Saturday, October 17, 1987

Svizzera al voto


Inchiesta: come gli svizzeri difendono la loro immensa ricchezza

Viaggio nel cuore della Confederazione, chiusi in un Cantone. "Gli alberi sono sacri": lo aveva detto Guglielmo Tell. Ora i suoi discendenti di Uri li difendono. Dichiarando guerra ai motori

dall'inviato a Uri (Svizzera) Mauro Suttora

Europeo, 17 ottobre 1987

Gli urani non sono lontani. Se ne stanno lì sotto, nella loro valle appena oltre il passo del San Gottardo, a meno di 200 chilometri da Milano. Con le loro mucche, i loro boschi, i loro paesini deliziosi. E con l'autostrada. Le quattro corsie levigate che uniscono il Canton Ticino a Zurigo, l'Italia alla Germania, il Mediterraneo all'Europa del nord, tagliano in due la stretta valle di Uri. Ma i 35 mila urani hanno imparato a odiarlo, quel nastro d'asfalto. Perché i milioni di auto e camion che transitano ogni anno sull'autostrada stanno uccidendo il piu' antico cantone svizzero.

"Papà, è vero che gli alberi sanguinano quando vengono tagliati?", chiede, nel Guglielmo Tell di Friedrich Schiller  il figlio del mitico fondatore della Svizzera. E l' eroe risponde : "Gli alberi sono sacri, questa è la verità. Le valanghe avrebbero seppellito da molto tempo la nostra Altdorf se non ci fosse la foresta a proteggerci".

Sette secoli dopo la mela e la cacciata del cattivo balivo Gessler, che angariava gli urani per conto degli Asburgo, la cittadina di Altdorf e' sempre, con i suoi 8 mila abitanti, la capitale del cantone di Uri. A infastidire le centinaia di Huber e di Arnold sono rimaste solo le campane della chiesa, che suonano inesorabili ogni quarto d'ora. Ma nessuno qui si sogna di denunciare il parroco per disturbo della quiete pubblica, com' e' successo in Italia . Perche' gli urani sono ancora devoti al papa come nel 1847, quando fecero scoppiare la guerra civile del Sonderbund assieme agli altri bastioni conservatori cattolici di Schwyz, Lucerna, Friburgo, Zug e Vallese.

Oggi pero', se non e' guerra, e' rivolta. Il cuore della Svizzera profonda si ribella non piu' contro i lumi della ragione, ma contro i fumi delle automobili. Perche' il bosco di Guglielmo Tell, quello che tuttora protegge il cantone di Uri e tutte le valli elvetiche da valanghe e frane, sta morendo. Meta' degli alberi sono malati.

"Ancora pochi anni, e fra parassiti e piogge acide causate dall'inquinamento qui di abeti ne rimarranno ben pochi", si lamenta il sindaco di Silenen, un paesino fra Altdorf e il Gottardo dove la montagna si fa ancor piu' scoscesa e minacciosa. Ecco allora apparire, nelle valli svizzere, enormi barriere di cemento: sostituiscono quelle naturali degli alberi. Con la differenza, pero', che il cemento non beve dal terreno i 20 mila litri d'acqua assorbiti ogni anno da ciascun albero. E le conseguenze cominciano a essere catastrofiche.

Due mesi fa, contemporaneamente alla Valtellina, anche a Uri e nel Ticino le piogge torrenziali hanno devastato argini, interrotto strade, provocato frane. Il traforo del San Gottardo e' stato riaperto a meta' settembre, ma per settimane tutto il traffico internazionale e' stato deviato verso il passo del San Bernardino. Magra figura, per un' opera terminata appena cinque anni fa e costata ben duemila miliardi di lire.

Il cantone di Uri, in un raptus di isolazionismo medievale, ha deciso dopo le inondazioni di limitare il traffico sull'autostrada alle sole auto con targa Ur e ticinesi. Risultato : piomba immediatamente da Zurigo Michael Dreher, 43 anni, consulente finanziario e fondatore del nuovo partito degli automobilisti. Pigia sull'acceleratore della sua Chevrolet (in garage ha anche due Mercedes e una Lancia), e con alcuni accoliti imbocca l'autostrada numero 2, in barba ai vigili urani.

"Protestiamo contro lo strapotere degli ecologisti, arroganti intellettuali che pretendono di penalizzare i cittadini che usano l'auto ", proclama Dreher. Nel suo mirino, oltre al Gottardo, ci sono i limiti di velocita' imposti dal 1985 (120 chilometri all'ora sulle autostrade, 100 nelle altre), la tassa sulle autostrade (26 mila lire all'anno, ma in cambio non ci sono caselli) e i catalizzatori da applicare ai tubi di scappamento (in questo campo la Svizzera e' il paese piu' severo al mondo, con Germania Ovest, Svezia e Usa).

Quanti voti prenderà Dreher alle elezioni del 18 ottobre? Sicuramente meno degli odiati verdi, i quali si preparano a festeggiare l'aumento dei propri deputati da quattro ad almeno 15-20. Ma sono verdi svizzeri, quindi diversi dai colleghi italiani o tedeschi: si interessano solo di inquinamento, senza preoccuparsi di pacifismo o altri argomenti al di fuori di quelli strettamente naturalistici.

"Per risolvere il problema del San Gottardo", propone Maurizio Ghini, 32 anni, biologo e deputato ecologista nel Canton Ticino, "invece di costruire una seconda galleria automobilistica bisogna allargare quella ferroviaria, per permettere ai treni di caricare i camion, come fa l'Austria dal Brennero alla Germania. Cosi' non ci saranno più' gas di scarico".

I temi ecologici sono gli unici a scaldare i cittadini in campagna elettorale. Nella Svizzera italiana, oltre al traffico, le principali questioni riguardano un deposito di rifiuti radioattivi che Berna vorrebbe rifilare alla Val Mesolcina, e l'aeroporto di Locarno-Bellinzona che dovrebbe allungare e asfaltare l'attuale pista civile in erba: "Usate la pista in cemento dei militari", ribattono gli oppositori.

Nel Canton Ticino si propone al voto anche un "partito ecologico liberale" .Ma , attenti al trucco: e' stato fondato in aprile da Valentin Oehen, leader degli xenofobi che si battono contro una forma particolare di "inquinamento": quello degli immigrati e dei rifugiati politici. Poco coerente, Oehen da qualche anno si e' stabilito nel Ticino, a Sessa di Malcantone, in mezzo ai disprezzati italiani: piu' del razzismo puo' il clima.

Ma la Svizzera offre di tutto. Vogliamo per esempio passare dalla xenofobia alla misoginia? Ecco cio' che scrive il maggiore scrittore elvetico, Max Frisch, nel suo Libretto di servizio (Einaudi, 1977), micidiale ritratto dei compatrioti: "Benche' esistano anche vere svizzere, il vero svizzero si sente meglio tra uomini". Nessuna meraviglia, quindi, che sulle dolci rive del lago dei Quattro cantoni, nella Altdorf di Guglielmo Tell, ancora pochi mesi fa i rappresentanti della Korporation, l' ente che amministra gli affari locali, abbiano respinto il voto alle donne. Situazione identica al cantone di Uri anche in quelli di Appenzell, vicino al Liechtenstein.

E povera Elizabeth Kopp, prima donna svizzera nella storia a diventare, l'anno scorso, ministro (della Giustizia): ce l' ha fatta per il rotto della cuffia nonostante fosse la candidata del maggiore partito, quello liberalradicale dei banchieri. Suo marito, anch'egli deputato, le ha votato contro. Scorie del passato nel paese piu' ricco del mondo? "Nel 1992, quando nascera' il Mercato comune della Cee, rischieremo di diventare il Nepal dell' Europa", avverte il deputato democristiano Werner Martignoni. Ma , per ora, gli svizzeri rimangono fieri isolazionisti. Anche se, fra i tanti record del benessere, ce n'e' uno inquietante: il primo posto in Europa per malati di Aids. Sono 41 ogni milione di abitanti.
Mauro Suttora

L'esercito svizzero

Vecchia Europa 1: come gli svizzeri difendono la loro immensa ricchezza

L'ARMA DEL MANAGER

Gli elvetici vanno a votare il 18 ottobre. Verdi a parte, non cambierà nulla. Così come non cambierà il loro esercito senza generali. Ma con i dirigenti delle banche e dell'industria che fanno gli ufficiali per 25 giorni l'anno. Patriottismo? Certo. Ma anche un ottimo investimento

di Mauro Suttora 
fotografie di Gianfranco Moroldo



Europeo, 17 ottobre 1987 

L'ingegner Peter Amacher, 38 anni, dirigente della societa' di elettronica Gretag di Zurigo, ha sotto di se' 350 tecnici e operai. Ma in questi giorni il maggiore Peter Amacher, comandante di battaglione dell'esercito svizzero, da' ordini a 800 soldati che si addestrano nei dintorni dell'abbazia benedettina di Einsiedeln, nel cantone Schwyz. Il servizio militare di Amacher, infatti, e' ricominciato il 24 settembre, e durera' fino alla meta' di ottobre. 

Come ogni ufficiale, ogni anno l' ingegnere deve dedicare tre settimane e mezzo al "corso di ripetizione": una specie di naia a puntate, obbligatoria per tutti gli svizzeri maschi dai 20 ai 32 anni, e che per chi sceglie di diventare colonnello si allunga fino ai 55 anni , per un totale di 1513 giorni (piu' di quattro anni). 

Strana Svizzera, cosi' vicina all'Italia ma cosi' sconosciuta : per la maggior parte di noi e' sempre quella di Pane e cioccolata, il film di Nino Manfredi, o di Pablo, l'emigrante cantato da Francesco De Gregori. 
Strana Svizzera, neutrale da secoli, che ospita l'Onu a Ginevra, ma che l'anno scorso ha deciso, in uno dei suoi numerosissimi referendum, di rimanere fuori dall' Onu. 
Ricchissima Svizzera , soprattutto : inflazione e disoccupazione sono irrilevanti , ferme all' uno per cento. Mentre nel 1971 bastavano 150 lire per comprare un franco, adesso ce ne vogliono 900. 

Il 18 ottobre i sei milioni di abitanti di questa eccentrica macchia nel centro Europa andranno a votare per il rinnovo del Parlamento federale . Da quasi trent' anni al governo di Berna c' e' un' " ammucchiata " di partiti " borghesi " (liberalradicali , democristiani , agrari) e socialisti , che assieme controllano 180 deputati su duecento . Il resto sono xenofobi di destra , comunisti , localisti e verdi . Saranno gli ecologisti l' unica sorpresa dell'inamidato panorama politico svizzero ? I sondaggi li danno al 15 per cento : sarebbe un terremoto. 

Ma il vero mastice della Svizzera, paese con due religioni e quattro lingue, e' un altro: gli affari. Ben 150 deputati (su 200) appartengono ad almeno tre consigli di amministrazione. Detto questo, detto tutto: "Il socialismo si addice alla Svizzera come la sella alla mucca", aveva concluso Lenin gia' ottant'anni fa. 

L' altra grande colonna dell' orgoglio elvetico e' la neutralita' . Armata , pero' . E quindi , ecco l' esercito . Di popolo , pero' . E sul serio : su 600 mila uomini mobilitabili nel giro di poche ore , i militari di carriera sono solo un migliaio . Soprattutto istruttori , il minimo necessario per tenere in piedi la baracca . Niente generali , in Svizzera : i comandanti di corpo assumono questo grado solo in caso di mobilitazione preguerra, come nel 1940. 

I pacifici elvetici non hanno la bomba atomica, non stanno ne' con la Nato ne' con il Patto di Varsavia, non hanno piu' attaccato nessuno dopo la batosta subita dai loro antenati a Marignano nel 1515 contro i francesi, e nessuno ha piu' attaccato loro. Hanno un esercito difensivo, pronto a combattere solo in caso di invasione del proprio territorio e le cui uniche vittorie sono quindi le guerre evitate. Cosi', le citta' svizzere sono piene di monumenti a generali considerati eroi proprio perche' non hanno mai combattuto. L'ultimo, Henri Guisan, nel 1940 mobilito' le truppe con tale efficacia che perfino i nazifascisti lasciarono perdere: il costo di un' invasione sarebbe stato davvero troppo alto anche per loro. 

Ma c'e' un argomento che batte tutti gli altri , e che spiega l'entusiasmo degli elvetici per le proprie forze armate: il loro costo . Molto basso: appena 4 mila miliardi di lire all'anno, l'1,9 del prodotto nazionale lordo contro , per esempio, il 2,8 dell'Italia . E se a questo si aggiunge che il reddito medio di ciascuno svizzero e' il quarto al mondo (dopo Qatar, Kuwait ed Emirati Arabi) , doppio di quello britannico , superiore di due volte e mezzo a quello di ogni italiano, si conclude che per la Svizzera comprare (pochi) cannoni non significa sacrificare sul burro. 

Ma come si svolge, in concreto , la vita di questo " esercito di cittadini " ? Per scoprirlo , abbiamo seguito per due giorni uno dei numerosi dirigenti svizzeri che regalano alla patria tre settimane e mezzo all' anno del proprio tempo . E impariamo subito che il regalo non lo fanno i cittadini , ma le imprese che continuano a pagarli con lo stesso stipendio anche durante il servizio militare : " Per l' industria privata e' un investimento", spiega l' ingegner Amacher, "perche' l' esperienza nell' esercito e' paragonabile a quella di una scuola per manager : si imparano la presa di decisioni rapide , la valutazione delle situazioni , l' organizzazione e la valorizzazione dell' elemento umano . . . " .

L' indennita' per perdita di guadagno pagata dall' esercito va da un minimo di 15 a un massimo di 126 mila lire al giorno , a seconda dello stipendio del " precettato " e della sua situazione familiare (celibe , sposato , con figli , ecc . ) . Per i lavoratori autonomi c' e' un assegno supplementare di 35 mila lire al giorno . E in alcuni cantoni agricoli si raggiunge quasi la perfezione : dei contadini " statali " sostituiscono gli agricoltori chiamati in servizio durante il periodo dei raccolti . 

L' esercito e' territoriale . Il maggiore Amacher , che e' nato a Berna , comanda il 36 battaglione di fanti di montagna (paragonabili ai nostri alpini) , tutti bernesi . Siamo nel suo ufficio di Zurigo, alla Gretag, una societa' del gruppo Ciba Geigy che fattura circa 180 miliardi di lire all' anno . Produzioni : apparecchiature fotografiche , fotofinish , laser , eidophor , densitometri . Ma anche criptologia , un settore delicato , dove la produzione elettronica per scopi bellici e' molto richiesta . E qui si intuisce la convenienza , per l' industria , di avere dirigenti che conoscono bene le esigenze dei militari , essendo militari essi stessi . 

Amacher sottolinea che la sua vita non e' divisa in due : " Sono un cittadino che fa il soldato con lo stesso impegno con cui dirigo l' azienda " . Per la verita' , visto il suo entusiamo per la vita militare , piu' che un manager prestato all' esercito potrebbe essere definito come un militare che per 49 settimane all' anno e' un civile . Seguiamo l' ingegnere elettrotecnico a casa, nella villa sul lago di Hallwil , in Argovia . Sua moglie , insegnante di ginnastica , non sembra particolarmente entusiasta della carriera militare del marito: " Ritorna sempre cosi' stanco dal servizio". 

Il mattino dopo, caricata sulla macchina la cassa con l' equipaggiamento militare che ciascuno svizzero conserva in casa assieme all' immancabile fucile, Amacher parte per Einsiedeln , dove sono previste le esercitazioni di quest'anno . Li' incontra il suo superiore , colonnello Robert Messerli , che da civile e' direttore dell' Ubs (la maggiore banca elvetica) a Interlaken . E, a pranzo con gli ufficiali, si intuisce un' altra grande forza dell' esercito svizzero, oltre a quella del connubio con l'industria: la possibilita', per le migliaia di svizzeri che scelgono la carriera di ufficiale (che "costa" tre anni in piu' di servizio), di entrare in contatto con una quantita' di altri manager e dirigenti la cui conoscenza e' preziosa nella vita normale. 

L' esercito, insomma, e' anche un club di ad alto livello. Colonnello Messerli, e' piu' stretto il segreto militare o quello bancario, in Svizzera ? Il colonnello dell'Ubs d'estate va in vacanza a Punta Ala, il suo italiano e' ottimo . Ma questa domanda molto gentilmente fa finta di non averla capita . E allora contraccambiando la discrezione evitiamo di fargli l'altra domanda, d' obbligo in questi giorni : colonnello , cosa pensa di quel rapporto dell'Fbi che accusa l' Ubs di aver fatto fuggire Licio Gelli dal carcere di Ginevra nel 1983?
Mauro Suttora

Saturday, September 26, 1987

Profughi istriani e dalmati


Ferite socchiuse: 40 anni dopo, gli esuli italiani si interrogano sul proprio passato

PALESTINESI DI CASA NOSTRA

Dalmati e istriani si incontrano a Trieste per commemorare gli avvenimenti del 1947. Gli jugoslavi li chiamano fuggiaschi, il Msi li corteggia. Ma loro cosa rivendicano? Le terre perdute? No, dicono, soltanto il diritto alla nostalgia

Europeo, 26 settembre 1987

di Mauro Suttora

In via Montenapoleone a Milano, fra i re della moda mondiale, la Dalmazia è regina. Sono dalmati, infatti, i due stilisti che si fronteggiano all'inizio della via, con le loro ricche vetrine nelle postazioni più prestigiose, quelle vicine a piazza San Babila: Ottavio Missoni e Mila Schoen. Dalmati , e quindi profughi. Così come gli altri 350 mila istriani, fiumani e lussignani che nel 1947, quarant'anni fa, dovettero abbandonare le proprie terre ai partigiani jugoslavi.

Fu un esodo drammatico. Per molti comincio' gia' nel 1943: gli abitanti di Zara scapparono in 14 mila per non morire sotto i bombardamenti a tappeto degli aerei inglesi. " Io ero prigioniero in Africa", ricorda Missoni, oggi sindaco onorario del 'Libero comune di Zara in esilio', "ma la mia famiglia fuggi' a Trieste con il 90 per cento della popolazione, che era tutta italiana. Quando tornai in Italia trovai mio padre che a 65 anni, per mantenerci, si era dovuto rimettere a navigare. Erano tutti scappati senza una lira".

Per altri la fuga fu meno precipitosa: gli italiani della "zona B" del mai nato Territorio libero di Trieste se ne andarono nel 1954-55, quando la zona passo' sotto amministrazione jugoslava in cambio del ritorno di Trieste all'Italia. Ma il grosso dei profughi "esodò" nel 1947, quando il trattato di pace impose all'Italia sconfitta di cedere quasi tutta la Venezia Giulia alla Jugoslavia.

Fu la ratifica di una realta': gia' da due anni nei paesi italiani della costa istriana si erano installate vincitrici le truppe comuniste del maresciallo Josip Broz detto Tito. Che avevano prevalso, con l' aiuto russo-inglese, non solo su tedeschi e italiani, ma anche, dopo una feroce guerra civile interslava, sui fascisti croati (gli "ustascia") e sui partigiani monarchici "cetnici" (paragonabili ai nostri badogliani).

Il 19 e 20 settembre a Trieste si riuniscono gli esuli istriani e dalmati per commemorare gli avvenimenti di quel 1947. Arriveranno 5 mila persone dall'Italia e dall'estero (soprattutto Canada  Australia e Usa, dove si sono rifugiati circa 50 mila profughi). E poi ci saranno i 50 mila triestini di origine istriana e dalmata.

Ma non sara' un anniversario facile. Il quotidiano semiufficiale Delo (Lavoro) di Lubiana ha gia' dedicato al raduno un articolo in cui si esprime "sorpresa e meraviglia per l'appoggio delle autorita' italiane a questi 350 mila fuggiaschi" (agli esuli, nonostante l'insulto del termine "fuggiasco", l'articolo non e' interamente dispiaciuto: per la prima volta infatti gli jugoslavi riconoscono il numero di 350mila profughi. Nel tentativo di minimizzare l'esodo, in passato Belgrado non era mai andata oltre la cifra di 200-250 mila).

L'ambasciata jugoslava a Roma ha protestato con il nostro governo, che dovrebbe essere rappresentato al raduno dal ministro della Funzione pubblica Giorgio Santuz (Dc), unico titolare di dicastero seppure senza portafoglio proveniente dal Friuli Venezia Giulia.

Perche' queste proteste? "Non lo so, noi non avanziamo alcuna rivendicazione nei confronti della Jugoslavia", assicura Silvio Cattalini, organizzatore del raduno ed esule da Zara. "Certo, nei decenni scorsi c'e' chi ci ha fatto passare tutti per nazionalisti o fascisti. Ma noi vogliamo fare solo un discorso culturale : mantenere viva la memoria sulla nostra tragedia , farla studiare sui libri di scuola. Fra qualche anno, dei protagonisti diretti di quella vicenda non rimarra' piu' nessuno. Ecco, noi vogliamo che la nostra sofferenza non sia cancellata".

A complicare le cose, pero', e' arrivato il Movimento sociale italiano. Il quale ha organizzato per sabato 19, alle sette di sera, un comizio di Giorgio Almirante in piazza Unita'. Gli esuli hanno un concerto nel vicino teatro Verdi alle 18  e usciranno negli stessi momenti in cui il segretario del Msi iniziera' il suo discorso.

"Almirante e' fiero di aver potuto parlare in pubblico per la prima volta proprio a Trieste, nel 1949", spiegano al Msi, "e vuole concludere la sua carriera da segretario con un comizio nella stessa città". Apriti cielo : il consigliere comunale della minoranza slovena a Trieste Alessio Lokar ha protestato per l'adesione del Comune, con il sindaco Giulio Staffieri in testa, al raduno "sciovinista e revanscista" dei profughi.

Il messaggio di Staffieri agli esuli, in effetti, si differenzia da quelli piu' anodini fatti pervenire dal presidente della Regione e da quello della Provincia. Mentre per esempio quest'ultimo definisce l'esodo come "una scelta imposta dalla storia" (frase che fa imbestialire i profughi, ma che si giustifica per la presenza in provincia di Trieste di molti sloveni ai quali dispiacerebbero indicazioni piu' precise), il sindaco si lancia in affermazioni drastiche: "All'emigrazione degli esuli va coraggiosamente dato il nome di esilio, ma noi siamo rimasti qui a mantenere le posizioni di una civilta' che non e' destinata a morire". E poi: "Accanto al rilancio dell'economia , a quello emporiale e scientifico, e' da coltivare o addirittura da anteporre il rilancio dei grandi valori ideali, di cui uno dei piu' alti e sacri e' l'amor di patria".

Patria: una parola che fa venire ancora i brividi di commozione ai profughi (anche perche' la patria e' piu' bella se perduta), ma che suscita sentimenti opposti fra i 30 mila sloveni di Trieste, che non si considerano certo un "avamposto della civiltà" (italiana, latina, occidentale, cristiana) in territorio nemico.

Cosi', a quarant' anni dalla fine della guerra, molti sono ancora gli argomenti che scottano. E anche i gesti: "Finalmente", annuncia per esempio Silvio Del Bello, 53 anni, di Umago, presidente dell'Unione degli istriani, "domenica, per la prima volta , un ministro del governo italiano rendera' omaggio alle vittime delle foibe di Basovizza e Monrupino".

Le foibe sono grotte carsiche, cavita' profonde dentro le quali i partigiani di Tito gettarono circa seimila italiani, spesso ancora vivi: tutti accusati di essere fascisti o collaborazionisti, mentre in realta' in non pochi casi si tratto' di vendette personali. Nella foiba di Basovizza, per esempio, che e' la piu' grande fossa comune d' Italia, sono finiti anche comunisti e soldati neozelandesi.

Pochi i corpi riconoscibili : quando gli alleati scoprirono la foiba, i cadaveri legati l'uno all'altro da fil di ferro erano gia' decomposti. Si conosce solo lo spazio che occupano: 300 metri cubi di ossa.

Ma si sa, fra i crimini di guerra quelli dei vincitori sono sempre i meno gravi. E quindi le vittime delle foibe non hanno ricevuto gli stessi onori degli altri caduti. Anzi, illustri professori di storia, come Giovanni Miccoli ancora nel 1976, si sono esercitati nel bollare come "aberrante" l'accostamento fra due pagine egualmente nere della guerra a Trieste, seppure di segno opposto: le foibe slavo-comuniste e il campo di sterminio nazista della risiera di San Sabba (dove, per ironia della sorte, nel dopoguerra vennero parcheggiati molti profughi istriani in attesa di sistemazione).

Ma chi sono veramente i profughi istriani e dalmati? Cos'hanno fatto in quarant'anni questi nostri 350 mila "palestinesi"?
"A differenza dei palestinesi noi siamo esuli in patria", risponde Del Bello, "e pensiamo di esserci comportati bene: ci siamo sparsi un po' in tutta Italia, abbiamo lavorato duro, ci siamo rifatti una casa".

Alcuni hanno fatto fortuna, come l'industriale farmaceutico Fulvio Bracco, quello del Cebion. Altri sono arrivati al successo: l'attrice Laura Antonelli, nata a Pola nel 1941, il cantante Sergio Endrigo, anche lui polesano, la presentatrice tv Paola Perissi (Processo del lunedi).

Uno che non ha dimenticato e' il celebre violinista Uto Ughi, 43 anni, che sta eguagliando le gesta del suo compaesano piranese Giuseppe Tartini: fa parte del consiglio nazionale dell'Unione degli istriani. Dall' ex zona B vengono lo scrittore Fulvio Tomizza e il pugile Nino Benvenuti, da Lussinpiccolo il comandante Tino Straulino, olimpionico di vela.

Mila Schoen (vero nome Maria Nutrizio, sorella del celebre giornalista Nino, ex direttore della Notte) e' fuggita dalla sua Trau', in Dalmazia, addirittura nel 1923, quando aveva un anno e mezzo. Il padre, farmacista, passo' il confine di notte, perdendo tutto. "Mio padre era un patriota", ricorda lei adesso, "e quando la Dalmazia fini' alla Jugoslavia fu considerato un traditore dagli slavi".

Non pochi sono i dalmati profughi due volte: nel primo dopoguerra quando si rifugiarono a Fiume, Zara o Pola, e poi nel 1947, quando dovettero andarsene di nuovo. Mila Schoen e' sfuggita a questo amaro destino: lei nel 1940 era gia' a Milano. "Sono ritornata per la prima volta a Trau ' sei anni fa, mi ci hanno portata in barca degli amici brasiliani. Sono posti bellissimi, straordinari. Quando sono sbarcata, ho domandato in piazza al primo passante se si ricordava dov'era la farmacia del dottor Nutrizio. 'La farmacia del buon Gigi ? Era quella la'!', mi ha subito risposto".

L' Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia ha sede a Roma: ha assistito 172 mila profughi e pubblica un quindicinale, Difesa Adriatica. Presidente e' Paolo Barbi, europarlamentare democristiano fino al 1984; segretario un prete, padre Flaminio Rocchi. Per le ultime elezioni Difesa Adriatica ha indicato alcuni candidati da votare, tutti Dc (l'olimpionico Abdon Pamich, Uto Ughi e lo zaratino Lucio Toth, eletto senatore) e del Msi. Perche'? "Abbiamo segnalato tutti quelli che ce lo hanno chiesto", risponde padre Rocchi. "L'unico requisito e' essere nati nelle nostre terre. Abbiamo pero' una preclusione verso il Pci, che nel 1947 voleva dare Trieste e Gorizia alla Jugoslavia".

Annunci piu' inquietanti sono pubblicati sul mensile Voce di Fiume: raduni di reduci della Decima Mas repubblichina  incontri al Vittoriale. "I nostalgici ci sono dappertutto", commenta Silvio Cattalini, "ma sono solo una piccola minoranza".

E Missoni, che ne pensa? "Fiol, cos te vol che te diga, mi de politica no me interesso. Io vado in Jugoslavia da 25 anni ogni estate con la mia barca  perche' il vino, il mare, i canti e i tramonti sono sempre quelli. Ma nessuno ha mai pensato di tornare. Io non ho mai avuto odio, ne' allora ne' oggi, verso gli slavi. In fondo, noi dalmati siamo sempre stati sotto qualcuno".

Padrone per padrone, l'unica nostalgia che riesce ad accomunare tutti gli esuli istriani e dalmati e' forse quella per l'impero austriaco di Francesco Giuseppe, che riusci' a far convivere pacificamente marinai e pescatori italiani della costa con i contadini slavi dell'interno. Poi sono arrivati i fascisti. Poi i comunisti. E gli ammiratori degli Asburgo sono aumentati: "Quando governavano loro, profughi non ce n'erano".

Mauro Suttora

Saturday, September 05, 1987

Irangate 2

Europeo, 5/9/1987, pag. 16

Irangate all' italiana, 2

Esclusivo: tutti i documenti del traffico di esplosivi tra il nostro paese e Teheran

Nome in codice: "Operazione Niklas". Protagonisti : cinque grandi produttori di munizioni. E una piccola azienda italiana. Dalle riunioni a Parigi dell'82 alle triangolazioni con Israele e Sudafrica, l' affare è ricostruito in un rapporto top secret. "Europeo" lo svela

di Mauro Suttora - inviato a Stoccolma
Foto di Gianfranco Moroldo

I sette volumi da 700 pagine stanno nella sede delle dogane svedesi , a Sandhamnsgatan 57 , Stoccolma. Contengono i risultati di tre anni di indagini sui traffici illeciti della Bofors Nobel , l' industria bellica svedese che ha contrabbandato armi e munizioni in Iran attraverso Italia e Jugoslavia violando le leggi del proprio paese . Sono atti pubblici : adesso l' inchiesta della magistratura si e' conclusa e il processo si terra' in autunno .

Ma dal rapporto delle dogane mancano i due fascicoli che riguardano Tirrena e Valsella , le aziende italiane che hanno fatto da ponte fra la Bofors e l' Iran . La mannaia del segreto si e' abbattuta su 300 pagine di documenti . Perche' ? " Abbiamo spedito cio' che riguarda l' Italia alla vostra Guardia di Finanza " , spiega il funzionario Ingvar Carlsson , " e qui in Svezia sono pubblici solo i documenti che riguardano direttamente la Bofors . Tutto il resto e' riservato , fa parte della collaborazione fra le dogane degli Stati europei che si scambiano informazioni in base a un trattato del 1953 " .

La Guardia di finanza , a Roma , conferma di star conducendo un' indagine su Tirrena e Valsella . Iniziata dopo aver ricevuto il rapporto svedese ? " No comment " . L' inchiesta , svolta per conto dei giudici italiani , e' coperta dal segreto istruttorio . Segreto in Svezia , segreto in Italia . L' Europeo e' in grado , pero' , di pubblicare i documenti riservati che ci vengono negati dalle autorita' di Roma e Stoccolma . Nel numero scorso , avevamo rivelato la vicenda di un' imponente fornitura di esplosivi all' Iran in cui una ditta italiana si era assunta il ruolo di spedizioniere . In questo numero , ricostruiamo con materiale inedito la storia completa della " connection " Europa Italia Iran (con sconfinamenti in Israele , Sudafrica e Irak) arricchita da nuovi particolari .

Europa unita .
C' e' un funzionario , alle dogane di Stoccolma , che fa dei bellissimi disegnini . Non bisogna tradurre dallo svedese tutte le pagine del rapporto consegnato in maggio da Sivgard Falkenland , capo della sezione criminale delle dogane , per capirne il significato : basta dare un' occhiata alle didascaliche cartine accluse ai verbali degli interrogatori dei dirigenti della Bofors e alle conclusioni degli investigatori . E questo significato e': l' Europa unita esiste . È viva , operosa , solidale . Puo' anche marciare in ordine sparso sulla questione dell' invio di cacciamine nel Golfo Persico , puo' latitare in politica estera o in materia di agricoltura . Ma quando si e' trattato di vendere armi e munizioni all' Irak e all' Iran , l'unita' europea ha funzionato a meraviglia . Anzi , si e' estesa oltre i confini della Cee , inglobando tutta la Scandinavia e perfino la Jugoslavia .

Quella cartina con le frecce che convergono sull' Italia per poi partire verso l' Iran illustra l' affare delle 5 . 300 tonnellate di polvere da sparo M1 fornite da Bofors (Svezia) , Nobel (Scozia) , Snpe (Francia) , Prb (Belgio) e Muiden (Olanda) alla Tirrena di Roma , e da questa riesportate verso Teheran . Valore totale appurato nel rapporto : 315 milioni di sek (corone svedesi) . Cioe' , esattamente i 75 miliardi di lire indicati dall'Europeo la scorsa settimana . Quindi la smentita della Tirrena , che ha parlato di 13 miliardi , non regge : questa cifra si riferisce al totale dei suoi acquisti all' estero.

Non solo polvere .
Ma quello delle 5 . 300 tonnellate e' solo uno dei sei contratti per munizioni che la Tirrena ha firmato nel 1982 con la Ndio (National defence industries organization) iraniana , e ne rappresenta solo un decimo del valore complessivo . In realta' , dal 1982 al 1984 , la Tirrena ha avuto , grazie a regolari licenze concesse dal governo italiano , il quasi monopolio delle forniture di munizioni che partivano dall' Italia verso l' Iran . Polveri ed esplosivi che provenivano in larga parte dall' Italia . Secondo la Tirrena e' stato per ragioni di equilibrio con l' Irak che la ditta romana ha ottenuto tutte quelle licenze per l' Iran . Sei in tutto , abbiamo detto . Una di queste , l' unica di cui l' Europeo possa rivelare i dettagli , ha riguardato per esempio 200 tonnellate di potente esplosivo , il Pentyl (pentastite) Nsp 46 , umido al 25 per cento , arrivato agli ayatollah per un prezzo di quasi due miliardi di lire . Intendiamoci : quelle 5 . 300 tonnellate di polvere da sparo per i grossi cannoni iraniani da 105 e 155 millimetri che bombardano Bassora non sono poca cosa : basti dire che il consumo totale dell' Iran in un anno e' di 4 mila tonnellate . Ma le carte svedesi dicono, lo ripetiamo. che la Tirrena aveva altri cinque contratti con Teheran . E che per diversi di questi l ' Italia ha fornito una sponda compiacente (illegale per la legge svedese ma non per quella italiana) alle " triangolazioni " Svezia Italia Iran , per un valore di almeno 250 miliardi di lire .

Operazione " Niklas " .
Nei documenti sequestrati alla Bofors non si trovano mai i nomi Iran e Irak . Il nome di codice che gli svedesi usavano per l' Iran era " Niklas " , Nicola (vedere documento qui sopra) . L' Irak invece era " Kalle " , Carlo . L' " operazione Niklas " viene discussa durante una cena il 12 settembre 1982 a Parigi fra alcuni rappresentanti del consorzio Easspp (Associazione europea per lo studio della sicurezza di polveri e propellenti) , che riunisce i 13 maggiori produttori di esplosivo dell' Europa occidentale , dalla Spagna alla Finlandia (per l' Italia c' e' la Snia, che pero' dichiara di essersi sempre attenuta ai soli scopi statutari dell' associazione).

La Tirrena , attraverso i belgi della Prb con cui collabora da dieci anni , chiede al cartello i quantitativi di munizioni che non riesce a reperire in Italia . Ma l' interesse e' reciproco : contemporaneamente i produttori europei cercano un' azienda italiana che , viste le maglie larghe delle leggi del nostro paese , faccia da intermediario " legale " per l' Iran , poiche' negli altri paesi le licenze non vengono concesse (non certo per motivi umanitari : la Snpe francese , societa' statale , e' per esempio costretta a seguire la scelta di Parigi di vendere armi all' Irak , di cui e' il secondo fornitore mondiale dopo l' Urss) . Le trattative per celebrare questo matrimonio di convenienza sono pero' lunghe (come mostra il documento qui accanto ) : si trascinano per un anno , dal primo incontro fra Bofors e Tirrena nel marzo 1983 alla firma del contratto per le 5 . 300 tonnellate il 15 marzo 1984 .

Anche qui , la smentita della Tirrena alle nostre rivelazioni della settimana scorsa e' erronea : esattamente come avevamo sostenuto il contratto di fornitura e' del 1984 , non del 1982 . Il dettaglio temporale non e' insignificante. Benche' le esportazioni della Tirrena fossero in regola , proprio in quei mesi del 1984 si dibatteva la necessita' di imporre un embargo del materiale bellico a Iran e Irak . Un dibattito poi sfociato nelle disposizioni dell' allora ministro della Difesa , Giovanni Spadolini .

Un' ulteriore conferma : la garanzia per i pagamenti anticipati della Tirrena viene data dalla Banca nazionale del lavoro il 17 febbraio 1984 . La Snpe fornira' 1 . 800 tonnellate , Nobel e Bofors 900 , Prb e Muiden 850 ciascuna . Il 4 maggio 1984 Mats Lundberg , sales manager della Bofors (adesso imputato nel processo) , scende a Roma per incontrare , nella sede della Tirrena in via del Quirinale 22 , all' angolo delle Quattro fontane , tre persone : il presidente della Tirrena Vittorio Amadasi , la sua assistente Franca , e il capo della Bofors Italia Renato Golinelli.

Riproduciamo l' interessante verbale dell' incontro scritto a mano da Lundberg e poi sequestrato dalla giustizia svedese sopra il riquadro . Il punto 1 riguarda le 5 . 300 tonnellate di polvere e un preteso interessamento del ministro degli Esteri , Giulio Andreotti , al rinnovo della licenza d' esportazione della Tirrena verso l' Iran (vedi il riquadro) . Il punto 2 e' intitolato " Petn " , e riguarda una delle altre forniture della Bofors alla Tirrena . Eccone la traduzione letterale : " Spedire 25 tonnellate il 15 18 maggio . Bofors ne spedira' 50 al piu' presto , il 20 30 giugno . Le manderemo in container , ma c' e' il problema dell' umidita' . Non dobbiamo pagare troppo per il trasporto da Montepescali (la stazione ferroviaria a tre chilometri dal deposito militare di Versegge , Grosseto , ndr) a Piombino " .

Qual e' il problema cripticamente sollevato nell' appunto di Lundberg ? Semplice : se l' esplosivo viaggia per mare , dev' essere umidificato in percentuale diversa dai viaggi in ferrovia , per evitare il pericolo di esplosioni . Ma le dogane svedesi credono che la spedizione della Bofors via terra alla Tirrena restera' in Italia . Come giustificare allora un tasso di umidita' diverso , che tradisce la vera destinazione del materiale ? Probabilmente il problema non venne risolto del tutto , ed e' proprio grazie a questi indizi che la verita' e' venuta a galla .

Altro problema al punto 3 . Titolo : " 30 tonnellate di Petn ' ' plastico' ' " . Nelle quattro righe c' e' scritto : " Metteremo solo 5 kg di plastico in un barile pieno di polvere , per mostrarlo agli iraniani . Il numero del contratto e' : 334 1401 11825 . Telefonare a Franca per dirle il numero del barile " . Qui la Bofors deve fare arrivare in Iran un campione di un altro prodotto , che probabilmente a Teheran vogliono controllare prima di ordinare . Ma poiche' non vale la pena di chiedere una licenza di export (neanche per l' Italia) per un quantitativo cosi' piccolo , si usa un trucco : celare il plastico in un barile pieno di polvere . Alla Tirrena confermano : " Si' , era un plastico con una diversa gradazione di flegmatizzante " .

Rimane un fatto incontestabile : la Tirrena conferma che quel campione venne contrabbandato . L' ultimo punto del verbale , " Nuova licenza di esportazione " , dice : " Il governo (italiano , ndr) e' sotto forte pressione dall' estero (gli Usa , ndr) . Il dr . Amadasi pensa che nessuna nuova licenza verra' concessa " . Si tratta evidentemente di licenze che non riguardano le 5 . 300 tonnellate di polvere , che la Bofors in quel momento e' sicura di poter far arrivare in Iran via Italia . E infatti il 23 agosto 1984 gli svedesi domandano al loro governo il permesso per l ' export delle prime cento tonnellate in Italia . Questa spedizione avviene in due fasi : 50 tonnellate arrivano al deposito dell' esercito di Versegge in settembre , i restanti mille barili da 50 chili l' uno vengono spediti il 27 9 ' 84 . Questa e' la prima ma anche l' ultima spedizione di polvere M1 che la Bofors fa alla Tirrena . Infatti in ottobre la licenza della societa' italiana scade , e non viene piu' rinnovata dal Comitato interministeriale .

Pero' l' annunciato ' ' embargo' ' verso l' Iran non era affatto rigido : sono diverse la aziende italiane che negli anni successivi hanno potuto continuare a rifornire Teheran . La Oerlikon , per esempio , ha avuto il permesso di spedire mitra e cannoni fino al 15 luglio 1987 , sei settimane fa . La Tirrena afferma di essere riuscita a mandare in Iran solo 270 delle 5 . 300 tonnellate pattuite . Di queste solo 50 erano della Bofors . Le altre 50 sono rimaste a Versegge per sette mesi , fino all' aprile 1985 , perche' la Bofors dice la Tirrena ha cercato senza successo di venderle in Italia (vedere telex qui sopra) .

Ma , sulla vicenda del mancato rinnovo della licenza alla Tirrena , a pagina 00141 del rapporto svedese , c' e' un' affermazione sconcertante e che potrebbe contenere un giallo politico . Lo fa , durante un interrogatorio del 12 giugno 1985 , l' ingegnere Carl Nygren , dirigente della Bofors . " Perche' l' Italia non ha rinnovato la licenza della Tirrena per l' Iran ? " , gli domandano gli investigatori . Risponde testualmente Nygren : " Perche' un' azienda bellica pubblica italiana in quel periodo ha una commessa di 11 miliardi di corone (2 . 200 miliardi di lire , ndr) con l' Irak , che chiede in cambio a Roma di sospendere le forniture all' Iran " .

Poiche' non risulta nessun affare Italia Irak di quell' entita' in quel periodo , e' probabile che il riferimento sia al pagamento delle undici navi costruite dalla Fincantieri per l' Irak : navi mai ritirate da Baghdad , per il semplice motivo che ormai gli irakeni hanno perduto tutti i loro porti , ma anche mai finite di pagare .

Sudafrica .
Anche il Sudafrica , come l' Italia , nei primi anni ' 80 , imbottisce di armi e munizioni l' Iran . Nel 1981 , Karl Erik Schmitz di Malmoe (Svezia) , uno dei piu' grossi trafficanti d' armi del mondo , ottiene per la sua azienda di import export Scandinavian Commodities (Scanco) un ordine gigante dall' Iran , del valore di 600 milioni di dollari (1 . 200 miliardi di lire) . Lo confessa lo stesso Schmitz , imputato nel processo Bofors , negli interrogatori . Ma nel 1984 il Sudafrica ottiene a sua volta una commessa militare di 400 milioni di dollari dall' Irak , con la clausola di bloccare l' export verso l' Iran . Schmitz va nei guai : deve ancora consegnare 300 miliardi di lire di polvere all' Iran , e non sa come rimpiazzare la polvere sudafricana . Manna dal cielo : contemporaneo al blocco del Sudafrica , arriva quello dell' Italia , e le due storie si saldano . Schmitz e' ben felice di rilevare dalla Tirrena la commessa per 5 mila tonnellate di polvere da sparo , e sposta gli imbarchi da Talamone al porto jugoslavo di Bar (Montenegro) .

Il nuovo partner di Bofors e soci e' adesso niente di meno che il Direttorato federale dei rifornimenti per l' esercito jugoslavo . Il quale non si limita a mettere a disposizione un deposito , come hanno fatto le Forze armate italiane : fornisce a Schmitz tutta la copertura , come importatore dal Nord Europa e come esportatore verso il Kenya (con falsi certificati di uso finale , per non far bloccare le navi dirette in Iran dagli egiziani nel canale di Suez) . Anche le navi cambiano : non sono piu' quelle iraniane , che attraccavano al porto di Talamone (Grosseto) e che poi erano costrette al periplo dell' Africa per evitare Suez , ma danesi e tedesche . I carghi " Frauke " , " Bentota " , " Katja " e " Othonia " fanno la spola fra la Jugoslavia e Bandar Abbas (vedere la bolla di scarico della Frauke , a pag . 20) . I produttori di munizioni del cartello Easspp sono soddisfatti : si riuniscono a Oxford il 5 febbraio 1985 (pag . 00046 dell' inchiesta svedese) per ratificare il passaggio della commessa dalla Tirrena a Schmitz . Il quale trova il resto della polvere , che il Sudafrica non gli manda piu' , soprattutto in Israele .

Era l' "Italian transaction" (ma la Tirrena nega : " Tutto era in regola , niente ' ' triangolazioni sporche' ' : su quell' affare , che e' stato solo l' 1 per cento del commercio bellico italiano verso il Golfo , noi abbiamo pagato tasse e dogane fino all' ultima lira"). Ora diventa la " international transaction " e arriva all' Iran in varie partite , fino al dicembre 1986 . L' unica cosa che e' cambiata e' il prezzo (telex del 19 8 ' 85 da Schmitz all' Iran) : e' passato nel giro di un anno dai 20 marchi al chilo della Tirrena ai 23 marchi di Schmitz . Tutto aumenta .

Mauro Suttora

didascalie:
Gli iraniani lanciano un missile contro gli iracheni durante la battaglia di Korramshar . A sinistra : l' inchiesta dell ' " Europeo " della scorsa settimana con le rivelazioni sul traffico Italia Iran . A destra : la copertina del dossier sulla Tirrena delle dogane svedesi .
Qui sopra : le due cartine , disegnate da funzionari delle dogane svedesi , sono allegate al rapporto di 5 mila pagine che mette sotto accusa la triangolazione illecita fra Svezia e Iran , passata attraverso l' Italia .
La cartina a sinistra indica l' entita' dei " performance bond " (garanzie per l' esecuzione del contratto) versati dalla Tirrena all' Iran : quasi sei milioni di sek (corone svedesi) , che corrispondono a circa 1 , 2 miliardi di lire . La cartina a destra mostra il flusso delle 5.300 tonnellate di polvere da sparo che la Tirrena voleva vendere all'Iran. Valore totale dell' affare: 315 milioni di corone svedesi (75 miliardi di lire).
A sinistra: gli appunti di Mats Lundberg, sales manager della Bofors, sequestrati in Svezia. Il titolo è "Niklas", nome in codice per l' Iran.
A destra : un riassunto delle trattative fra Tirrena e Bofors per il contratto delle 5 . 300 tonnellate di polvere da sparo . Il " client " di cui si parla e' l' Iran . Al punto 1 , l' indirizzo a cui spedire il materiale : il deposito militare di Versegge (Grosseto) . Al punto 2 , un disaccordo : sia l' Iran sia la Tirrena vogliono incaricarsi del trasporto della spedizione dal porto di Talamone . Al punto 3 , il pagamento anticipato : la Tirrena vuole pagare i produttori dopo ogni partita , la Bofors vuole subito il 10 per cento sul totale del contratto . Lars Jederlund , studioso svedese del commercio d' armi , con i dossier su Tirrena e Valsella .
Qui accanto : il verbale scritto a mano da Mats Lundberg della riunione avvenuta a Roma il 4 maggio 1984 negli uffici della Tirrena . Partecipanti : Vittorio Amadasi , presidente della Tirrena , la sua assistente Franca , " Gol " (nome in codice per Renato Golinelli , rappresentante della Bofors in Italia) e " Lum " (Lundberg , della Bofors Svezia) . Al primo punto , Lundberg scrive che Amadasi avrebbe parlato personalmente con il ministro degli Esteri per ottenere la licenza di esportazione .

Saturday, August 29, 1987

Irangate: dall'Italia armi a Iran e Iraq

Rivelazioni: cosi' il nostro paese spediva migliaia di tonnellate di esplosivo a Teheran

Fino al 1985 , la società Tirrena industriale ha smistato enormi carichi di polvere da sparo per conto dei grandi produttori . Porto d' imbarco : Talamone . Punto d' arrivo :il fronte di Bassora . Dopo quello delle mine , Europeo documenta un altro traffico . all' ombra della legalita' e con l' ospitalita' del nostro esercito

Europeo, 29 agosto 1987

di Mauro Suttora

"La polveriera dell' esercito ? E li', sulla strada per Siena . Bisogna svoltare a destra e andar dentro per un chilometro . . ." La moglie del casellante di Versegge (Grosseto), sulla ferrovia Roma Livorno, ha steso le lenzuola ad asciugare la mattina di Ferragosto . Lei non lo sa, ma quel deposito militare nascosto fra gli alberi adesso scotta : secondo documenti in possesso dell'Europeo, nel deposito dell' esercito italiano a Versegge sono state custodite , almeno fino al 1985 , migliaia di tonnellate di polvere da sparo e di altri esplosivi in partenza per l' Iran.

È la seconda puntata dello scandalo " Valsella Meccanotecnica " , l' ormai nota azienda di Brescia accusata di aver venduto un milione di mine all' Iran . Ma qui c' e' qualcosa di piu' : c' e' la connivenza del governo italiano , che non solo ha concesso licenze di esportazione di materiale bellico per un paese in guerra , ma ha anche custodito questo materiale in una polveriera delle nostre forze armate per conto di una ditta privata italiana e di aziende estere che violavano le leggi dei propri paesi .

Il settimanale francese Evenement du Jeudi e' andato a spulciare fra le 5 mila pagine di un ' inchiesta conclusa qualche settimana fa da Sivagard Falkenland, ispettore capo delle dogane svedesi , traendone le rivelazioni del traffico di esplosivi fra la Bofors Nobel di Stoccolma , la Valsella e l' Iran . Ma in quelle stesse pagine c' e' una seconda pista che riguarda l' Italia . Fra i documenti sequestrati nella sede della Bofors Nobel , infatti , ci sono le prove di un' altra grossa " triangolazione " . Destinazione finale : Teheran . E con due tappe intermedie fondamentali , entrambe in provincia di Grosseto : il deposito di Versegge e il porto di Talamone . Qui le navi dell' Iran sono venute a caricare 5 . 300 tonnellate di polvere da sparo (per un valore di circa 75 miliardi di lire) . Le operazioni sono continuate indisturbate fino al 1985 inoltrato .

Il deposito di Versegge e' enorme : una vera e propria base , immersa in un bosco e recintata da doppio filo spinato . L' ufficiale di grado piu' alto presente nella base e' un giovane sottotenente di leva . Quando gli spieghiamo perche' siamo li' e sente il nome " Iran " sbianca e si rifugia nel segreto militare : " Mi spiace " , risponde , imbarazzato e gentile , " ma io non posso rilasciare dichiarazioni . Si rivolga al comando del distretto , a Grosseto " . Va bene , grazie .

Lunedi' mattina telefoniamo al comandante del distretto di Grosseto . E un colonnello , ma anche lui non dice nulla : " Rivolgetevi al comando territoriale di Firenze " . Ma come , colonnello , possibile che lei non sappia cosa e' passato in quel deposito ? " Ma lo sa che lei potrebbe essere inquisito ? Queste sono notizie riservate , io sabato mattina dopo che mi hanno avvertito della sua visita ho chiamato i carabinieri . Lei in quella strada non poteva entrarci , l' ubicazione del deposito deve rimanere riservata . Anzi , lei non deve neanche sapere che esiste , quel deposito . Se avesse preso delle foto la avremmo arrestata " .

Andiamo piu' su . E a Roma , al ministero della Difesa , finalmente confermano : " Si' , le forze armate possono temporaneamente custodire materiale esplosivo di societa' private " . E a Grosseto ? " Ragioni di riserbo impediscono di fornire ulteriori indicazioni . Comunque rispettiamo gli embarghi decisi dal governo " .

È tutta colpa dell' ingegnere svedese Ingvar Bratt se siamo andati a dare fastidio ai militari di Grosseto . E stato lui , qualche mese fa , a convertirsi al pacifismo e a spifferare alla Spaas , la potente associazione antimilitarista svedese , tutti i segreti dell' azienda dove lavorava : la Bofors Nobel , specializzata nel fabbricare esplosivi . Ne e' nato un grosso scandalo : inchiesta , perquisizioni , interrogatori , arresti . Come , la pacifica e neutrale Svezia esporta cannoni e dinamite verso l' Iran , paese in guerra , violando le proprie severissime leggi sull' export bellico di cui andava tanto fiera ? Sissignori , la Bofors si e' macchiata di questo reato . L' amministratore delegato e' stato cacciato , i 4 . 700 dipendenti tremano . C' e' di mezzo anche un morto : il contrammiraglio Karl Fredrik Algernon , spappolato sotto un treno della metropolitana di Stoccolma in gennaio . Omicidio o suicidio ? Di sicuro c' e' solo che Algernon era il responsabile delle licenze per le esportazioni di armi , che era accusato dai pacifisti di essere complice dei traffici illegali della Bofors , e che un' ora prima dell' incidente aveva avuto un tempestoso colloquio col direttore dell' azienda svedese incriminata .

Ma ecco come risulta la pista italiana dai documenti della Bofors Nobel . Siamo nel 1984 . In Italia e' perfettamente legale vendere armi sia all' Iran sia all' Irak . Nel concedere licenze d' esportazione a mucchi il nostro ministero degli Esteri sta attento solo a una cosa : usare bene la bilancia , per non scontentare ne' Bagdad ne' Teheran . Unico divieto : quello di fornire agli ayatollah materiale elettronico particolarmente sofisticato , definito " di importanza strategica " . Piu' che altro per paura che finisca in mano ai russi , e solo perche' e' un divieto imposto dagli Stati Uniti .

Per il resto , gli affari dell' industria bellica italiana vanno a gonfie vele : superiamo di slancio la Gran Bretagna e ci piazziamo al quarto posto fra gli esportatori d' armi mondiali dopo Usa , Urss e Francia . Un' azienda di Roma , la Tirrena Industriale (sede in via del Quirinale 22 , stabilimento a Pomezia , 130 dipendenti , specializzata nella produzione di parti metalliche per munizioni) , rifornisce l' Iran di munizioni complete e di polvere da sparo . Ha le licenze in regola , un rappresentante a Teheran , buone entrature al ministero degli Esteri . Ma quando Sazemane Sanaye Defa , l' Organizzazione delle industrie della difesa iraniane , le richiede 5 . 300 tonnellate di polvere da sparo per i suoi cannoni (made in Usa) M4A2 da 155 millimetri e per gli howitzer da 105 , capisce che non ce la puo' fare da sola .

La Snia Bpd e la Sipe di Milano , le piu' grosse produttrici di polvere da sparo in Italia , sono sovraccariche di ordini . Dove rivolgersi ? Entra allora in campo un consorzio europeo di fabbricanti di esplosivi , lo stesso che e' stato partner d' affari della Valsella , e che ha un nome chilometrico : Easspp (Associazione europea per lo studio dei problemi di sicurezza di polveri e propellenti) . Le aziende del consorzio hanno un grave handicap : i loro governi sono piu' severi di quello italiano nell' impedire esportazioni belliche verso paesi in guerra . Ma possono risolvere ogni problema se vendono il loro prodotto a una societa' italiana , la quale poi a sua volta soddisfa il cliente iraniano . Insomma , per anni proprio l' Italia e' stata il lato " sporco " dei triangoli che permettono di aggirare i divieti all' export d' armi verso i paesi belligeranti . Il contratto viene firmato il 15 marzo 1984 .

Con perfetto spirito europeista la Tirrena Industriale acquista 5 . 300 tonnellate di polvere da sparo per i cannoni degli ayatollah suddividendo equamente gli ordini fra la francese Snpe (Societe' nationale des poudres et explosifs) , la scozzese Nobel explosives , la svedese Bofors Nobel , la belga Prb e l' olandese Muiden (vedere una copia dell' ordine nella pagina precedente) . Il prezzo e' in marchi tedeschi : attorno ai venti marchi per chilo , per un totale di circa 75 miliardi di lire . Il pagamento avviene in due fasi : il 10 per cento e' anticipato , con garanzia della Banca nazionale del lavoro (documento del 17 2 84) , il resto alla consegna . E , per la consegna dei vari lotti (uno al mese per venti mesi) , l' indirizzo che i produttori stranieri devono mettere sui vagoni ferroviari pieni di polvere da sparo e' questo : Tirrena Industriale , c/o Deposito militare , 58035 Versegge (Grosseto) , Italy (documento del 15.3.84) .

Perche' un deposito dell' esercito italiano ? Semplice : perche' tutti i produttori d' armi italiani fanno custodire e collaudare il materiale destinato all' estero dalle nostre forze armate . Anche quando l' acquirente si chiama Khomeini . O Gheddafi : centinaia di cannoni e obici dell' Oto Melara , per esempio , sono stati puliti , controllati e messi a punto dai soldati italiani prima di essere spediti in Libia , nostro potenziale nemico . Le spese di immagazzinamento e " guardieria " non sono elevate , anche perche' di solito le aziende sono le uniche fornitrici del nostro esercito . E questo spesso si ritiene soddisfatto semplicemente dal poter utilizzare una parte delle munizioni o delle armi per le proprie esercitazioni : un pagamento in natura , insomma .

Qualche disaccordo invece c' era stato sulle modalita' di pagamento fra la Tirrena Industriale e i suoi fornitori : loro volevano l' anticipo del 10 per cento subito , su tutto il valore del contratto , gli italiani invece lo volevano scaglionare al ritmo delle consegne mensili (documento del 2 11 83) . Alla fine ha avuto la meglio la Tirrena . Fortuna per lei . Perche' l' estate 1984 , ricordate ? , e' quella della spedizione dei nostri cacciamine a ripulire il Mar Rosso . E li' cominciano i guai per l' export allegro verso l' Iran e l' Irak : sull' onda delle proteste dell' opinione pubblica il governo stringe la corda e non rinnova piu' le licenze verso i due paesi in guerra .

Ma la licenza della Tirrena Industriale e' valida fino all' aprile del 1985 , e non viene revocata . Ogni mese , tranquillamente , arriva un carico di 300 tonnellate a Versegge (vedere il telex della Bofors a pag . 117) . E dopo qualche giorno la polvere da sparo per i cannoni che bombardano Bassora percorre i 40 chilometri che separano Versegge da Talamone , il famoso porto che detiene il quasi monopolio dei trasporti bellici dall' Italia per l' estero . Li' la aspettano navi iraniane che la caricano e la portano a Bandar Abbas . Contemporaneamente da Talamone partono , nel 1985 , anche i carichi per l' Irak . Ma siccome Bagdad non possiede una flotta , non ha porti , e poiche' in ogni caso le sue navi verrebbero facilmente individuate e bombardate dagli iraniani nello stretto di Hormuz , armi e munizioni italiane per l' Irak hanno sempre viaggiato su navi terze . Se poi si trattava di traffici " sporchi " , provenienti cioe' da paesi che avevano dichiarato l' embargo , allora entravano in gioco gli armatori danesi , pronti a ogni avventura .

Scaduta la licenza la Tirrena non puo' piu' far fronte ai propri impegni (documento del 3 4 85) . Nessun problema per i fornitori nordeuropei : smistano il traffico sui porti della Jugoslavia e su navi tedesche e danesi (bolla di scarico a Bandar Abbas del 21 4 85) . Ma sul conto della Banca nazionale del lavoro restano bloccati alcuni miliardi : gli anticipi delle ultime partite arrivate a Versegge ma mai potute partire da Talamone . " Quei nostri soldi sono ancora li " , si lamentano alla Tirrena , " anche se l' inadempienza non e' colpa nostra : e' stato un ' ' fatto del principe' ' , com' e' scritto in inglese sulle polizze di carico per indicare un intervento politico " .

Adesso nella rada del porticciolo toscano , che accoglieva navi dalle piu' svariate bandiere , tutte affamate di armi made in Italy , c' e' il deserto . O meglio : c' e' il pieno , ma di motoscafi e barche turistiche . Le due gru gialle sono inoperose . Restano attraccate al molo , vuote , due chiatte gemelle che facevano la spola fra il piccolo molo e le navi piu' grosse che non potevano entrare in rada .

Una si chiama Dina , e l' altra , ovviamente , Mite . Un delicato gioco di parole che la dice lunga sul tipo di trasporti effettuati dai due natanti . Le ragioni di questo crollo dell' export sono due : la stagione estiva e il decreto Formica del 2 dicembre 1986 . Quest' ultimo accadimento , paragonato alla peste da tutti i fabbricanti ed esportatori d' armi italiani , ha fatto cadere verticalmente le nostre esportazioni belliche , perche' ha imposto controlli e condizioni severissimi per il rilascio delle licenze .

Ecco , questo e' il racconto di uno dei tanti business con l' Iran come quello della Valsella e molti altri che possono essere scandali solo in Svezia . Perche' fino a due anni fa migliaia di italiani hanno lavorato , guadagnato e mangiato vendendo armi e munizioni , mine e polvere da sparo , sia all' Iran sia all' Irak . Equamente . E in regola con tutti i timbri e tutte le leggi . Se non con quelle della morale , per lo meno con quelle dell' Italia .

Mauro Suttora

Saturday, July 04, 1987

La masturbazione

IL PIACERE E' TUTTO MIO

Europeo, 4 luglio 1987

La paura dell' Aids rilancia il piu classico degli anticoncezionali. Quando l' amore non prevede partner.

Anatemi . Condanne . La masturbazione non ha mai avuto vita facile . Finora . Perche' oggi ha perfino i suoi templi

di Mauro Suttora

I piu' rapidi sono i cervi maschi : sfregano le punte erogene delle loro enormi corna contro un cespuglio e dopo 15 secondi arrivano all' erezione e all' eiaculazione . Il leone si sdraia sulla schiena e usa le zampe posteriori . Gli elefanti si toccano con la proboscide . Le scimmie invece hanno ampia scelta : mani , piedi , bocca , coda . E l' animale uomo ? Lui si vergogna ad ammetterlo , ma la masturbazione lo accompagna per tutta la vita : il rapporto Hite sul sesso degli americani da' un 99 per cento di uomini dediti all' autoerotismo e un 82 per cento di donne . La quasi totalita' delle signore intervistate arriva in questo modo all' orgasmo (assai poco garantito invece dalla penetrazione) , e in fretta anche : la maggioranza ci mette meno di quattro minuti .

Inventata , secondo la leggenda , da Pan , dio greco della natura , passata attraverso secoli di dura repressione (i confessori cattolici della Controriforma comminavano fino a quattro anni di penitenza per questo peccato) , la masturbazione da qualche anno e' stata rivalutata (Aids oblige) come pratica di sesso sicuro . E non solo fra i gay degli Stati Uniti , che da tempo la promuovono e la consigliano nei loro club privati .

A Parigi da poche settimane e' attivo il circolo " Jack off " , primo club di masturbazione collettiva in Europa . Attrae anche piu' di cento clienti per seduta , ed e' gestito dall' associazione Sante' et plaisir gai . Ci si ritrova in un locale la domenica pomeriggio , e in cambio dei 50 franchi del biglietto (11 mila lire) ci si puo' scatenere in ogni forma di masturbazione solitaria o reciproca . Autorizzati anche le carezze , i baci in superficie e i mordicchiamenti . I gestori forniscono fazzoletti di carta e vasetti di lubrificante , ma proibiscono gli scambi di liquidi corporali (saliva compresa) , fellatio , sodomia e altri giochi spinti . " Pero' non dobbiamo intervenire quasi mai " , assicura Jacques , il proprietario .

Sicuramente un' iniziativa come quella di Parigi avrebbe successo anche in Italia . Il mensile gay Babilonia , infatti , nel numero di giugno pubblica i risultati di un sondaggio sulle preferenze sessuali dei propri lettori . Ebbene , sono in 413 (su 800 risposte ) a inneggiare alla masturbazione , mentre il rapporto orale raccoglie appena 315 seguaci , e solo 183 la penetrazione .

Ma passiamo agli eterosessuali . Anche qui , le inchieste sulle abitudini degli italiani non si discostano da quelle americane : perfino i ritrosi veneti dichiarano (otto su dieci) di praticare il " vizio solitario " . E nell' indagine condotta lo scorso marzo dall' Europeo sui peccati piu' frequentemente confessati nel nostro paese , i 700 sacerdoti interpellati hanno messo la masturbazione al primo posto assieme all' adulterio . Insomma , che abbia ragione lo psicanalista tedesco George Groddeck che nel suo Libro dell' Es ritiene il coito , e non la masturbazione , il vero surrogato sessuale ?

" Non possiamo considerare surrogato una pratica che incomincia col trastullo inconsapevole del neonato , e che spesso continua anche durante l' atto sessuale ' ' normale' ' , quando la vagina e il pene non fanno che sostituirsi alla mano o al dito " , sostiene Groddeck . L' autoerotismo , pero' , e' ancora circondato dal pregiudizio . Anche perche' la Chiesa cattolica continua a condannarlo : nel 1975 e nel 1983 il Vaticano ha ribadito che la masturbazione e' un " atto gravemente disordinato " .
Eppure , non aveva la regina Elisabetta I ribattezzato la masturbazione femminile " bastione della verginita " ? E anche i sacerdoti interrogati dall ' Europeo sono inclini a minimizzare : solo il 23 per cento di loro ritiene la masturbazione un peccato molto grave , contro un 82 per cento di condanna totale per l' adulterio e un 58 per cento per il divorzio .

Ciononostante , quando proprio si deve pronunciare quella parola , la si sussurra timidamente , mentre i sinonimi regionali come pippa , sega , menata sono utilizzati come peggiorativi in ogni campo . Quanto alla parola " onanismo " , non si capisce perche' continui a essere usata come elegante equivalente della masturbazione : il personaggio biblico Onan , infatti , fu colpito da Dio perche' disperdeva il seme praticando il coito interrotto , e non l' autoerotismo .

La disapprovazione verso quello che Giulio Cesare definiva " maestoso passatempo " (preferendolo a volte perfino alla prediletta sodomia) non potra' tuttavia che diminuire in quest' epoca di pericoli connessi all' Aids . " Giochi di mani , giochi di domani " , e' la facile previsione di un libro appena scritto dal francese Andre' Bercoff , Les blessures d' Eros (Le ferite di Eros) . Il quale continua , ammiccante : " Bisognera' presto riscrivere la dichiarazione dei diti dell' uomo . . . " . E nell' attesa consiglia : " Manualizzatevi " .

In Italia il primo a infrangere il tabu' e' stato nel 1972 il film Ultimo tango a Parigi , replicato negli anni Ottanta da Monica Guerritore che soddisfa anch' essa un suo partner armeggiando compunta con le mani sotto la tovaglia di una tavola apparecchiata e affollata di commensali . Ma anche Lucio Dalla , in campo musicale , e' arrivato prima delle accurate descrizioni letterarie di Alberto Moravia nella Vita interiore : " Mi sono steso sul divano/ E piano piano e' partita la mia mano " , concludeva dieci anni fa la sua canzone Disperato erotico stomp .

Qualche anno dopo ha affrontato il medesimo argomento Gianna Nannini , che nel suo primo hit , America , magnifica gli orgasmi autogestiti della masturbazione femminile : " Ed ognuno ha il suo corpo a cui sa cosa chiedere " . Piu' vizioso Vasco Rossi , che in Alba chiara inizia innocuo , rivolto a una tredicenne : " Cammini per strada coi libri di scuola mangiando una mela ti piace studiare " , ma che poi lancia li' con la sua voce ambigua : " Qualche volta fai pensieri strani/ con una mano ti sfiori tu sola nella tua stanza/ e tutto il mondo fuori " . Il buon Vasco , comunque , non ha mai emulato Jim Morrison , il cantante dei Doors che fini' in prigione per essere passato a vie di fatto (su di se) durante un concerto .

Mauro Suttora

Saturday, June 06, 1987

Etica dei professionisti


Medici, avvocati, ingegneri: quali sono i loro dilemmi etici?

di Mauro Suttora

Europeo, 6 giugno 1987

Medici

Luigi Rainero Fassati, professore al Policlinico di Milano, mette al primo posto dell'etica medica la preparazione professionale: "È la base di tutto: un buon medico dev'essere soprattutto un medico bravo. In questo senso, i piani di studio riformati che entreranno in vigore fra un paio d' anni nelle università faciliteranno la qualificazione, con più pratica e meno teoria. Poi c'è il rapporto medico paziente.  È ora di finirla con gli atteggiamenti di superiorità: il medico è un professionista come un altro, e deve restare su un piano di parità con il suo paziente. Deve dirgli la verità sulla sua malattia, naturalmente con tatto, ma senza ammantarsi di mistero. Altrimenti i malati continueranno a essere ingannati, e non per questo staranno meglio". 

E la genetica ? La fecondazione artificiale ?
"Sono grandissimi problemi che fanno sconfinare la medicina in altri campi, che non sono più suoi".

Parliamo di soldi.
"Gli stipendi della struttura sanitaria pubblica (servizio che deve continuare assolutamente a essere garantito a tutti i cittadini) devono naturalmente permettere una vita decorosa ai medici. Ma io sono per la meritocrazia: guadagni di piu' il medico più bravo, senza posti di primario, di aiuto o di assistente garantiti a vita". 

Avvocati

Alberto Dall'Ora, illustre penalista milanese, ex difensore (con successo) di Enzo Tortora e attualmente parte civile contro la modella Terry Broome, riprende le fila del secolare dibattito sull'etica dell'avvocato: "Purtroppo in Italia c'è ancora la tendenza a guardare con sospetto chi difende imputati di delitti gravi, come quelli mafiosi o di violenza carnale. Li si considera complici, avvocati della mafia, 'avvocati del delitto'. E invece sono solo i necessari difensori di persone che, fino alla condanna, non si possono considerare colpevoli o innocenti. Io comprendo l'esigenza di lottare contro il crimine, ma ad esempio le condizioni di lavoro per i difensori nei maxiprocessi sono proibitive". 

Sì, però è dimostrato che mafia e camorra si avvalgono dei servizi "giuridici" di parecchi avvocati. 
"Il fenomeno del 'consiliori' è un altro discorso: c'è sempre stato, ed è giustamente punito come concorso in reato". 

Ma c' e' un confine, per gli avvocati? 
"Siamo in mezzo all' eterno conflitto : da una parte l'interesse del cliente , dall'altra quello della giustizia. E, spesso, per noi è crisi di coscienza". 

Jacques Verges, il difensore del nazista Barbie, non sembra averle. 
"Non conosco il suo caso. Ma ogni avvocato è punibile se scade nell'apologia dei reati dell'imputato". 

Ingegneri

Silvio Terracciano è il presidente del consiglio nazionale dell' Ordine degli ingegneri (86 mila iscritti): "Il primo problema etico, per noi, è quello di non fare illecita concorrenza ai colleghi : non possiamo accettare incarichi che vengano retribuiti al di sotto delle tariffe professionali. Inoltre, quando un ingegnere si sostituisce a un altro nel corso di un'opera, deve informare il collega a cui subentra, per evitare di usufruire di un lavoro intellettuale già svolto. E poi, non è lecito approfittare di una particolare situazione per ottenere un incarico. Per esempio, un ingegnere che lavora a un piano regolatore non può contemporaneamente avere rapporti con un privato".

E la sovracementificazione? In giro si vedono tanti di quei bunker che sorge un sospetto : ingegneri e cementieri sono buoni amici? 
"Per quanto riguarda la sicurezza, i controlli dei collaudatori statici escludono ogni rischio. Per il resto, è una questione di gusti".

E i partiti politici ? 
"La lottizzazione è insopportabile. La spartizione nelle commissioni di collaudo è tale che, per esempio, in Campania recentemente ne è stata nominata una con 14 membri : tre avvocati, quattro ragionieri, altri signori, e un solo ingegnere". 

Mauro Suttora 

Saturday, April 25, 1987

Jugoslavia spaccata: Slovenia e Croazia

LA LEGA DEI CONSUMISTI

Europeo, 25 aprile 1987

Inchiesta: i paesi dell'est nell'era di Gorbaciov.
Benedetta primavera/Jugoslavia, i figli di Tito non sono tutti uguali

I friulani che affollano il casinò di Nova Gorica. Lubiana l'austriaca. Zagabria la mitteleuropea. Nel ricco Nord della federazione c'è un modo per battere la crisi. Spendere

di Mauro Suttora

"Vincitrì! Diopoi, atu viodut?" ("Ventitre! Diobuono, hai visto?"). La pallina della roulette si è fermata sul 23. Il grifagno croupier sloveno spazzola impassibile il tappeto verde. E il friulano trentenne col giaccone di similpelle invoca Dio dopo aver perso tutti i gettoni. Il casinò di Nova Gorica è il più economico d'Europa. Si entra in jeans, senza cravatta, basta pagare 5mila lire. Arrivano soprattutto gli arricchiti friulani: commercianti di Udine, mobilieri di Manzano, contadini scesi dalle valli del Natisone.

Nessun jugoslavo: "Per noi i giochi d'azzardo sono vietati", mi spiega Ales Komavec, dirigente della sala da gioco. L'idea di aprire un casinò "strangers only" è venuta un anno fa ai 400 dipendenti della Hit, una delle migliaia di imprese autogestite jugoslave. Hit sta per "Hoteli, igralnica, turizem", igralnica vuole appunto dire casinò. È una specie di azienda di soggiorno, della parte slovena di Gorizia (22 mila abitanti, mentre la città italiana ne fa 55 mila), che gestisce tre alberghi e molti negozi. Risultato: un successo strepitoso, pienone tutte le sere.

Komavec non vuole fornirci i dati degli incassi, ma ci fa capire che gli affari vanno a gonfie vele. Vanno così bene che da un anno all'altro con i soldi degli italiani i dipendenti della Hit si sono raddoppiati gli stipendi. Adesso un croupier, mance comprese, arriva a guadagnare l'equivalente di un milione di lire. Poco, in confronto ai tre-sei milioni al mese dei colleghi italiani. Ma molto rispetto alla media jugoslava.

Cominciamo il nostro viaggio nella Jugoslavia della crisi da Nova Gorica, da questa isola felice dove l'autogestione permette ai dipendenti di un'azienda, se gli affari vanno bene, di aumentarsi subito gli stipendi. E di litigare fra loro: infatti ai 75 lavoratori del casinò non piace dividere il guadagno con gli altri 300 colleghi, baristi o cameriere della Hit, che le fiches non le hanno mai viste.

Alla frontiera di Gorizia ci si accorge subito del salto di ricchezza fra Italia e Jugoslavia: fino a pochi anni fa per comprare un dinaro ci volevano trenta lire, adesso ne bastano due. Ma ormai anche quello ufficiale è un tasso arbitrario: al mercato nero lira e dinaro si cambiano alla pari. Più che confine fra Est e Ovest, questo è oggi un confine con il Medio Oriente.

Certo, la Slovenia è di gran lunga la più ricca fra le repubbliche jugoslave, e la sua aspirazione a entrare nella Cee non è campata in aria: ha un reddito pro capite superiore a quello della Grecia, pari a quello spagnolo. Ma la zavorra del Sud (Macedonia, Kosovo) e i costi della burocrazia tirano giù anche le efficienti Slovenia e Croazia.
La Jugoslavia è, insomma, un Paese diviso in due. Nessuna meraviglia, allora, se il razzismo interjugoslavo aumenta, se gli sloveni considerano "turchi" macedoni e albanesi, e se spesso i numerosi immigrati bosniaci vengono presi a sassate.

Gorizia è la nostra piccola Berlino. Dal 1945, dopo la guerra persa dall'Italia, il confine jugoslavo ha incorporato la stazione e alcuni quartieri periferici. Nova Gorica, a Est, è una città nuova, costruita negli ultimi decenni, con molto verde e palazzi alti. Al centro, vicino al casinò, ci sono un'isola pedonale e un centro commerciale che potrebbero sembrare scandinavi se l'incuria balcanica non facesse invecchiare tutto precocemente.

La frontiera di Gorizia è sempre la più aperta fra le due Europe, sembra quasi di passare dall'Olanda al Belgio: niente filo spinato, solo una tranquilla cancellata verde alta due metri. Agli abitanti locali non serve il passaporto e neanche la carta d'identità: per andare a far benzina (700 lire in Jugoslavia) basta la "propusniza", un lasciapassare che permette un viavai continuo. Adesso poi, con i nuovi numeri nero su bianco, le targhe delle macchine italiane si confondono con quelle slave: GO per Gorizia, GO per Nova Gorica. C'è solo una stellina rossa in più sulle targhe jugoslave. La vera differenza sta nella cilindrata: al di là del confine sono le R4, le 126 e le vecchie 600 a farla da padrone.

Prendiamo la corriera per Lubiana, capitale della Slovenia. Il pullman è pieno di studenti, contadine e soldati di leva col cappottone fuori misura. La radio trasmette cronache entusiaste per le imprese degli sciatori jugoslavi alla Coppa del mondo di Sarajevo, inframmezzate da canzoni dei Dire Straits. Alcuni tratti della strada statale sono in pavé e cemento: un lascito dell'impero austriaco? Una delle prime ferrovie del mondo fu, nel 1848, proprio quella fra Vienna e Lubiana, allora capitale della provincia della Carniola. Oggi invece gli sloveni accarezzano il progetto del traforo autostradale sotto le alpi Caravanche, per collegare Lubiana a Klagenfurt. E in genere vanno in visibilio per tutto ciò che li unisce al Nord austriaco, italiano e anche bavarese.

È una questione molto delicata: Stane Kavcich, allora capo del governo sloveno, fu vittima dell'ultima purga del maresciallo Tito negli anni Settanta proprio perchè accusato di "voler annettere la Slovenia alla Cee e alla Baviera di Strauss". Niente da fare: i due milioni di sloveni, orgogliosi della propria lingua (una delle quattro ufficiali della Jugoslavia, con croato, serbo e macedone), continuano a fare di testa loro. C'è bisogno di uno slogan turistico? Eccolo subito pronto, fatto apposta per suscitare le ire dei meridionali: "Slovenia, terra a sud delle Alpi". C'è una rassegna teatrale? La organizza la comunità Alpe Adria, che unisce Slovenia e Croazia alle austriache Stiria e Carinzia, al Friuli, al Triveneto e alla Baviera.

Boschi, boschi e boschi: le valli attorno a Lubiana sono tutte verdi, ma le conifere anche qui sono rovinate dalle piogge acide. La Jugoslavia alla frontiera regala all'Italia un Isonzo limpidissimo, verde azzurro. Ma l'acqua è meglio non berla, perchè anche in Slovenia le industrie scaricano nei fiumi. I duecentomila abitanti di Lubiana, poi m, sono particolarmente sfortunati, perchè la loro città sorge in una conca poco ventosa: sono costretti a respirare una miscela micidiale di nebbia e carbone, ancora molto usato per il riscaldamento.

Lubiana non è in Jugoslavia. Lubiana è in Austria. I 500 anni di dominio asburgico pesano più degli ultimi 70 di faticosa unione con gli jugoslavi, letteralmente "slavi del Sud". L'architettura del centro cittadino profuma di Mitteleuropa, i marciapiedi sono puliti più che a Trieste. Nessuna minaccia separatista, intendiamoci, e poche nostalgie per l'imperatore Francesco Giuseppe. Il quotidiano principale della Slovenia, Delo, esibisce sulla testata il motto marxista "Proletari di tutto il mondo unitevi", e non c'è traccia di opposizione politica esterna al partito unico.

Ma quelle vetrine con i completi di Missoni nella via principale, quei locali con i nomi americani, quei film e quei libri alla portata di tutti, perfino quelle facce di borghesi grassi che mangiano allegri al ristorante Privitezu ci dicono tre cose: primo, che è lontana l'epoca dell'hotel Slon, dove gli agenti segreti di Tito controllavano gli stranieri; secondo, che i comunisti sloveni stanno vivendo una fervida stagione di ripensamenti ideologici; terzo, che la bancarotta jugoslava tocca solo marginalmente il Nord.

"Vuoi capire il succo del problema oggi in Jugoslavia?", mi chiede Sreco Zajc, giornalista del settimanale frondista Mladina al tavolo del fumoso bar Union pieno di giovani.
"Guarda quei due tavoli". In uno ci sono due militari di leva, "meridionali", capelli corti, sguardo smarrito, figli di contadini. A quello vicino è seduta una coppia di universitari di Lubiana. Alteri, belli, biondi, uguali a tutti gli universitari di questo mondo, con i loro occhiali e le loro sigarette.
"Ecco la differenza: mentre la Slovenia è già arrivata alla quinta generazione di lavoratori industriali, le altre repubbliche sono alla prima o alla seconda. Naturale che gli sloveni siano insofferenti. Il governo di Belgrado non può adottare le stesse misure per tutta la Jugoslavia. Qui da noi, per esempio, non c'è disoccupazione. Il rischio è che per salvare il paese dal collasso economico Belgrado adotti le maniere forti".

Loredana Panariti, ricercatrice italiana di storia all'università di Lubiana, vorrebbe una semplificazione della burocrazia: "La mia pratica per la borsa di studio è andata avanti da aprile a settembre, ho dovuto raccogliere una quantità inverosimile di documenti". Il compagno di Loredana si chiama Lloyd, ha 28 anni, viene dal Montenegro e ha gli occhi azzurri: "Mio padre mi ha chiamato così in onore del premier inglese Lloyd George".
Gli inglesi sono stati i migliori alleati dei partigiani di Tito nell'ultima guerra, e Tito li amava più dei sovietici. La storica rottura con Stalin, nel 1948, avvenne anche per una frase dell'allora primo ministro Milovan Gilas (che dal 1954 ha rotto con Tito e ha fatto otto anni di prigione): "Gli ufficiali inglesi hanno più senso morale di quelli russi".

Lloyd lavora come chimico al laboratorio dell'università e ha un ottimo stipendio: circa 600mila lire italiane al mese. L'università esegue lavori per l'industria, anche estera, e a Lloyd la Bosch tedesca aveva proposto di andare a fare rilevazioni in Algeria. Lui ha rifiutato "perchè qui guadagno di più". Infatti i prezzi sono bassi, e gli orari (si lavora dalle sette alle tre del pomeriggio) permettono una miriade di doppie attività: non si spiega altrimenti la pazienza di un Paese dove il reddito reale si è dimezzato negli ultimi otto anni.

A Lubiana poi ci sono anche molti ricchi: alcuni papaveri della nomenklatura, ma soprattutto i negozianti e gli artigiani che hanno un'attività privata. Al venerdi pomeriggio prendono la Mercedes e vanno nel "vikend", che sarebbe la villa per i week end, sulle Alpi o al mare in Istria. Se sono giovani, la sera vanno a ballare nella discoteca Valentino, immersa nel verde del parco Tivoli, oppure fanno viaggetti a Graz e in Italia. Parlano tutti un ottimo inglese, che i licei jugoslavi insegnano meglio di quelli italiani. Obbligatori anche una seconda lingua straniera, un'altra lingua nazionale jugoslava e l'alfabeto cirillico (usato in Serbia, Montenegro e Macedonia).

Le mete più pubblicizzate dalle agenzie di viaggi sono Fatima e "Lurd": in Slovenia (e Croazia) dopo 40 anni di ateismo ufficiale ci sono un 80 per cento di credenti e un 60 per cento di praticanti. Le chiese sono affollate, alla domenica offrono tre messe pomeridiane: alle quattro, alle sei e l'ultima alle nove e mezzo.

"Sacrifici? Certo: compro meno libri, non posso permettermi il personal computer, niente nuova macchina, pochi viaggi", dice il giornalista Zajc. "Ma sono felice di vivere in Slovenia, non c'è paragone con il resto della Jugoslavia. Politicamente, poi, rispetto a tre anni fa qui il cambiamento è enorme: non c'è più paura di esprimere le proprie idee, la gente scrive lettere ai giornali..."

Zagabria

I 120 chilometri di treno in prima classe fra Lubiana e Zagabria costano duemila lire. Nella stretta valle della Sava passano l'Orient Express e tutti i treni internazionali. A Krsko, vicino alla frontiera fra Slovenia e Croazia, la ferrovia lambisce l'unica centrale atomica jugoslava. Poco prima della catastrofe di Chernobyl il governo di Belgrado aveva deciso l'acquisto dall'Unione Sovietica di quattro centrali di quello stesso modello, il cui sistema di raffreddamento è d'altronde prodotto da un'impresa jugoslava, la Energoinvest della Bosnia. Decisione improvvida, e quindi rimasta segreta. Così come segreto era il piano di localizzazione delle 11 centrali jugoslave, reso pubblico a fine marzo dal settimanale zagabrese Danas: tre in Dalmazia, sul mare, le altre tutte in prossimità della Sava.
"La cooperazione tecnologica con l'estero", avverte in proposito Sreco Zajc, "è importantissima per la Jugoslavia. Se si dovesse rafforzare il legame con l'Urss, settori delicati di ricerca avanzata cadrebbero sotto il segreto militare, rafforzando il potere dell'esercito. È anche per non avere una ricerca mi mlitarizzata che vogliamo aderire al progetto Eureka dell' mEuropa occidentale".

Al confine fra Slovenia e Croazia il treno si ferma in mezzo alla campagna per cambiare locomotiva: rito assurdo e ineluttabile che si ripete a ogni frontiera delle sei repubbliche e due regioni autonome che compongono la Jugoslavia . La vecchia stazione imperialregia di Zagabria è in rifacimento, ma tutta la città è un cantiere. In luglio infatti la capitale della Croazia ospiterà le Universiadi, e questo per la Jugoslavia è un avvenimento importantissimo, paragonabile solo alle Olimpiadi bianche di Sarajevo del 1984.

Lo scoiattolino azzurro , simbolo delle Universiadi, occhieggia dalle vetrine di ogni negozio, dai poster sui muri, perfino dalle scatolette col sapone negli alberghi. Il clima di mobilitazione civica per l'avvenimento sportivo contrasta con la crisi economica, che a Zagabria ha provocato numerosi scioperi nelle fabbriche. Ma qui, al contrario che in Slovenia, il governo comunista è ortodosso, e si guarda bene dall'approfittare della crisi per chiedere maggiore autonomia economica e ideologica: bruciano ancora le ferite dell'epurazione compiuta da Tito 15 anni fa. A Zagabria tutti, anche i giovani, hanno la memoria lunga e amano la storia. Ma soprattutto la propria storia: quella della Croazia.

"Vedi quel re a cavallo?", mi chiede fiera Marina Simich, 27 anni, studentessa di etnologia, indicando il monumento che domina la piazza della stazione. "È Tomislav, fondatore dello Stato indipendente croato nell'anno Mille. Per noi è molto importante".
Dal 1527 al 1918 la Croazia ha fatto parte dell'impero asburgico, ed era l'estremo baluardo di fronte alle incursioni ottomane. Quando, fra le due guerre mondiali, si è ritrovata dentro alla Jugoslavia dominata dalla Serbia, peggio che peggio: i nazionalismi si esasperarono e portarono nel 1941 alla Croazia indipendente di Ante Pavelic, vassallo dei nazisti e capo della estrema destra Ustascia. Contro di lui combatterono sia i partigiani di Tito, sia i serbi "cetnici" di Draza Mihajlovic, i quali contemporaneamente si sterminavano fra loro.

Dalla carneficina (in Jugoslavia ci sono stati quasi due milioni di morti su 15 milioni di abitanti nella seconda guerra mondiale, contro i 400 mila italiani) è emersa la grossa personalità di Tito, l'unico che offriva una proposta federalista con il mastice dell'ideologia comunista, e che dopo il 1948 ha dato agli jugoslavi anche una forte identità internazionale, prima rompendo con l'Urss e poi fondando il movimento dei non allineati.

Le cicatrici interne sono rimarginate? Forse. Oggi Zagabria fornisce di sè una bella immagine. Nonostante la crisi economica i caffè della città alta sono pieni di giovani ogni sera, i numerosi tram trasportano quantità incredibili di persone durante l' mora di punta, dalle due alle quattro del pomeriggio, quando chiudono scuole, uffici e fabbriche, e fino alle otto di sera i negozi del centro sono affollati.

La vita culturale è intensa: teatro, opera, musica da camera e concerti, una miriade di mostre d'arte e della nuova grafica croata. Il 2 aprile sono arrivati gli Spandau Ballet: costo del biglietto 4mila dinari, 8mila lire che i giovani della Masarykova, la strada degli artisti e dei bohemien, non hanno faticato a reperire. Insomma, sotto austerità ci si può anche divertire. 
"Con l'inflazione al 130 per cento l'unica soluzione è risparmiare in valuta estera, o spendere subito tutto. Tenere i soldi in banca non conviene", spiega un primario cardiologo di Zagabria.

Zeljka Kontent, 28 anni, laureata in legge, è procuratrice legale dell'Ina, la più grossa azienda petrolifera croata. Guadagna 550mila lire italiane al mese. "Vivo con una mia amica, ma la maggioranza dei miei coetanei sta con i genitori: un po' per risparmiare, un po' perchè a Zagabria non si trova casa. All'Ina non ci sono stati scioperi. Io ho fatto la delegata sindacale per due anni, appena assunta: dicevano che bisogna ringiovanire, e allora mi hanno eletta. Ma la politica non mi interessa".

Seguiamo Zeljka alle prove del coro Joza Vlahović, dove lei va tre sere alla settimana: la sede è in una delle sale più deliziose di Zagabria, al primo piano della Kamenita Vrata, la "porta di pietra ?" che apriva la città vecchia verso Est. Il coro ha un'ottantina di persone, in maggioranza giovani. Lo dirige da 40 anni il maestro Emil Cossetto, figlio di un triestino che le persecuzioni fasciste fecero fuggire a Zagabria: "In città ci sono 80 cori, ma questo è il primo che si costituì dopo la Liberazione"  Il repertorio è diviso a metà: primo tempo folk slavo, secondo tempo classici, da Palestrina a Bach.

Viaggia per tutta Europa , il coro Vlahovic, e colleziona coppe e medaglie nei festival ai quali è invitato. "Alla fine degli anni Cinquanta, con l'arrivo della tv, la musica popolare e il nostro coro attraversarono un brutto periodo, ma poi è rifiorito l'interesse", racconta il maestro Cossetto, e sembra di sentir parlare un personaggio dello Scherzo di Milan Kundera. I giovani dopo le prove vanno in osteria e anche lì continuano a cantare, passando indifferentemente da un Agnus Dei a Milan moi, canto dalmata.

Dall'altra parte della città trasmette Radio 101, quella degli studenti. Solo rock e notiziari. È costata allo Stato 120 milioni di lire nel 1986, e altri 120 milioni li ha con la pubblicità. Rock inglese, Smiths e U2, ma anche rock jugoslavo: i migliori gruppi sono i Lacni Franz di Maribor (Slovenia) , i Film di Zagabria e gli Ekatarina Velica di Belgrado . Così sono tutti contenti: sloveni, croati e serbi.

E allora, che fine farà mai questa Jugoslavia senza Tito? Che fine faranno i suoi venti miliardi di dollari di debiti, eredità degli ultimi anni spendaccioni del maresciallo? Solo per pagare gli interessi ogni anno finiscono alle banche occidentali i due miliardi di dollari di entrate del turismo. 
Quanto a Michail Gorbaciov, negli ultimi mesi ha invitato al Cremlino i capi della Lega dei comunisti. Da che parte pencolerà la neutrale Jugoslavia nei prossimi anni? Basterà offrirle soldi per averla dalla propria parte?

Per adesso il problema pratico più grosso, per questi nostri sconosciuti vicini , oltre a quello di far quadrare i conti a fine mese , e' quello di stipare le banconote da 5 mila dinari dentro al portafoglio . Sono il taglio piu' grosso in circolazione , ma valgono si' e no 10 mila lire . Se non vuole suscitare sgradevoli ricordi di Weimar , il governo fara' bene a stampare al piu' presto nuovi tipi di banconote . Comunque , nelle banche si sono gia' attrezzati . Ad ogni sportello e' arrivato l' ultimo grido della tecnologia jugoslava : la macchinetta contabanconote.

Mauro Suttora