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Wednesday, September 25, 2013

Com'è moderno il vecchio Lucrezio

IL DE RERUM NATURA TRADOTTO E COMMENTATO DA ODIFREDDI

di Mauro Suttora

Oggi, 18 settembre 2013


Quanto avete sofferto, a scuola, per il latino? E quanto avete odiato le intraducibili versioni del De Rerum Natura di Lucrezio?

Beh, ravvedetevi. Il nuovo libro di Piergiorgio Odifreddi (Come stanno le cose: il mio Lucrezio, la mia Venere, ed. Rizzoli) vi farà amare il capolavoro del poeta romano.
Odifreddi, infatti, nelle pagine dispari offre una sua versione in prosa de La Natura delle Cose. E nelle pagine pari, di fronte, la commenta, con sorprendenti rimandi all’attualità che la rendono godibilissima.

Bob Dylan, per esempio. Chi l’avrebbe detto che la sua canzone più famosa, Blowin’ In The Wind del 1962, appariva già nel verso 559 del libro IV del De Rerum (quello sulla fisiologia e i sensi umani)? «Conturbari vocem, dum transvolat auras», che Odifreddi traduce «la voce si turba, disperdendosi nel vento». Così, «la risposta sta soffiando nel vento» duemila anni dopo.

Oppure Federico Fellini, Woody Allen e John Lennon. «Il film 8 e mezzo», scrive Odifreddi, «è un’opera autobiografica che mostra Fellini mentre pensa al nuovo film che deve girare. Idea simile a Stardust Memories di Allen (1980), in cui la finzione dell’assassinio del regista anticipa di poche settimane la realtà di quello di Lennon».
Ebbene, sull’autoreferenzialità dell’opera d’arte aveva già scritto tutto Lucrezio (IV, 969-970): «Sogno di indagare la natura delle cose, di comprenderla e di spiegarla in un libro intitolato La natura delle cose».

Anche Italo Calvino si ispira a questi versi all’inizio del suo notissimo libro del 1979: «Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino…»

Gli esempi di autori che citano se stessi sono innumerevoli, avverte Odifreddi: «Nell’Iliade Elena ricama una veste di por- pora che raffigura i passi salienti dell’Iliade. Nell’Amleto si mette in scena una tragedia che è la stessa dell’Amleto. Nel Don Chisciotte, i protagonisti della seconda parte hanno letto la prima. Nei Sei personaggi in cerca d’autore, i sei personaggi cercano un autore che racconti la loro stessa ricerca».

Quegli stessi versi di Lucrezio offrono un esempio archetipico dell’indistinguibilità fra sonno e veglia. Calderon de la Barca nel 1635 ci scrisse sopra un intero poema: La vita è sogno. «E vari film di fantascienza», aggiunge Odifreddi, «hanno esplorato mondi popolati da esseri virtuali che credono di essere reali: da Nirvana di Gabriele Salvatores del 1997, alla trilogia Matrix» con Keanu Reeves.

Insomma, quanti spunti di attualità potrebbe trovare un bravo prof di latino per appassionare i propri studenti. Invece, come avvertiva Primo Levi, «Lucrezio non si legge volentieri nei licei: ufficialmente perché è troppo difficile, di fatto perché dai suoi versi ha sempre emanato odore di empietà».

Lucrezio, infatti, era un seguace dei filosofi materialisti Democrito ed Epicuro. Per niente religioso, quindi. Anzi ateo, come Odifreddi. Il quale polemizza: «Gli scrittori cristiani, per screditare il più elevato canto mai intonato da un uomo alla scienza e alla ragione, tramandarono la notizia che il poeta fosse stato pazzo, avesse scritto i suoi versi nei recessi della follia e si fosse suicidato. Ma la cosa è poco verosimile». In ogni caso, nel 1946 l’Unione Sovietica fu l’unico Paese al mondo che celebrò il secondo millennio dalla morte di Lucrezio.

Una delle parti più godibili del De Rerum è quella su amore, matrimonio e sesso. Immaginate che scandalo se a 15-16 anni ci avessero fatto tradurre questi versi che spiegano scientificamente le polluzioni notturne (IV,1033-36): «L’adolescente in preda ai bollenti spiriti sogna qualche ragazzina bella e prosperosa e gli si inturgida il membro, finché eiacula a larghi e caldi fiotti per la prima volta nella vita, imbrattandosi la veste».

Le femministe avrebbero qualcosa da ridire su questo Lucrezio antiromantico: «Se ciò che si ama è lontano, lo si può riavvicinare rievocandone le immagini e mormorandone il nome. Ma è meglio volgere altrove la mente e scaricare il proprio seme in un corpo qualsiasi. Trattenerlo nell’attesa dell’unico sempiterno amore è garanzia di affanni e dolori».

Il poeta si spinge oltre, e da perfetto epicureo contesta il matrimonio: «Chi evita saggiamente l’amore non deve certo privarsi del sesso: può godere delle sue gioie senza doversi sobbarcare le sue pene. E ne ricava una pura voluttà».

Dopo una descrizione dell’atto sessuale che rasenta la pornografia, Lucrezio diventa misogino: «Gli amanti si spossano a vicenda, passano la vita soggetti l’uno ai capricci dell’altro. In nome dell’amore si trascurano i propri doveri, si perde la faccia. Si sperperano patrimoni in profumi, gioielli, scarpe e vestiti, che poi si sgualciscono imbrattandoli di sperma».

Nessuno sospettava che Lucrezio avesse scritto tali porcherie. Neanche gli studenti e professori dei tanti licei a lui intitolati. È passato alla storia, invece, questo brano (attualissimo) sull’amore che rende ciechi: «Accecàti dalla passione, attribuiamo all’amata pregi inesistenti. Così le donne brutte si trasformano in bellezze ricercate e adulate. Le scure vengono considerate “abbronzate”, le grossolane “naturali”, le scheletriche “scattanti”, le nane “minute”, le enormi “maestose”. Le balbuzienti diventano “timide”, le insopportabili “focose”, le pettegole “argute”, le moribonde “cagionevoli”, e le già morte “tanto delicate”. Quelle con gli occhi storti hanno lo strabismo di Venere, se posseggono attributi giganteschi sono Giunoni».

Stoccata finale, massimo dello scetticismo: «Quand’anche una donna fosse veramente bella e attraente, non sarebbe comunque l’unica. Se vivevamo bene senza di lei prima di conoscerla, potremmo vivere altrettanto bene anche dopo. E comunque, a letto e altrove, non potrà che fare le stesse cose di tutte le altre».

Lucrezio è considerato l’inventore dell’espressione «addolcire la pillola». Odifreddi avverte che fu invece Senofonte. Fra i tanti rimandi contemporanei, cita quello di Mary Poppins (1964): «Basta un po’ di zucchero e la pillola va giù». Ma le pillole sarcastiche del sommo poeta latino contro l’amore è difficile ingoiarle anche oggi.
Mauro Suttora

Wednesday, November 24, 2010

intervista a Beppe Severgnini

BERLUSCONI SPIEGATO AI POSTERI

di Mauro Suttora

Oggi, 17 novembre 2010

Quanto durerà Berlusconi? «E chi lo sa. Forse la sua spinta propulsiva si è esaurita, ma domina la vita italiana da quasi vent’anni. E un motivo c’è. Anzi, ce ne sono dieci».

Ogni volta che Beppe Severgnini, il giornalista-scrittore più internazionale d’Italia, va all’estero, la domanda inevitabile è: «Ma chi è veramente Berlusconi? E come mai lo votate dal ’94?». «Ho provato a rispondere con il mio ultimo libro: La pancia degli italiani, Berlusconi spiegato ai posteri», ci dice, ed elenca i fattori del suo successo.
«Primo, il fattore umano. La maggioranza degli italiani pensa: ci somiglia, è uno di noi. Vuole bene ai figli, gli piace il calcio, sa fare i soldi, detesta le regole, racconta barzellette, dice parolacce, adora le donne...»

Ecco, le donne: quello che lei chiama «fattore Harem» ultimamente gli procura parecchi guai.
«Ma lui loda la Chiesa al mattino, i valori della famiglia al pomeriggio, e alla sera si porta a casa le ragazze. È spettacolare, e riesce a farsi perdonare molto».

Non ha superato il limite?
«La sua incoerenza è pirotecnica. Ma il Vaticano e Cl fanno i loro conti, e si accontentano delle leggi favorevoli».

E questo è il «fattore divino». Poi c’è il «fattore Robinson».
«Sì, ogni italiano si sente solo contro il mondo. Siamo individualisti. Non chiediamo un fisco più giusto: aggiriamo quello esistente».

Quinto fattore: quello che prende il nome dal Truman Show, il film che spiega come la tv riesce a trasformare la realtà.
«Berlusconi possiede la tv privata, controlla quella pubblica. E la tv è fondamentale per i personaggi che crea, i messaggi che lancia, le cose che dice e soprattutto per quelle che tace».

Poi c’è il fattore Zelig: la capacità di immedesimarsi negli interlocutori.
«Ma Berlusconi va oltre: si trasforma in loro, come nel film di Woody Allen. È padre di famiglia coi figli - e le due mogli, finché è durata. Donnaiolo con le donne, giovane tra i giovani, saggio con gli anziani. Nottambulo fra i nottambuli, lavoratore fra gli operai, imprenditore fra gli imprendiori. Lombardo tra i lombardi, italiano con i meridionali. Conservatore con Bush, liberale con Obama...»

E il «fattore Medici» cos’è?
«La Signoria, cioè l’unica invenzione politica originale degli italiani, oltre ai Comuni. Tutto il resto l’abbiamo importato: la democrazia parlamentare dall’Inghilterra, il federalismo dagli Stati Uniti, il federalismo dalla Germania. Invece alla Signoria siamo abituati. Gli italiani non discutono il potere: al massimo lo deridono, lo aggirano, lo imbrogliano».

Infine i fattori Tina e Palio.
«Tina è l’acronimo coniato dalla Thatcher: “There Is No Alternative”, non c’è alternativa. Come si fa a votare la sinistra, che predica solidarietà e uguaglianza a una nazione devota invece all’intrapredenza? Quanto al Palio, a Siena sono più felici per la sconfitta della contrada vicina che per la vittoria della propria. E molti italiani, pur di tener fuori la sinistra, giudicata inaffidabile, voterebbero il demonio».

Quale di questi fattori lo danneggia di più, adesso?
«La Signoria. I cortigiani sono bravi ad adulare, non a dare consigli magari sgraditi, che irritano il Signore. Povero Berlusconi, guardate da chi è circondato. Chi mai può aiutarlo, adesso, con un suggerimento utile? Vicino a sè ha solo i suoi avvocati, la Carfagna, la Gelmini...»

E quale fattore invece lo aiuta?
«Il Palio e il Tina. La sinistra ama dire quel che non fa, e fare quel che non dice».

Infatti vuole cacciare Berlusconi, ma in realtà teme le elezioni.
«Con questa legge elettorale delle liste bloccate, che impone gli eletti invece di permetterne la scelta...»

Ma non è buffo che il centrosinistra punti su Fini? È come se nel 1943 gli antifascisti si fossero affidati a Ciano, il delfino traditore di Mussolini. E non è ridicolo questo scandalo di Ruby rubacuori?
«Finora il fattore Harem lo ha sostenuto. Lo sguardo di Berlusconi verso la donna non è diverso da quello degli adolescenti, dei pubblicitari e di tanti uomini per strada... Ma forse si sta spostando il confine fra imbarazzo, disagio e disgusto».

Mauro Suttora

Friday, May 16, 2008

Mauro of Manhattan

New York Observer

April 29, 2008

by Mauro Suttora

“Why do you keep replying, ‘Thank you, but we already have plans for that evening,’ Marsha, when you know we’re free?”
“It’s just an excuse, Mauro. I just want to avoid an invitation by boring people.”
“Yes, but it sounds too … How can I say? Grandiose to me. In Italy we don’t make plans. I mean, not normal people. The government, maybe, sometimes. At least they boast it, to impress voters and pretend they are in charge. But ordinary people …”
“We are not ordinary. We’re supposed to have plans in our life. They can’t invite us like that, on the snatch, impromptu, with only a few days’ notice.”
Marsha, my Upper East Side girlfriend, can’t understand how Italians can survive always improvising—without inviting, nor making theater reservations or booking restaurants one month in advance.
“Come on, Marsha, don’t play it big. Don’t act precious. If one of my Italian friends calls us to go out on that same evening, we don’t have to invent ‘plans’ for fear of showing that our life is empty. You know we love to spend most of our evenings here, sitting in front of the TV. Actually, upgrading our cable TV menu has flooded us with wonderful movies, and improved my English, although it has almost killed our social life…”
“That was your idea.”
“No, no, no, darling, my idea was just to replace a crummy old little TV set with something civilized.”
“Yes, but then you invaded our sitting room with a monster, this humongous 42 inches plasma. Where the hell am I supposed to place food and beverage for our next parties?”
“Actually, I haven’t finished yet.”
“I know. Don’t come up with that again. No way. Don’t get me started on your freaking sound system with wires all over the place. Don’t even raise the subject.”
“But Marsha, that’s the normal consequence of buying a large-screen TV. What do we make of it, if the sound is not comparable to the vision, at the same excellence level?”
“It’s already stereo.”
“We’re talking ‘home cinema’ here, milady. … ‘Dolby Surround system.’ Remember the private screening we were invited to by the Italian distributor of Woody Allen’s Scoop in his luxurious Palazzo Borghese apartment in Rome?”
“Gee, but that was another planet. They are professionals, that’s their field. We are not movie geeks. Come on.”
“I just saw a five channels 400 dollars sound system in the store near my Rizzoli Bookstore office, on 57th Street.”
“I told you: I don’t want any of your ‘surround’ sound around here. Not that I don’t appreciate your will for improvement, but the only thing I’ll be surrounded by will be wires. See this? They’re already mushrooming all over: the TV cable, the connection to the DVD, the wire for the pay-TV box, the high-speed Internet, the telephone ... There’s such an intricated bush under the plasma screen. It was supposed to save room, but now it’s invading us.”
“It’s wireless.”
“What?”
“Yes, wireless.”
“You mean the five speakers come without wires?”
“Yeah … kind of.”
“Kind of what? The last time we had something wireless around, it was that pirate neighbor of us who stole from our wi-max, getting connected for free and making us pay for his all-night porno browsing and wanderings around the Net.”
“We discovered that almost immediately.”
“Yes, after some wonderful astronomical bills … You don’t like flat rates, do you?”
“The sound system is almost totally wireless, Marsha, I swear.”
“What do you mean ‘almost’? ‘Almost totally’ sounds sooo Italian. Like ‘Almost pregnant’.”
“The rear speakers are wireless.”
“You mean two out of five.”
“Yes ... But that’s the crucial problem we have overcome here, Marsha. Three speakers stay on the wall in front, connected by small threads we can easily disguise along the baseboard. And on this side of the room, behind the sofa, we place the other three pieces.”
“Three? Why one more? For a total of six speakers?”
“One is just a little box getting the radio signal from the other side, and distributing it to the rear speakers.”
“And that horrible big thing you showed me, what’s its name?”
“The bass subwoofer?”
“It’s too big. Where are we going to place it?”
“Did you prefer the old way, when all the speakers where huge?”
“At least they were only two, not six.”
“I love you, Marsha.”
“You stress me, Mauro. Do we have plans for tonight?”
“…”
“Don’t …”
“…”
“Come on, don’t start and touch me, I have to shower, been working all day.”
“I llloove your sexy smell.”
“I know what your plans are, regarding me. They are always the same, when we sit alone on the sofa. You only have sex in your mind.”
“I do have plans for you. I always have plans. I am a natural-born planner, my love. I wouldn’t have ventured in Iraq without a plan, like your president did, my sweet bushie …”

Mauro Suttora

wiki

Wednesday, February 20, 2008

Sant'Egidio, 40 anni di pace

Il compleanno della comunità romana: ecco perché piacciono a papi e popi, Clinton e Bush, destra e sinistra

Oggi, 20 febbraio 2008

Sono fra i pochi sessantottini che hanno fatto sul serio la rivoluzione. E l’hanno pure vinta. I loro coetanei di sinistra, inneggianti a Lenin, Stalin e Mao, oggi sono in gran parte accomodati sulle stesse poltrone delle autorità che allora contestavano. I giovani di Sant’Egidio, invece, nel febbraio 1968 cominciarono ad andare per baraccopoli. Quella accanto all’ex cinodromo dell’Ostiense, per esempio, dove fondarono la loro prima «scuola popolare». Davano ripetizioni e insegnavano a leggere e scrivere ai poveri.

«Volevamo anche noi fare la rivoluzione», ricorda Mario Marazziti, 55 anni, dirigente Rai, «ma senza violenza. Nel nome di Gesù, con lo spirito dei primi cristiani, di San Francesco e del Concilio Vaticano II». Erano giovani «bene», abitavano nei quartieri della ottima borghesia (per esempio, Andrea Riccardi, oggi 57enne professore universitario di storia, era figlio del presidente di una banca e frequentava il liceo Virgilio). La loro ricetta era semplice: «Per cambiare il mondo bisogna cambiare se stessi», dice Riccardi.

Hanno fatto entrambe le cose, in questi quarant’anni. E continuano a lavorare: nessuno ha ridotto la politica, la carità o il volontariato a mestiere a tempo pieno. Nelle ore libere e con i propri soldi aiutano ancora i poveri di Roma (che non sono più i «borgatari», ma gli immigrati; danno loro da mangiare gratis nella mensa di via Dandolo). Ma si sono allargati al mondo intero: oggi sono cinquantamila, presenti in 70 Paesi.

Nel 1992 hanno fatto fare la pace dopo decenni di guerriglia ai mozambicani. Idem in Guatemala quattro anni dopo. Hanno provato e non ci sono riusciti in Algeria. Hanno aiutato i kosovari nel ’98. Hanno raccolto milioni di firme contro la pena di morte e due mesi fa sono riusciti a far approvare la moratoria all’Onu. Ma essi stessi si sono trasformati in una piccola Onu, grazie alle loro capacità di mediatori («costruttori di pace», come dice il Vangelo): «Le Nazioni Unite di Trastevere», scherzano.

Il miracolo americano

Hanno messo d’accordo non solo militari e guerriglieri del Terzo mondo, ma anche democratici e repubblicani degli Stati Uniti. Li ha lodati sia Madeleine Albright, ministra degli Esteri di Bill Clinton, sia il presidente George Bush, che ha voluto incontrarli a Roma l’anno scorso.

Quanto alla religione, sono ormai ventun anni che organizzano i principali vertici ecumenici del mondo, cui partecipano papi cattolici, popi ortodossi, pastori protestanti, rabbini ebraici, lama buddisti e imam musulmani. Sono diventati i beniamini di papa Wojtyla fin dal loro primo incontro, nel ’79. E il feeling continua con Papa Ratzinger, che pochi mesi fa ha partecipato a un loro megaraduno a Napoli.

All’inizio qualche monsignore di curia storceva un po’ il naso: chi sono questi ragazzotti che pretendono di fare concorrenza alle millenarie doti diplomatiche del Vaticano? Che si limitino ad assistere i barboni a Roma e i malati di Aids in Africa, che alle cose serie pensiamo noi.

Oggi, invece, la messa solenne per il loro quarantesimo compleanno l’ha voluta celebrare il segretario di Stato in persona, il cardinale Tarcisio Bertone. In prima fila c’erano politici di destra e sinistra: Gianni Letta e Rocco Buttiglione, Walter Veltroni e Francesco Rutelli, Piero Fassino e Romano Prodi. Il numero due del Vaticano ha divertito tutti citando Woody Allen addirittura in omelia: «Marx è morto, Dio sta male e neppure io mi sento troppo bene...»

Sulla porticina della loro sede, convento di suore di clausura fino al 1970, non c’è neppure una targa. Piazza Sant’Egidio ogni sera si trasforma in un carnevale a cielo aperto come tutta Trastevere, con studenti di tutto il mondo che si ubriacano di birra. Ma basta suonare il campanello e si entra in un altro mondo: chiostri, cortili e silenzi.

Mi accoglie un distinto portinaio di mezza età. Scoprirò che anche lui è docente universitario: come tutti fa il volontario a turno durante le ore di tempo libero. «Il nostro bilancio annuale ufficiale è di 20 milioni di euro», mi spiega Marazziti, «ma calcolando il valore di tutta l’attività gratuita dei nostri aderenti nel mondo questa cifra si decuplica. Quasi tutti i nostri dirigenti che vanno in Africa, per esempio, usufruiscono di ferie o aspettative non retribuite, e si pagano le spese di viaggio».

Donazioni a buon fine

Solo un terzo di quei venti milioni proviene da aiuti pubblici. Tutto il resto sono donazioni private. Così Sant’Egidio evita la disgrazia che purtroppo colpisce molti enti benefici e ong (organizzazioni non governative): la burocrazia. «Le spese di struttura sono del 4 per cento», assicura Marazziti. Insomma, 96 euro su cento dati a Sant’Egidio finiscono direttamente ai bisognosi. «Il vertice dei Paesi africani ad Abuja nel 2006 ha decretato che i due programmi anti-Aids più efficienti sono il nostro e quello della fondazione di Bill Gates».

All’inizio il gruppo di Sant’Egidio gravitava attorno a Comunione e liberazione. Fu in quel periodo che Buttiglione si avvicinò a loro. Poi, negli anni ’70, veniva assimilato alle comunità di base e ai cristiani del dissenso (contrari al referendum sul divorzio voluto dalle gerarchie vaticane). Cattocomunisti, insomma. Negli anni ’80, pacifisti. E nel 2003, contrari alla guerra in Iraq. Ma Riccardi, Marazziti e oggi il presidente Marco Impagliazzo sono riusciti sempre a sfuggire alle etichette ideologiche, grazie al loro impegno concreto: il servizio ai poveri.

Il primo prete che li accolse in una parrocchia romana, don Vincenzo Paglia, è diventato vescovo di Terni. Di Riccardi si sussurra addirittura un incarico da ministro degli Esteri in un ipotetico governo Veltroni. Ma per ora la misura del successo della loro rivoluzione nonviolenta sta nel trasloco che ha dovuto effettuare la loro preghiera comunitaria (ogni sera alle 20.30, il sabato Messa): dalla chiesetta di Sant’Egidio alla vicina basilica di Santa Maria in Trastevere. Per mancanza di spazio.

Mauro Suttora

riquadro:

LA DIPLOMAZIA DEI POVERI

Sono passati quindici anni, ma nel palazzo della Farnesina se lo ricordano ancora quel giorno del 1992, quando nei corridoi felpati del ministero degli Esteri irruppe una folla festante per celebrare l’accordo di pace fra governo del Mozambico e guerriglieri. Nella foto qui sopra si vede l’allora ministro degli Esteri Emilio Colombo fra i due firmatari, ma a destra in prima fila ad applaudire c’era anche Mario Marazziti della comunità di Sant’Egidio, la vera artefice delle trattative.

Grazie ai suoi numerosi contatti nei Paesi del Terzo mondo e alla fiducia conquistata con le opere di solidarietà, Sant’Egidio ha provato spesso a mediare fra le parti di guerre e guerriglie che devastano molti Paesi. Un altro successo c’è stato nel ‘96 in Guatemala, mentre in Algeria i tentativi sono stati infruttuosi. Non sempre questa «diplomazia parallela» viene apprezzata dagli ambasciatori di professione, alcuni dei quali considerano i volontari di Sant’Egidio come dei dilettanti allo sbaraglio. Ma i risultati ci sono stati, ed è questo quello che conta.

«La guerra è la “madre di tutte le povertà”», spiegano loro, «perché distrugge l’impegno umanitario per il futuro di interi popoli. La guerra è anche assenza di ogni giustizia, come si vede in tanti Paesi dove il conflitto rende impossibile la difesa dei diritti umani basilari».

Mauro Suttora

Wednesday, October 08, 2003

Sharon Stone: io la conosco bene

PARLA IL DIRETTORE CASTING CHE L'HA SCOPERTA                             

dal corrispondente a New York Mauro Suttora

Oggi, 8 ottobre 2003

Riecco la diva, a tre anni dal suo ultimo film e a cinque dall’ultimo successo, Sphere: Sharon Stone è tornata in tutti i cinema statunitensi con il film Cold Creek Manor. Nel quale lei e il marito (interpretato da Dennis Quaid) si trasferiscono in una casa di campagna che si rivela luogo di mistero, paura e orrori. 

Accavalla le gambe, non lo fa, le allarga, indossa le mutandine oppure no? Tutte domande da Basic Instinct, ma irrilevanti: perchè basta la presenza magnetica di questa magnifica 45enne per riempire comunque lo schermo. Così come è successo all'ultimo Festival di Sanremo, quando la sua apparizione in qualità di ospite di Pippo Baudo ha fatto subito impennare gli indici d'ascolto.

E anche se passerà alla storia per Basic Instinct del '92, bisogna precisare che quattro anni dopo Sharon ha conquistato anche i favori dei critici, vincendo il Golden Globe grazie a Casinò di Martin Scorsese (con Robert De Niro e Joe Pesci), e mancando l'Oscar per un soffio.

Negli ultimi anni è stata soprattutto la sua vita privata a fare notizia: il matrimonio con il giornalista di San Francisco Phil Bronstein nel '98, il divorzio due mesi fa, il figlio Roan adottato nel 2000, l'improvvisa emorragia cerebrale che due anni fa l'ha quasi uccisa. Infine, quest'estate, il flirt con Oliver Hudson, 26 anni, figlio di Goldie Hawn, ma che vista l'età potrebbe essere anche il suo. 

Insomma, il simbolo del sesso è tornata a gustare la vita, e non intende farsi mancare niente. Ha presentato la cerimonia degli Oscar lo scorso marzo, in autunno apparirà su tutti gli schermi tv americani con un serial, e prossimamente sarà la cattiva contro Halle Berry nel film Catwoman.

«Questa fantastica resurrezione di Sharon non mi stupisce: dal primo momento che la vidi nel mio ufficio capii subito che sarebbe diventata una star». 
Per parlare della nuova Stone abbiamo scelto un interlocutore d'eccezione: Riccardo Bertoni, 69 anni, uno dei maggiori direttori di casting di New York. Che conosce benissimo l'attrice, perchè fu propr io lui a lanciarla nel 1979. 

Bertoni, svizzero italiano, allievo del Centro sperimentale cinematografico di Roma nel '51 (compagno di stanza di Domenico Modugno, ebbe Anna Magnani come insegnante e Federico Fellini come direttore), negli anni Cinquanta fu anch'egli attore: recitò accanto a Hedi Lamarr, Ivonne Sanson, Silvana Pampanini e Marcello Mastroianni (era suo fratello in La ragazza della salina, 1956).

Emigrato negli Stati Uniti quarant'anni fa, Bertoni ha messo in piedi con Esther Navarro un un'agenzia di casting fra le più importanti degli Stati Uniti: ha lavorato per otto film di Woody Allen (quasi tutti i più famosi, da Zelig a Manhattan, da Io e Annie a Broadway Danny Rose), e ha anche recitato con il regista newyorkese, suo grande amico, in Criminali da strapazzo del 2000 (era il maggiordomo). 

Con Francis Ford Coppola ha girato Cotton Club e Il Padrino parte terza, e poi Nove settimane e mezzo, Attrazione fatale, La scelta di Sophie, Rollerball, Independence Day, Crocodile Dundee, The Bostonians, Tè con Mussolini e Callas forever con Franco Zeffirelli. Ultimo film: Amore infedele con Richard Gere. Il prossimo: Die Hard 4 con Bruce Willis.

Insomma, uno che se ne intende. E che ricorda bene quel pomeriggio di agosto del 1979, quando una ragazza 21enne irruppe piena di vita nel suo ufficio di Central Park South, in pattini a rotelle: «Conservo ancora la prima scheda segnaletica di Sharon», racconta Bertoni, «con le sue misure - 36/26/36 in inches, che tradotto in centimetri fa 91/66/91 - il colore degli occhi - verde, dei capelli - biondo, e le sue "specialties": precisò che sapeva pattinare a rotelle e sul ghiaccio, sciare, nuotare, andare a cavallo, guidare auto e motociclette - come vedemmo poi in Basic Instinct - oltre che ballare. 
Nata in Pennsylvania, da due anni lavorava a New York come modella per l'agenzia di Eileen Ford, ed era venuta da me vestita con vertiginosi hot pants e accompagnata dalla sua amica Mindy Alberman, la segretaria di Dino De Laurentis. Voleva fare l'attrice, e si era anche iscritta al sindacato degli attori cinematografici, la Screen Actors Guild».

Bertoni procura subito a  Sharon Stone la prima particina, in Stardust Memories di Woody Allen (1980): «Era la ragazza vestita di bianco, un po’ alla Jean Harlow, con un’azalea in testa, che in un vagone di treno in partenza pieno di gente anziana bacia il regista posando le labbra sul vetro di un finestrino». 

Una scena breve ma memorabile, e soprattutto il debutto in un film di serie A. Al quale però non segue niente alla stessa altezza: nell’81, sempre grazie a Bertoni, una parte da coprotagonista in Deadly Blessing del regista horror Wes Craven.
«Che la prese scegliendola fra trenta altre modelle», ricorda Bertoni, «andarono a girare in Texas dove tutti naturalmente si innamorarono di lei. Quindi la presentai al mio amico Zeffirelli per la parte principale di Amore senza fine, ma lui la trovò troppo paffutella e le preferì Brooke Shields. Fra l’altro, in quel film esordì Tom Cruise».

Che tipo era Sharon Stone vent’anni fa? 
«Fiera, indipendente, disordinatissima», ricorda Bertoni. «Abitava in un appartamentino dell’Upper East Side di Manhattan vicinissimo al mio, a un solo isolato di distanza. Una volta andai a casa sua e trovai praticamente l’apocalisse... Gli uomini che frequentavano la palestra di fronte erano tutti contenti, perchè ogni tanto riuscivano a intravedere dalle finestre quella bellissima ragazza. Poi però andò un po’ in crisi, si mise con un uomo, volle andare con lui in California, fece una serie tv e della pubblicità. Sì, sopravviveva girando spot e alcuni film orrendi, di serie B».

Infine, nel 1990, la svolta: Sharon accetta di posare nuda a 32 per la rivista Playboy. I produttori di Total Recall con Arnold Schwarzenegger la notano, e le offrono la p arte della compagna del protagonista. 
«Niente di trascendentale», commenta Bertoni, «ma il vento aveva ricominciato a soffiare in suo favore, e così due anni dopo eccola in Basic Instinct del regista Paul Verhoeven. Non tornò più a girare film a New York, tranne Sliver, così la persi di vista. Però ogni volta che arrivava in città le mandavo un mazzo con una dozzina di rose rosse al Mark Hotel, dove scendeva abitualmente. Ci sentivamo al telefono, finchè nel ‘99 in qualche modo si sdebitò con me: chiese a Sidney Lumet, regista di Gloria in cui recitava, di prendermi come direttore del casting».

Da allora i due non si sono più visti. «O meglio, io ho visto in tv e sui giornali l’evolversi della sua carriera e della sua vita privata», dice Bertoni, «anche se devo confessare che non mi è piaciuta molto alla notte degli Oscar: era troppo nervosa, quasi esagitata, fuori di testa, fuori di tutto. Ma io sono sempre segretamente innamorato di lei...»
Mauro Suttora