF or the World Food Program or anyone else whose first-class air-travel budget could feed tens of thousands. UNESCO is a successful Paris job-creation program for sociologists and intellectuals, famous for overhead expenses that eat up as much as 80 percent of some programs. Officials of the Human Rights Commission have been sent home for allegedly trafficking women and young girls for prostitution in Bosnia. At the U.N. High Commissioner for Refugees (yearly budget: $740 million), four officials have been arrested for smuggling refugees. The U.N. apparatus has grown so much that in 1994 a new Office for Internal Oversight Services was established to keep track of everyone. It promptly hired 180 more people, at an extra cost of $18 million a year.

Has the United Nations really proved its competence in dealing with Iraq? Past experience says no: not only did the Oil-for-Food Program allow Saddam and his cronies to pocket large sums, but an audit found the program had overpaid $1 million for services. U.N. officers are well paid: six-digit tax-free salaries in dollars, plus innumerable allowances. Most of them are decent people, frustrated by their own red tape. But why on earth should they go to Baghdad? Let them play tennis elsewhere.

Suttora is U.S. bureau chief for Oggi (Rizzoli Corriere della Sera) in New York.

© 2003 Newsweek, Inc.



Newsweek

May 26, 2003, Atlantic Edition

SECTION: LETTERS; Pg. 16

Mail Call

Mauro Suttora's April 21 piece on the U.N.'s ineptitude ignited a heated debate among readers. "A great article!" cheered one. "The U.N. has proven weak and useless," chimed another. But the U.N.'s defenders accused us of "tabloid journalism." One reader simply urged that the U.N. be rehabilitated.

The U.N. Under Attack

I was disappointed to see NEWSWEEK descend to tabloid journalism with Mauro Suttora's "The Last Thing Iraqis Need" (April 21)--a farrago of gossip, unsubstantiated assertions and outright falsehoods masquerading as reportage. Allow me to rebut the most egregious of his misstatements. He says, "Today there is no sign that the United Nations will leave Bosnia," but we have already left. The U.N. troops have been gone since 1996, and we closed down our civilian mission last year. The U.N.'s role in East Timor changed with that country's independence in 2002; we are now there only at the government's request, to assist the authorities, not supplant them. The U.N. has 9,600 employees, not 65,000; even counting every international organization in the U.N. system--including the World Health Organization and the International Labor Organization--Suttora's calculation is excessive. U.N. staff do not fly first class; only the secretary-general does. Suttora twists facts to substantiate his prejudices: he even criticizes the establishment of a tough audit mechanism, the Office of Internal Oversight Services, whose effectiveness is acknowledged by the U.N.'s major contributors. The U.N. may not be perfect, but its record needs to be examined with more accuracy and integrity than in this article that is unworthy of your magazine.

Shashi Tharoor
Under Secretary-General for Communications and Public Information
United Nations
New York, N.Y.


It was a pleasure reading Mauro Suttora's article on the United Nations. The fact that the U.N. is inefficient, inadequate and ineffective is, of course, not a closely guarded secret, but it is important for those who fund it, or perceive it to be a sort of savior, to be aware of this and of some of the reasons behind the U.N.'s blatant ineffectiveness.

Morris Kaner
Givatyim, Israel


What a great article! It's time someone spoke out against the United Nations with a few home truths. Anyone who follows international affairs knows that the U.N. has proved weak and useless in most cases. You can't blame America and England for not paying their U.N. dues when they are the ones invariably forced to do the work the U.N. is incapable of completing, thanks to its incompetence. The last vestige of respect was gone when the U.N. backed down, under pressure from Israel, from sending a committee to investigate the atrocities and damage caused by the Israeli invasion of refugee camps in the Palestinian territories. There may be many dedicated, well-meaning workers in the U.N., but the organization has lost its credibility as an effective operation. If Iraq is to get on its feet again, don't let it fall into the hands of the U.N.

Kaye Krieg
Inzlingen, Germany


As a Vietnamese refugee, I personally experienced the incompetence of the United Nations High Commissioner for Refugees. Coming to Britain, I've seen the corrupt nepotism and cronyism of charity/voluntary organizations. There are too many bosses, no one can assert authority and there's no competition for them whatsoever. The U.N. needs to be rehabilitated.

Thong V. Lam
Newcastle-Upon-Tyne, England


As a U.N. official with a 25-year career in many refugee-crisis situations in the world, I'm shocked by Suttora's vicious article. He singles out some shortcomings of the U.N. and blows them out of proportion. This is a body that can be only as good as the individual entities that constitute it. Not only have I never flown first class, but my colleagues and I often work under unbearable conditions--lacking both basic amenities and physical safety. U.N. salaries are comfortable but not competitive with those in the private sector or some foreign services. "Staff assessment," equivalent to our nations' income tax, is deducted from our gross salary. We take pride in our humanitarian work and serve without political bias in accordance with the U.N. Charter. We help innocent civilians who have suffered persecution or violence to rebuild their lives. Those of us who work in the field often have to live without electricity, running water or heating. Many U.N. workers have been taken hostage, sustained injuries, even lost their lives while performing their duty. As for the UNHCR, the yearly budget cited by Suttora would hardly cover the support we offer to 21 million refugees and other similarly displaced people. The UNHCR has twice won the Nobel Peace Prize; we're proud to have repatriated millions of people, enabling them to live normal lives. Yes, there are shortcomings in the U.N. system. But the last thing the world needs is the denigration of the one international humanitarian body that gives states a forum where differences can be reconciled. What the United Nations needs is for all--individuals, states and the media--to help us best fulfill our humanitarian task. If we fail, there is no substitute.

Marion Hoffmann
Representative of the United Nations High Commissioner for Refugees in Albania
Tirana, Albania


The United Nations' presence in Iraq is an issue that cannot be dealt with in an ironic, one-sided op-ed piece like Mauro Suttora's. It is true that the U.N. system is not run efficiently and that its peacekeeping operations have rarely managed to facilitate peace. What Europeans want is not U.N. "rule" in Iraq, as Suttora says, but its "role" in international legality. This opens up important issues that transcend the functioning of the United Nations and go to the very core of the debate on American imperialism. It's reductive to rule them out with the sarcastic comments of an Italian tabloid journalist.

Fabrizio Tassinari
Copenhagen, Denmark

© 2003 Newsweek